GLI SPOT DEL MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELL'AGENZIA DELLE ENTRATE MARCHIANO COME PARASSITA CHI NON PAGA LE TASSE Ma l'italiano può chiedersi: il 50 x cento di quello che guadagno sudando, in cosa lo spende lo Stato? Ad esempio in aborti (quasi mezzo milione di euro al giorno!!!) e allora chi è il vero parassita che impedisce alla società di crescere e svilupparsi? di Alfredo De Matteo Il Ministero dell'Economia e l'Agenzia delle Entrate hanno commissionato la produzione di una campagna contro l'evasione fiscale che prevede la messa in onda di spot televisivi, comunicati radio e affissioni nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti di Roma e Milano, a partire dal mese di agosto fino a tutto settembre. Lo slogan di uno dei messaggi ideati vuole far passare il concetto che senza entrate non è possibile fornire servizi pubblici e recita così: «Se tutti pagano le tasse le tasse ripagano tutti». Gli spot televisivi puntano invece sulla metafora del parassita: il video inizia col mostrare in sequenza fotografica l'immagine di alcuni parassiti animali (quelli dei ruminanti, del legno, dei pesci, dei cani, dell'intestino) per poi concludere con quella di un parassita della società, ossia di un evasore fiscale. Il messaggio si chiude con l'esortazione a chiedere sempre il rilascio dello scontrino o della ricevuta fiscale. Fonte: Corrispondenza Romana, 01/10/2011Tale campagna pubblicitaria, che ha come obiettivo di "stanare" e mettere all'indice i furbi (o presunti tali) con la speranza di recuperare parte dei soldi evasi, ci sembra sgradevole, fomentatrice dell'odio sociale e, soprattutto, molto ipocrita. Innanzitutto, c'è da dire che la pressione fiscale per essere equa (e sostenibile) non deve andare oltre una certa percentuale del reddito mentre lo Stato toglie al contribuente in media il 48,6% del suo guadagno; così facendo "strozza" il cittadino e gli impedisce di vivere convenientemente. In secondo luogo, sarebbe opportuno analizzare meglio e più in profondità il motivo per cui lo Stato abbisogna di entrate sempre più cospicue, ossia in quale modo lo Stato amministra i soldi pubblici e, conseguentemente, quali servizi rende ai cittadini. Non ci soffermeremo sulla carenza e la precarietà, che pur sussiste, di molti servizi di pubblica utilità come i trasporti, l'assistenza sanitaria, l'istruzione e via dicendo, bensì sullo sperpero di montagne di denaro utilizzato per erogare servizi non solamente inutili e costosi ma soprattutto dannosi e immorali e che servono solamente a soddisfare le richieste di una cerchia molto ristretta di persone: ci riferiamo soprattutto all'odiosa pratica dell'aborto legalizzato e ai tentativi di rendere normale l'omosessualità. Dall'entrata in vigore (1978) della criminale legge 194 i cittadini italiani pagano di tasca loro l'uccisione cruenta dei bambini nel grembo materno e mai nessun governo fino ad ora ha mai osato mettere in agenda quantomeno l'eventuale taglio della spesa pubblica con la quale si finanzia il genocidio dei non nati. Si richiedono sforzi economici da parte di tutti per affrontare il difficile momento di crisi attraverso contributi di solidarietà, prelievi straordinari e balzelli di ogni tipo, eppure il presunto diritto di uccidere l'innocente a spese della collettività non può venire meno, nemmeno in parte. Proviamo a fare qualche calcolo: ogni aborto costa in media 1.300 euro e grazie alla legge 194 ogni giorno, solo in Italia, vengono effettuate circa 315 interruzioni di gravidanza con un costo giornaliero di circa 410.000 euro e annuo di circa 149.650.000 euro. Se prendiamo in considerazione il trentennio di applicazione della norma con i suoi 5 milioni di aborti arriviamo alla cifra astronomica di 6.500.000.000; tutti soldi dei contribuenti utilizzati indebitamente dallo Stato che con la ratifica di leggi inique e contrarie alla legge naturale perde la sua autorità e legittimità morale e si trasforma in una entità oppressiva e malvagia. Che dire poi della vergognosa attenzione del mondo politico e istituzionale nei confronti dell'ideologia del gender? Nel corso degli ultimi anni si sono susseguiti numerosi i tentativi di introdurre nell'ordinamento giuridico il reato di omofobia, grazie a Dio tutti falliti; tuttavia, il Parlamento è stato più volte impegnato nella discussione di un argomento che non interessa a nessuno tranne che ai pervertiti delle aule parlamentari e della società e agli opportunisti di mestiere. E chi paga il conto? Noi, naturalmente. E i soldi pubblici spesi da Comuni e Regioni per sponsorizzare numeri verdi per gay, lesbiche e trans e per accogliere con riverenza politicamente corretta le sfilate oscene degli omosessualisti? Sempre noi! Dunque, valanghe di soldi buttati al vento per finanziare l'immoralità e la perversione nonché per attentare alla salute pubblica e sperperare così altro denaro. Infatti, come è ampiamente documentato la cosiddetta "sindrome post aborto" è molto diffusa tra le donne che hanno fatto ricorso all'Ivg e si manifesta con sintomi psichiatrici molto rilevanti e duraturi: ansia cronica, forti stati depressi, tendenze suicide, propensione all'alcolismo e alla tossicodipendenza. Tutto ciò si ripercuote sulle casse dello Stato togliendo risorse altrimenti impiegabili. D'altra parte, la stessa diffusione del comportamento omosessuale espone soprattutto gli adolescenti all'Aids e ad altre malattie sessualmente trasmissibili con perdite esorbitanti in termini di vite umane e di risorse. Pertanto, chi è il vero parassita che impedisce alla società di crescere e svilupparsi? | |
sabato 8 ottobre 2011
in attesa di un Tea Party
venerdì 7 ottobre 2011
la Bella Addormentata do Gnocchi e Palmaro. Chi sarà il Principe che la risveglierà? Lo sappiamo già. E' il giorno che tanto attendiamo ........ che ignoriamo
Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
La Bella addormentata.
Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi.
Perché si risveglierà
Recensione del libro a firma di Cristina Siccardi
Nel leggere il libro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, La Bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, edito da Vallecchi, non si può che rimare sconcertati e addolorati nel constatare che la Chiesa è stata scossa nelle sue fondamenta fino a rischiare la profanazione della sua sacralità. Ma la Bella, oggi addormentata, da chi è stata insidiata? È lui, il grande nemico di sempre, vigile e ruggente, diabolico per essenza, Satana.
Il testo spiega in modo lineare e alla portata di tutti la patologia che ha colpito la Chiesa, facendone una diagnosi esplicita e puntuale. La crisi ecclesiale è da decenni che si manifesta, ma tutti tacevano e le poche voci coraggiose venivano subito silenziate, come esponenti di un mondo tradizionalista da perseguitare e demolire come qualcosa di pericolosissimo e settario. Quale giustificazione, allora, i cattolici davano alle cattive pieghe della Chiesa? «si imputava l’origine di tutti i mali alla mancata applicazione del Concilio o, quanto meno, all’annacquamento della sua carica innovativa: in una parola, al tradimento» (1) e i traditori più colpevoli avevano un volto preciso a causa del loro marchio di cattolicità: Monsignor Marcel Lefebvre, Romano Amerio, padre Cornelio Fabro, don Divo Barsotti, padre Pio da Pietrelcina…
Tuttavia la Verità è più forte della menzogna. Gnocchi e Palmaro lo dimostrano con questo loro compendio che sintetizza, in maniera mirabile, a volte con toni ironici, a volte con accenti gravi, ciò che è accaduto negli ultimi tempi: gli studi di grandi personalità come il teologo di Santa Romana Chiesa, Monsignor Brunero Gherardini (2), e del professor Roberto de Mattei (3) sono stati determinanti per rompere, finalmente, la calotta ghiacciata, una calotta costituita dal «superdogma» (4) del Concilio Vaticano II, così compatta e così dura che sembrava infrangibile. Ma di fronte all’evidenza di un’apostasia generalizzata, di una decadenza dei costumi, di un’ignoranza religiosa, nell’a b c della dottrina cattolica, divenuta ormai crassa, di una sete di Fede di credenti ormai insoddisfatti o, addirittura, angosciati, i perché e i punti interrogativi, ormai, sono non soltanto doverosi, ma scontati. Le voci della passata generazione che erano state scandalose e per le quali ci si copriva le orecchie per non sentirle sono state sostituite provvidenzialmente da quelle di intellettuali contemporanei. E allora, come dice don Massimo Vacchetti: «Alla vigilia dei cinquant’anni della convocazione conciliare occorre superare la stagione ideologica che ne ha caratterizzato la recezione, ricomporre le ferite inferte in questi anni e restituire al popolo cattolico quelle certezze di pensiero e di fede su cui, solo, è possibile camminare lieti di ciò che ci attende, grati per ciò che ci ha preceduto» (cfr. http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=2774).
