sabato 22 gennaio 2011

Intervista a don Massimo Sbicego

a cura di Marco Bongi

- Come ha conosciuto la FSSPX? Ne aveva sentito parlare prima della conoscenza diretta?
Nel 1992 trovai un vecchio numero di “La Tradizione cattolica” era interessante: “chissà se lo pubblicavano ancora”; provai a contattare la redazione e mi abbonai. Nel frattempo conclusi l’itinerario del seminario, fui ordinato nel giugno 2000 e iniziai il ministero; solo del maggio 2007 visitai il priorato di Rimini ed incontrai don Luigi.

- Quando era seminarista le avevano mai parlato di mons. Lefebvre e della S. Messa antica?
No. La Tradizione nella sua dimensione positiva è assente dal moderno insegnamento in Seminario. Se si cita la Messa “pre-conciliare” lo si fa solo per sottolineare com’era inadeguata quella liturgia e quella teologia. Anche recentemente, in occasione del “motu proprio”, so che qualche “liturgista” ha usato il DVD della santa Messa pubblicato dalla Fraternità per deriderne con i seminaristi rito e gesti.

- Cosa ha provato la prima volta che si è avvicinato alla celebrazione della S. Messa di sempre?
Di trovarmi alla Presenza di Dio, un po’ come Mosè sul Sinai; per la prima volta tutta la celebrazione era “davanti a Lui” ed Egli stesso era lì. Nel rito copto le rubriche prescrivono che il sacerdote entri scalzo nel santuario, del resto il nostro rituale Pontificale prescrive particolari calzari per il vescovo; la prima volta che ho celebrato la Santa Messa ho intuito improvvisamente il perché: Mosè di fronte al roveto. Ogni volta che entro nel santuario è così: il roveto brucia della Sua presenza.

- Com’è la vita nella FSSPX?
E’ anzitutto una vita semplice e fraterna. Monsignore la pensò sulla scorta della sua esperienza in terra di missione: intuì l’importanza non solo dell’apostolato ma anche di un luogo nel quale “ricaricarsi” spiritualmente ed intellettualmente, ove vivere assieme ad altri sacerdoti, fraternamente; pensò ad un luogo che anche proteggesse i sacerdoti dal mondo; questo luogo è il “priorato”. E’ bello perché c’è sempre una buona parola, una battuta piuttosto che una discussione dottrinale, qualcosa da sistemare, un’ospite che viene da lontano, una preghiera nell’unica liturgia pur nella diversità delle lingue nazionali di ciascuno. Poi ci sono le suore, un esempio in tutto: di preghiera, laboriosità, attenzione, modestia, riservatezza ... ed i fratelli, dei consacrati non sacerdoti, che si prendono cura con generosità di noi tutti: della casa, degli ospiti, di noi sacerdoti.

- I priorati ospitano anche persone esterne?
Direi che il priorato è aperto all’accoglienza di quanti ne rispettano ritmi e finalità: per una parola, un incoraggiamento, un tempo di ritiro o di discernimento un sacerdote è sempre disponibile. Si organizzano poi specifici incontri per sacerdoti e fedeli; vi si predicano più volte all’anno gli esercizi ignaziani secondo il metodi di p. Francesco da Paola Vallet e diffuso da p. Ludovico Maria Barielle.

- Come si svolge la giornata, l’apostolato ... ?
Ci sono sostanzialmente due ritmi di vita diversi: quando siamo in casa (al priorato, durante la settimana o la feria) e nell’apostolato (al fine settimana o nelle feste). Al priorato la sveglia ufficiale è alle 6.00 ma molti sacerdoti si svegliano prima per recitare il Mattutino e le Lodi; alla 6.30 c’è la recita comune di Prima, quindi la meditazione e l’Angelus; alle 7.15 la Santa Messa ed il ringraziamento; alle 8.10 la colazione. C’è quindi il tempo da dedicare allo studio, alla preparazione di incontri, catechesi, convegni, agli articoli; per vari lavori manuali ed incombenze, oppure per un ulteriore momento di preghiera, per il breviario (Terza e Nona), la Sacra Scrittura etc. Alle 12.15 c’è la recita comune di Sesta e l’Angelus quindi il pranzo alle 12.30. Nel pomeriggio un ulteriore tempo di studio, lavoro o preghiera (la recita in privato del Vespro) sino alle 18.50 con la recita comune del Santo Rosario e dell’Angelus (il giovedì c’è la Benedizione Eucaristica). Alle 19.20 la cena e alle 20.45 la Compieta cui segue il Grande Silenzio sino alle 8.00 del giorno dopo. Nell’apostolato, il fine settimana, nelle feste, in altre occasioni, stanti gli obblighi clericali (Breviario e Santa Messa) e della Fraternità (Rosario quotidiano), gli orari sono flessibili in relazione alle diverse situazioni e necessità.
Io non sono ancora inserito in questa importante missione, vedo tuttavia i confratelli percorrere centinaia di chilometri per assistere ed incontrare i fedeli, celebrare loro la Santa Messa, risolvere innumerevoli problemi per la collocazione delle cappelle, la celebrazione, l’alloggio, per l’ostilità di parroci e vescovi, in questo senso non molto caritatevole con noi.

