venerdì 15 novembre 2013

Ritirato dal sito della S. Sede il colloquio tra Francesco e Scalfari: "era equivoco e non era di magistero".

 L'intervista è uscita un mese e mezzo fa gli addetti stampa della Santa Sede alla fine ci sono arrivati anche loro a capire che quel testo era altamente problematico. Speriamo che quanti in queste settimane hanno accusato i soliti tradizionalisti (in primis i giornalisti Gnocchi e Palmaro inappellabilmente cacciati da Radio Maria) di essere dei poveri fanatici arretrati, esaltando la suddetta intervista, ora si facciano un esamino di coscienza. Però intanto il danno è stato fatto e la Chiesa gettata nello sconcerto....

Via dal sito vaticano il colloquio tra il Papa e Scalfari
«Il testo non era stato rivisto parola per parola»,
ribadisce il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi

da Vatican Insider del 15.11.2013

La Santa Sede ha deciso di cancellare dal sito web vaticano (www.vatican.va) il testo del colloquio tra Papa Francesco e il fondatore di «Repubblica» Eugenio Scalfari. Francesco aveva ricevuto Scalfari venuto a ringraziarlo per la lettera aperta ricevuta e pubblicata sul quotidiano. 
Alle domande dei giornalisti sul perché di questa  decisione, il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha risposto: «L'intervista è attendibile in senso generale, ma non nelle  singole valutazioni: per questo si è ritenuto di non farne un testo consultabile sul sito della Santa Sede. In sostanza, togliendola si è fatta una messa a punto della natura di quel testo. C'era qualche equivoco e dibattito sul suo valore. Lo ha deciso la Segreteria di  Stato».
Padre Lombardi fin dai giorni successivi alla pubblicazione dell'intervista aveva dichiarato che il Papa non aveva rivisto personalmente il testo, che pure Scalfari aveva inviato in Vaticano. In effetti l'articolo conteneva espressioni difficilmente attribuibili a Papa Francesco. Nonché un errore riguardante quanto accaduto nella Sistina. In una delle risposte, si diceva che il Pontefice dopo aver raggiunto il quorum necessario per l'elezione, prima di accettare si sarebbe ritirato in preghiera. Circostanza non vera, e smentita da diversi cardinali, tra i quali l'arcivescovo di New York Timothy Dolan.
Molte polemiche e discussioni aveva provocato anche un'affermazione -  peraltro del tutto compatibile con il Catechismo della Chiesa Cattolica - riguardante il primato della coscienza. Lombardi ha comunque  smentito che la decisione di togliere l'intervista dal sito sia stata  presa su richiesta del Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, Gerhard  Ludwig Müller
 
 
 
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giovedì 14 novembre 2013

uno tsunami ateologico

LA GRAVITÀ DELLA
SITUAZIONE ECCLESIALE ATTUALE:


Siamo giunti al Vaticano III?
di Don Curzio Nitoglia

L'articolo è stato pubblicato sul sito di Don Curzio Nitoglia

Francesco I intervistato sulla situazione religiosa odierna da Eugenio Scalfari ha risposto così: “Il Vaticano II, ispirato da papa Giovanni e da Paolo VI, decise di guardare al futuro con spirito moderno e di aprire alla cultura moderna. I padri conciliari sapevano che aprire alla cultura moderna significava ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Dopo di allora fu fatto molto poco in quella direzione. Io ho l’umiltà e l’ambizione di volerlo fare” (v. l’intervista di Eugenio Scalfari a papa Bergoglio, Repubblica, 1° ottobre 2013),

Si noti:
1°) la negazione del ‘principio di non-contraddizione’ (umiltà = ambizione);
2°) come conseguenza dell’apertura al pensiero moderno, che inizia con il soggettivismo di Cartesio e giunge alla ‘dialettica della contraddizione’ di Hegel (Concilio Vaticano II = apertura alla modernità);
3°) implicitamente, secondo Bergoglio, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero fatto “molto poco” in vista dell’apertura alla modernità;
4°) inoltre Francesco I, non contento di ciò che ha prodotto il post-concilio, vuole spingerlo sino alle estreme conseguenze, annunziando una sorta di “Vaticano III”, già preconizzato ufficiosamente da Küng, Rahner e Schillebeeckx negli anni Sessanta e lanciato ufficialmente da Francesco I nel 2013 come voleva il suo maestro diretto, cardinal Carlo Maria Martini.
Ora come la modernità razionalista è stata scavalcata dalla post-modernità nichilista, così il Concilio Vaticano II, oggettivamente, è stato scavalcato dal post-concilio, il quale tuttavia – secondo papa Bergoglio – non è ancora compiuto, ma deve essere perfezionato nella direzione della totale apertura alla modernità, ossia la ‘contraddizione per principio’ portata al parossismo del nichilismo teologico, nello spirito di un futuro ‘Vaticano III’ praticato e non teorizzato neppure pastoralmente.

Ora nella modernità non più Dio, ma l’uomo è contemplato come creatore della realtà: “L’antropologia diventa l’asso piglia tutto […]. Oggi […] l’uomo è il centro” (Cornelio Fabro, Introduzione a San Tommaso, Milano, 1997, 2a ed., p. 9).
Si può dire, perciò, senza aver paura di esagerare che Hegel & il Vaticano II sono il punto culminante ed insuperabile della cultura moderna: epoca, che però è superata e si consuma nel nichilismo assoluto, come esito dell’antropocentrismo, ossia Nietzsche & il ‘Vaticano III’ annunciato implicitamente da Francesco I.
Mi sembra di poter affermare senza esagerare che dal Vaticano II in cui Dio si identifica panteisticamente col mondo, come hanno scritto sia Paolo VI che Giovanni Paolo II, stiamo passando – con Francesco I – ad una sorta di “Vaticano III” pratico-pratico, in cui il Dio personale, reale e trascendente è negato non teoreticamente, ma praticamente oppure “ucciso” nichilisticamente come realtà oggettiva in sé e per sé esistente.
Infatti per il modernismo, l’idealismo e la massoneria si può ammettere un’idea soggettiva dell’uomo su Dio che sarebbe una creazione dell’uomo, ma non una conoscenza certa di un Dio realmente ed oggettivamente esistente. Come il nichilismo postmoderno segna l’esito ultimo dell’immanentismo panteistico della modernità, così il nichilismo teologico del “Vaticano III” segna il compimento ultimo dell’antropocentrismo del Vaticano II spingendolo sino all’antropolatria.
Ma il nichilismo è la radice dei mali d’oggi poiché il nichilismo (esploso in tutta la sua virulenza nel 1968 e preparato a partire dagli anni Venti/Trenta dalla ‘Scuola di Francoforte’ e dallo ‘Strutturalismo francese’) si radica in questo tipo di società mondialista, globalizzata, progressista, tecnologico-scientista ed edonista. Analogamente possiamo parlare di “Vaticano III” come il completamento nichilistico e la soluzione finale del Vaticano II.