La Chiesa, e nessuno può negarlo, si è progressivamente secolarizzata e ciò non è, secondo Gnocchi e Palmaro, un problema di interpretazione del Concilio Vaticano II, ma un problema intrinseco a quei documenti che l’Assise ha prodotto. Ha affermato padre Serafino Lanzetta, teologo dei Francescani dell’Immacolata: «Fino a poco tempo fa, il solo pensare di potersi porre in modo critico dinanzi al Vaticano II, appariva come una cripto-eresia per la coltre di silenzio che necessariamente doveva regnare, ammantandolo solo di lodi […]. Il Vaticano II è un problema? Sì, nel senso che le radici dell’estro postconciliare non sono solo nel postconcilio. Il postconcilio non dà ragione di sé. Per amore della Chiesa e per il futuro delle fede nel mondo, bisogna esaminare la radice del problema» (5).
A stupire, nello scenario intellettuale, non sono più soltanto coloro che seguono la cosiddetta Scuola di Bologna, dove si inneggia alla “benefica” rivoluzione maturata nella Chiesa grazie al Concilio Vaticano II, ma anche la «Balena Bianca ecclesiale votata a un conservatorismo invaghito del presente» (6), si tratta di una lettura neocentrista secondo la quale le ragioni della crisi della Chiesa e, dunque, della Fede sarebbero sorte successivamente al Concilio a causa dell’interpretazione rivoluzionaria dei documenti. Pertanto, la soluzione consisterebbe nel separare il Concilio dal postconcilio. Si tratta, in definitiva, di una posizione di compromesso, un escamotage per far finta di nulla, negando l’evidenza dei fatti. Si sceglie, in pratica, la linea del Peppone di Don Camillo che, ascoltando i terrificanti racconti del parroco a riguardo della Russia sovietica, afferma: «Lasciatemi in pace, preferisco tenermi la mia idea di Russia, voi tenetevi la vostra» (7).
Fenomeni che nella Chiesa non si erano mai visti, come la rivolta liturgica o l’ecumenismo, sono chiari frutti del giacobinismo conciliare. Entrambi sono da ricondurre ad esigenze protestantizzanti: l’assemblea, la Parola e il memoriale della cena per quanto riguarda la Messa, escludendo il Santo Sacrificio, mentre l’istanza ecumenica nacque da alcuni missionari protestanti all’inizio del Novecento, i quali promossero iniziative atte a dialogare fra le innumerevoli confessioni riformate.
Il Vaticano II fu il primo Concilio ad essere esclusivamente pastorale e non dogmatico, deviando l’attenzione dalla Fede e dalla sua ortodossia, un effetto che riconduce, inevitabilmente, al clima culturale progressista degli anni Sessanta, quando l’ortoprassi prese il posto della filosofia autentica, ovvero quando ci si pose domande non più sull’esistenza (Chi chiamo? Da dove veniamo? Da chi andremo?), ma sulla contingenza esperienziale, personale e terrena.
Fu così che molti, nella Chiesa, «pensarono che quel treno, veloce e moderno, non potesse essere perduto: bisognava salirci sopra a tutti i costi» (8). Un treno che oggi è deragliato, ma che all’epoca nessuno voleva perdere perché troppo allettante era il pensiero di quei teologi che volevano, come stilisti d’avanguardia, disegnare e confezionare un abito alla moda alla Sposa di Cristo, un abito nuovo e con esso un linguaggio à la page. I novatori erano così volenterosi e tronfi delle loro idee che misero persino in dubbio il potere del Papa. Fu così che acquisirono un potere del tutto straordinario e dottrinalmente ingiustificato le Conferenze episcopali, che nacquero i consigli pastorali, le assemblee parrocchiali…
Il libro di Gnocchi e Palmaro offre anche un’interessante disamina sul potere che i media ebbero all’interno dell’Assise: furono loro, oltre che i teologi modernisti, ad influire su quei vescovi che non erano né progressisti, né fortemente legati alla Tradizione. Così accadde che padre Antoine Wenger de «La Croix», Raniero La Valle su «Avvenire d’Italia», Henri Fesquet di «Le Monde», don René Laurentin de «Le Figaro», il redentorista americano Francis X. Murphy sul «New Yorker Magazine» ed altri abbiano avuto influenza nelle decisioni conciliari. E fu così che nel Concilio non si parlò dei problemi e degli errori del mondo (per esempio il comunismo, l’indifferentismo religioso, la secolarizzazione o il modernismo nella Chiesa), bensì di come la Chiesa poteva avvicinare i «lontani», come poteva spalancare il proprio portone al mondo… e l’imprudenza fu immensa, visto che il fumo di Satana (come lo ebbe a definire Paolo VI nel 1972) poté entravi con tutta la sua virulenza.
D’altra parte gli esiti del Concilio sono stati obiettivamente visti dai vincitori di quell’Assise: «Abbiamo in qualche modo contribuito con la nostra azione precedente anche all’esito del Concilio», lascia scritto il «partigiano» (9), Giuseppe Dossetti, «Si è potuto fare qualcosa al Concilio in funzione di un’esperienza storica vissuta nel mondo politico, anche da un punto di vista tecnico assembleare che qualcosa ha contato. Perché nel momento decisivo proprio la mia esperienza assembleare […] ha capovolto le sorti del Concilio stesso» (10). Di fronte a queste dichiarazioni non si può restare indifferenti. Ma proprio da qui presero le mosse personaggi come Enzo Bianchi, che fondò la Comunità di Bose l’8 dicembre 1965, guarda caso, giorno della chiusura del Concilio. Eppure, la realtà ecumenica di Bose, che ha oltrepassato le più rosee speranze dei primi missionari protestanti di cui si è parlato, nonostante l’ampio successo mediatico, non ha a tutt’oggi alcun riconoscimento ecclesiastico. Il fatto che la comunità del “profeta” Bianchi «non possa essere contemplata dentro la struttura di questa Chiesa significa solo che la struttura di questa Chiesa deve mutare: troppo gerarchica, costantiniana, fondata sul potere, vecchia» (11).
Il lettore vedrà snocciolarsi, pagina dopo pagina, le ragioni di una problematicità conciliare chiara ed evidente, così netta che, se il cattolico seriamente intenzionato a comprendere la realtà dei fatti, non potrà che arrivare ad una convinzione tanto cruda quanto amara: la Chiesa è stata ingannata e allora, come disse Paolo VI, il Papa che vide la sciagura, ma non l’arrestò: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza» (29 giugno 1972). Tuttavia la Sposa di Cristo troverà la forza di risvegliarsi dal lungo letargo causato dal sonnifero conciliare e a risvegliarla saranno coloro che non usano la Chiesa per i propri fini, siano essi materiali o ideologici, ma coloro che la amano veramente, perdutamente, persino pronti a perdere se stessi per Lei.