- Pensa che ci saranno altri sacerdoti che seguiranno il suo esempio?
Sinceramente penso che altri preti e seminaristi si pongano la questione. Come conseguenza della propria scelta di consacrazione al Signore, si rivela necessario un serio ripensamento delle dimensioni sacerdotale del “presbiterato” e sacrificale della Santa Messa. L’ondata ideologica post-conciliare si sta esaurendo in un sistema sostanzialmente agnostico, nei giovani sacerdoti e nei ragazzi si risveglia invece la ricerca dell’autenticità della nostra fede: di qui l’avvicinamento alla Tradizione Cattolica. Il sacerdote moderno, prima vittima del nuovo corso ecclesiale, vive spesso una profonda crisi d’identità; da essa egli può uscire unicamente riappropriandosi dei mezzi che gli fornisce la viva Tradizione della Chiesa: in primo luogo la Messa di sempre, quindi il Breviario, una vita sacerdotale Fraterna, dunque l’Apostolato.

Grazie mille don Massimo.
Grazie a Lei.

Mons. Athanasius Schneider chiede un nuovo Sillabo

"L’altro impedimento si manifestava nella mancanza di sapienti e allo stesso tempo intrepidi pastori della Chiesa che fossero pronti a difendere la purezza e l’integrità della fede e della vita liturgica e pastorale, non lasciandosi influenzare né dalla lode né dal timore.

Già il Concilio di Trento affermava in uno dei suoi ultimi decreti sulla riforma generale della Chiesa: “Il santo sinodo, scosso dai tanti gravissimi mali che travagliano la Chiesa, non può non ricordare che la cosa più necessaria alla Chiesa di Dio è scegliere pastori ottimi e idonei; a maggior ragione, in quanto il signore nostro Gesù Cristo chiederà conto del sangue di quelle pecore che dovessero perire a causa del cattivo governo di pastori negligenti e immemori del loro dovere” (Sessione XXIV, Decreto "de reformatione", can. 1).

Il Concilio proseguiva: “Quanto a tutti coloro che per qualunque ragione hanno da parte della Santa Sede qualche diritto per intervenire nella promozione dei futuri prelati o a quelli che vi prendono parte in altro modo il santo Concilio li esorta e li ammonisce perché si ricordino anzitutto che essi non possono fare nulla di più utile per la gloria di Dio e la salvezza dei popoli che impegnarsi a scegliere pastori buoni e idonei a governare la Chiesa”.

C’è dunque davvero bisogno di un Sillabo conciliare con valore dottrinale ed inoltre c’è il bisogno dell’aumento del numero di pastori santi, coraggiosi e profondamente radicati nella tradizione della Chiesa, privi di ogni specie di mentalità di rottura sia in campo dottrinale, sia in campo liturgico.

Questi due elementi costituiscono l’indispensabile condizione affinché la confusione dottrinale, liturgica e pastorale diminuisca notevolmente e l’opera pastorale del Concilio Vaticano II possa portare molti e durevoli frutti nello spirito della tradizione, che ci collega con lo spirito che ha regnato in ogni tempo, dappertutto e in tutti veri figli della Chiesa cattolica, che è l’unica e la vera Chiesa di Dio sulla terra"

venerdì 21 gennaio 2011

tutti i papi sono da canonizzare?

Su questo blog mi sono già occupato piú volte del processo di beatificazione di Giovanni Paolo II: rispettivamente il 2 giugno 2009, il 2 gennaio 2010 e il 5 marzo 2010. Quanto dovevo dire, l’ho detto in tempi non sospetti, e pertanto ora potrei starmene tranquillo e limitarmi a constatare con piacere che alcune delle idee che esprimevo (allora controcorrente) vengono ora condivise da molti. In particolare, prendo atto con una certa soddisfazione che la distinzione fra “santità personale” e “scelte operative”, che in un primo momento sembrava dovesse essere applicata soltanto a Pio IX, Pio X e Pio XII, incomincia a essere usata anche nei confronti di Giovanni Paolo II.