La cultura e la teologia contemporanea modernista hanno perduto il senso di quei grandi valori che, nell’età antica, medievale e pre-conciliare costituivano i punti di riferimento essenziali, e in larga misura irrinunciabili, nel pensare e nel vivere naturale e soprannaturale.
Alla filosofia attuale o post-moderna, manca persino la ragion d’essere, il fine e lo scopo di vivere, la risposta al “perché?”, che restavano ancora – anche se mutilate dal soggettivismo – nella modernità idealista. Il pensiero contemporaneo è il nichilismo filosofico, ove i valori supremi (essere, conoscere, morale) si s-valorizzano, infatti non restano più l’essere per partecipazione e per essenza, la realtà, la verità, il bene, resta solo il “nulla” ove tutto sprofonda.
L’uomo ha cercato, così, di dare a se stesso gli attributi che prima della modernità e del  Vaticano II conferiva a Dio. Ma, “l’uccisione di Dio” della post-modernità e dell’antropolatria del “Vaticano III” comporta anche l’eliminazione di tutte le proprietà e gli attributi divini, per cui dopo aver “ucciso Dio” l’uomo postmoderno e il chierico modernista restano senza Dio e senza potersi appropriare delle sue qualità; mentre il Dio tradizionale, trascendente e personale, oggettivamente e realmente esistente, li aveva resi “partecipi della sua natura divina”, in maniera limitata e finita, tramite la Morte e Resurrezione di Cristo fonte della grazia santificante.

Marx è il maestro di un certo tipo di nichilismo, in cui il primato spetta alla prassi, che porta all’oblio della verità rimpiazzata con ciò che fa comodo (pragmatismo) o con la “disciplina del partito”. Nel 68 si diceva “cercate il potere, e tutto il resto verrà da sé”. Questo è il vero ideologismo & il modernismo compiuto.
L’ideologo/modernista non è colui che ricerca la verità come conformazione alla realtà. No. L’ideologo/modernista, sottospecie ammodernata di intellettualoide all’ultimo grido, non si cura della verità oggettiva “adaequatio rei et intellectus”, ma si auto-convince o fa finta di credere che “ciò che conta è quello che è ritenuto per vero o che è fatto ritenere per vero” con la forza bruta o con la persuasione allucinogena della depravazione liberista.

Il vero filosofo/teologo è il contrario dell’ideologo/modernista, egli sa vivere e morire in accordo con il proprio pensiero, che ha cercato di adeguare alla realtà lungo il corso di tutta la sua esistenza. L’ideologo/modernista è in disaccordo con il retto pensiero o adeguazione dell’intelletto alla realtà e si vuol auto-convincere che la prassi è superiore alla teoria, il fare all’essere, il produrre al conoscere la verità. Egli deve vivere di menzogne, soprattutto deve mentire e nascondere la realtà a se stesso, poiché verità viene dal greco aletheia, ossia alfa privativo più lanthano, che significa “non-nascosto”. Onde la verità appare chiara se si scruta con onestà la realtà oggettiva, mentre la si deve voler nascondere se si vuol vivere secondo i propri sofismi soggettivistici e non secondo la realtà quando è scomoda.
Allora ci si domanda retoricamente, come fa continuamente Francesco I senza attendere risposta, “cos’è la verità? Cosa posso dire io dell’omosessualità? dei divorziati? degli abortisti?”. Vale ancora la pena farsi metter in croce per “rendere testimonianza alla verità”?  Non si deve parlar più di questi valori “non negoziabili”. Così – pur senza dirlo esplicitamente – si lascia errare e  fare il male praticamente. Questa purtroppo è la tattica di Bergoglio, che solo l’Onnipotenza divina potrà arrestare.

Ecco, dunque, le conseguenze dell’apertura alla modernità. Infatti, quando si nega il principio primo speculativo di identità e non contraddizione (sì = sì, no = no, sì ≠ no), si perde anche il principio primo di ordine pratico o la sinderesi “bonum faciendum, malum vitandum”, che riposa su quello di identità (bene = bene, male = male, bene ≠ male), per cui si perde la nozione di bene e di male, li si confonde e si prende il male per bene e viceversa.
Tutto è praticamente lecito: il divorzio, l’aborto, l’omosessualità. Soprattutto non bisogna dibattere teoreticamente e dogmaticamente su tali questioni sorpassate dalla vita moderna e contemporanea.
La verità non è più la “conformità dell’intelletto alla realtà” (Aristotele e San Tommaso), ma la “conformità dell’intelletto alle esigenze della vita contemporanea” (Maurice Blondel).
Siccome le esigenze della vita contemporanea richiedono ogni tipo di depravazione teoretica (negazione dei primi principi speculativi per sé noti ed evidenti) e pratica (negazione della sinderesi: “bisogna fare il bene e fuggire il male”), allora bisogna lasciar fare senza preoccuparsi della verità e moralità oggettiva, naturale e soprannaturalmente rivelata.
Il ‘principio d’identità’ (sì = sì, no = no), che ha retto e diretto la filosofia classica da Socrate, Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca sino a quella patristica (Sant’Agostino) e scolastica (San Bonaventura e San Tommaso d’Aquino), è stato negato nell’antichità dai sofisti ed ha caratterizzato il fulcro della filosofia moderna soprattutto hegeliana, la quale si basa sulla ‘contraddittorietà’ quale mezzo per giungere alla conoscenza filosofica (“tesi, antitesi, sintesi”).

