sabato 9 aprile 2011

"La questione che allora si pone è se la legge del celibato ecclesiastico, oltre ad essere una plurisecolare prassi ecclesiastica, discenda o no dalla Tradizione divino-apostolica della Chiesa" (Roberto de Mattei)

Pubblichiamo questo contributo del Professor de Mattei sul tema del celibato sacerdotale, l'ultimo bastione che i modernisti voglio abbattere perché si avveri la "loro" idea di Chiesa. Partendo da principi che essi danno per assoluti e irreformabili vale a dire che il celibato sia una mera norma disciplinare sopravvenuta in epoca tarda, essi tentano pervicacemente di portare la Chiesa verso un ennesimo esperimento che nel caso si trasformerebbe come tutti gli altri che abbiamo visto fin qui in un ulteriore fallimento. Questo è il destino di un Concilio pastorale: aprire una fase sperimentale che non si arresterà finché chi ha l'autorità di fermarla non lo farà. Ci auguriamo che ciò accada presto.

Ci avvaliamo volentieri dell'occasione per esprimere tutta la nostra solidarietà al Professor de Mattei che da giorni è sotto un pesante attacco da parte di un'inquisizione atea e "razionalista" che con arroganza non si vergogna di dare il via ad una moderna caccia alle streghe.




Fondato da Cristo: replica di uno storico a Gennari sul gran tema del celibato sacerdotale
di Roberto de Mattei



Ma ciò che ancor più lo irrita è il cambiamento in materia del cardinale Ratzinger che, nel 1970 condivise un manifesto teologico che chiedeva di ripensare il legame tra sacerdozio e celibato, mentre oggi, come Benedetto XVI, ribadisce che il celibato ecclesiastico deve essere considerato un “valore sacro” per i sacerdoti di rito latino.

Gennari conclude il suo articolo auspicando che di fronte a nuove situazioni e nuove urgenze, “il Papa possa tornare a certe convinzioni manifestate apertamente dal teologo”, anche perché ormai “esistono le condizioni per una prudente prassi diversa” e “nelle opinioni e nelle decisioni dei Papi possono verificarsi veri cambiamenti”. Gennari tiene infine a sottolineare che la sua richiesta del matrimonio dei preti è ben distinta da quella dell’ordinazione sacerdotale delle donne, sulla quale c’è stata anche di recente “la riaffermazione della prassi contraria, legata al fatto che la coscienza della Chiesa, interpretata al livello della massima autorità, non è tale da permettere di superare la disciplina attuale fondata sull’esempio di Cristo stesso e di duemila anni di storia continua”.

E’ da qui che occorre partire: dall’idea di Gennari secondo cui nella Chiesa verità e leggi possano evolvere secondo l’esperienza religiosa (prassi) del popolo cristiano. A questa concezione evoluzionistica si oppone la dottrina della Chiesa, secondo cui esiste un depositum fidei, contenuto nella Tradizione cattolica, che la Chiesa può esplicitare, ma mai innovare. Gesù infatti non mise per scritto il suo insegnamento, ma lo affidò alla sua Parola, che poi trasmise agli Apostoli perché la diffondessero ad ogni angolo della terra. Il deposito della Fede fu conservato soprattutto nella Tradizione orale della Chiesa, che precedette le Sacre Scritture e contiene elementi che nelle Scritture non risultano. Il fatto che il Papa sia vescovo di Roma o che sette siano i Sacramenti non discende, ad esempio dalla Scrittura, ma dalla Tradizione, che è infallibilmente assistita dallo Spirito Santo. La questione che allora si pone è se la legge del celibato ecclesiastico, oltre ad essere una plurisecolare prassi ecclesiastica, discenda o no dalla Tradizione divino-apostolica della Chiesa.

Soccorrono su questo punto alcuni importanti studi sull’origine del celibato ecclesiastico. Il primo, più volte ristampato dalla Libreria Editrice Vaticana, è il saggio del cardinale Alfons Maria Stickler, Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici; il secondo, meno noto, ma non meno importante, è quello del padre Christian Cochini, appena tradotto in lingua italiana dalla casa editrice Nova Millennium Romae, con il titolo Origini apostoliche del celibato sacerdotale. Tali opere ribaltano la vecchia tesi del padre Franz Xaver Funck, un gesuita aperto alle suggestioni del modernismo, che agli inizi del Novecento, riteneva di confutare il grande orientalista Gustav Bickell. Mentre Bickell sosteneva il fondamento divino-apostolico della legge del celibato, Funck la considerava una prassi ecclesiastica emersa non prima del IV secolo, ovvero una legge di carattere storico (e perciò riformabile). Cochini dimostra che Funck non fece buon uso del metodo storico-critico, prendendo per buono un documento spurio in cui il vescovo-monaco Pafnuzio, nel corso del Concilio di Nicea (325) avrebbe contestato aspramente la continenza per i preti sposati. Oggi è provato che tale testo fu elaborato probabilmente all’interno della setta dei Novaziani. Stickler, da parte sua, sottolinea l’errore ermeneutico di chi, sulla scia di Funck, ha confuso i concetti di ius (diritto) e di lex (legge).

Il fatto che prima del IV secolo mancasse una legge scritta, non significa che non esistesse una norma giuridica obbligatoria che imponesse la continenza del clero. Quando Papa Siricio, negli anni 385-386, con le decretali “Directa” e “Cum in unum”, formalizzò per la prima volta una disciplina per chierici, stabilendo che vescovi, sacerdoti e diaconi erano tenuti, senza eccezioni, a vivere permanentemente nella continenza, egli non introdusse una nuova dottrina, ma codificò una Tradizione, vissuta nella Chiesa fin dalle origini. Il progresso teologico consiste proprio in questo: nello sviluppo della conoscenza di un precetto tradizionale, in questo caso il celibato ecclesiastico, che può meglio essere spiegato in estensione, chiarezza e certezza. A ciò conducono le edizioni critiche e i nuovi documenti di lavoro sui primi secoli di cui oggi dispongono gli studiosi.

L’unico argomento che viene addotto da Gennari contro questa tesi ruota attorno ad un sofisma sempre confutato e sempre ripetuto: il fatto cioè, in apparente contraddizione con la tradizione apostolica, che a partire dagli Apostoli stessi, i primi cristiani fossero sposati. Ciò che è in questione però non è l’ordinazione di uomini sposati nei primi secoli del cristianesimo. Sappiamo che ciò era cosa normale, se san Paolo prescrive ai suoi discepoli Tito e Timoteo che i candidati al sacerdozio dovevano essere stati sposati solo una volta (1 Tm 3,2; 3, 12). La questione centrale è quella della continenza da ogni uso del matrimonio, dopo l’ordinazione sacerdotale. Non bisogna confondere infatti lo stato di matrimonio con l’uso dello stesso. Il matrimonio è un’istituzione di carattere giuridico morale, elevata dalla Chiesa a sacramento, il cui fine è la propagazione del genere umano. L’uso del matrimonio è invece l’unione fisica di due sposi, diretta alla generazione. A questo diritto, si può liberamente rinunciare, pur rimanendo sposati. E’ quanto facevano i primi cristiani i quali, pur rimanendo giuridicamente sposati, decidevano di non usare del matrimonio, cioè di vivere da celibi all’interno dello stato matrimoniale. La parola celibe, in questo senso, non indica uno status, ma la scelta di astenersi per sempre dai piaceri sessuali. Nei primi secoli fu riconosciuto al clero la possibilità di vivere nello stato matrimoniale, ma non il diritto di usare del matrimonio. Ciò che fu dall’inizio obbligatorio, non fu lo stato di celibe, ma la continenza, ovvero l’astensione dall’atto generativo.