Giunti a questo punto, però, con la firma del decreto di beatificazione da parte di Benedetto XVI, non ho alcuna difficoltà ad accettare il giudizio della Chiesa sulla santità di Giovanni Paolo II. Un giudizio che, oltre a fondarsi sui processi canonici (sul rigore dei quali è lecito nutrire qualche perplessità), trova secondo me una prova irrefutabile nel fatto che Wojtyla fu spiato per decenni dai servizi segreti comunisti, senza che essi riuscissero mai a incastrarlo in alcun modo: se solo ci fosse stata una seppur minima ombra nella sua vita personale, pensate che non ne avrebbero approfittato per distruggerne l’immagine?

Mi pare però che non sia fuori luogo interrogarsi su una questione che è stata posta nei giorni scorsi da Étienne Fouilloux su Le Monde. Lo storico francese fa una semplice constatazione storica: la tendenza a canonizzare i Papi è un fenomeno nuovo nella storia della Chiesa. Prima di Pio IX l’ultimo Papa divenuto santo era stato Pio V, che risale al Cinquecento. Dopo Pio IX sembrerebbe che tutti i Papi debbano essere canonizzati; solo di tre di loro non è in corso il processo di beatificazione: Leone XIII, Benedetto XV e Pio XI. E Fouilloux ne spiega i motivi (personalmente ritengo che Papa Ratti cadde in disgrazia non per aver sottoscritto i Patti Lateranensi, ma, al contrario, per aver rotto col regime fascista). Fouilloux dà una spiegazione “politica” del fenomeno: si tratterebbe di «una forma di autogiustificazione del papato». Si può discutere su tale interpretazione, anche se mi sembra che non le manchi un fondo di verità.

Ma, al di là della validità o meno di tale interpretazione, rimane il fatto, sul quale mi pare piú che lecito interrogarsi: è davvero necessario procedere alla canonizzazione di tutti i Papi? Non metto in discussione la santità personale degli ultimi Papi, ma mi pongo alcune domande.

1. Se, come pare, bisogna distinguere fra “santità personale” e “scelte operative”, e se non sono queste ultime a determinare la canonizzazione (visto che su di esse si può liberamente discutere), la santità personale degli ultimi Papi è cosí straordinaria da meritare il riconoscimento ufficiale della Chiesa? Non ci sono nella Chiesa persone piú sante di loro, che pure non arrivano (o non sono ancora arrivate) all’onore degli altari? Tanto per fare un paio di esempi, Mons. Giuseppe Canovai, un diplomatico come Roncalli, non potrebbe essere piú santo di quest’ultimo? E il Card. Stefan Wyszyński non potrebbe essere piú santo del suo figlio spirituale Wojtyla?

2. Si direbbe dunque che gli ultimi Papi vengono canonizzati non perché erano piú santi di altri, ma semplicemente perché sono diventati Papi. Si ha l’impressione che il pontificato sia diventato una specie di “lasciapassare” verso la beatificazione. Si potrà contestare a Fouilloux che la decisione di canonizzare i Papi sia una decisione “politica”; ma non si può contestare che è “politica” la decisione di non introdurre il processo di beatificazione di alcuni di loro: che cosa impedisce di considerare santi Leone XIII, Benedetto XV e Pio XI? Non credo che basti dire che Papa Ratti aveva un caratteraccio (anche San Girolamo lo aveva). Sappiamo il giudizio che dànno di Pio XI Don Divo Barsotti e il Card. Giacomo Biffi: il Papa piú grande non solo del secolo ventesimo, ma di tutti gli ultimi secoli (G. Biffi, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, 1ª ed., p. 51).

3. Vox populi, vox Dei! Qualcuno obietterà che la Chiesa non fa che riconoscere la “fama di santità” goduta dai Papi. Personalmente avrei qualche perplessità. Stiamo attenti a non confondere la vera devozione (si pensi, solo per fare un esempio, a quella per Padre Pio) con le reazioni emotive passeggiere, provocate spesso, soprattutto ai nostri giorni, dai mezzi di comunicazione. Non ho l’impressione che i fedeli abbiano grande devozione per Pio IX; anche nei confronti di Giovanni XXIII non esiste piú la venerazione che c’era negli anni immediatamente successivi alla sua morte. Temo che fra qualche anno, una volta scomparsa la generazione che lo ha conosciuto, possa succedere lo stesso anche con Giovanni Paolo II.