Le conseguenze pratiche, etiche e morali di tale rifiuto sono state tratte soprattutto dalla filosofia post-moderna e contemporanea a partire da Nietzsche, Marx e Freud, secondo la quale bisogna evertere il sistema di valori morali classici e cristiani per sostituirgliene uno diametralmente opposto, che ritenga bene ciò che era male e male ciò che era bene.
Si può dire che la prassi di Francesco I eguaglia la filosofia post-moderna e supera quella moderna, sopravanza il Vaticano II ed inaugura lo spirito del “Vaticano III”.

Ora Lucifero è il “patrono” della modernità e post-modernità. Infatti secondo San Tommaso d’Aquino (S. Th., I, q. 63, a. 7) Lucifero è  caduto subito dopo il primo istante della sua creazione poiché per un peccato di superbia naturalistica desiderò e preferì il bene proporzionato alle forze della sua natura angelica a quello soprannaturale della Visione Beatifica di Dio faccia a faccia, oppure perché per un peccato di orgoglio immanentistico volle la beatitudine soprannaturale come dovuta alla sua natura angelica e non come dono gratuito di Dio (S. Th., I, q. 63; Contra Gent., lib. III, cap. 110; De malo, q. 16, a. 2, ad 4).
Questi due errori, e soprattutto il secondo, li ritroviamo nella teologia modernistica e neo-modernistica condannate da S. Pio X (Pascendi, 1907) e Pio XII (Humani generis, 1950) e sostenuto specialmente da Henri de Lubac (nel suo libro Surnaturel del 1946), condannato negli anni Cinquanta da Pio XII, ma chiamato come “perito conciliare” da Giovanni XXIII al Vaticano II nel 1960.
Il nichilismo completo è quindi una riedizione del titanismo novecentesco, del prometeismo e del luciferismo. “Eritis sicut dii” ha promesso satana nel Paradiso terrestre ad Adamo ed Eva, ma “chi vuol far l’angelo, fa la bestia” e perciò ci siamo ritrovati “in questa valle di lacrime”. Icaro voleva volare con delle ali che si era costruito da sé, ma che si squagliarono alla luce del sole, di modo che il povero Icaro non arrivò in cielo, ma precipitò a terra.

Ora il Concilio Vaticano II ha voluto dialogare e far propria la modernità come categoria filosofica e nel post-concilio non solo qualche teologo, ma i “periti conciliari” più rinomati ed intere Conferenze episcopali hanno tirato delle conclusioni sia in campo dogmatico che morale, le quali sono paragonabili allo spirito del Sessantotto, preparato dalla Scuola di Francoforte e dallo Strutturalismo francese. Per esempio nel 1965 Herbert Marcuse in Eros e civiltà (tr. it., Torino, Einaudi, 1966) chiedeva la liberazione dal reale (p. 277) sia ontologico che morale, esaltando la dirompente forza rivoluzionaria dell’omosessualità (Eros e civiltà, cit., p. 192). Jean Paul Sartre nel 1969 auspicava l’incesto come liberazione dalla famiglia (Tout, n. 12) e nel 1977 si pronunciava a favore della pedofilia (Le Monde, 26 gennaio).
Le stesse idee sessantottine le ritroviamo nel famigerato “Catechismo” olandese e in quello della Conferenza episcopale belga, che si è schierato a favore dell’omosessualismo e della pedofilia.
Si veda, inoltre, anche Il Corso  di Istruzione di Religione Cattolica, intitolato “Una strada di stelle”, edizioni Elledici, Torino, 2011, con “Nulla osta” del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana card. Angelo Bagnasco (protocollo n. 811/2010) del 19 novembre 2010.
Il capitolo “Credenti in dialogo” a pagina 73 e 74 riporta:
«Tutte le religioni sono un cammino verso Dio, come viene spiegato dal brano che ti presentiamo. In un villaggio di ciechi si udì che sarebbe giunto un re a dorso di un elefante. Nessuno di essi aveva mai avvicinato un elefante e si dicevano: “Chissà come sarà fatto?”. Al suo arrivo un gruppetto si avvicinò per tentare di conoscerlo. Il primo gli toccò la proboscide, il secondo una zanna, il terzo un orecchio, il quarto una zampa, il quinto la pancia e l’ultimo la coda. Se ne tornarono a casa convinti di sapere esattamente come era fatto. “Oh, è fantastico!” disse il primo che aveva toccato la proboscide, “così lento e morbido, lungo e forte”. “No!” disse quello che aveva toccato la zanna. “È corto e molto duro”. “Avete torto entrambi” disse il terzo, “è piatto e sottile”. “Oh no”, disse il quarto, che aveva toccato la zampa, “è come un albero!”. Anche gli ultimi due intervennero: “È come un muro!”. “Come una corda!”. Dissero e discussero, sino a litigare e a fare a botte. Finalmente arrivò qualcuno che vedeva bene e disse ai ciechi: “Avete ragione tutti. Tutte queste parti insieme formano l’elefante”. […]. La storia dei ciechi e dell’elefante mostra che ci sono tante strade per arrivare a Dio; esse sembrano molto diverse tra loro. In realtà tutte hanno caratteristiche comuni».
In breve per la CEI – come per l’Esoterismo e la Massoneria -  nessuna religione è vera in sé, neppure la Religione cattolica, ma solo prendendole tutte assieme arriviamo alla verità. Esse sembrano solo apparentemente diverse, ma in realtà sono eguali prese tutte assieme, è per questo che ci si è riuniti tutti assieme ad Assisi nel 1986-2012.