Il testo spiega in modo lineare e alla portata di tutti la patologia che ha colpito la Chiesa, facendone una diagnosi esplicita e puntuale. La crisi ecclesiale è da decenni che si manifesta, ma tutti tacevano e le poche voci coraggiose venivano subito silenziate, come esponenti di un mondo tradizionalista da perseguitare e demolire come qualcosa di pericolosissimo e settario. Quale giustificazione, allora, i cattolici davano alle cattive pieghe della Chiesa? «si imputava l’origine di tutti i mali alla mancata applicazione del Concilio o, quanto meno, all’annacquamento della sua carica innovativa: in una parola, al tradimento» (1) e i traditori più colpevoli avevano un volto preciso a causa del loro marchio di cattolicità: Monsignor Marcel Lefebvre, Romano Amerio, padre Cornelio Fabro, don Divo Barsotti, padre Pio da Pietrelcina…
Tuttavia la Verità è più forte della menzogna. Gnocchi e Palmaro lo dimostrano con questo loro compendio che sintetizza, in maniera mirabile, a volte con toni ironici, a volte con accenti gravi, ciò che è accaduto negli ultimi tempi: gli studi di grandi personalità come il teologo di Santa Romana Chiesa, Monsignor Brunero Gherardini (2), e del professor Roberto de Mattei (3) sono stati determinanti per rompere, finalmente, la calotta ghiacciata, una calotta costituita dal «superdogma» (4) del Concilio Vaticano II, così compatta e così dura che sembrava infrangibile. Ma di fronte all’evidenza di un’apostasia generalizzata, di una decadenza dei costumi, di un’ignoranza religiosa, nell’a b c della dottrina cattolica, divenuta ormai crassa, di una sete di Fede di credenti ormai insoddisfatti o, addirittura, angosciati, i perché e i punti interrogativi, ormai, sono non soltanto doverosi, ma scontati. Le voci della passata generazione che erano state scandalose e per le quali ci si copriva le orecchie per non sentirle sono state sostituite provvidenzialmente da quelle di intellettuali contemporanei. E allora, come dice don Massimo Vacchetti: «Alla vigilia dei cinquant’anni della convocazione conciliare occorre superare la stagione ideologica che ne ha caratterizzato la recezione, ricomporre le ferite inferte in questi anni e restituire al popolo cattolico quelle certezze di pensiero e di fede su cui, solo, è possibile camminare lieti di ciò che ci attende, grati per ciò che ci ha preceduto» (cfr. http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=2774).
La Chiesa, e nessuno può negarlo, si è progressivamente secolarizzata e ciò non è, secondo Gnocchi e Palmaro, un problema di interpretazione del Concilio Vaticano II, ma un problema intrinseco a quei documenti che l’Assise ha prodotto. Ha affermato padre Serafino Lanzetta, teologo dei Francescani dell’Immacolata: «Fino a poco tempo fa, il solo pensare di potersi porre in modo critico dinanzi al Vaticano II, appariva come una cripto-eresia per la coltre di silenzio che necessariamente doveva regnare, ammantandolo solo di lodi […]. Il Vaticano II è un problema? Sì, nel senso che le radici dell’estro postconciliare non sono solo nel postconcilio. Il postconcilio non dà ragione di sé. Per amore della Chiesa e per il futuro delle fede nel mondo, bisogna esaminare la radice del problema» (5).
A stupire, nello scenario intellettuale, non sono più soltanto coloro che seguono la cosiddetta Scuola di Bologna, dove si inneggia alla “benefica” rivoluzione maturata nella Chiesa grazie al Concilio Vaticano II, ma anche la «Balena Bianca ecclesiale votata a un conservatorismo invaghito del presente» (6), si tratta di una lettura neocentrista secondo la quale le ragioni della crisi della Chiesa e, dunque, della Fede sarebbero sorte successivamente al Concilio a causa dell’interpretazione rivoluzionaria dei documenti. Pertanto, la soluzione consisterebbe nel separare il Concilio dal postconcilio. Si tratta, in definitiva, di una posizione di compromesso, un escamotage per far finta di nulla, negando l’evidenza dei fatti. Si sceglie, in pratica, la linea del Peppone di Don Camillo che, ascoltando i terrificanti racconti del parroco a riguardo della Russia sovietica, afferma: «Lasciatemi in pace, preferisco tenermi la mia idea di Russia, voi tenetevi la vostra» (7).
Fenomeni che nella Chiesa non si erano mai visti, come la rivolta liturgica o l’ecumenismo, sono chiari frutti del giacobinismo conciliare. Entrambi sono da ricondurre ad esigenze protestantizzanti: l’assemblea, la Parola e il memoriale della cena per quanto riguarda la Messa, escludendo il Santo Sacrificio, mentre l’istanza ecumenica nacque da alcuni missionari protestanti all’inizio del Novecento, i quali promossero iniziative atte a dialogare fra le innumerevoli confessioni riformate.
Il Vaticano II fu il primo Concilio ad essere esclusivamente pastorale e non dogmatico, deviando l’attenzione dalla Fede e dalla sua ortodossia, un effetto che riconduce, inevitabilmente, al clima culturale progressista degli anni Sessanta, quando l’ortoprassi prese il posto della filosofia autentica, ovvero quando ci si pose domande non più sull’esistenza (Chi chiamo? Da dove veniamo? Da chi andremo?), ma sulla contingenza esperienziale, personale e terrena.
Fu così che molti, nella Chiesa, «pensarono che quel treno, veloce e moderno, non potesse essere perduto: bisognava salirci sopra a tutti i costi» (8). Un treno che oggi è deragliato, ma che all’epoca nessuno voleva perdere perché troppo allettante era il pensiero di quei teologi che volevano, come stilisti d’avanguardia, disegnare e confezionare un abito alla moda alla Sposa di Cristo, un abito nuovo e con esso un linguaggio à la page. I novatori erano così volenterosi e tronfi delle loro idee che misero persino in dubbio il potere del Papa. Fu così che acquisirono un potere del tutto straordinario e dottrinalmente ingiustificato le Conferenze episcopali, che nacquero i consigli pastorali, le assemblee parrocchiali…
Il libro di Gnocchi e Palmaro offre anche un’interessante disamina sul potere che i media ebbero all’interno dell’Assise: furono loro, oltre che i teologi modernisti, ad influire su quei vescovi che non erano né progressisti, né fortemente legati alla Tradizione. Così accadde che padre Antoine Wenger de «La Croix», Raniero La Valle su «Avvenire d’Italia», Henri Fesquet di «Le Monde», don René Laurentin de «Le Figaro», il redentorista americano Francis X. Murphy sul «New Yorker Magazine» ed altri abbiano avuto influenza nelle decisioni conciliari. E fu così che nel Concilio non si parlò dei problemi e degli errori del mondo (per esempio il comunismo, l’indifferentismo religioso, la secolarizzazione o il modernismo nella Chiesa), bensì di come la Chiesa poteva avvicinare i «lontani», come poteva spalancare il proprio portone al mondo… e l’imprudenza fu immensa, visto che il fumo di Satana (come lo ebbe a definire Paolo VI nel 1972) poté entravi con tutta la sua virulenza.
D’altra parte gli esiti del Concilio sono stati obiettivamente visti dai vincitori di quell’Assise: «Abbiamo in qualche modo contribuito con la nostra azione precedente anche all’esito del Concilio», lascia scritto il «partigiano» (9), Giuseppe Dossetti, «Si è potuto fare qualcosa al Concilio in funzione di un’esperienza storica vissuta nel mondo politico, anche da un punto di vista tecnico assembleare che qualcosa ha contato. Perché nel momento decisivo proprio la mia esperienza assembleare […] ha capovolto le sorti del Concilio stesso» (10). Di fronte a queste dichiarazioni non si può restare indifferenti. Ma proprio da qui presero le mosse personaggi come Enzo Bianchi, che fondò la Comunità di Bose l’8 dicembre 1965, guarda caso, giorno della chiusura del Concilio. Eppure, la realtà ecumenica di Bose, che ha oltrepassato le più rosee speranze dei primi missionari protestanti di cui si è parlato, nonostante l’ampio successo mediatico, non ha a tutt’oggi alcun riconoscimento ecclesiastico. Il fatto che la comunità del “profeta” Bianchi «non possa essere contemplata dentro la struttura di questa Chiesa significa solo che la struttura di questa Chiesa deve mutare: troppo gerarchica, costantiniana, fondata sul potere, vecchia» (11).
