giovedì 31 marzo 2016

I nuovi clericali del perdono - Editoriale di "Radicati nella fede", Aprile 2016.



I NUOVI CLERICALI DEL PERDONO

Pubblichiamo l'editoriale del numero di Aprile 2016


I NUOVI CLERICALI DEL PERDONO
Editoriale di "Radicati nella fede" - Anno IX n° 4 - Aprile 2016

  La questione non è essere severi o misericordiosi, comprensivi o rigidi, evangelici o rigoristi; no la questione non è questa.

  La vera alternativa si pone tra essere cattolici o essere clericali.

  Il clericalismo è una brutta bestia che è dura, durissima a morire. Il clericalismo di ogni genere, di ogni colore, di ogni tendenza. Sì, perché il clericalismo, che è una delle tentazioni più forti nella Chiesa, si trasforma esteriormente, restando sempre fedele a se stesso. Si adatta alle mode, alle situazioni, perché il suo scopo è alimentare se stesso.

  Non vogliamo fare un trattatello sul clericalismo, non è il nostro scopo e non saremmo in grado di farlo; vogliamo solo coglierne qualche aspetto provocatorio, che inviti ad una riflessione.

  Il clericalismo, nella sostanza, è l'operazione che l'uomo compie per sostituirsi a Dio.

  Per il clericale non c'è al centro Dio, la sua verità, la sua legge e la sua grazia. Per il clericale al centro c'è l'uomo di chiesa, che sente il dovere di “gestire” per conto di Dio. Il clericale parte da una considerazione giusta, quella che fa dire che non si può andare a Dio senza la Chiesa; ma strada facendo perde Dio e resta solo con la Chiesa. È come un protestantesimo ribaltato, che finisce per avere la stessa erronea separazione tra la Chiesa e Dio: il protestante pretende di arrivare a Dio senza la Chiesa; il clericale pretende di fare gli interessi di Dio fermandosi alla Chiesa.

  Il clericale arriva a non porsi più la domanda “Cosa vuole Dio?”, ma si chiede sempre “Cosa possiamo fare perché la Chiesa sia accolta dalla società e non sia messa ai margini?”, “Cosa domanda oggi il mondo alla Chiesa?”.

  Solitamente, nel passato, l'accusa di clericalismo era rivolta ai cattolici “rigidi”, un po' conservatori, fedelissimi alla gerarchia e all'applicazione senza sconti delle norme ecclesiali.

  Oggi constatiamo che il clericalismo, che come animale camaleontico si adatta ad ogni terreno e clima, è proprio dei cosiddetti cattolici progressisti, che non solo si credono i veri interpreti della volontà di Dio, ma se ne ritengono i liberi formulatori.
  Ne è un triste esempio tutto il dibattito attorno al sinodo sulla famiglia, che ora viene prolungato sulla questione del perdono in occasione dell'anno giubilare.

  I nuovi clericali pensano di poter gestire politicamente la misericordia, per rendere più simpatica la Chiesa al mondo. Insomma, i clericali gestiscono il perdono di Dio come arma politica per introdursi nel salotto della società: perdonare sempre, non giudicare, comprendere, scusare, accogliere... sono i verbi di moda oggi tra le fila di coloro che vogliono instaurare un nuovo corso del cattolicesimo.

  E questi chierici, intellettuali laici o ecclesiastici che siano, sostenitori del perdono assicurato a tutto e tutti, motivano il loro agire con il fatto che i preti non devono sostituirsi a Dio, che unico ha il potere di giudicare.

  Prima di andare avanti chiariamo subito che non vogliamo cadere nell'inganno della severità per la severità: la Chiesa si è spinta sempre fino all'estremo per concedere il perdono, perché crede al perdono di Dio. La misericordia divina è infinita, perdona ogni peccato se trova in noi il dolore del pentimento: guai a noi se ponessimo limiti a questo perdono! Ma questo spingersi fino all'estremo possibile, non è mai una falsità retorica: la Chiesa si domanda sempre se ci siano le condizioni perché il perdono di Dio possa fruttificare in noi (ad esempio, il dolore del peccato e il proponimento di non commetterlo più...), e amministrando il perdono prima giudica se ci siano o no queste condizioni. Rinunciare a questo, da parte della Chiesa, sarebbe rinunciare al compito datole da Dio stesso.