Nell’uomo, dopo il peccato originale, vi sono delle tendenze o inclinazioni disordinate, che lo spingono al male. Esse sono la Tre Concupiscenze: Orgoglio, Avarizia e Lussuria. Quindi l’educazione delle passioni o istinti sensibili umani è di capitale importanza. Non si tratta di annullarle o reprimerle, ma di educarle e subordinarle all’intelletto e alla volontà. Avendo abbandonato la morale e l’ascetica tomistica e controriformistica per aderire al modernismo morale e ascetico chiamato “Americanismo” da Leone XIII in Testem benevolentiae, il teilhardismo (sin dagli anni Venti-Trenta) , il Concilio Vaticano II, il 1968 e il post-concilio hanno aperto la porta alla forza propulsiva e distruttiva delle passioni disordinate. Non si è voluto più insegnare a sublimare, dominare, padroneggiare le passioni per finalizzarle al bene, ma, sotto pretesto di non “reprimere”, le si è lasciate freudianamente in balia del disordine, che porta l’uomo ad agire male. Ecco come si è giunti al Catechismo olandese, belga, all’odierna apertura pratica alla comunione ai divorziati conviventi e all’omosessualità.
Bisogna vivere come si pensa (Fede e Buone Opere) altrimenti si finisce per pensare (luteranamente) come si vive (“pecca fortiter sed fortius crede”).
Certi fatti incresciosi sono stati pianificati e pensati dal teilhardismo (“l’eterno femminino”), dal Vaticano II (“connubio spurio con la modernità”), dal post-concilio (“post-modernità”) ed oggi vengono spinti al parossismo dal “Vaticano III” iniziato praticamente in maniera ufficiale da papa Francesco I in dialogo con il “pontefice laico” Eugenio Scalfari il 1° ottobre del 2013.

Ora un errore (Vaticano II) non si corregge con un altro errore (“Concilio Vaticano III”, richiesto da Küng,  Martini e Bergoglio) o con una mezza verità (“Ermeneutica della continuità conclamata e non provata”), ma con la verità integralmente affermata e vissuta.
Per esempio, quando dopo l’Umanesimo e il Rinascimento scoppiò la rivolta protestante, la Chiesa si interrogò e capì che le false idee e i costumi rilassati umanistico-rinascimentali si erano infiltrati nel clero e nel popolo cattolico e volle riformarsi tramite il Concilio di Trento, nel quale la Somma Teologica di san Tommaso d’Aquino era aperta davanti l’altare dell’Assise conciliare tridentina. Da essa nacque la fioritura teologica e ascetica della Controriforma (seconda Scolastica e spiritualità ignaziana), che hanno prodotto insigni teologi, Dottori ecclesiastici e grandi santi.
Oggi bisogna, con la grazia di Dio, ri-educare tutto l’uomo, nel fisico, nelle passioni sensibili, nelle idee e nell’agire morale e soprannaturale. Non è la modernità del Vaticano II che ci salverà, neppure il dialogo inter-religioso del “Vaticano III”, ma la Verità, che è Gesù Cristo “heri, hodie et in saecula” e il “Tradidi quod et accepi”.

Non dobbiamo farci illusioni. Oramai la rivoluzione (individuale, familiare, finanziaria, sociale ed anche religiosa) ha gettato la maschera e parla più che apertamente. Dopo l’apparente battuta d’arresto durante il pontificato di Benedetto XVI, la sovversione teologica ha ripreso tutto il suo slancio, che da antropocentrico diventa antropolatrico e quindi ateistico. Vedremo l’abominazione nel Luogo Santo molto più spinta di quel che abbiamo dovuto sopportare da 51 anni (11 ottobre 1962) a questa parte. La tattica di Bergoglio di parlare senza teorizzare per lasciar fare e distruggere è una valanga che solo l’onnipotenza divina potrà arrestare.

A questa intervista succitata seguiranno nel lasso di poco tempo altre 100 omelie, interviste, ancora più radicali.
Non intendo lasciarmi travolgere da questa marea di orrori filosofico-teologici pratici e non teorizzati. Non le si può stare dietro, è troppo veloce e distruttiva, è una specie di tsunami ‘a-telogico’.
Occorre solo avere la pazienza di attendere l’intervento di Dio, il quale non può permettere che questa furia devastatrice avanzi all’infinito e annichili ogni cosa.

 

martedì 12 novembre 2013

ex affligentibus nos - magistrale articolo di de Mattei su "il Foglio" del 12 novembre 2013


 

Liquefazione della Chiesa

La fede si svincola dalla verità trascendente, e diventa esperienza.
Ratzinger ha perso la sua battaglia per restaurare il Concilio “non virtuale”.
Per questo la nuova pastoralità di Francesco ora dilaga