Il lettore vedrà snocciolarsi, pagina dopo pagina, le ragioni di una problematicità conciliare chiara ed evidente, così netta che, se il cattolico seriamente intenzionato a comprendere la realtà dei fatti, non potrà che arrivare ad una convinzione tanto cruda quanto amara: la Chiesa è stata ingannata e allora, come disse Paolo VI, il Papa che vide la sciagura, ma non l’arrestò: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza» (29 giugno 1972). Tuttavia la Sposa di Cristo troverà la forza di risvegliarsi dal lungo letargo causato dal sonnifero conciliare e a risvegliarla saranno coloro che non usano la Chiesa per i propri fini, siano essi materiali o ideologici, ma coloro che la amano veramente, perdutamente, persino pronti a perdere se stessi per Lei.
Cristina Siccardi
Note
1. A. Gnocchi - M. Palmaro, La Bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Vallecchi, Firenze 2011, p. 15.
2. B. Ghereradini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009. B. Gherardini, Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau, Torino 2011.
3. R. de Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010.
4. «La verità é che questo particolare Concilio [Vaticano II] non ha definito alcun dogma, e ha deliberatamente scelto di rimanere a un livello modesto, come un concilio meramente pastorale; eppure molti lo considerano quasi come fosse un super-dogma, che priva di significato tutti gli altri concili» (Cardinale Joseph Ratzinger, Santiago del Cile 1988).
5. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 16-17.
6. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 20.
7. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., pp. 30-31.
8. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 57.
9. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 109.
10. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 110.
11. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., pp. 120-121.
1. A. Gnocchi - M. Palmaro, La Bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Vallecchi, Firenze 2011, p. 15.
2. B. Ghereradini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009. B. Gherardini, Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau, Torino 2011.
3. R. de Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010.
4. «La verità é che questo particolare Concilio [Vaticano II] non ha definito alcun dogma, e ha deliberatamente scelto di rimanere a un livello modesto, come un concilio meramente pastorale; eppure molti lo considerano quasi come fosse un super-dogma, che priva di significato tutti gli altri concili» (Cardinale Joseph Ratzinger, Santiago del Cile 1988).
5. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 16-17.
6. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 20.
7. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., pp. 30-31.
8. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 57.
9. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 109.
10. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., p. 110.
11. A. Gnocchi - M. Palmaro, op. cit., pp. 120-121.
A. Gnocchi - M. Palmaro, La Bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Vallecchi, Firenze 2011, pp. 243, € 12,50.
giovedì 6 ottobre 2011
«Tradidi quo et accepi»: intervista con don Niklaus Pfluger
"Quello che più ci importa è la Chiesa cattolica. Con Mons. Lefebvre, anche noi ripetiamo le parole di San Paolo: «Tradidi quo et accepi», trasmettiamo ciò che noi stessi abbiamo ricevuto".
Sul sito del distretto di Germania, don Niklaus Pfluger, primo Assistente generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X ha risposto il 29 settembre 2011 a qualche domanda sulla riunione del 14 settembre a Roma e sui documenti consegnati al Superiore generale della Fraternità.
Si sa che è stato consegnato un preambolo dottrinale di grande interesse. Benché Lei sia obbligato alla riservatezza sul contenuto del documento, può dirci come vede questo testo?
Il testo proposto ammette delle correzioni da parte nostra. E questo è necessario, se non altro per eliminare chiaramente e definitivamente la minima ombra di ambiguità o di malinteso. Da parte nostra, adesso dobbiamo consegnare a Roma una risposta che rifletta la nostra posizione e manifesti senza ambiguità le preoccupazioni della Tradizione. In forza della nostra missione di fedeltà alla Tradizione cattolica, noi non dobbiamo fare dei compromessi. I fedeli, e ancor più i sacerdoti, sanno molto bene che le offerte romane fatte nel passato alle diverse comunità conservatrici erano inaccettabili. Se adesso Roma fa un’offerta alla Fraternità bisogna che questa sia chiaramente e inequivocabilmente per il bene della Chiesa e acceleri il ritorno alla Tradizione. Noi facciamo nostri il pensiero e il modo d’agire di tutta la Chiesa cattolica: la sua missione universale, e questo fu sempre l’ardente desiderio del nostro fondatore: che la Tradizione rifiorisse dovunque nel mondo. È questo che potrebbe giustamente favorire un riconoscimento canonico della Fraternità Sacerdotale San Pio X.
Questa critica è del tutto giustificata e dev’essere presa sul serio. Noi non possiamo escludere l’impressione che si stabilirebbe una accettazione silenziosa, che condurrebbe in effetti a quella diversità che relativizza la sola verità: è proprio questa la base del modernismo.
Assisi III e più ancora l’infelice beatificazione di Giovanni Paolo II, insieme a molti altri esempi, dimostrano chiaramente che le autorità della Chiesa non sono sempre pronti ad abbandonare i falsi principi del Vaticano II e le loro conseguenze. Di modo che ogni offerta fatta alla Tradizione deve garantirci la libertà di continuare sia la nostra opera sia la nostra critica nei confronti della «Roma modernista». E per essere franchi, questo sembra molto, molto difficile. Ancora una volta, dev’essere escluso ogni compromesso falso e pericoloso.
È inutile comparare la situazione attuale con gli incontri del 1988. A quell’epoca, Roma voleva impedire ogni autonomia della Fraternità San Pio X, il vescovo che si voleva concedere, forse sì o forse no, avrebbe dovuto dipendere in ogni caso da Roma. A Mons. Marcel Lefebvre questo appariva troppo aleatorio. Se egli avesse ceduto, Roma avrebbe potuto veramente sperare che una Fraternità senza vescovi «propri», una volta o l’altra avrebbe finito con l’orientarsi verso la linea conciliare. Oggi la situazione è tutt’altra. Vi sono quattro vescovi e 550 sacerdoti sparsi nel mondo, mentre le strutture della Chiesa ufficiale si sbriciolano sempre più velocemente. Roma non può più confrontarsi con la Fraternità come fece più di vent’anni fa.
Intravede la possibilità di una risposta positiva? E che la Fraternità sottoscriva il preambolo?
Qui la diplomazia svolge un ruolo importante. All’esterno, Roma vuole salvare la faccia. Il Papa ha già ricevuto troppi rimproveri per aver rimesso la “scomunica” ai nostri vescovi senza preamboli. Se fosse dipeso dalla maggioranza dei vescovi tedeschi, la Fraternità avrebbe dovuto prima firmare un riconoscimento in bianco del Concilio. Del resto, è quello che essi esigono oggi. Il Papa Benedetto XVI non l’ha fatto. Lo stesso dicasi per la liberalizzazione della Messa tridentina, l’altra condizione chiesta dalla Fraternità. In tal modo Roma ha acconsentito per due volte ai desideri della Fraternità. È evidente che oggi si chiede un testo che possa essere presentato al pubblico. La questione sta nel capire se questo testo si possa sottoscrivere. Fra una settimana, i Superiori della Fraternità San Pio X si riuniranno a Roma per discutere della cosa. Ovviamente, dev’essere chiaro al Cardinale Levada e alla Congregazione per la Dottrina della Fede, che non possono pretendere un testo che a sua volta la Fraternità non potrebbe giustificare di fronte ai suoi membri e ai suoi fedeli.
A chi hanno apportato maggiore vantaggio i colloqui: a Roma o alla Fraternità San Pio X?