Nei primi secoli della Chiesa, l’accesso agli ordini sacri era aperto agli sposati, a condizione che essi, col consenso della moglie, rinunciassero all’uso del matrimonio e praticassero una vita di continenza. La prescrizione apostolica della continenza ebbe il suo logico sviluppo nelle leggi che imposero progressivamente ai sacerdoti lo stato celibatario. La lunga serie degli interventi papali ebbe il suo coronamento nel Concilio Lateranense I, convocato da Callisto II (1123), nel quale fu promulgata la legge non solo della proibizione, ma della invalidità del matrimonio per chi aveva ricevuto gli ordini sacri. Nel primo millennio, le chiese orientali non conobbero questo sviluppo dogmatico-disciplinare e rimasero come eccezione alla regola latina. In seguito, nelle chiese orientali scismatiche, l’antica disciplina celibataria si allargò sempre di più, mentre la maggior parte delle Chiese orientali rimaste unite o ritornate all’unione con Roma, ha finito per accettare la disciplina dell’Occidente, anche se per alcuni cattolici, come i Maroniti e gli Armeni, Roma tollera che seguano l’antico costume greco: il fatto stesso però che, in Oriente, i sacerdoti non possono sposarsi dopo l’ordinazione e soltanto i sacerdoti celibi sono ordinati vescovi, significa che l’uso del matrimonio per chi lo avesse contratto precedentemente alla ordinazione, è una pratica tollerata, ma non certo posta a modello.

Del resto, gli attacchi al celibato accompagnano da sempre la storia della Chiesa Nel 1941, ad esempio, fu messo all’Indice un libro curato dal teologo protestante Hermann Mulert, Der Katholizismus der Zukunft (Lipsia 1940), in cui si reclamava, come chiede Gennari, la possibilità di inserire il celibato ecclesiastico come facoltativo. Ma non c’è da illudersi su questo punto: se cade la legge del celibato, cade con essa il sacerdozio celibatario e si apre la strada all’istituzionalizzazione del matrimonio ecclesiastico. Né serve ripetere che la castità è impossibile, visto che il Concilio di Trento ha condannato chi lo afferma (sess. XXIX, can- 9).

E’ vero però che ad una vita di perfetta continenza l’uomo non può giungere con le sole sue forze, ragione per cui Dio non l’ha comandato, ma solo consigliato. Chi liberamente sceglie di seguire questo consiglio evangelico, trova non in sé stesso, ma in Dio, la forza per essere coerente con la propria scelta. Il celibato resta, certo, un sacrificio e questo, ha osservato il padre Cornelio Fabro, “sta o cade con il carattere della Chiesa cattolica come l’unica vera Chiesa di Gesù Cristo”. Il prete cattolico, infatti, può e vuole sacrificarsi soltanto per una causa assoluta. Ma oggi l’unicità della Chiesa romana come vera Chiesa è messa in discussione e il concetto di sacrificio è abbandonato, in nome della ricerca del piacere ad ogni costo. La vocazione sacerdotale esige inoltre la donazione totale e l’esclusivo orientamento di ogni preoccupazione a Dio e alle anime, il che è incompatibile con la divisione del cuore che è propria a chi è preso dalle cure familiari.

Giovanni Paolo II, nell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, ha affermato che la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione “nel legame che il celibato ha con l’ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa” (n. 29). Sviluppando il Magistero pontificio, nei suoi articoli sull’“Osservatore Romano” e nel suo recente volume Il sigillo. Cristo fonte dell’identita del prete (Cantagalli Siena 2010), il cardinale Piacenza ribadisce che la radice teologica del celibato è da rintracciare nella nuova identità che viene donata a colui che è insignito del Sacramento dell’Ordine. Il problema di fondo è dunque quel ruolo del sacerdote nella società postmoderna che il nuovo Prefetto della Congregazione per il Clero rilancia con forza. La richiesta dell’abolizione del celibato si inserisce in un contesto di secolarizzazione considerato irreversibile, malgrado le lezioni in senso contrario della storia.

Secolarizzazione significa perdita del concetto di sacro e di sacrificio e assunzione della “mondanità” come valore, Ma la modernizzazione della Chiesa ha portato oggi alla sua “sessualizzazione”. La purezza però è una virtù che spinge chi la pratica verso il cielo, mentre la sessualità inchioda le tendenze umane alla terra. Molti sacerdoti reclamano il piacere come un diritto e, se non lo ottengono ufficialmente, lo esercitano nella semi-clandestinità, talvolta sotto gli occhi benevolmente complici dei loro vescovi. Il cammino è esattamente contrario a quello percorso dai primi cristiani. Allora accadeva che gli uomini sposati scegliessero di abbracciare, con il sacerdozio, una vita di assoluta castità. Oggi succede che sacerdoti che hanno consacrato la loro vita al Signore reclamino di poter godere dei piaceri del mondo. Ciò non è nuovo nella Chiesa, che ha vissuto come una piaga il concubinato dei preti, cioè il fatto che essi vivessero abitualmente more uxorio, come accadeva quando san Pier Damiani scrisse l’infuocato Liber Ghomorranus.

La via da seguire, ancora oggi, è quella, indicata da Benedetto XVI, di una profonda riforma morale, analoga alla rinascita gregoriana dell’XI secolo. E se si volessero riassumere le ragioni in difesa del celibato dei preti, diremmo in primo luogo che non si tratta di una legge ecclesiastica, ma della volontà stessa di Cristo, trasmessa attraverso gli apostoli alla Chiesa; in secondo luogo che il mondo ha bisogno di sacerdoti i quali non assecondino la loro pur sofferta umanità, ma la vincano, rispecchiando Cristo e ponendosi come modello e guida alle anime, oggi più che mai assetate di assoluto.

(da “Il Foglio” del 07/04/2011)


 Gianni Gennari, collaboratore regolare del quotidiano dei vescovi “Avvenire”, ha affrontato, su “Il Foglio” del 2 aprile, il tema forte del celibato ecclesiastico, riproponendone (non è la prima volta) la modifica o l’abolizione. La tesi di Gennari è che la legge sul celibato dei preti non risale a Gesù Cristo e non è materia di fede, e perciò non può considerarsi intoccabile. Insorgendo contro un recente articolo del cardinale Mauro Piacenza, apparso in prima pagina sul ’”Osservatore Romano” (Questione di radicalità evangelica, , 23 marzo 2011), il corsivista di “Avvenire” arriva a definire la difesa del celibato fatta dal card. Piacenza come “dottrinalmente infondata”, “sottilmente violenta” e, addirittura, offensiva di “duemila anni di storia della Chiesa cattolica”.

giovedì 7 aprile 2011

circa il dovere di accettare le dottrine del Concilio


tratto dal sito

Risposta al Rev. Padre Cavalcoli O.P.