di Roberto de Mattei

La maggior parte di coloro che hanno preso le distanze dagli articoli su “Il Foglio” di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro si sono limitati a una condanna di principio, evitando di entrare nel merito degli argomenti toccati dai due autori cattolici. Eppure i problemi sollevati da Gnocchi e Palmaro non solo esprimono il disagio di molti, ma sollevano una serie di problemi che vanno al di là della persona di papa Francesco e investono gli ultimi cinquant’anni di vita della Chiesa. Gli stessi Gnocchi e Palmaro hanno portato alla luce questi problemi in un libro che non ha avuto l’attenzione che meritava: La Bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà (Fede e Cultura, Verona 2012). La “Bella addormentata” è la Sposa di Cristo che nel suo aspetto divino mantiene inalterata la sua bellezza, ma sembra immersa in un profondo letargo. Nel suo aspetto umano Essa ha il volto deturpato da un morbo che parrebbe mortale, se non sapessimo che Le è stata promessa l’immortalità.
Il male di cui soffre la Chiesa viene da lontano ed è esploso, con il Concilio Vaticano II, di cui si sta celebrando il cinquantenario. Il  Vaticano II, aperto l’11 ottobre 1963, fu un Concilio pastorale, privo, per sua esplicita dichiarazione, della voluntas definiendi, cioè dell’intenzione di definire in modo formale verità dogmatiche. Questa pastoralità tuttavia, ebbe un carattere anomalo, come sottolinea in un bel libro appena uscito il filosofo Paolo Pasqualucci (Cattolici in alto i cuori! Battiamoci senza paura per la rinascita della Chiesa, Fede e Cultura, Verona 2013). Il Vaticano II non si limitò infatti ad esprimere in modo nuovo (nove) la dottrina antica, ma volle insegnare, su alcuni punti, anche “cose nuove” (nova). Nessuna di queste novità fu fornita del sigillo della definizione dogmatica, ma nel loro insieme esse costituirono un vero e proprio magistero, che fu presentato come alternativo a quello tradizionale. In nome del Vaticano II, i novatori pretesero di  riformare ab imis l’intera Chiesa. Per raggiungere questo obiettivo, si mossero soprattutto sul piano della prassi, ovvero di una pastoralità che, attuandosi, si faceva dottrina.  Non a caso Giuseppe Alberigo e i suoi discepoli della “scuola di Bologna” vedono nella pastoralità la dimensione costitutiva del Vaticano II. In nome dello “spirito del Concilio”, promanante dalla sua pastoralità, i “bolognesi” si sono opposti alla “riforma nella continuità” propugnata da Benedetto XVI e oggi salutano con entusiasmo il ministero di papa Francesco. 
Benedetto XVI ha esposto la sua tesi di fondo in due discorsi che aprono e chiudono il suo pontificato e ne offrono un filo conduttore: quello alla Curia romana del 22 dicembre 2005 e quello al Clero romano, del 14 febbraio 2013, tre giorni dopo l’annuncio delle dimissioni. Quest’ultimo discorso, ampio e articolato, è stato pronunciato a braccio, ex abundantia cordis e rappresenta quasi un testamento dottrinale di Benedetto XVI. Il Papa ammette l’esistenza di una crisi nella Chiesa, collegata al Vaticano II, ma ne attribuisce la responsabilità a un Concilio “virtuale” che si sarebbe sovrapposto a quello reale. Il Concilio virtuale è quello imposto dagli strumenti di comunicazione e da determinati ambienti teologici che, in nome di un malinteso “spirito” del Vaticano II, avrebbero travisato le intenzioni dei Padri conciliari. Una abusiva prassi postconciliare avrebbe tradito la verità del Concilio, espressa dai suoi documenti teologici, ed è a questi testi che si dovrebbe tornare per ritrovarne l’autenticità. Il problema del Concilio, per papa Benedetto, prima di essere storico o teologico, è ermeneutico. Il problema di una falsa ermeneutica che si oppone all’interpretazione autentica, non solo dei testi, ma dello stesso evento conciliare.
La tesi di Papa Ratzinger non è nuova. E’ l’idea di fondo di quei teologi che, nel 1972, dopo aver partecipato alla nascita della rivista “Concilium”, assieme a Karl Rahner, Hans Küng ed Edward Schillebeeckx, la abbandonarono per dar vita alla rivista “Communio”. Il padre Henri de Lubac, in una celebre intervista rilasciata all’allora mons. Angelo Scola (Viaggio nel postconcilio, Edit, Milano 1985, pp, 32-47), coniò l’espressione “para-concilio” per indicare quel movimento organizzato che avrebbe deformato l’insegnamento del Concilio attraverso una tendenziosa interpretazione di quell’evento. Altri teologi usarono il nome di “meta-concilio” e lo stesso cardinale Joseph Ratzinger, nel celebre Rapporto sulla fede del 1985, anticipò la tesi del Concilio virtuale, poi formulata più volte durante il suo pontificato.
Il discorso del 2013 è però la accorata confessione della crisi della ermeneutica della “riforma nella continuità”. La consapevolezza di questo fallimento ha certamente pesato sull’atto di rinuncia dell’11 febbraio. Perchè la linea di interpretazione “benedettina” non è riuscita ad imporsi, ed è stata sconfitta dalle tesi della “scuola di Bologna”, che dilagano incontrastate nelle università e nei seminari cattolici?
La ragione principale sta nel fatto che la storia non è fatta dal dibattito teologico, e ancor meno da quello ermeneutico. La discussione ermeneutica mette l’accento sull’interpretazione di un fatto, più che sul fatto stesso. Ma, nel momento in cui vengono poste a confronto ermeneutiche diverse, ci si allontana dalla oggettività del fatto, sovrapponendo ad esso le soggettive interpretazioni dell’evento, ridotte ad opinioni. In presenza di questa pluralità di opinioni, la parola decisiva potrebbe essere pronunciata da una suprema autorità che definisca, senza ombra di equivoci, la verità da credere. Ma nei suoi discorsi Benedetto XVI, come i Papi che lo hanno preceduto, non ha mai voluto attribuire un carattere magisteriale alla sua tesi interpretativa. Nel dibattito ermeneutico in corso, il criterio di giudizio ultimo resta dunque l’oggettività dei fatti. E il fatto innegabile è che se vi fu Concilio virtuale, esso non fu meno reale di quello che è racchiuso nei documenti. I testi del Vaticano II furono riposti in un cassetto, mentre ciò che entrò con prepotenza nella storia fu il suo “spirito”. Uno spirito poco santo e molto umano, attraverso cui si esprimevano l’azione lobbistica, le pressioni politiche, le spinte mediatiche, che orientarono lo svolgimento degli eventi. E poiché il linguaggio era volutamente ambiguo e indefinito, il Concilio virtuale offrì l’autentica chiave di lettura dei documenti conclusivi. Il Concilio dei testi non può essere separato da quello della storia e non ha torto la scuola di Bologna quando enfatizza la novità rivoluzionaria dell’evento. Essa ha torto quando di questo evento vuole fare un “luogo teologico”, il supremo criterio di giudizio della storia.
L’ermeneutica di Benedetto XVI non è riuscita a rendere ragione della storia, ovvero di quanto è accaduto dal 1965 ai nostri giorni. I testi conciliari sono stati schiacciati dalla prassi post-conciliare, una realtà che non ammette repliche, se ad essa si vuole contrapporre solo un’ermeneutica. Inoltre, se non si può criticare il Vaticano II, ma solo interpretarlo in maniera diversa, qual è la differenza tra i teorici della discontinuità e quelli della riforma nella continuità? Per entrambi il Concilio è un evento irreversibile e ingiudicabile, esso stesso criterio ultimo di dottrina e di comportamento. Chiunque nega la possibilità di aprire un dibattito sul Vaticano II, in nome dello Spirito Santo che lo garantisce, infallibilizza l’evento e ne fa un superdogma, di fatto immanente alla storia.