È un punto molto interessante, quindi insisto: per noi non si tratta di acquisire un vantaggio. Noi vogliamo rendere nuovamente accessibile a tutta la Chiesa il tesoro che Mons. Lefebvre ci ha trasmesso. Su questo punto, uno statuto canonico sarebbe un beneficio per tutta la Chiesa. Per esempio, si può supporre che un vescovo conservatore possa chiedere ad un sacerdote della Fraternità di venire ad insegnare nel suo seminario diocesano. In più, una regolarizzazione della nostra posizione potrebbe anche significare che dei cattolici, che in altre occasioni si sono lasciati dissuadere da etichettature infamanti, a quel punto osino unirsi a noi. Ma non è di questo che si tratta, da 41 anni la Fraternità si è sviluppata regolarmente, e questo malgrado il pesante argomento della “scomunica”. Quello che più ci importa è la Chiesa cattolica. Con Mons. Lefebvre, anche noi ripetiamo le parole di San Paolo: «Tradidi quo et accepi», trasmettiamo ciò che noi stessi abbiamo ricevuto.
Intervista completa in versione originale su wwww.pius.info.
mercoledì 5 ottobre 2011
Novus ordo, nuovo pasticcio: quando si mette la fede ai voti
Pubblichiamo questo interessante articolo che potrebbe riassumersi così: mentre la Chiesa rimane gerarchica, la disobbedienza si organizza democraticamente ovvero si nasconde vilmente sotto forma di decisioni prese a maggioranza .....
Non tutti i vescovi sono di buona volontà
Gli italiani sono in prima fila nel disubbidire a Roma, per quanto riguarda la traduzione delle parole della consacrazione. Tedeschi e austriaci seguono a ruota. E anche nelle traduzioni del Padre nostro e del Gloria c'è disaccordo
di ***
CITTÀ DEL VATICANO, 4 ottobre 2011 – In questi giorni in tutte le parrocchie e chiese degli Stati Uniti sta arrivando la nuova versione inglese del Messale Romano, che verrà utilizzata a partire dalla prossima prima domenica di Avvento, il 27 novembre.
Numerose e molto dibattute le variazioni rispetto al precedente Messale. Ma il cambiamento che ha suscitato maggiori dispute è certamente quello che riguarda le parole della consacrazione del vino, là dove nella versione latina si legge: "Hic est enim calix sanguinis mei […] qui pro vobis et pro multis effundetur". Il "pro multis" di questa formula nelle traduzioni in lingua volgare del postconcilio è stato generalmente tradotto con "per tutti": traduzione che non solo non rispettava la lettera dell’originale latino, a sua volta derivato da testi evangelici, ma ha ingenerato anche un sottile ma vivace dibattito teologico.
Per ovviare a questi problemi, nell’ottobre 2006 ai presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo è stata inviata una lettera, su "indirizzo" di Benedetto XVI, dalla congregazione per il culto divino allora presieduta dal cardinale Francis Arinze. In essa si chiedeva di tradurre il "pro multis" con "per molti". Cosa che hanno fatto gli episcopati d’Ungheria (da "mindenkiért" a "sokakért") e di vari paesi d’America latina (da "por todos" a "por muchos"), che si accinge a fare l'episcopato spagnolo, e che ha fatto, non senza vivacissime discussioni anche tra vescovi, l’episcopato degli Stati Uniti (da "for all" a "for many"). Quanto agli episcopati di Germania e di Austria, in essi si registrano forti resistenze al passaggio dal "fur alle" al "fur viele".
Per quanto riguarda l’Italia, l’argomento è stato affrontato dai vescovi nel corso dell'assemblea plenaria della conferenza episcopale tenuta ad Assisi nel novembre del 2010, nel corso dell’esame dei materiali della terza edizione italiana del Messale Romano.
In quella occasione, tra i vescovi italiani si è manifestata una massiccia riluttanza a introdurre il "per molti". Nel corso dei lavori, infatti, si è insistito sul fatto che le conferenze episcopali delle singole regioni erano già state "unanimi" nello scegliere la versione "per tutti". E quando i vescovi dell'Italia intera sono stati chiamati a votare su questo punto specifico del Messale il risultato è stato questo: su 187 votanti, oltre a una scheda bianca, ci sono stati 171 voti a favore di mantenere il "per tutti", 4 per introdurre la versione "per la moltitudine" (calco da "pour la multitude" in vigore nel Messale francese), e appena 11 per il "per molti" richiesto dalla Santa Sede nel 2006.
Nella stessa riunione i vescovi italiani votarono anche a favore di due cambiamenti nel Padre nostro e nel Gloria.
Per il Padre nostro, nel corso di una duplice votazione, i vescovi hanno dapprima scartato l’ipotesi di mantenere la frase "non ci indurre in tentazione"; questa frase infatti ha raccolto solo 24 voti su 184 votanti, meno delle due che poi sono andate in ballottaggio: "non abbandonarci alla tentazione" (87 voti) e "non abbandonarci nella tentazione" (62 voti). Di queste due, la più votata nel ballottaggio è risultata infine la prima, con 111 suffragi contro 68.
Per quanto riguarda il Gloria, su 187 votanti, 151 hanno approvato la variazione "Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama", al posto di quella attualmente in uso "Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà", che ha ottenuto 36 suffragi.
A proposito di questi stessi testi, i vescovi degli Stati Uniti hanno preferito non toccare il Padre nostro, lasciando inalterata la frase "and lead us not into temptation", linguisticamente più fedele al latino "et ne nos inducas in tentationem".
Mentre per quanto riguarda il Gloria hanno scelto di cambiare le parole "and peace to his people on earth" in "and on earth peace to people of good will", anche in questo caso seguendo testualmente l’originale latino "et in terra pax hominibus bonae voluntatis
martedì 4 ottobre 2011
Prof. Roberto de Mattei: " “regola della Fede” non è né il Concilio Vaticano II, né il Magistero vivente contemporaneo, ma la Tradizione, ovvero il Magistero perenne"
Intervista al Professor Roberto de Mattei
Un docente cattolico è "indegno" di essere premiato
Nell'attuale cultura europea il concetto di libertà di opinione ha acquisito, anche, purtroppo in campo cattolico, venature tipicamente illuministriche ed ideologiche. In nome della difesa della libertà "di tutti" si cerca di impedire che coloro che diffondono idee ritenute in contrasto con la questa libertà le possano esprimere. Questo ha una innata valenza antireligiosa e, soprattutto, anticattolica, poiché la Fede romana ha la certezza delle Verità che proclama e questo viene percepito dai relativisti come dogmatismo intollerante, da combattere in ogni sua espressione.
In questo quadro si inserisce il caso "de Mattei - Acqui Storia", apparso sui maggiori quotidiani italiani: dal "Corriere della sera" a "il Giornale", da "la Repubblica" a "Libero". Il Premio Acqui Storia, giunto quest'anno alla 44ª edizione (la cerimonia di premiazione si svolgerà ad Acqui Terme il 22 ottobre p.v.), è diventato il più importamte riconoscimento dedicato alla storia, non soltanto a livello nazionale, ma in Europa ed è diviso in tre sezioni: storico-scientifica, storico-divulgativa e romanzo storico. Il presidente del Premio, Guido Pescosolido, si è dimesso in maniera polemica contro la scelta di premiare il saggio storico-scientifico Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau) del Professor Roberto de Mattei, Cattolico con la C maiuscola e vicepresidente del Cnr (Consiglio nazionale ricerche). Motivazione: "Si tratta di un'opera di un militante", eppure, ha dichiarato: "rispetto tutte le idee"... Rocco Buttiglione, ex ministro della Cultura, ha accusato Pescosolido di continuare una "persecuzione personale" ai danni di de Mattei. Ogni studioso legge e interpreta gli eventi sulla scorta del proprio bagaglio culturale; ma ciò non esclude di realizzare opere serie e rigorose, senza manipolazioni, nel rispetto dell'oggettività dei fatti.