 Proprio perché è di Dio, il perdono non può essere gestito dagli uomini, anche di chiesa, sganciato dalla stessa Rivelazione di Dio. Dio ha detto la sua volontà su di noi, ci ha ha dato la sua grazia ma anche la sua legge!
  Proprio perché è di Dio, i preti non possono sostituirsi a Lui, amministrando assoluzioni a chi non le chiede veramente; e le chiede veramente chi, anche tra mille difficoltà, prova il dolore del proprio peccato e vuole uscirne.
  E Dio, cui appartiene il perdonare, non è una pagina bianca nella vita degli uomini: ha detto la verità su di noi e chiede a noi di seguirla.

  Allora, clericali della peggior razza, sono tutti coloro che nella Chiesa, non amando il martirio, cercano un posto nel nuovo mondo, ridicolizzando il perdono in una automatica assoluzione, che diventa poi, ed è inevitabile, la benedizione di tutto. E così il male non si ferma e ne vanno di mezzo le anime, a partire dalle più fragili.

  Il perdono dei nuovi clericali è falso, è solo una parola vuota, che non cerca quello che Dio cerca in noi: il reale cambiamento, la santificazione possibile, la trasfigurazione nella grazia della nostra vita. Il clericale è pessimista sull'uomo e non ha fede nella grazia, non crede al cambiamento della persona, per questo non perde tempo: dà un facile perdono retorico ed esterno a tutti, e pensa ad altro, impegnato com'è nei salotti della modernità.

  Il cattolico crede invece nel cambiamento delle persone, nella salvezza delle anime, per questo lavora affinché ci siano nell'uomo le condizioni per accogliere, con frutto, la grazia che salva.

  I preti cattolici amministrano il perdono, che è e resta di Dio; amministrare significa lavorare perché il perdono possa essere reale nella persona e produrre frutti di bene e di santità.

  Così ha lavorato, per Dio e per le anime, un'infinita schiera di santi confessori.

martedì 29 marzo 2016

abbandonare la Dottrina è molto peggio che negarne alcuni punti

Come sempre P. Scalese centra il punto.....

La rivoluzione pastorale
 


A quanto è stato riferito, il 19 marzo scorso il Papa avrebbe firmato l’esortazione apostolica post-sinodale contenente i risultati degli ultimi due Sinodi dei Vescovi: la III assemblea generale straordinaria su “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione” (5-19 ottobre 2014) e la XIV assemblea generale ordinaria su “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo” (4-25 ottobre 2015). La pubblicazione è attesa per la metà di aprile.

 

Il 14 marzo il Card. Walter Kasper, nel corso di una conferenza tenuta a Lucca, ha annunciato: «Tra pochi giorni uscirà un documento di circa duecento pagine in cui Papa Francesco si esprimerà definitivamente sui temi della famiglia affrontati durante lo scorso sinodo e in particolare sulla partecipazione dei fedeli divorziati e risposati alla vita attiva della comunità cattolica. Questo sarà il primo passo di una riforma che farà voltare pagina alla Chiesa dopo 1700 anni». A leggere questo annuncio bomba del Cardinale tedesco, sembrerebbe di capire che l’esortazione apostolica costituirà uno “strappo” alla tradizione in materia di matrimonio e famiglia.

 
Il 19 marzo, vale a dire il giorno stesso della presunta firma del documento, il Prof. Alberto Melloni ha pubblicato su Repubblica un editoriale sull’argomento. L’esponente della “Scuola di Bologna” sembrerebbe rassicurarci: «Nessuna spaccatura. Ma una sintesi, tra rigoristi e progressisti. Francesco disorienta ancora una volta chi sperava di “incastrarlo” nel dibattito sinodale sulla famiglia e sulla comunione ai divorziati. O chi pensava di mettere in contraddizione, dentro il sinodo e nella platea dei fedeli, la supposta rigidità di una “dottrina” con una “apertura” che il Papa sintetizza nell’espressione “misericordia”. L’Esortazione post-sinodale su cui oggi Francesco apporrà la sua firma, conterrà proprio questa combinazione di elementi. E l’operazione di chi puntava su uno strappo è clamorosamente fallita». Si potrebbe eccepire: ma il Prof. Melloni che ne sa? Ma lasciamo perdere: da che mondo è mondo, c’è sempre stato qualcuno che, senza averne i titoli, risulta piú informato degli altri. Limitiamoci alle sue affermazioni, che sembrano fondarsi su una conoscenza non approssimativa del documento papale: non ci sarà alcuna rottura, ma ci troveremo di fronte a una superiore sintesi fra le diverse posizioni. Ah, beh, beh! Possiamo tirare un sospiro di sollievo: la rivoluzione è rimandata.