4. Proprio per il motivo appena espresso, non mi sembra fondato il timore di “papolatria” o di “culto della personalità”. Sta di fatto però che la tendenza attualmente presente nella Chiesa cattolica non aiuta certo lo sforzo ecumenico in corso. D’accordo che non dobbiamo rinunciare a nulla di quanto è autenticamente cattolico solo per “fare un piacere” ai fratelli separati; ma penso che sarebbe opportuno evitare quanto potrebbe provocare un loro rigetto, soprattutto se si tratta di fenomeni nuovi. Se è vero che il terreno piú adatto per l’ecumenismo è la tradizione, sarebbe opportuno ritornare, anche per quanto riguarda il papato, alla tradizione. Non c’è dubbio che il Papa svolga nella Chiesa un ruolo fondamentale; ma non è necessario, perché esso sia pubblicamente riconosciuto, ornarlo in tutti i casi col fastigio della canonizzazione. Questa dovrebbe rimanere, a mio modesto avviso, un’eccezione, da riservarsi solo ad alcuni casi straordinari, che per forza di cose non possono essere vagliati nel giro di sei anni.

giovedì 20 gennaio 2011

Card. Bartolucci: "Durante le liturgie dei defunti tutti intonavano il Libera me Domine, In Paradisum, il De profundis. Tutti rispondevano al Te Deum, al Veni creator, al Credo. Adesso, si sono moltiplicate le canzonette. Sono così tante che le conoscono in pochissimi, e non le canta quasi nessuno". Ipse dixit

30Giorni - Intervista al Card. Bartolucci
di Paolo Mattei

"Nel concistoro dello scorso 20 novembre Benedetto XVI ha creato cardinale monsignor Domenico Bartolucci. Nato il 7 maggio del 1917 a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze, Bartolucci è stato per più di quarant’anni, dal 1956 al 1997, maestro direttore perpetuo della Cappella musicale Pontificia “Sistina”. Successore di monsignor Lorenzo Perosi in questo incarico, il neoporporato, durante il pontificato di Giovanni XXIII, riorganizzò la Cappella musicale del Papa, le cui origini risalgono alla Schola cantorum romana dei tempi di Gregorio Magno.

Bartolucci, tra i più autorevoli interpreti di Giovanni Pierluigi da Palestrina – che della Cappella Sistina fu cantore –, è accademico di Santa Cecilia e prolifico compositore di musica sacra. Lo abbiamo incontrato a Roma, dove vive. "

Per leggere l'intevista per l'intero, vedere al link di 30Giorni

Mattei: Negli anni della sua direzione, la Cappella ha avuto anche un’intensissima attività concertistica.
Bartolucci: Abbiamo girato tutto il mondo. Nel ’96 siamo stati anche in Turchia. Cantammo l’Ave Maria a Istanbul, in latino, naturalmente, e la gente piangeva per la commozione. E non credo piangesse perché capiva la lingua…

M. Che intende dire?
B. Che dopo il Concilio Vaticano II il latino è stato messo da parte, ed è stato un errore esiziale. Con la promulgazione del Messale del 1970, i testi millenari del Proprium [l’insieme delle parti della messa che varia secondo l’anno liturgico o le memorie particolari, ndr] sono stati eliminati, e lo spazio per i canti dell’Ordinarium [l’insieme invariabile delle parti della messa, ndr] molto ridotto per l’introduzione delle lingue volgari.

M. È nota, eminenza, la sua avversione per questi cambiamenti.
B. Mi pare evidente come da allora la musica sacra e le scholae cantorum siano state definitivamente emarginate dalla liturgia, nonostante le raccomandazioni della constitutio de Sacra Liturgia del ’63 e del motu proprio Sacram Liturgiam, del ’64, nel quale il gregoriano è definito «canto proprio della liturgia romana».

M. Era auspicata la «actuosa participatio» del popolo.
B. Che da allora non c’è più stata.

M. Come sarebbe a dire?
B. Prima di questi “aggiornamenti” il popolo cantava a gran voce durante i Vespri, la Via Crucis, le messe solenni, le processioni. Cantava in latino, lingua universale della Chiesa. Durante le liturgie dei defunti tutti intonavano il Libera me Domine, In Paradisum, il De profundis. Tutti rispondevano al Te Deum, al Veni creator, al Credo. Adesso, si sono moltiplicate le canzonette. Sono così tante che le conoscono in pochissimi, e non le canta quasi nessuno. Poi va corretta la mia fama di essere contro la partecipazione del popolo ai canti.