Sul "Corriere della Sera" (3-x-2011) de Mattei ha scritto: "Io sono lontanissimo da Giuseppe Alberigo e da Alberto Melloni come orientamento culturale, ma riconosco che hanno svolto sul Vaticano II un lavoro scientifico di prim'ordine. Poi il loro giudizio sul Concilio è opposto al mio, ma questa è normale dialettica tra storici d'indirizzo diverso". Proprio Melloni sul "Corriere della sera" ha riconosciuto il valore storiografico e critico dell'opera di de Mattei. Ha dichiarato ("il Giornale" 3-x-2011) l'assessore alla Cultura di Acqui Terme, al quale compete l'organizzazione del Premio: "Il saggio di de Mattei non è stato votato in base a considerazioni ideologiche, tanto è vero che i giurati del premio appartengono a scuole scientifiche e tradizioni culturali diverse".
Abbiamo intervistato il Professor Roberto de Mattei.
Professore, dopo essere entrato tra i finalisti del premio Pen Club il Suo volume Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, ha vinto il Premio Acqui , il più prestigioso premio storico italiano. Anche in questo caso le polemiche non sono mancate, con le dimissioni addirittura del presidente della Giuria…
Il Premio Acqui Storia è stato attribuito al mio libro esclusivamente per il suo valore scientifico, indipendentemente da valutazioni ideologiche di qualsiasi natura, come ha spiegato l’assessore Carlo Sburlati, ma il prof. Guido Pescosolido, presidente della giuria, non appena si è delineata la possibilità di un mio successo, si è dimesso. Avrebbe potuto esprimere un voto contrario, come si usa in questo genere di premiazioni, mentre con le sue dimissioni e le successive dichiarazioni ai giornali ha voluto dare al suo gesto il significato di una protesta contro la mia posizione di “cattolico militante” (così mi ha definito sul “Corriere della Sera”). Osservo che qualsiasi cattolico è, o dovrebbe essere, “militante”, come membro della Chiesa, che così si definisce proprio perché sulla terra combatte. Ma ciò che i “liberali” come Pescosolido non accettano, fino al punto di rovesciare il tavolo su cui giocano, è che “cattolici militanti” possano ottenere pubblici riconoscimenti od occupare istituzioni di rilievo. Gli si può concedere la libertà di espressione solo a condizione che la esprimano nella semiclandestinità dei circoli tradizionalisti, in una condizione di sostanziale dhimmitudine. Ci troviamo di fronte a una chiara espressione di “totalitarismo liberale”.
In che senso parla di “totalitarismo”?Il totalitarismo è caratterizzato dal divieto di fare domanda, perché esige non degli uomini, ma delle macchine, che agiscano in maniera meccanica, privi di criteri di giudizio, secondo la volontà dei superiori in cui si annullano. Il totalitarismo è estraneo al Cristianesimo, che conosce certamente l’obbedienza al superiore, ma sempre scelta, mai imposta, come accade nei regimi totalitari. Il Medioevo non fu mai totalitario, perché il sovrano si piegava alla legge naturale e divina e alle tradizioni e ai costumi del regno. Fu la Rivoluzione francese che impose a ogni cittadino un’obbedienza alla Rivoluzione, svincolata da ogni criterio trascendente. Fu la Rivoluzione francese che introdusse la legge dei “sospetti”, matrice di ogni totalitarismo. In base a questa legge si veniva arrestati e condannati non per degli oggettivi crimini, ma per quelli che il sospettato avrebbe potuto commettere, in seguito alla sua educazione, alle sue amicizie, alle sue simpatie ideologiche. Lo stesso principio guidò le “purghe” staliniane: la condanna veniva decretata non verso chi avesse violato la legge, ma verso chiunque non manifestasse piena adesione, cieco entusiasmo, obbedienza servile nei confronti della Rivoluzione comunista e del suo capo. Questa mentalità totalitaria ispira la pratica del “politicamente corretto” delle società democratiche. Vi sono alcuni temi che non possono essere trattati, pena non la detenzione fisica, ma l’isolamento psicologico e morale del “sospettato”. La stessa mentalità è penetrata all’interno della Chiesa, in alcuni suoi esponenti, laici ed ecclesiastici: essa oggi si manifesta attraverso il divieto di porre domande sul Concilio Vaticano II.
Si riferisce alle critiche rivolte al suo libro anche in alcuni ambienti cattolici ?Nessuno storico può immaginare che la propria opera sia ricevuta senza discussione o controversie; ma queste discussioni avvengono, generalmente, sul piano in cui lo storico si situa: quello dei fatti che racconta. Non avrei immaginato che il mio libro fosse stato invece rifiutato da alcuni in nome di quegli stessi pregiudizi ideologici da cui Benedetto XVI invita a liberarci. Così è stato: su alcuni giornali cattolici il mio libro è stato accusato di essere “tendenzioso” e quindi inaccettabile perché da esso sembra emergere un giudizio negativo nei confronti del Concilio Vaticano II. Il Concilio, è stato scritto e ripetuto, è un atto supremo e infallibile della Chiesa e come tale non può essere messo in discussione: chi lo discute si mette, per ciò stesso, al di fuori della Chiesa.
Con questo incredibile sofisma non solo il mio studio, ma qualsiasi libro, articolo o affermazione che, rispondendo all’appello di Benedetto XVI nel suo discorso del 20 dicembre 2005, voglia porre delle questioni relative al Concilio, o al post-Concilio, viene immediatamente messo a tacere, sotto pena di scomunica se non canonica, psicologica, morale e mediatica. Chi pone sul tappeto domande sul Vaticano II viene “sospettato” di scisma ed eresie, escluso dai salotti buoni ecclesiastici, isolato nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle associazioni. Chi invece, in nome del Concilio Vaticano II, avanza tesi audaci e spregiudicate, talvolta eretiche o prossime all’eresia, viene invitato alla mensa ecclesiastica, trattato con il massimo del rispetto, considerato un interlocutore degno di ogni attenzione.
Non la sorprende che queste critiche siano venute soprattutto da cattolici “neoconservatori”?È vero. Le critiche più forti sono venute in effetti da ambienti cattolici che non vorrei chiamare “neoconservatori”, perché mi sembrerebbe far torto ai veri conservatori, ma piuttosto “neocentristi” o “neoconciliari”. Sono quei cattolici che per imporre la propria egemonia, brandiscono il “Magistero” contro la Tradizione della Chiesa, proponendosi poi come gli unici interpreti di tale effimero e magmatico Magistero, pur mai infallibile e mai definitorio. Un’altra loro caratteristica è il complesso di inferiorità nei confronti della cultura laicista, che giudicano sempre più “autorevole” e “scientifica” di quella “tradizionalista”. Sono dei minimalisti, o se si preferisce dei “catacombalisti”, perché accettano, in ultima analisi, il loro destino catacombale.
La Sua opera pare contrapporsi in maniera netta anche alla vulgata “tradizionale” sul Concilio Vaticano II, incarnata dalla cosiddetta Scuola di Bologna. Si può parlare di un’incrinatura definitiva dell’omogeneità pressoché assoluta della lettura “bolognese” dell’Assise pastorale?La “scuola di Bologna”, dopo la morte di Giuseppe Alberigo, è rappresentata oggi da Alberto Melloni e pochi altri allievi, mentre si sta formando invece una nuova scuola, che mi piace definire “romana”, in omaggio a quella grande scuola teologica di cui mons. Brunero Gherardini è oggi insigne rappresentante. Il termine Roma, ovviamente non è geografico, a differenza di quello di Bologna, ma esprime la fedeltà di questi autori al perenne insegnamento della Cattedra di Pietro. A questa scuola “romana” ascriverei l’eccellente libro appena uscito di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro. La Bella Addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi, Perché si risveglierà (Vallecchi), un volume che ha il merito di sviluppare, in maniera brillante e accessibile al grande pubblico, temi importanti, come quello della Rivoluzione del linguaggio del Concilio Vaticano II.