Albano Laziale, 05 aprile 2011



Le critiche di Padre Cavalcoli

Padre Giovanni Cavalcoli, sacerdote e teologo domenicano, in un suo articolo del 28 febbraio 2011, «La Tradizione contro il Papa» (pubblicato da riscossacristiana.it) tenta di dimostrare come l'atteggiamento dei cosiddetti "lefebvriani" sia incompatibile con un atteggiamento autenticamente cattolico. I "lefebvriani" avrebbero, secondo il Padre, ceduto a una tentazione, tentazione alla quale hanno ceduto anche protestanti e modernisti (ed ecco che gli estremi opposti sembrerebbero incontrarsi), e cioé «quella di crearsi la convinzione gratuita ed infondata che per sapere infallibilmente che cosa Cristo ci ha insegnato non c'è bisogno di stare agli insegnamenti o all'interpretazione del Magistero vivente ed attuale- per esempio quello di un Concilio-, ma è sufficiente porsi a contatto diretto e personale o con la Scrittura o con la Tradizione. Il primo è stato l'errore di Lutero ed oggi dei modernisti, soprattutto in campo esegetico; il secondo è l'errore dei lefebvriani». I "lefebvriani" non si renderebbero conto che «ogni Concilio è testimone della Tradizione, ma di un suo stato più avanzato, in base al quale si giudicano le fasi precedenti e non viceversa. (...) Avviene così che come i protestanti pretendono di giudicare l'insegnamento dei Papi alla luce di un contatto diretto e soggettivo con la Scrittura, trovando nei Papi un'infinità di errori, similmente i lefebvriani pretendono di giudicare gli insegnamenti del Magistero posteriore al 1962 (come ha osservato lo stesso Benedetto XVI) alla luce di un contatto immediato e parimenti soggettivo con la Tradizione, essi pure credendo di trovare nel Concilio e nei Papi del postConcilio una falsificazione di certi dati della Tradizione». Ma non è tutto: «i protestanti, i modernisti ed i lefebvriani non si accorgono che con questo loro atteggiamento, per quanto si annoverino tra di loro teologi dotti e dottissimi, finiscono con la pretesa di avocare a sé quel dono di infallibilità che Cristo non ha assicurato né ai teologi né agli esegeti né agli storici della Chiesa, ma ai soli Vescovi, successori degli Apostoli, uniti al Papa e sotto la guida del Papa».

Padre Cavalcoli poi risponde ai «pretesti speciosi quanto inconsistenti» a cui i "lefebvriani" si appigliano per sottrarsi al «dovere di accettare le dottrine del Concilio». I pretesti sarebbero soprattutto due: «1. si dice che il Concilio è solo pastorale e non dottrinale; 2. si afferma che nel Concilio non sono stati definiti nuovi dogmi e che quindi le sue dottrine non sono infallibili. Quindi, conclusione,- essi dicono- possiamo correggere il Papa e il Concilio in base alla "Tradizione"». Ecco la risposta del Padre: «non è vero che gli insegnamenti del Concilio sono solo pastorali, ma si danno, come hanno affermato più volte i Papi del postConcilio, anche insegnamenti dottrinali, come tali infallibili, giacché perché si dia dottrina infallibile - ossia assolutamente e perennemente vera - non è necessario, come la Chiesa stessa insegna (Vedi Istruzione “Ad tuendam fidem” della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1998), che il Magistero dichiari esplicitamente o solennemente che una data proposizione è di fede, ma è sufficiente che di fatto si tratti di materia di fede. Questo pronunciamento viene qualificato dalla detta Istruzione come “definitivo” ed “irreformabile”, il che è come dire infallibile».

La conclusione di Padre Cavalcoli appare abbastanza chiara: i lefebvriani non si possono dire veramente cattolici, visto che il loro atteggiamento è analogo a quello dei protestanti e che rifiutano il Magistero attuale del Papa e dei Vescovi, regola immediata di fede, nonché gli insegnamenti irreformabili dunque infallibili dell'ultimo Concilio. Solo che, se la conclusione gode di qualche apparenza di verità, sembra dovuto al fatto che Padre Cavalcoli faccia una grande economia delle distinzioni: distinzioni che però sono necessarie per capire la posizione di Mons. Lefebvre e di quelli che lo seguono, i cosiddetti "tradizionalisti". Riprendiamo allora le critiche mosse dal Padre.

I lefebvriani: inconsapevolmente protestanti?

In primo luogo i "lefebvriani" commetterebbero un errore nei confronti della Tradizione della Chiesa e del Magistero attuale analogo a quello dei protestanti nei confronti della Scrittura. L'analogia si può esprimere con l'equazione: il protestantesimo sta alla Scrittura come i lefebvriani stanno alla Tradizione. Certo, trovare punti di incontro tra le posizioni più disparate non è cosa difficile, ma l'analogia potrebbe essere interessante in quanto effettivamente evidenzia una difficoltà, qualcosa di "anormale": il fatto che delle persone che si dicono cattoliche si oppongano a un "magistero attuale e vivente" come hanno fatto gli eretici, in special modo i protestanti. Solo che questo "come" su cui si fonda l'analogia può essere preso in sensi diversi: "come" può indicare la semplice somiglianza del "fatto", oppure anche la somiglianza nel modo e nel valore dei fatti. In quest'ultimo caso il comportamento dei lefebvriani tenderebbe all'eresia, ma la somiglianza nel primo caso non prova niente necessariamente: se il fatto di opporsi a un "magistero attuale" è un atto la cui liceità è in assoluto possibile anche se in circostanze straordinarie, l'analogia non ci può dire se i lefebvriani si trovino o no effettivamente in queste circostanze. Per sapere oggettivamente quale valore dare all'analogia si dovevano fare delle distinzioni che il Padre non ha fatto. La prima importante distinzione è che rifiutare ogni insegnamento della Chiesa docente in quanto tale, come fanno i protestanti, è evidentemente e in ogni caso illecito, mentre rifiutare qualche insegnamento di un vescovo o persino di un Papa per ragioni gravissime, come vedremo, può essere lecito. Altra distinzione: per i protestanti, ricorrere alla Scrittura senza la Tradizione e la mediazione del Magistero è una questione di principio, principio che costituisce un punto di partenza "a priori". Per i tradizionalisti invece, ricorrere al Magistero passato senza o contro il Magistero1 attuale è una questione di fatto e non di principio. I tradizionalisti riconoscono come cattolici che la regola di fede per i membri della Chiesa di un'epoca determinata è "di norma" e prima di tutto l'insegnamento "vivente" dei pastori della Chiesa. In questo la fede e dottrina dei tradizionalisti concorda con quella di Padre Cavalcoli. Se i tradizionalisti fanno opposizione all'insegnamento attuale, è solo "a posteriori" e a causa di una serie di circostanze eccezionali. Per questo, prendendo l'analogia qualitativamente e non secondo una somiglianza superficiale, risponde di più al vero negare l'analogia tra protestanti e lefebvriani visto che il rapporto tra protestanti e Scrittura (regola immediata di fede per principio, a-priori e in ogni caso) non è come il rapporto tra lefebvriani e Magistero passato (regola immediata che non esclude l'insegnamento attuale per principio e in ogni caso, ma solo "a posteriori" e in circostanze di gravità eccezionale).



La somiglianza superficiale notata da Padre Cavalcoli nasconde un'altra differenza essenziale tra l'atteggiamento dei lefebvriani e quello protestante: prendere la Scrittura come regola immediata di fede non è come prendere il Magistero passato come regola di fede. La ragione è che tra Scrittura e "Magistero regola immediata" c'è una differenza essenziale (la Scrittura è insufficiente rispetto all'oggetto totale della fede e richiede in ogni caso la mediazione della Chiesa, il Magistero passato no), mentre tra Magistero passato e "Magistero regola immediata" la differenza è al massimo accidentale: tra Magistero attuale in quanto tale e Magistero passato in quanto tale la differenza è cronologica e non sostanziale. Il Magistero passato è stato attuale e l'attuale sarà passato. Perciò, come vedremo, il periodo di tempo che separa l'atto di fede del fedele dal Magistero passato non impedisce di per sé la funzione regolativa di quest'ultimo in materia di fede e costumi. Evidentemente questo non prova ancora che i tradizionalisti facciano bene, ma almeno impedisce di classificarli frettolosamente nel rango degli eretici o quasi-eretici.