La storia, per il cristiano, è invece il risultato di un intreccio di idee e di fatti, che hanno la loro radice ultima nel groviglio delle passioni umane e nell’azione di forze soprannaturali e preternaturali in perenne conflitto. La teologia deve farsi teologia della storia per comprendere e dominare le vicende umane; altrimenti essa viene assorbita dalla storia, che diviene il supremo metro di giudizio delle cose del mondo. L’immanentismo non è altro che la perdita di un principio trascendente che giudica la storia e non ne è giudicato. Sotto questo aspetto le intenzioni dei Padri conciliari e i testi che essi produssero non sono che una parte della realtà. Il Vaticano II è, come la Rivoluzione francese o quella protestante, un evento che può essere analizzato su piani diversi, ma costituisce un unicum, con una specificità propria e, in quanto tale rappresenta un momento di indubbia, e per certi versi apocalittica, discontinuità storica.  
La vittoria della “scuola di Bologna” è stata suggellata dall’elezione di papa Francesco che, parla poco del Concilio perché non è interessato alla discussione teologica ma alla realtà dei fatti, ed è nella prassi che vuole dimostrare di essere  il vero realizzatore del Vaticano II.  Sotto questo aspetto egli incarna, si può dire, l’essenza del Vaticano II, che si fa dottrina realizzando la sua dimensione pastorale. La discussione teologica appartiene alla modernità e papa Francesco si presenta come un papa post-ermeneutico e perciò post-moderno. La battaglia delle idee appartiene a una fase della storia della Chiesa che egli vuole superare. Francesco sarà conservatore o progressista, a seconda delle esigenze storiche e politiche del momento. La “rivoluzione pastorale” è, per Alberto Melloni, la caratteristica primaria del pontificato di Francesco I. “«Pastorale» - scrive lo storico bolognese - è una parola chiave per comprendere il ministero di papa Francesco. Non perché di teologia pastorale sia stato insegnante, ma perché quando la interpreta Francesco evoca con naturalezza sbalorditiva questo cuore pulsante del vangelo nel tempo e lo snodo della ricezione (e del rifiuto) del Vaticano II. «Pastorale» viene dal linguaggio di papa Giovanni: era così che voleva il «suo» concilio, come un concilio «pastorale» - e il Vaticano II è stato così” (L’estasi pastorale di papa Francesco disseminata di riferimenti teologici, in “Corriere della Sera”, 29 marzo 2013).
Melloni forza, come sempre, la realtà, ma non ha torto nel fondo. Il pontificato di papa Francesco è il più autenticamente conciliare, quello in cui la prassi si trasforma in dottrina, tentando di cambiare l’immagine e la realtà della Chiesa. Oggi l’ermeneutica di Benedetto XVI è archiviata e dalla pastorale del nuovo Papa dobbiamo attendere nuove sorprese. Il direttore del “Foglio”, ospitando gli articoli di Gnocchi e Palmaro, lo ha intuito, con un fiuto che in questo caso è teologico e giornalistico al tempo stesso. Ma un’ultima questione si pone. Perchè i difensori più accaniti del Vaticano II, ed oggi i critici più severi di Gnocchi e Palmaro, provengono dall’area culturale di Comunione e Liberazione? Non è difficile rispondere se si ricordano le origini di CL e le radici del pensiero del suo fondatore, don Luigi Giussani.  L’orizzonte ciellino era, ed è rimasto, quello della “nouvelle théologie” progressista. In un celebre articolo apparso nel 1946 dal titolo La nouvelle théologie où va-t-elle, il domenicano Garrigou-Lagrange, uno dei massimi teologi del Novecento, indicava come caratteristica della “nouvelle théologie”, la riduzione della verità ad “esperienza religiosa”. “La verità - scriveva - non è più la  conformità del giudizio con la realtà extramentale (oggettiva) e le sue leggi immutabili, ma la conformità del giudizio con le esigenze dell’azione e della vita umana, che si evolve continuamente. Alla filosofia dell’essere o ontologia si sostituisce la filosofia dell’azione, che definisce la Verità in funzione non più dell’essere, ma dell’azione”. 
Ritroviamo questa caratteristica nel linguaggio e nella pratica di molti ciellini. Basti pensare al continuo riferirsi alla fede come “incontro” e “esperienza”, con la conseguente riduzione dei princìpi a meri strumenti. E’ vero infatti che non c’è cristianesimo se non è vissuto, ma non si può vivere una fede che non si conosce, a meno di non ritenere, come il modernismo e la nouvelle théologie, che la fede prorompe dall’esperienza vitale del soggetto. Un’“esperienza” che sarebbe possibile in tutte le religioni e che ridurrebbe il cristianesimo a pseudo-misticismo o a pura prassi morale. La storica Cristina Siccardi in un altro bel libro appena pubblicato (L’inverno della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. I mutamenti e le cause, Sugarco, Milano 2013) analizza nel dettaglio le conseguenze di questa pastorale dell’“esperienza”, ricordando le parole di un altro grande teologo domenicano del ventesimo secolo, il padre Roger-Thomas Calmel: “Dottrine, riti, vita interiore sono sottoposti a un processo di liquefazione così radicale e così perfezionato che non permettono più di distinguere tra cattolici e non cattolici. Poiché il sì e il no, il definito e il definitivo sono considerati sorpassati, ci si domanda che cosa impedisca alle religioni non cristiane di far parte anche loro della nuova Chiesa universale, continuamente aggiornata dalle interpretazioni ecumeniche” (Breve apologia della Chiesa di sempre, Editrice Ichtys, Albano Laziale 2007, pp. 10-11).
Parafrasando l’affermazione di Marx, secondo cui è nella prassi che il filosofo dimostra la verità della sua dottrina, potremmo riconoscere nella teologia postconciliare il principio per cui è nella “esperienza religiosa” che il credente dimostra la verità della sua fede. E’, in nuce, il primato della prassi della filosofia secolaristica moderna. Questa filosofia della prassi religiosa fu teorizzata dalle sètte più radicali del Cinquecento e del Seicento,  come gli anabattisti e i sociniani. Per essi la fede è misurata dalla sua intensità: ciò che importa non è la purezza e l’integralità della verità in cui si crede, ma l’intensità dell’atto con cui si crede.  La fede ha dunque la sua misura non nella dottrina creduta, ma nella “vita” e nell’azione del credente: essa diviene esperienza religiosa, svincolata da qualsiasi regula fidei oggettiva. Ritroviamo queste tendenze nella teologia progressista che preparò, guidò e, in parte, realizzò il Concilio Vaticano II.
La “nouvelle théologie” progressista ebbe i suoi principali esponenti nel domenicano Marie-Dominique Chenu e nel gesuita Henri de Lubac. Non a caso Chenu fu il maestro di Giuseppe Alberigo e  de Lubac, il punto di riferimento dei discepoli di don Giussani. E non a caso, tra i primi testi ufficiali di Comunione e Liberazione, agli inizi degli anni Settanta, risulta lo studio del teologo Giuseppe Ruggieri intitolato La questione di cristianesimo e rivoluzione. Ruggieri, che allora dirigeva la collana teologica di Jaca Book oggi dirige “Cristianesimo nella storia” ed è, con Alberto Melloni, l’esponente di punta della “scuola di Bologna”. Non c’è incoerenza nel suo itinerario intellettuale, presentato dallo stesso Melloni nel volume Tutto è grazia (Jaca Book, Milano 2010), così come non c’è incoerenza nelle posizioni di ieri e di oggi di alcuni (non tutti) esponenti di Comunione e Liberazione. Ciò che accomuna la teologia di CL a quella della scuola di Bologna è la “teoria dell’evento”, il primato della prassi sulla dottrina, dell’esperienza sulla verità, che CL situa nell’incontro con la persona di Cristo e la scuola di Bologna nell’incontro con la storia.
Giuseppe Ruggieri fu il teologo di Comunione e Liberazione ed è oggi il teologo della scuola di Bologna. E oggi ciellini e bolognesi si ritrovano nel demonizzare in Gnocchi e Palmaro, non i critici di papa Francesco o del Vaticano II, ma i cristiani “eticisti” che ripropongono il primato della Verità e della Legge. Eppure, dice Gesù, “chi mi ama osserva i miei comandamenti” (Gv 14, 15-21. Non c’è amore di Dio al di fuori dell’osservanza della legge naturale e divina.  L’osservanza di questa verità e di questa legge è la misura dell’amore cristiano.