Come reagiscono gli studenti universitari a queste nuove indagini storiografiche? Ci sono laureandi e laureati che desiderano approfondire il solco da Lei tracciato?Saranno soprattutto i giovani a sviluppare e approfondire i temi sollevati dal mio libro. Ci sono ancora molti archivi da esplorare, penso soprattutto a quelli dei Paesi dell’Est, e molti diari da portare alla luce, come quelli dei cardinali Felici e Ottaviani, di cui è certa l’esistenza, ma ancora secretati. Il vero problema però più che l’acquisizione di nuovi documenti è la discussione su quanto è conosciuto. Questa discussione il Papa l’ha aperta, l’ha sollecitata, la apprezza, come hanno confermato alcuni suoi atti successivi al discorso del 2005: mi riferisco al Motu Proprio Summorum Pontificum, con cui ha restituito libera cittadinanza al Rito Romano antico, e alla remissione della scomunica ai 4 vescovi consacrati da mons. Marcel Lefebvre. A questa discussione ho inteso dare un contributo, scrivendo una storia che, come tale, si ponesse sul piano dei fatti, cercasse la verità di quanto nel Concilio era accaduto, perché, finalmente, discutendo di esso, si sapesse di cosa si parla, e lo sapessero soprattutto i giovani, coloro che sono nati dopo il Vaticano II e che lo considerano spesso come un evento mitico, più che come un fatto storico. È soprattutto per i giovani che il mio libro è stato scritto, per aiutarli a pensare, a discutere, a situarsi nella prospettiva suggerita da Benedetto XVI.
Pensa di dedicare altri studi al XXI Concilio ecumenico della Chiesa cattolica?Uscirà a novembre, per l’editore Lindau, un mio nuovo libro sulla Tradizione della Chiesa, in cui non mancherò di rispondere ai problemi storiografici e teologici sollevati dai critici della mia storia del Concilio.
Questa incrinatura dell’edificio conciliare, che alcuni hanno definito il trionfo della Rivoluzione nella Chiesa, prelude, a Suo parere, ad un suo crollo? E, se così fosse, in che tempi?
Il Concilio Vaticano II, considerato come evento storico, e al di là di una pur necessaria valutazione teologica dei suoi documenti, è stata una vera e propria rivoluzione, non a torto definita l’89 della Chiesa cattolica. Come ogni rivoluzione esso ha costruito un edificio destinato a crollare. Ciò avverrà bruscamente, e il nostro compito è quello di non lasciarci travolgere dalle rovine, che non saranno quelle della Chiesa, ma di uomini e di strutture di Chiesa.
Crede che la Tradizione, dopo l’ubriacatura del mito dell’aggiornamento, possa ritornare ad avere il suo giusto spazio nella Chiesa?La Tradizione non è il passato, è il deposito perenne e sempre vivo, della Fede e dei costumi della Chiesa. Il suo ruolo emergerà, a mio parere, con sempre maggior forza, come è naturale che avvenga nelle epoche di crisi. L’ “ermeneutica della continuità” richiamata da Benedetto XVI, non può essere intesa altro che come un’interpretazione del Concilio Vaticano II alla luce della Tradizione, ovvero alla luce dell’insegnamento divino-apostolico che perdura in tutti i tempi e mai si interrompe. Nella Chiesa infatti, la “regola della Fede” non è né il Concilio Vaticano II, né il Magistero vivente contemporaneo, ma la Tradizione, ovvero il Magistero perenne, che costituisce, con la Sacra Scrittura, una delle due fonti della Parola di Dio e fruisce della speciale assistenza soprannaturale dello Spirito Santo.
In questo quadro si inserisce il caso "de Mattei - Acqui Storia", apparso sui maggiori quotidiani italiani: dal "Corriere della sera" a "il Giornale", da "la Repubblica" a "Libero". Il Premio Acqui Storia, giunto quest'anno alla 44ª edizione (la cerimonia di premiazione si svolgerà ad Acqui Terme il 22 ottobre p.v.), è diventato il più importamte riconoscimento dedicato alla storia, non soltanto a livello nazionale, ma in Europa ed è diviso in tre sezioni: storico-scientifica, storico-divulgativa e romanzo storico. Il presidente del Premio, Guido Pescosolido, si è dimesso in maniera polemica contro la scelta di premiare il saggio storico-scientifico Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau) del Professor Roberto de Mattei, Cattolico con la C maiuscola e vicepresidente del Cnr (Consiglio nazionale ricerche). Motivazione: "Si tratta di un'opera di un militante", eppure, ha dichiarato: "rispetto tutte le idee"... Rocco Buttiglione, ex ministro della Cultura, ha accusato Pescosolido di continuare una "persecuzione personale" ai danni di de Mattei. Ogni studioso legge e interpreta gli eventi sulla scorta del proprio bagaglio culturale; ma ciò non esclude di realizzare opere serie e rigorose, senza manipolazioni, nel rispetto dell'oggettività dei fatti.
Sul "Corriere della Sera" (3-x-2011) de Mattei ha scritto: "Io sono lontanissimo da Giuseppe Alberigo e da Alberto Melloni come orientamento culturale, ma riconosco che hanno svolto sul Vaticano II un lavoro scientifico di prim'ordine. Poi il loro giudizio sul Concilio è opposto al mio, ma questa è normale dialettica tra storici d'indirizzo diverso". Proprio Melloni sul "Corriere della sera" ha riconosciuto il valore storiografico e critico dell'opera di de Mattei. Ha dichiarato ("il Giornale" 3-x-2011) l'assessore alla Cultura di Acqui Terme, al quale compete l'organizzazione del Premio: "Il saggio di de Mattei non è stato votato in base a considerazioni ideologiche, tanto è vero che i giurati del premio appartengono a scuole scientifiche e tradizioni culturali diverse".
Abbiamo intervistato il Professor Roberto de Mattei.
Professore, dopo essere entrato tra i finalisti del premio Pen Club il Suo volume Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, ha vinto il Premio Acqui , il più prestigioso premio storico italiano. Anche in questo caso le polemiche non sono mancate, con le dimissioni addirittura del presidente della Giuria…
Il Premio Acqui Storia è stato attribuito al mio libro esclusivamente per il suo valore scientifico, indipendentemente da valutazioni ideologiche di qualsiasi natura, come ha spiegato l’assessore Carlo Sburlati, ma il prof. Guido Pescosolido, presidente della giuria, non appena si è delineata la possibilità di un mio successo, si è dimesso. Avrebbe potuto esprimere un voto contrario, come si usa in questo genere di premiazioni, mentre con le sue dimissioni e le successive dichiarazioni ai giornali ha voluto dare al suo gesto il significato di una protesta contro la mia posizione di “cattolico militante” (così mi ha definito sul “Corriere della Sera”). Osservo che qualsiasi cattolico è, o dovrebbe essere, “militante”, come membro della Chiesa, che così si definisce proprio perché sulla terra combatte. Ma ciò che i “liberali” come Pescosolido non accettano, fino al punto di rovesciare il tavolo su cui giocano, è che “cattolici militanti” possano ottenere pubblici riconoscimenti od occupare istituzioni di rilievo. Gli si può concedere la libertà di espressione solo a condizione che la esprimano nella semiclandestinità dei circoli tradizionalisti, in una condizione di sostanziale dhimmitudine. Ci troviamo di fronte a una chiara espressione di “totalitarismo liberale”.
In che senso parla di “totalitarismo”?Il totalitarismo è caratterizzato dal divieto di fare domanda, perché esige non degli uomini, ma delle macchine, che agiscano in maniera meccanica, privi di criteri di giudizio, secondo la volontà dei superiori in cui si annullano. Il totalitarismo è estraneo al Cristianesimo, che conosce certamente l’obbedienza al superiore, ma sempre scelta, mai imposta, come accade nei regimi totalitari. Il Medioevo non fu mai totalitario, perché il sovrano si piegava alla legge naturale e divina e alle tradizioni e ai costumi del regno. Fu la Rivoluzione francese che impose a ogni cittadino un’obbedienza alla Rivoluzione, svincolata da ogni criterio trascendente. Fu la Rivoluzione francese che introdusse la legge dei “sospetti”, matrice di ogni totalitarismo. In base a questa legge si veniva arrestati e condannati non per degli oggettivi crimini, ma per quelli che il sospettato avrebbe potuto commettere, in seguito alla sua educazione, alle sue amicizie, alle sue simpatie ideologiche. Lo stesso principio guidò le “purghe” staliniane: la condanna veniva decretata non verso chi avesse violato la legge, ma verso chiunque non manifestasse piena adesione, cieco entusiasmo, obbedienza servile nei confronti della Rivoluzione comunista e del suo capo. Questa mentalità totalitaria ispira la pratica del “politicamente corretto” delle società democratiche. Vi sono alcuni temi che non possono essere trattati, pena non la detenzione fisica, ma l’isolamento psicologico e morale del “sospettato”. La stessa mentalità è penetrata all’interno della Chiesa, in alcuni suoi esponenti, laici ed ecclesiastici: essa oggi si manifesta attraverso il divieto di porre domande sul Concilio Vaticano II.