Se ci limitassimo dunque alla sola analogia del "fatto", la somiglianza dei rapporti perde il suo valore. Potremmo pure dire, per esempio, che Lutero è stato condannato da Papa Leone X come Sant’Atanasio è stato condannato da Papa Liberio. Ma quale valore ha questa analogia? Quale rapporto tra l'eresiarca e il grande difensore della Tradizione? Lo stesso vale per l'analogia tra protestanti e "lefebvriani": è un'analogia superficiale che poggia sul solo "fatto", nascondendo le differenze essenziali che permetterebbero di distinguere tra posizione illecita e posizione lecita.

Il Magistero passato e la regola immediata della fede

Il Padre poi obietta che secondo la dottrina cattolica per sapere infallibilmente che cosa Cristo ci ha insegnato c'è bisogno di stare agli insegnamenti del Magistero attuale e che non è sufficiente porsi a contatto diretto e personale con la Scrittura o la Tradizione o col Magistero passato. Come abbiamo detto, l'obiezione sarebbe efficace se per i tradizionalisti l'opposizione all'insegnamento attuale fosse una questione di principio come lo è per i protestanti e se il rapporto avesse lo stesso valore nei due casi. Ma il problema è un altro e il Padre sembra non voler affrontarlo rifuggendo le distinzioni: posto che di norma2 l'insegnamento attuale del Papa e dei vescovi è regola immediata per la fede (perché è il più adatto ad indicare in modo perfettamente chiaro e comprensibile il contenuto della fede ai fedeli di una data epoca storica), ci si chiede se questo principio sia assoluto oppure se soffra delle eccezioni. Se l'insegnamento del Papa o dei vescovi fosse sempre infallibile, il principio sarebbe assoluto. Ma non è così. Il Padre non può negare che non ogni insegnamento uscito dalla bocca del Papa e dei vescovi è infallibile (lo vedremo chiaramente parlando delle condizioni dell'infallibilità). Quindi l'errore nell'insegnamento attuale è possibile. Non si può negare almeno in linea teorica questa possibilità. Ora è evidente che, in questa ipotesi teoricamente possibile, quell'insegnamento attuale erroneo non potrebbe essere "per sé" regola immediata di fede. Potrebbe essere regola per i fedeli al limite solo "per accidens" se i fedeli, non avendo la certezza di essere di fronte ad un errore, per prudenza e per rispetto, aderissero comunque a quell'insegnamento.

Ma ecco che interviene un'altra possibilità che il Padre non può scartare "a priori": la possibilità che i membri della Chiesa, nella eventualità rarissima di un insegnamento attuale erroneo, si rendano conto con certezza di questo errore, ricorrendo al Magistero passato o alla Tradizione. Padre Cavalcoli non può pretendere che il ricorso al Magistero strettamente attuale sia l'unico mezzo per sapere infallibilmente la vera dottrina. Preso in modo strettissimo e quasi "matematico", questo principio porterebbe all'assurdo: infatti l'insegnamento che il Papa ha dato due giorni fa non è più "attuale" in senso stretto, ancor di meno quello di un Concilio che ha avuto luogo 50 anni fa. Ad essere precisi, la verità è che per un atto di fede attuale di un membro della Chiesa, la regola prossima è sempre un insegnamento passato (almeno di qualche istante). Perciò, sebbene sia vero che l'insegnamento "attuale" come lo intende il Padre, sia "di norma" la regola più certa e immediata (in quanto più capace di adattarsi alle situazioni ed esigenze di comprensione dei fedeli ad un dato momento storico), un Magistero un pochino anteriore a quello "attuale" (ma anche uno lontano nel passato) può essere regola immediata di fede, visto che, grazie a una ricerca storica qualche volta anche abbastanza facile, un membro della Chiesa può sapere con certezza morale ciò che in passato la Chiesa ha voluto insegnare.

Anzi non si può escludere che in certi casi l'insegnamento di un Magistero anteriore a quello attuale sia più chiaro di quello del Magistero presente. In questo senso, quando il Padre dice che "ogni Concilio è testimone della Tradizione, ma di un suo stato più avanzato, in base al quale si giudicano le fasi precedenti e non viceversa", la frase potrebbe essere giusta come norma generale, ma non si può escludere in assoluto che, in tempi di crisi, le affermazioni chiare del passato possano chiarire o giudicare le affermazioni ambigue o errate di un insegnamento presente: è questo il senso del famoso "Commonitorium" di San Vincenzo di Lérins (V secolo), grande difensore della Tradizione. In esso si legge: «Cosa farà il cristiano cattolico se qualche piccola parte della Chiesa si staccherà dalla comunione, dalla fede universale? Quale altra decisione prendere, se non preferire alla parte cancrenosa e corrotta il corpo nel suo insieme che è sano? E se qualche altro nuovo contagio cerca di avvelenare non più una piccola parte della Chiesa, ma tutta quanta, allora sarà sua massima cura attenersi all’antico, che evidentemente non può essere sedotto da alcuna novità menzognera». E la storia sta a mostrare che questa non è una supposizione puramente teorica ma che, in tempi appunto di crisi (pensiamo alle ambiguità di papa Liberio durante la crisi Ariana, oppure le ambiguità di Papa Onorio I che favorirono l'eresia monotelita, come affermò il suo successore nel primato Leone II) si possa realmente dare questa situazione: contra factum non fit argumentum. La crisi che viviamo da 50 anni è un altro "factum" che mostra che questa possibilità può divenire realtà. La stessa «ermeneutica della continuità» cara a Benedetto XVI è una confessione palese di questa possibilità: ci si riferisce direttamente alla Tradizione e al Magistero passato per comprendere "correttamente" gli insegnamenti del Concilio, suscettibili di interpretazioni "progressiste": in questo caso la regola immediata e determinante è il Magistero anteriore, ciò che è regolato o determinato è l'interpretazione di un insegnamento conciliare posteriore. È assurdo pretendere che l'insegnamento dei Papi precedenti non possa essere per noi regola immediata di fede: basta poter conoscere con certezza il contenuto della fede mediante l'espressione della Chiesa docente. L'insegnamento del Concilio Vaticano II non è più un insegnamento attuale in senso stretto eppure il Padre non sembra negargli lo statuto di «regola immediata della fede». E il Concilio Vaticano I sarebbe troppo lontano perché i membri della Chiesa possano riferirvisi direttamente? Le definizioni del Concilio di Trento non sarebbero più comprensibili per noi? No anzi: si può dire in tutta verità che quei due grandi Concili, grazie anche al ricorso che fecero alla "rigida" terminologia e dottrina scolastica, siano più adatti ad essere compresi dai tempi posteriore rispetto al Concilio Vaticano II che ha cercato di sposare la terminologia e i modi di pensiero di un'epoca particolare. I fatti lo mostrano in modo eloquente: quale di questi Concili ha posto più problemi e difficoltà di interpretazione cioè di "ermeneutica"? La risposta è ovvia. Il Concilio Vaticano I o quello di Trento sono dunque meglio qualificati per assumere il ruolo di regola della fede.

Bisogna allora concludere che non è impossibile ricorrere direttamente al Magistero passato, alla Tradizione, e in tempi di crisi dell'autorità, rendersi conto di una eventuale ambiguità o persino di una contraddizione tra gli insegnamenti dell'autorità attuale e l'insegnamento perenne ed infallibile della Chiesa.