 

Se però proseguiamo nella lettura, il Professore aggiunge: «Il Pontefice, coerentemente con la riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale che è al cuore del concilio Vaticano II, pensa che una dottrina che non includa la misericordia sia solo una ideologia. E che una “apertura” che non abbia la pretesa di dire la verità che è la persona di Gesú Cristo, sia solo una operazione di marketing. Ha allora superato lo scoglio chiamando a responsabilità i vescovi a cui restituisce poteri effettivi, segnando, come ha detto il cardinale Kasper, una vera e propria “rivoluzione”». Sembrava che Melloni prendesse le distanze dalle anticipazioni di Kasper, e invece ecco che le conferma, arrivando al punto di parlare di una vera e propria “rivoluzione”. Sembrerebbe di capire che la rivoluzione consista nel restituire ai Vescovi “poteri effettivi”. Che significa? Che sulla questione dell’ammissione dei divorziati risposati alla comunione saranno i singoli Vescovi a decidere? È possibile; ma ciò non giustifica la frase del Cardinale: «Questo sarà il primo passo di una riforma che farà voltare pagina alla Chiesa dopo 1700 anni». Perché proprio millesettecento anni? Forse che millesettecento anni fa erano stati tolti ai Vescovi “poteri effettivi”? Non mi risulta. Se sottraiamo a 2016 millesettecento, otterremo 316, una data non particolarmente significativa. Nel 313 c’era stato l’Editto di Milano. Ma allora che voleva dire Kasper? Che finalmente è terminata l’era costantiniana? Non vedo che cosa c’entri. O non sarà forse un riferimento al 325, anno in cui si svolse il primo concilio ecumenico, quello di Nicea? Sí, ma che c’entra?

 

Rileggiamo con attenzione l’inizio del secondo paragrafo dell’editoriale del Prof. Melloni: «Il Pontefice, coerentemente con la riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale che è al cuore del concilio Vaticano II...». Ah, ecco, abbiamo forse trovato il bandolo della matassa: il Professore fa riferimento al Concilio e alla sua pretesa “riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale”. Il Vaticano II è stato il primo concilio pastorale della Chiesa; fino ad allora i concili erano stati o dottrinali o disciplinari. Certamente il primo di essi, il Concilio di Nicea, fu un concilio dottrinale. Ecco allora che si incomincia a capire perché dopo millesettecento anni la Chiesa volterà pagina: perché finalmente abbandonerà l’attitudine dottrinale, assunta a Nicea, per assumerne una nuova, completamente pastorale. Sí, ma questa svolta non era già avvenuta cinquanta anni fa, appunto con la celebrazione del primo concilio pastorale? No, perché quello fu solo un tentativo. Fallito. Si voleva fare un nuovo tipo di concilio, pastorale appunto, per rompere con la tradizione plurisecolare della Chiesa; Papa Giovanni, ingenuamente, senza rendersi conto della manovra, abboccò; ma provvidenza volle che non potesse portare a termine il Concilio; il testimone passò a Paolo VI, il quale, senza sconfessarne l’iniziale fisionomia pastorale, diede al Concilio una chiara impronta dottrinale, seppure un po’ sui generis

 

La svolta, che doveva avvenire — ma non avvenne — cinquant’anni fa, a quanto pare, si realizzerà con l’esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco: al centro di essa evidentemente non saranno piú le questioni dottrinali, come era avvenuto finora, ma esclusivamente l’attenzione, tutta pastorale, per la situazione concreta in cui si trovano gli uomini del nostro tempo. Se cosí è, si può parlare di una vera e propria “rivoluzione”? Sarebbe una rivoluzione se si manomettesse la dottrina; ma, visto che la dottrina non viene toccata, che male c’è a fissare l’attenzione sui problemi concreti della vita di ogni giorno?