Fonte: “il Foglio” – 12 novembre 2013

domenica 10 novembre 2013

Altri Papi....

PARABOLA DEL FRUMENTO E DELLA ZIZZANIA
OMELIA DI PAOLO VI
Domenica, 8 novembre 1964
 
La prima impressione, leggendo il Vangelo di questa domenica, è la brevità e semplicità - sono sette versetti - della parabola che il Signore ci presenta: narrazione famosa e a tutti nota, del buon frumento e della zizzania. Nel riascoltarla siamo pure colpiti dalla vivida ricchezza e dalla vastità di dottrina che il brano contiene; dalla quantità di questioni a cui risponde, sì che, ben può dirsi, esso sembra condensare in visione sintetica, lineare, nientemeno che l’intero panorama del mondo.
Questa parabola, infatti, non tratta forse della storia delle singole anime, della storia della società, della grande famiglia umana; e non presenta il misterioso, sconcertante problema dell’esistenza del male? Chi crede in Dio, chi ha fiducia in Lui, chi cerca di seguire i suoi precetti, si imbatte, a un dato momento, in una tentazione, che deve essere certamente la più grave, se, nella storia delle conversioni, sempre è inclusa questa tappa come un punto obbligato.
 
IL MISTERO DEL MALE
 
È l’interrogativo: se Dio c’è, perché ci deve essere il male? perché le cose debbono andare tanto alla rovescia? perché c’è questa tolleranza di offese, di bestemmie, di peccati? perché le vicende umane non sono meglio regolate?
La tentazione, assai comune, si manifesta così acuta, che gli ingegni più eletti, a cominciare da Sant’Agostino, hanno provato l’urto, l’inciampo nel considerare questa scena del mondo, che sorprende e sgomenta. Ci sono stati coloro i quali hanno detto che Dio ha creato un mondo perfetto, ma essi sembrano smentiti dalla realtà; e così non pochi si chiedono che deve pensarsi di un Dio il quale crea e tollera delle cose imperfette. D’altra parte sappiamo come molta letteratura, divulgata dopo la guerra, imputi nientemeno che a Dio tutte le nostre disgrazie, le nostre mancanze; e rovesci contro di Lui, con sacrilega protervia, l’insieme del male inesplicabile che troviamo nel mondo.
Sorge, allora, un altro quesito: quale contegno tenere? Dobbiamo combattere il male, fare una crociata, per sradicarlo da questo mondo, sino ad usare anche le forze esteriori materiali, il potere della spada? Leggiamo il Vangelo e troveremo una immensa luce. Dio stesso è il protagonista della parabola oggi rievocata. È lui, il padrone del campo, a dirci: No; non strappate ora la zizzania poiché c’è il rischio che sradichiate anche il grano; non agite in questa maniera, perché altrimenti ne andrebbe di mezzo anche il bene; non dovete combattere il male in modo violento, perché sarebbe proprio rendere male per male. Invece la sapiente regola è che bisogna vincere il male col bene, e allora ecco un aspetto del vasto, modernissimo problema: l’atteggiamento degli uomini, definito, a seconda dei diversi casi, degli individui, delle ideologie : tolleranza, convivenza, transigenza, indifferenza, pluralismo. Insomma, come ci si deve comportare dinanzi all’irrompere e alla molteplicità, alla aggressività del male? Si deve rimanere impassibili, lasciar che le cose vadano per la loro china, od opporsi in qualche maniera? si deve forse attenuare la fede nella giustizia, sottostare, a proposito del mondo, allo scetticismo che sembra ormai guadagnare i magni intelletti del nostro tempo, secondo cui bisogna essere indifferenti, perché la morale è un’entità sui generis, anch’essa mobile come tutte le altre cose, e perciò occorre adattarsi?
Ecco spiegazioni, che equivalgono a transigere, a ripiegare su compromessi. Si tratta di adattamenti, vili in fondo, poiché si rimane sconfitti dalla incapacità di spiegare e di vincere il male.
 