Sembra che Padre Cavalcoli sia rimasto indietro nel dibattito attuale: invece di negare "a priori" la posizione dei tradizionalisti negandone la possibilità, è molto più ragionevole discutere sul fatto se si dia o no la situazione eccezionale che invocano. Ma il Padre non riesce comunque a capire questa opposizione dei tradizionalisti per un altro e forse più importante motivo: un'opposizione persino rarissima e straordinaria è comunque illecita poiché le dottrine del Concilio e del Magistero attuale che sono in gioco sarebbero irreformabili e infallibili. Riducendo le condizioni richieste per l'esercizio dell'infallibilità, Padre Cavalcoli vede la presenza di questo privilegio nell'esercizio di un magistero che i tradizionalisti contestano. Evidentemente, se le cose stessero come dice il Padre, l'atteggiamento dei lefebvriani sarebbe inammissibile. Ritorneremo su questo problema dopo aver chiarito un altro punto: quello del significato preciso dell'infallibilità.

I lefebvriani sono infallibili?

Illustriamo il punto esaminando un'ulteriore obiezione che Padre Cavalcoli rivolge ai lefebvriani. Potrebbe infatti dire ai tradizionalisti: «anche qualora questo Magistero attuale non fosse infallibile, sembra che per opporsi prudentemente bisognerebbe essere dotati di quell'infallibilità che negate agli unici che sono in grado di possederla». In altre parole il Padre chiede ai tradizionalisti: siete o no infallibili? (la risposta sarebbe «no naturalmente»). Allora se non lo siete vi potete sbagliare e quindi avete il dovere di dare il beneficio del dubbio all'autorità suprema sopratutto dal momento che gode o almeno può godere dell'infallibilità.

L'obiezione riposa in realtà su un'altra ambiguità. Somiglia molto a una vecchia obiezione degli scettici che pretendevano grazie ad essa che fosse impossibile avere delle certezze assolute: se possiamo sempre sbagliarci, perché l'infallibilità non è un privilegio naturale dell'uomo, come essere veramente in possesso di una verità assoluta, visto che affermandola dobbiamo essere coscienti che cadere in errore non è mai impossibile per noi?

Per rispondere pienamente, bisogna servirsi di una distinzione logica forse un po’ sottile, sulla quale si passa velocemente nei corsi di logica, ma che risolve la difficoltà. Si tratta di chiarire una ambiguità nel concetto di «infallibilità». L'infallibilità di un soggetto si può esprimere con quello che in logica si chiama una proposizione modale: «è impossibile che questa persona si sbagli». In una modale si distingue tra il "dictum" («questa persona si sbaglia») e il "modus" («è impossibile che»). Ora in questo tipo di modale il "modus" può dare due significati differenti alla proposizione. Infatti la proposizione modale può essere presa "in sensu composito" (il "dictum" è preso come soggetto e il "modus" come "predicato") oppure "in sensu diviso" (i termini del "dictum" si trovano divisi tra soggetto e predicato e il "modus" è preso avverbialmente rispetto alla copula). Per chiarire il concetto ecco un esempio classico: prendiamo la modale «possibile est sedentem stare» («è possibile che colui che è seduto stia in piedi»). "In sensu composito" il "dictum" è preso in modo unitario e il "modus" come predicato. Il senso è: "sedentem stare est possibile" cioè "che colui che è seduto stia in piedi è possibile". In questo caso la proposizione è falsa perché lo stato di chi è seduto è incompossibile con lo stato di chi sta in piedi. "In sensu diviso" il dictum rappresenta il soggetto e il predicato, il modo invece è preso avverbialmente. Il senso è «sedens possibiliter stat» cioè «è possibile per chi è seduto stare in piedi». In questo secondo caso la proposizione è vera perché colui che è seduto conserva nello stesso momento la possibilità di cambiare stato, sta in piedi "in potenza".

Se applichiamo la distinzione all'infallibilità, «l'impossibilità di sbagliarsi» assume due valori fondamentalmente diversi. L'uno è un privilegio soprannaturale, l'altro è la semplice condizione di chi, dicendo la verità, si trova in uno stato di incompossibilità con la condizione di chi dice un errore. La frase: «è impossibile che un bambino che recita bene il Credo si sbagli», "in sensu composito" significa «che un bambino nell'atto di recitare effettivamente il Credo si sbagli al tempo stesso, è impossibile», dire il Credo e dire un errore sono stati incompossibili. La proposizione in questo caso è vera e il bambino in un certo senso è infallibile ("in sensu composito" appunto). Non si tratta di un privilegio straordinario ma del semplice fatto che la contraddizione è irrealizzabile. Invece in "sensu diviso" significa «che un bambino che recita il Credo non ha la possibilità o potenza di sbagliarsi» e allora la proposizione è falsa poiché il bambino persino nel momento di dire il Credo conserva la "potenza" di sbagliarsi, ed effettivamente successivamente potrebbe cadere in errore. In questo senso ("diviso") l'infallibilità è privilegio del Papa in quanto, quando sono riunite le condizioni richieste, cioè quando il Papa ha intenzione di obbligare la Chiesa intera e di utilizzare la sua potestà nella sua pienezza in materia di fede, grazie all'assistenza estrinseca, ma reale ed efficace dello Spirito Santo, il Papa non ha quella possibilità, quella "potenza" di cadere in errore. Notiamo che tra i due casi ("sensu diviso" e "composito") di "infallibilità", nella conseguenza tra la verità di una affermazione e l'impossibilità di sbagliarsi, esiste un rapporto inverso: nel caso di infallibilità "in sensu diviso", privilegio soprannaturale del Papa, la verità di una sua affermazione è conseguenza dell'infallibilità, mentre nell'infallibilità "in sensu composito" accade il contrario: "l'infallibilità" è conseguenza della verità dell'affermazione.

Ritornando ai "lefebvriani": non c'è nessuna pretesa di essere infallibili per privilegio soprannaturale ("in sensu diviso"). Ogni tradizionalista conserva sempre la potenza di cadere in errore. Ma il Padre Cavalcoli non può negare a nessuno la possibilità di arrivare a delle conclusioni certe mediante ragionamenti rigorosi, ricorrendo ai dati evidenti della Tradizione e agli insegnamenti certi del Magistero passato, e di essere coscienti di questa certezza. Nella misura in cui aderiamo a una conclusione certa, o a una verità contenuta chiaramente nella Tradizione, "non ci possiamo sbagliare" ("in sensu composito"). È in gioco l'oggettività della ragione e la sua capacità di cogliere il vero, come anche di sottomettersi a una regola più certa e più alta. Se diciamo la verità, il nostro stato è incompossibile con quello di chi afferma un errore: siamo, in un certo senso, "infallibili" ("infallibilità" che è conseguenza della verità della proposizione e non l'inverso, come invece accade nel privilegio di infallibilità papale). Nessun bisogno di un'assistenza particolare e straordinaria dello Spirito Santo.

Il Concilio Vaticano II: un Concilio fallibile

Certo, per opporsi all'insegnamento di un Papa o anche dei vescovi, ci vogliono delle cause gravissime, una certezza almeno morale che l'autorità nella Chiesa è nell'errore e che lavora contro il bene comune della Chiesa stessa. Il Padre Cavalcoli ci dice che questo è impossibile ma, se gli insegnamenti del Papa e dei vescovi in materia di fede non sono sempre infallibili, vuol dire che in linea di principio, seppure eccezionalmente e in epoche di crisi gravissima, non è impossibile che cadano in errore persino in materia di fede, e allora non è difficile che quest'insegnamento vada anche contro il bene comune della Chiesa.