 

E invece si tratta proprio di una rivoluzione, perché non tocca questo o quel punto della dottrina (in tal caso sarebbe, semplicemente, un’eresia), ma consiste in un cambio radicale di atteggiamento, di prospettiva: una vera e propria “rivoluzione copernicana”. È vero che la dottrina non viene toccata; ma semplicemente perché non interessa piú: è inutile; peggio, dannosa. Avete sentito il Prof. Melloni: «Il Pontefice … pensa che una dottrina che non includa la misericordia sia solo una ideologia». La dottrina è tendenzialmente ideologica; la dottrina divide, provoca le guerre di religione; la dottrina è l’arma di cui si servono i dottori della legge, gli scribi e i farisei per giudicare e condannare. Meglio dunque preoccuparsi della vita concreta, incontrare le persone nella loro condizione reale, cercare ciò che unisce, collaborare con tutti, a prescindere dalle differenze che ci distinguono. Questo atteggiamento può essere definito, appunto, “pastorale”. 

 

Bisognerebbe che qualcuno, prima o poi, si decidesse a fare la storia di questo nuovo orientamento della Chiesa. Giustamente Mons. Brunero Gherardini, nella sua conferenza al convegno sul Vaticano II (16-18 dicembre 2010), paragona la pastorale all’Araba Fenice (“che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”), ma poi non ricostruisce l’origine e il successivo sviluppo storico del nuovo approccio pastorale della Chiesa. A me sembra, ma potrei sbagliarmi, che esso sia in qualche modo connesso con l’influsso della filosofia moderna sulla teologia cattolica, in modo particolare da parte dell’idealismo e del marxismo. Questo è particolarmente evidente nella teologia della liberazione e nella teologia politica, dove viene chiaramente dichiarato il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia (su tale contrapposizione si vedano l’istruzione della CDF su alcuni aspetti della “teologia della liberazione” Libertatis nuntius del 6 agosto 1984, parte X, n. 3, e la conferenza del Card. Joseph Ratzinger tenuta in Messico nel maggio 1996, in particolare il quinto paragrafo); ma potrebbe aver determinato anche il nuovo orientamento pastorale. L’argomento, ovviamente, andrebbe approfondito. In ogni caso, un dato è certo: non ci troviamo di fronte a un atteggiamento ideologicamente neutro e spiritualmente innocuo; esso è portatore di una carica fortemente ideologica. La dottrina può, certo, trasformarsi in ideologia (quando, da descrizione oggettiva della realtà, quale dovrebbe essere, si risolve in teoria astratta che tenta di imporsi alla realtà); il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia è, in sé, ideologia allo stato puro.

 

Non sta a me emettere giudizi, ma ho l’impressione che ci troviamo di fronte all’ultimo tentativo di assalto alla Chiesa da parte del modernismo. Finora il modernismo non era riuscito a imporsi, perché si era sempre mosso su un piano dottrinale, e su questo piano risultava relativamente facile alla Chiesa individuare le eresie e condannarle. Ecco allora che, nel corso del Novecento, il modernismo ha cambiato strategia (evolvendosi cosí in “neomodernismo”): se continuiamo ad attaccare la dottrina, non andremo da nessuna parte; la dottrina lasciamola cosí com’è; semplicemente, ignoriamola; perseguiamo i nostri obiettivi percorrendo un’altra strada, la via pastorale. Per motivi pastorali, è possibile fare tutto ciò che la dottrina proibisce. Una volta ammesso ciò che finora era proibito, a poco a poco, diventerà scontato e pacificamente accettato da tutti; la dottrina rimarrà un’anticaglia del passato, da conservare in museo, sotto una campana di vetro. E la rivoluzione è fatta. Senza spargimento di sangue.


tratto da: http://querculanus.blogspot.it/2016/03/la-rivoluzione-pastorale.html

domenica 27 marzo 2016

Buona e Santa Pasqua a tutti!