PERICOLI GRAVI PER I GIOVANI
 
La parabola offre un’ulteriore alta lezione. La giustizia esiste: se adesso non ha il suo trionfo e la sua piena applicazione, l’avrà in un giorno tremendo, e nulla passerà senza subire il giudizio. Verrà il giorno della messe e allora la separazione tra il bene e il male sarà visibile, tangibile e storica. Il male avrà la sua punizione; il bene il suo premio. Questo è l’insegnamento del Vangelo; ed è molto ampio, tanto che verrebbe voglia di spiegarlo a capitoli. Ma basterà prenderne una parte sola, e soffermarvisi per un ristoro delle nostre anime, per edificarci un istante, e far ritorno dalla Messa festiva più decisi e più confortati. L’ammaestramento più semplice è questo: non dobbiamo scandalizzarci né scoraggiarci; non dobbiamo lasciare che la vista, l’esperienza del male - parliamo di quello morale specialmente - abbiano influsso dannoso sopra di noi. Perché (ed ecco un’altra ricchezza della parabola, che meriterebbe una approfondita analisi), il male è contagioso, è pervicace, impressionante; ha un suo impeto di propagazione, che purtroppo tante volte il bene non ha; si diffonde con una facilità simile a quella di un’epidemia; sembra una pestilenza che si dilata con estrema facilità: in una parola, il cattivo esempio è una delle maggiori disgrazie della nostra povera umanità. Chi ha pratica di gioventù specialmente, sa come in essa esista, alcune volte, una spiccata bramosia non solo di conoscere il male, ma di sperimentarlo, fino a simpatizzare con esso.
 
NECESSARIA FERMEZZA DI FRONTE AD APPARENTI CONTRADDIZIONI
 
Ciò indica una evidente contraddizione. A un certo punto, determinate circostanze sembrano rendere condiscendente e vinto il giovane sino ad allora animato da tanti buoni propositi, ricco di tante belle promesse, vero cavaliere dell’ideale. All’improvviso cede a uno spirito di gregarismo (altra parola moderna), o alla facilità di arrendersi al deteriore esempio, di irreggimentarsi con quanti osano le peggiori spavalderie e le più riprovevoli azioni. Ecco un altro argomento e motivo da meditare con dolore: il potere del cattivo esempio. E allora qual è il contegno da osservare? Forse quello di non scandalizzarsi, diventare passivi, rimanere indifferenti, incapaci di impressionarsi; essere gente a cui nulla importa, perché ammette che il mondo è sempre andato così e non occorre prendersela troppo, e quindi non resta se non tirare avanti alla buona, lasciar svigorire il senso morale e il desiderio del bene, giacché il male esiste e sembra più attraente dello stesso bene? O dobbiamo reagire con mezzi radicali, violenti? Quale, insomma, dev’essere il nostro contegno da cristiani e da discepoli di Nostro Signore?
 
IL LIMPIDO GIUDIZIO DEL CRISTIANO
 
Ecco una mirabile lezione di questo Vangelo. Qualunque sia l’esperienza, il quadro che abbiamo davanti agli occhi, delle condizioni morali del nostro tempo, della società, degli esempi che ci si offrono, giammai dobbiamo perdere il senso del bene e del male; né devono esistere confusioni nella nostra anima; il nostro giudizio sia sempre preciso, nettissimo: sì, si; no, no.
Il bene è una cosa, il male è un’altra. Non si possono mescolare; anche se la realtà li mostra come in convivenza, frammisti l’uno all’altro.
Il giudizio morale, per un cristiano, ha da essere severo, rettilineo, costante, limpido e, in un certo senso, intransigente. Bisogna dare alle cose il loro proprio nome: questo si chiama bene, quello si chiama male. E cioè: la coscienza non dev’essere mai indebolita e alterata, o resa indifferente, impassibile, poiché non è lecito applicare indistintamente i criteri del bene e del male alla realtà sociale che ci circonda.
La seconda attitudine che il Vangelo ci raccomanda è quella di immunizzarci a vicenda; di conservarci buoni anche se siamo in una società o in un ambiente contrari al bene; di non lasciare che l’infezione ci raggiunga e si propaghi in noi; ma di essere pronti ad anestetizzare, a immunizzare, ad applicare la profilassi morale, la disinfezione fin dove è possibile: nelle nostre case, nei nostri ambienti, nella nostra anima, e particolarmente nel nostro cuore. Soprattutto occorre tenere puro il nostro abitacolo interiore. Il Vangelo offre ulteriori lezioni proprio su questa custodia gelosa che dobbiamo avere non tanto dell’ambiente esterno quanto dell’intimo del nostro cuore. Nel recondito segreto dei nostri pensieri ha da risplendere la purezza, devono albergare la luce, la rettitudine, l’amore; non è consentita alcuna forma di male nemmeno nei desideri: il cuore deve essere salvato dal contagio di perversità che ci circonda.
Infine - è sempre la parabola ad insegnare - cerchiamo di far crescere egualmente questo rigoglioso frumento, cioè il bene. Se il male è vistoso, rendiamo potente a maggior ragione il bene. Atteniamoci a quanto acutamente indica San Paolo: «vince in bono malum».
Accresciamo in ogni momento la sostanza e il vigore del bene. Tutte le storture che vediamo intorno a noi e che lamentiamo, dipendono, in realtà, a guardarle bene, da una certa viltà dei buoni, dalla loro debolezza. Il Pontefice Pio XII di v.m. asseriva che la fiacchezza dei buoni è la grande causa o almeno la grande occasione delle cose cattive che sono nella nostra società, nel nostro tempo. Con questa inefficienza il giusto può tramutarsi in individuo imbelle, inerte, codardo, egoista, incapace di agire: in tal modo lascia trionfare il male nel mondo.
 
L’APOSTOLATO SAPIENTE
 
Al contrario, cerchiamo - conclude il Santo Padre - di evitare tante critiche e di non maledire, o di lasciarci soverchiare da timori e tristi presagi. Diamo, invece, al bene il suo rigoglio e la sua testimonianza; offriamo alle buone iniziative il nostro conforto. Occorre praticare, anche nella piccola cerchia della esistenza di ognuno, il saggio apostolato e cercare di far progredire la statistica delle opere buone: in tal modo la vita di tutti sarà certo migliorata.
Comunque ogni particolare finirà per svolgersi secondo il piano evangelico: il grano seminato da Cristo, seminato da Dio nel mondo, giungerà a maturazione, e cioè nessuna egregia impresa, verun desiderio o sforzo per dare al bene la sua energia ed espansione andrà perduto: giacché il premio eterno è assicurato a coloro che porteranno il buon frumento nei granai celesti.