Tuttavia il Padre sembra escludere questa possibilità visto che «perché sia dottrina infallibile - ossia assolutamente e perennemente vera3- non è necessario... che il Magistero dichiari... solennemente che una data proposizione è di fede, ma è sufficiente che di fatto si tratti di materia di fede». Così quello che per il Concilio Vaticano I e per i teologi era una condizione necessaria ma non sufficiente (perché ci vogliono altre tre condizioni) per il Padre diventa una condizione sufficiente anche da sola. Ricordiamo la definizione data dal Concilio Vaticano I dell'infallibilità papale: «Proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa» (DS 3074). Conseguentemente a tale definizione, i teologi hanno sempre sostenuto la necessità del verificarsi di quattro condizioni per poter avere pronunciamento infallibile straordinario: 1. da parte della persona stessa del Papa, che parli come Dottore e Pastore di tutti i Cristiani (così non è infallibile come persona privata, come Vescovo della città di Roma o in quanto "principe temporale" dello Stato della Chiesa); 2. da parte del modo in cui parla è necessario che faccia sapere chiaramente l'intenzione di definire con la sua suprema autorità un punto del dogma (quindi non esercita l'infallibilità se, anche rivolgendosi a tutti i cristiani, insegna la dottrina in modo espositivo o esortativo, oppure persino quando vuole obbligare, ma senza chiedere un assenso interno di fede); 3. da parte dell'oggetto della definizione, bisogna che sia una dottrina riguardante la fede o i costumi (l'infallibilità non si estende alle materie scientifiche per esempio, e persino nel testo stesso della definizione, l'infallibilità non si estende ai punti storici, filosofici o dogmatici che precedono o seguono la proposizione definita); 4. da parte del termine della definizione (cioè il soggetto a cui è indirizzata), è necessario che obblighi tutta la Chiesa come dottrina da credersi e che questo obbligo risulti con certezza (cosa che può sapersi grazie alle formule che accompagnano la definizione come: «dottrina tutti i fedeli devono credere o professare», oppure se i negatori della definizione sono dichiarati «scomunicati» o «estranei alla fede»).

Queste condizioni sono richieste non solo quando il Papa si pronuncia da solo, ma anche quando è riunito in Concilio con i vescovi4. Infatti tutti i teologi ammettono che non tutte le proposizioni (anche a contenuto dogmatico) contenute negli atti di un Concilio Ecumenico godono dell'infallibilità, ma solo quelle per le quali risulti chiara e indubitabile la volontà di definire e obbligare la Chiesa Universale in materia di fede e costumi. Il criterio dell'infallibilità deve essere preso in un senso piuttosto ristretto ed è questo senza dubbio il pensiero della Chiesa, manifestatoci dal Codice di Diritto Canonico (1917) can. 1323 §3: «Declarata seu definita dogmatice res nulla intelligitur, nisi id manifeste constiterit» («Nulla deve essere ritenuto dogmaticamente dichiarato o definito se ciò non risulti in modo manifesto»).

Perciò, per quanto riguarda la "materia di fede" che secondo Padre Cavalcoli basterebbe ad assicurare l'infallibilità, se si intende la stessa cosa di "verità di fede", evidentemente ogni insegnamento del Papa o dei vescovi "in materia di fede" sarebbe infallibile almeno "in sensu composito" (solo che in questo caso dovremmo negare che si tratti effettivamente di "materia di fede" in quei punti nei quali l'insegnamento conciliare dice cose "nuove"). Ma questa concezione della condizione richiesta per l'infallibilità non è di molto aiuto poiché, se questa fosse una delle condizioni date dal Concilio Vaticano I che rendono visibile l'infallibilità, i fedeli dovrebbero anzitutto rendersi conto della verità della dottrina prima di sapere di trovarsi di fronte all'esercizio dell'infallibilità. Ma allora questo privilegio del Magistero perderebbe la sua funzione di "regola della fede" e tutta la sua utilità che è appunto quella di indicare la verità e non di presupporne la conoscenza. Bisogna allora intendere per "materia di fede" semplicemente e in modo generale "ciò che riguarda la fede"5. Chiunque può allora rendersi facilmente conto se il Papa o i vescovi parlano di "ciò che riguarda la fede", costituendo così un buon criterio di visibilità. Soltanto che, giustamente, non essendo in questo senso una condizione sufficiente per l'infallibilità, il Papa o un Concilio potrebbero parlare "in materia di fede" e (se non ci sono le altre condizioni espressamente menzionate nel Concilio Vat. I) non essere infallibili, cioè potersi sbagliare "in materia di fede" (poiché "i contrari appartengono allo stesso genere", "l'errore nella fede" e "la verità di fede" sono entrambi in questo senso "materia di fede").

È vero, come dice Cavalcoli, che gli insegnamenti del Concilio Vaticano II non sono solo pastorali, ci sono molti insegnamenti dottrinali: anche la libertà religiosa, la collegialità e l'ecumenismo sono insegnamenti che non hanno il valore di disposizioni pastorali, bensì hanno valore di principio, effettivamente riguardano la fede. Ma ciò non è sufficiente per l'infallibilità: il Padre trasforma una condizione necessaria ma non sufficiente in una condizione necessaria e sufficiente. Invece è necessaria inoltre l'intenzione di dare un insegnamento definitivo che obblighi in maniera assoluta la Chiesa Universale. Ora "la pastoralità" del Concilio non esclude pronunciamenti in materia di fede (anzi ogni pastorale deve essere fondata su principi dottrinali), ma di fatto ha escluso l'intenzione di esercitare l'infallibilità, di imporre un insegnamento definitivo obbligante tutta la Chiesa (e una successiva dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede non cambia il valore che l'intenzione del Papa e dei vescovi ebbe al momento del Concilio). Di solito l'esercizio dell'infallibilità è presente in un Concilio Ecumenico poiché non manca mai l'intenzione definitoria, ma il Concilio Vaticano II, si sa, ha voluto essere diverso dagli altri proprio nel suo rapporto con il resto della Chiesa e il mondo, senza imporre dottrine e condannare errori (due aspetti necessari della volontà definitoria) e sta in questo la sua "pastoralità": più nella sua "forma" che nella sua "materia" insomma. Così nessun insegnamento del Concilio Vaticano II può essere definito "infallibile" ("in sensu diviso"): né a titolo di una definizione solenne e straordinaria (mancando l'intenzione espressa), né a titolo del Magistero Universale Ordinario (perché nel caso di un Concilio la Chiesa docente non è "dispersa" in tutto il mondo, caratteristica specifica del MOU, e sopratutto le novità professate nel Concilio mancano dell'universalità verticale cioè temporale necessaria a un vero Magistero ordinario che non è altro che un’eco della Tradizione), e neanche nei punti in cui riprende gli insegnamenti degli altri Concili o della Tradizione (in questo caso gli insegnamenti sono "assolutamente e definitivamente veri", ma non "infallibili" se non "in sensu composito").

Conclusione

Tenendo conto di tutte queste considerazioni, bisogna concludere che: in teoria e "a priori",

1.è possibile che, quando non ci siano le condizioni necessarie e sufficienti all'infallibilità, ci sia un errore nell'insegnamento del Papa o dei vescovi in casi peraltro rari ed eccezionali;

2.che questo errore minacci gravemente il bene comune della Chiesa;

3.che altri vescovi, sacerdoti e fedeli si rendano conto con certezza di questo errore;

4.che dunque sia lecito opporsi, con il dovuto rispetto, ma fermamente.