M. E come?
B. Ricordando, per esempio, che già prima del Concilio io curai un repertorio di canti in lingua italiana da destinare alle parrocchie: Canti del popolo per la santa messa, si intitolava. Naturalmente è sparito dalla circolazione.

lunedì 17 gennaio 2011

Noi aderiamo con tutto il cuore e con tutta l’anima alla Roma cattolica ...



DICHIARAZIONE DI MONS. MARCEL LEFEBVRE DEL 21 NOVEMBRE 1974

Noi aderiamo con tutto il cuore e con tutta l’anima alla Roma cattolica custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie al mantenimento della stessa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità.

Noi rifiutiamo, invece, e abbiamo sempre rifiutato di seguire la Roma di tendenza neo-modernista e neo-protestante che si è manifestata chiaramente nel Concilio Vaticano II e dopo il Concilio, in tutte le riforme che ne sono scaturite.

Tutte queste riforme, in effetti, hanno contribuito e contribuiscono ancora alla demolizione della Chiesa, alla rovina del Sacerdozio, all’annientamento del Sacrificio e dei Sacramenti, alla scomparsa della vita religiosa, a un insegnamento neutralista e teilhardiano nelle università, nei seminari, nella catechesi, insegnamento uscito dal liberalismo e dal protestantesimo più volte condannati dal magistero solenne della Chiesa.

Nessuna autorità, neppure la più alta nella gerarchia, può costringerci ad abbandonare o a diminuire la nostra fede cattolica chiaramente espressa e professata dal Magistero della Chiesa da diciannove secoli.

“Se avvenisse - dice San Paolo - che noi stessi o un Angelo venuto dal cielo vi insegnasse altra cosa da quanto io vi ho insegnato, che sia anatema” (Gal. 1,8).

Non è forse ciò che ci ripete il Santo Padre oggi?

E se una certa contraddizione si manifesta tra le sue parole e i suoi atti, così come negli atti dei dicasteri, allora scegliamo ciò che è stato sempre insegnato e non prestiamo ascolto alle novità distruttrici della Chiesa.

Non si può modificare profondamente la lex orandi senza modificare la lex credendi.

Alla messa nuova corrisponde catechismo nuovo, sacerdozio nuovo, seminari nuovi, università nuove, Chiesa carismatica, pentecostale, tutte cose opposte all’ortodossia e al magistero di sempre.

Questa riforma, essendo uscita dal liberalismo e dal modernismo, è tutta e interamente avvelenata; essa nasce dall’eresia e finisce nell’eresia, anche se non tutti i suoi atti sono formalmente ereticali. È dunque impossibile per ogni cattolico cosciente e fedele adottare questa riforma e sottomettersi ad essa in qualsiasi maniera.

L’unico atteggiamento di fedeltà alla Chiesa e alla dottrina cattolica, per la nostra salvezza, è il rifiuto categorico di accettazione della riforma.

Per questo, senza alcuna ribellione, alcuna amarezza, alcun risentimento, proseguiamo l’opera di formazione sacerdotale sotto la stella del magistero di sempre, persuasi come siamo di non poter rendere servizio più grande alla Santa Chiesa Cattolica, al Sommo Pontefice e alle generazioni future.

Per questo ci atteniamo fermamente a tutto ciò che è stato creduto e praticato nella fede, i costumi, il culto, l’insegnamento del catechismo, la formazione del sacerdote, l’istituzione della Chiesa, della Chiesa di sempre e codificato nei libri apparsi prima dell’influenza modernista del Concilio, attendendo che la vera luce della Tradizione dissipi le tenebre che oscurano il cielo della Roma eterna.

Così facendo siamo convinti, con la grazia di Dio, l’aiuto della Vergine Maria, di San Giuseppe, di San Pio X, di rimanere fedeli alla Chiesa Cattolica e Romana, a tutti i successori di Pietro e di essere i fideles dispensatores mysteriorum Domini Nostri Jesu Christi in Spiritu Sancto.

Amen.

+ Marcel Lefèbvre,

21 novembre 1974, nella festa della Presentazione di Maria SS.ma