Si riferisce alle critiche rivolte al suo libro anche in alcuni ambienti cattolici ?Nessuno storico può immaginare che la propria opera sia ricevuta senza discussione o controversie; ma queste discussioni avvengono, generalmente, sul piano in cui lo storico si situa: quello dei fatti che racconta. Non avrei immaginato che il mio libro fosse stato invece rifiutato da alcuni in nome di quegli stessi pregiudizi ideologici da cui Benedetto XVI invita a liberarci. Così è stato: su alcuni giornali cattolici il mio libro è stato accusato di essere “tendenzioso” e quindi inaccettabile perché da esso sembra emergere un giudizio negativo nei confronti del Concilio Vaticano II. Il Concilio, è stato scritto e ripetuto, è un atto supremo e infallibile della Chiesa e come tale non può essere messo in discussione: chi lo discute si mette, per ciò stesso, al di fuori della Chiesa.
Con questo incredibile sofisma non solo il mio studio, ma qualsiasi libro, articolo o affermazione che, rispondendo all’appello di Benedetto XVI nel suo discorso del 20 dicembre 2005, voglia porre delle questioni relative al Concilio, o al post-Concilio, viene immediatamente messo a tacere, sotto pena di scomunica se non canonica, psicologica, morale e mediatica. Chi pone sul tappeto domande sul Vaticano II viene “sospettato” di scisma ed eresie, escluso dai salotti buoni ecclesiastici, isolato nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle associazioni. Chi invece, in nome del Concilio Vaticano II, avanza tesi audaci e spregiudicate, talvolta eretiche o prossime all’eresia, viene invitato alla mensa ecclesiastica, trattato con il massimo del rispetto, considerato un interlocutore degno di ogni attenzione.
Non la sorprende che queste critiche siano venute soprattutto da cattolici “neoconservatori”?È vero. Le critiche più forti sono venute in effetti da ambienti cattolici che non vorrei chiamare “neoconservatori”, perché mi sembrerebbe far torto ai veri conservatori, ma piuttosto “neocentristi” o “neoconciliari”. Sono quei cattolici che per imporre la propria egemonia, brandiscono il “Magistero” contro la Tradizione della Chiesa, proponendosi poi come gli unici interpreti di tale effimero e magmatico Magistero, pur mai infallibile e mai definitorio. Un’altra loro caratteristica è il complesso di inferiorità nei confronti della cultura laicista, che giudicano sempre più “autorevole” e “scientifica” di quella “tradizionalista”. Sono dei minimalisti, o se si preferisce dei “catacombalisti”, perché accettano, in ultima analisi, il loro destino catacombale.
La Sua opera pare contrapporsi in maniera netta anche alla vulgata “tradizionale” sul Concilio Vaticano II, incarnata dalla cosiddetta Scuola di Bologna. Si può parlare di un’incrinatura definitiva dell’omogeneità pressoché assoluta della lettura “bolognese” dell’Assise pastorale?La “scuola di Bologna”, dopo la morte di Giuseppe Alberigo, è rappresentata oggi da Alberto Melloni e pochi altri allievi, mentre si sta formando invece una nuova scuola, che mi piace definire “romana”, in omaggio a quella grande scuola teologica di cui mons. Brunero Gherardini è oggi insigne rappresentante. Il termine Roma, ovviamente non è geografico, a differenza di quello di Bologna, ma esprime la fedeltà di questi autori al perenne insegnamento della Cattedra di Pietro. A questa scuola “romana” ascriverei l’eccellente libro appena uscito di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro. La Bella Addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi, Perché si risveglierà (Vallecchi), un volume che ha il merito di sviluppare, in maniera brillante e accessibile al grande pubblico, temi importanti, come quello della Rivoluzione del linguaggio del Concilio Vaticano II.
Come reagiscono gli studenti universitari a queste nuove indagini storiografiche? Ci sono laureandi e laureati che desiderano approfondire il solco da Lei tracciato?Saranno soprattutto i giovani a sviluppare e approfondire i temi sollevati dal mio libro. Ci sono ancora molti archivi da esplorare, penso soprattutto a quelli dei Paesi dell’Est, e molti diari da portare alla luce, come quelli dei cardinali Felici e Ottaviani, di cui è certa l’esistenza, ma ancora secretati. Il vero problema però più che l’acquisizione di nuovi documenti è la discussione su quanto è conosciuto. Questa discussione il Papa l’ha aperta, l’ha sollecitata, la apprezza, come hanno confermato alcuni suoi atti successivi al discorso del 2005: mi riferisco al Motu Proprio Summorum Pontificum, con cui ha restituito libera cittadinanza al Rito Romano antico, e alla remissione della scomunica ai 4 vescovi consacrati da mons. Marcel Lefebvre. A questa discussione ho inteso dare un contributo, scrivendo una storia che, come tale, si ponesse sul piano dei fatti, cercasse la verità di quanto nel Concilio era accaduto, perché, finalmente, discutendo di esso, si sapesse di cosa si parla, e lo sapessero soprattutto i giovani, coloro che sono nati dopo il Vaticano II e che lo considerano spesso come un evento mitico, più che come un fatto storico. È soprattutto per i giovani che il mio libro è stato scritto, per aiutarli a pensare, a discutere, a situarsi nella prospettiva suggerita da Benedetto XVI.
Pensa di dedicare altri studi al XXI Concilio ecumenico della Chiesa cattolica?Uscirà a novembre, per l’editore Lindau, un mio nuovo libro sulla Tradizione della Chiesa, in cui non mancherò di rispondere ai problemi storiografici e teologici sollevati dai critici della mia storia del Concilio.
Questa incrinatura dell’edificio conciliare, che alcuni hanno definito il trionfo della Rivoluzione nella Chiesa, prelude, a Suo parere, ad un suo crollo? E, se così fosse, in che tempi?
Il Concilio Vaticano II, considerato come evento storico, e al di là di una pur necessaria valutazione teologica dei suoi documenti, è stata una vera e propria rivoluzione, non a torto definita l’89 della Chiesa cattolica. Come ogni rivoluzione esso ha costruito un edificio destinato a crollare. Ciò avverrà bruscamente, e il nostro compito è quello di non lasciarci travolgere dalle rovine, che non saranno quelle della Chiesa, ma di uomini e di strutture di Chiesa.
Crede che la Tradizione, dopo l’ubriacatura del mito dell’aggiornamento, possa ritornare ad avere il suo giusto spazio nella Chiesa?La Tradizione non è il passato, è il deposito perenne e sempre vivo, della Fede e dei costumi della Chiesa. Il suo ruolo emergerà, a mio parere, con sempre maggior forza, come è naturale che avvenga nelle epoche di crisi. L’ “ermeneutica della continuità” richiamata da Benedetto XVI, non può essere intesa altro che come un’interpretazione del Concilio Vaticano II alla luce della Tradizione, ovvero alla luce dell’insegnamento divino-apostolico che perdura in tutti i tempi e mai si interrompe. Nella Chiesa infatti, la “regola della Fede” non è né il Concilio Vaticano II, né il Magistero vivente contemporaneo, ma la Tradizione, ovvero il Magistero perenne, che costituisce, con la Sacra Scrittura, una delle due fonti della Parola di Dio e fruisce della speciale assistenza soprannaturale dello Spirito Santo.
Cristina Siccardi
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