Concretamente è possibile:

5.che vi siano degli errori del genere nei testi del Concilio e nel "Magistero" successivo visto che non è stato esercitato il privilegio d'infallibilità non essendo presenti tutte le condizioni richieste;

6.che dei vescovi, sacerdoti e fedeli si rendano conto di questi errori ricorrendo a un Magistero "più o meno anteriore a quello attuale", chiaro, costante e infallibile;

7.che si oppongano con il dovuto rispetto ma fermamente agli insegnamenti attuali per il bene comune della Chiesa e la professione integrale della fede.

Quanto a sapere se sia effettivamente così, le prove certe abbondano in 50 anni di crisi e non rientra nelle intenzioni di quest'articolo esporle, ma al limite è questo che il Padre doveva contestare, qui sta «il discorso da fare»: il vero dibattito attuale deve discutere la situazione concreta e non escludere aprioristicamente delle possibilità che appaiono evidenti.

Note

1. Utilizzando il termine "Magistero" lo prendiamo nel senso che sembra dargli il Padre Cavalcoli cioè in senso puramente soggettivo. Per il Padre sembra che sia degno del nome di "Magistero" ogni insegnamento proveniente dai soggetti della Chiesa docente: il Papa e i vescovi. Si potrebbe però discutere se sia sufficiente l'attività del soggetto insegnante per qualificare il Magistero e se non sia pure necessaria una condizione da parte dell'oggetto dell'insegnamento, cioè che si tratti di un oggetto effettivamente in continuità con la Tradizione divino-apostolica. In questo caso, l'insegnamento erroneo di un Papa o di un vescovo non meriterebbe il titolo di "Magistero"; nel caso opposto, potrebbe darsi un "Magistero" effettivamente erroneo. Faremo astrazione di questo dibattito interessante e quando parliamo di "Magistero attuale" prenderemo il termine nel senso puramente soggettivo che abbiamo detto, preferendo tuttavia la semplice espressione di "insegnamento attuale del Papa e dei vescovi" per evitare ambiguità.



2. Si può avvicinare questa norma a quella generale dell'obbedienza dovuta ai superiori ecclesiastici: è chiaro che "di norma" gli inferiori devono obbedire ai loro superiori, ma, come nel caso dell'insegnamento, se appare un'opposizione evidente con una regola superiore e certa, non solo è lecito, ma può anche essere doveroso "disobbedire".



3. Notiamo anche che la definizione data dell'infallibilità dal Padre non è esatta: il fatto che un soggetto pronunci una dottrina assolutamente vera non lo rende infallibile nel senso del privilegio d'infallibilità presa "in sensu diviso": sarebbe solo "infallibile in sensu composito".



4. L'opinione più comune dei teologi è che il Concilio Ecumenico e il Papa non sono due soggetti adeguatamente distinti, quindi l'infallibilità di un Concilio sarebbe la stessa infallibilità del Papa, solo con una maggiore estensione soggettiva (cioè un più grande numero di soggetti partecipano ad essa). In ogni caso il Concilio Ecumenico non gode della suprema potestà se non in quanto le sue definizioni e i suoi decreti sono "informati" dalla stessa potestà del Papa. Si tratterebbe dunque della stessa infallibilità papale che si esercita quando il Papa è da solo, come nel Magistero pontificio straordinario, oppure quando il Papa è riunito con i Vescovi nel quadro di un Concilio Ecumenico.



5. Ovviamente, in una definizione dottrinale che è di fatto infallibile, l'oggetto è per forza di cose una verità rivelata o connessa alla rivelazione. In questo senso i teologi parlano dell'oggetto primario dell'infallibilità (le verità formalmente rivelate) e l'oggetto secondario dell'infallibilità (le verità che non sono in sé contenute nella rivelazione ma che sono connesse alle verità formalmente rivelate in modo da risultare necessarie alla custodia dell'integrità del "depositum fidei"). Vogliamo solo dire che, da un punto di vista logico, la condizione di "materia di fede e costumi" affinché sia veramente un segno che ci indica quando il Papa può esercitare la sua infallibilità, deve essere presa nel senso generale di "qualcosa che riguarda la fede e i costumi" ed è riconosciuta in questo modo dal fedele in un momento logico anteriore alla conoscenza dell'oggetto in quanto "verità di fede". Così se il Papa volesse imporre all'intelletto dei fedeli la soluzione di un'equazione matematica, il fedele saprebbe che la prerogativa dell'infallibilità non è messa in gioco; invece se il fedele si trovasse di fronte a un discorso riguardante "il numero delle volontà in Cristo", saprebbe che il Papa può in questo caso obbligare il suo assenso di fede (se si manifestano anche le altre condizioni), senza aver bisogno di sapere prima di dare il suo assenso alla definizione quante siano effettivamente le volontà in Cristo.

mercoledì 6 aprile 2011

far penitenza dello scempio della Verità e della dissacrazione dell’Eucaristia

Due pietre aguzze per Gesù

Caro sì sì no no,

Questa volta ti voglio raccontare una cosa bella. I “novatori” (i “neoterici”, direbbe quel grand’uomo di Romano Amerio) forse rideranno e diranno che sono “balle, ma, in fondo, dovranno vergognarsi.

Un illustre giornalista ha scritto che oggi, nonostante lo “sputo” generale, ci sono giovani ventenni che sotto gli abiti che usano i loro coetanei portano il cilicio per far penitenza dei peccati di tanta gioventù “bruciata” dal vizio, dalla droga, dalle cose più turpi, dal rifiuto del nostro unico Redentore e – attenzione! – per far penitenza dello scempio della Verità e della dissacrazione dell’Eucaristia perpetrata dai “teologi” e preti d’oggi.

Sul momento me ne stupii, ma poi ho pensato a quanto scrisse il conte di Montalembert (1810-1870): “Chi è mai questo Cristo che, appeso al patibolo più infame, da secoli continua ad attirare a Sé la gioventù e l’amore?”. Chi è? È il Figlio di Dio, che un giorno disse: “Quando sarò innalzato da terra (sulla croce) attirerò tutti a Me” (Gv. 12,32). Certamente anche oggi, nel XXI secolo, Gesù non ha perso nulla della Sua attrazione, nonostante che diversi ingenui o “venduti di oggi abbiano tentato di scoronarlo come denunciò un illustre Prelato.

Ed ecco la cosa bella che viene a confermare la mia riflessione. Qualche volta viene da me un giovane di 18 anni. Molto studioso e sportivo. Una grande voglia di imparare e di camminare “diritto”.

L’ultima volta che è venuto, faceva un gran caldo. Il ragazzo aveva calzoni corti, fin sotto il ginocchio e una maglietta leggera. Decorosissimo. Si è seduto ed ho notato che si copriva le ginocchia con le mani.

Senza volerlo, mentre cercavo le parole migliori da dirgli, ho visto le sue ginocchia “sbucciate”. Subito è tornato a coprirsele con le mani, arrossendo. “Che cosa ti è successo?” – mi sono permesso di domandargli – “Sei andato in montagna? Sei caduto?”.

Silenzio. Poi mentre cercavo di riprendere il discorso, con la semplicità di un bambino mi ha confessato: “Ma sì a lei lo posso dire. Lei non riderà di me e neppure dirà che sono matto. Io, quando guardo Gesù Crocifisso, penso che sono stato anch’io ad inchiodarlo lì, con i miei peccati … che molti Lo inchiodano tuttora con i loro peccati; anche quelli che dovrebbero per missione farLo amare ed invece con le loro idee storte, allontanano molti ragazzi da Lui… Così io, quando guardo il Crocifisso mi viene da piangere. Mi viene il desiderio di stare un po’ con Lui sulla croce…

“Basta che Lo conosci, che Lo ami, che Lo preghi, Gesù, che tu Gli sia fedele con la tua carità, con la tua purezza…” gli ho detto. Lui mi ha risposto: “Si, certamente, io questo cerco di farlo più che posso. Ma da qualche tempo ho portato due pietre aguzze nella mia stanzetta, le ho nascoste sotto il letto, che la mamma non le veda.... Poi di notte, quando tutti dormono, mi alzo, mi metto in ginocchio sulle pietre … e prego Gesù, tengo compagnia a Lui, solo sulla Croce, solo nel Tabernacolo … per tutti coloro che Lo offendono, Lo rifiutano .. Anche per i preti … Resto in ginocchio a pregare a lungo, più a lungo che posso. Dico il Rosario alla Madonna … oppure ripeto: 'Gesù Ti amo, venga il Tuo Regno' ..Vero che sono matto? Ma io quando guardo il crocifisso, perdo la testa per Lui”.

Sono rimasto sbalordito, sgomento. Avevo fatto fatica a credere a quel giornalista che raccontava di ventenni con il cilicio. Mi sembrava impossibile. Ora avevo davanti a me un giovane, poco più di un bambino, innamorato folle dell’Uomo-Dio che si è fatto macellare in espiazione dei nostri peccati. Ho pensato a quanto scrisse San Bernardo: “Non me capio prae laetitia, quod Dominus Deus sit frater meus” (Io vado fuori di me dalla gioia per il fatto che Gesù è mio fratello e ha dato la vita per me).

Siamo stati a lungo senza parole. Poi il giovane mi ha detto: “Non sono un santo, sono fragile come un filo d’erba. Preghi per me affinché io sia gradito davvero a Gesù”, “Anche tu prega per me” gli ho risposto.

Il 19 marzo 1958, il venerabile Pio XII profetizzò: “Dopo un crudo inverno, la primavera verrà, la più bella primavera” . Sicuramente non è stato il Concilio né il post-concilio a darci questa primavera. Apriamo gli occhi: siamo ancora nel più crudo inverno. Ma coraggio! Gesù si riserva degli amici - e quali amici! - per Sé contro tutti i “novatori”, i quali, a forza di contar balle”, si troveranno svergognati persino dal buon senso e soli come gufi nella notte. L’ha detto il nostro adorabile Salvatore: “Abbiate fiducia, Io ho vinto il mondo”; “Attirerò tutti a Me”. E Gesù mantiene la Sua parola. Da vero Signore.

Ti saluto, sì sì no no. Confuta gli imbroglioni e racconta cose belle. Anche oggi Gesù fa tante cose belle. Solo Lui le fa.

Lettera firmata



Tratto da Sì sì no no del 15 febbraio 2011 (anno XXXVII n. 3)



Triduo Pasquale a Potenza Picena ( Macerata)

martedì 5 aprile 2011

"è cresciuto oltre misura il numero dei nemici della croce di Cristo" San Pio X

Tunc...

"Venerabili Fratelli [...] per opera del nemico dell'uman genere, mai non mancarono "uomini di perverso parlare (Act. X, 30), cianciatori di vanità e seduttori (Tit. I, 10), erranti e consiglieri agli altri di errore (II Tim. III, 13)". Pur nondimeno gli è da confessare che in questi ultimi tempi, è cresciuto oltre misura il numero dei nemici della croce di Cristo; che, con arti affatto nuove e piene di astuzia, si affaticano di render vana la virtù avvivatrice della Chiesa e scrollare dai fondamenti, se venga lor fatto, lo stesso regno di Gesù Cristo. [...] i fautori dell'errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista. Alludiamo, o Venerabili Fratelli, a molti del laicato cattolico e, ciò ch'è più deplorevole, a non pochi dello stesso ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la Chiesa, scevri d'ogni solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle velenose dottrine dei nemici della Chiesa, si dànno, senza ritegno di sorta, per riformatori della Chiesa medesima; e, fatta audacemente schiera, si gittano su quanto vi ha di più santo nell'opera di Cristo, non risparmiando la persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo " (dall'Enciclica "Pascendi Dominici gregis" di San Pio X)
Nunc...

“I neocatecumenali? Sono in piena eresia, pagani, e fuori della sana tradizione della Chiesa, tristi figli dell’offuscamento post- conciliare”: lo afferma don Mauro Tranquillo, sacerdote tradizionalista della Società Sacerdotale San Pio X. Don Mauro lei sostiene che i neocatecumenali sono in eresia, per quale ragione?: “ intanto queste tesi sono state sostenute in passato anche dall’autorevole Padre Zoffoli, che era in comunione con Roma. Quando si rifiuta l’idea della Messa come sacrificio e si nega la continuità storica della Chiesa, siamo chiaramente in eresia, per non parlare delle libertà liturgiche che mi fanno rabbrividire, ma..” Ma?: “ tutto ciò ,non mi meraviglia. Il Cammino Neocatecumenale celebra una liturgia che è figlia degli errori dottrinali del Vaticano II. Cioè la loro messa appartiene, con varianti, al Novus Ordo e quindi se l’albero è malato, produce frutti cattivi, nel loro caso addirittura eretici .Lo ripeto, i neocatecumenali sono eretici e per giunta molto potenti”. Si ferma un attimo: “ quale autorità morale e storica hanno loro per accusare la Chiesa di essersi spesso paganizzata”?. Però i loro statuti sono stati recepiti dalla Chiesa: “ gli errori esistono sempre. Noi siamo contrari al riconoscimento di certe realtà. Per esempio alla Santa Comunione ci si deve accostare con riverenza, ed invece assistiamo al triste spettacolo di chi in stile militaresco ci va a braccia conserte. Il riconoscimento degli statuti neocatecumeanli è stato celebrato in pompa Magna come con pochi altri è stato mai fatto: “ io non lo comprendo. Ma vuol dire che oggi nella Chiesa contano aspetti di potere, di influenza socio economica, che possono portare allo scandalo e all’eresia”.

Le piace la liturgia dei neocatecumenali?: “ guardi, io non ho un particolare motivo di lamentela contro di loro, per la semplice ragione che rappresentano una delle tante facce negative della realtà post -conciliare. Il Concilio ha prodotto anche questo. Era da metterlo in conto. La trasformazione della messa come festa e banchetto avrebbe potuto sfociare in teorie simili ed è puntualmente avvenuto. Nella stessa misura non sono d’accordo con quanti, in stile Veltroni dicono: è valida la nuova messa, ma anche l’ antica. La sola,vera messa è quella partorita dal Concilio di Trento, quella tradizionale ed antica. Nessuno può stravolgere e ammazzare la tradizione”.

Lei sostiene che le donne e i laici non possono leggere la liturgia della Parola: “ non lo sostiene don Mauro,ma la dottrina della Chiesa e vi è una ragione”. Quale?: “ la liturgia della Parola è prodromica alla liturgia eucaristica. Che innegabilmente viene celebrata da un ministro consacrato. Dunque anche la liturgia della Parola deve essere svolta da un ministro. Io dico di no non solo alle donne ,ma anche ai laici uomini. La liturgia della Parola è ruolo del celebrante o di un ministro di culto. Così come l’amministrazione della comunione sia affidata a sacerdoti e diaconi”.

I critici del Motu Proprio hanno sostenuto che in tal modo si creava una Chiesa alternativa: “ ma quale Chiesa alternativa. In verità con tanta pompa concessa ai Neocatecumenali sono stati riconosciuti e glorificati loro, in odore di piena eresia. Ma lo ripeto anche nel Rinascimento si tollerano eresie ed errori davanti al fascino del potere e dell’influenza. Lo ripeto: dal punto di vista dottrinale sono degli eretici”.

Bruno Volpe (dal sito Pontitifex)