sabato 14 aprile 2012

Crsto è risorto ~ Christos Anesti ~ Christ is Risen ~ Χριστός Ανέστη

Proprio questa sera si ripete uno dei più eccezionali miracoli che continuano fino al nostro tempo: è la discesa del Fuoco Santo sulla Tomba del Signore a Gerusalemme nel corso del Vespro che il Grande Sabato apre la Domenica della Resurrezione. Questo miracolo è conosciuto in corso dei molti secoli dall'antichità.Nella vigilia di Pasqua, durante il Vespro della sera del Grande e Santo Sabato, il Patriarca Ortodosso di Gerusalemme entra nel Sepolcro con le candele spente, dopo aver tolto tutti i paramenti eccetto lo sticario ed essere stato accuratamente perquisito dalle autorità civili, prima turche ora israeliane, senza mitra e prega davanti alla Tomba. Anche l'edicola del Sepolcro è stata perquisita e fermata con sigilli su cui tutte le Comunità comproprietarie della basilica, nonché le autorità civili appongono l'impronta del loro timbro. Subito o dopo qualche ora di preghiera, sul marmo che ora ricopre la lastra del Sepolcro Glorioso appaiono scintille come perline o gocce luminose. Il patriarca raccoglie queste gocce di Fuoco con l'ovatta e accende le candele. In un istante il Fuoco si propaga nella chiesa. Meraviglioso è che il Fuoco non brucia per circa 33 minuti, né abiti, né capelli. Molti pellegrini raccontano che hanno provato ad infuocare la propria barba senza riuscirci. Chiunque può andare a Gerusalemme e constatare di persona.

Utinam!

Le Figaro: Roma e Ecône
sul punto di raggiungere un accordo
La firma di un documento che stabilisce le relazioni tra la Santa Sede e i discepoli di Mons. Lefebvre è una questione di giorni.

Ufficialmente, il Vaticano attende la risposta di Mons. Bernard Fellay, il superiore dei lefebvriani. Appena ricevuta a Roma - «è una questione di giorni, e non più di settimane», - si indica in Vaticano, essa sarà «immediatamente» esaminata. Se è conforme alle aspettative, la Santa Sede annuncerà molto presto un accordo storico con questo gruppo di fedeli, conosciuto sotto il nome di «integralisti».

Ma ufficiosamente, e con la massima discrezione, i designati hanno lavorato, da entrambe le parti, a «raggiungere un accordo». Nelle ultime settimane, sono stati conclusi i punti finali tra Roma e Ecône, al fine di rispondere meglio alle richieste di «chiarimenti» sollecitati dal Vaticano lo scorso 16 marzo.

Una trattativa molto delicata
È così che la risposta finale di Mons. Fellay, estremamente ponderata e ben preparata, dovrebbe risolvere - questa volta, davvero - una trattativa molto delicata rilanciata da Benedetto XVI dopo la sua elezione, nel 2005.

La commissione «Ecclesia Dei», collocata all'interno della Congregazione per la Dottrina della Fede, il ministero più importante in Vaticano, è responsabile di questo dossier. Ma esso è anche, a questo punto, seguito personalmente da Benedetto XVI. Ed egli vuole un accordo.

Il che lascia pensare le persone ben informate che un risultato positivo sta davvero per realizzarsi. Anche a costo della permanenza di divergenze profonde riguardanti il ​​Concilio Vaticano II.

Divergenze completamente ammesse, del resto, dal Papa. Egli ha posto il suo pontificato nell'ambito di tale linea di reinterpretazione del Concilio Vaticano II. Secondo due linee: eliminare lo spirito di «rottura» del '68 ed evitare di opporre la più alta tradizione della Chiesa alla sua modernità.

Cinquanta anni di opposizione
Lunedì, Benedetto XVI compirà 85 anni. Egli è stanco. I suoi collaboratori non lo non nascondono. Questa settimana si è dovuto riposare a Castel Gandolfo dal suo viaggio estenuante in Messico e Cuba, poi dalle lunghe celebrazioni della Settimana Santa. Dovrebbe tornare in Vaticano Venerdì sera. Priorità sulla sua agenda: questa decisione sulla vicenda lefebvriana. Sarà una delle più pesanti del pontificato.

Da cinquanta anni, i Lefebvriani sono in opposizione con la Santa Sede sul Vaticano II. E in rottura giuridica formale, dal giugno 1988, quando Mons. Marcel Lefebvre ha ordinato quattro vescovi, nonostante il divieto del papa.

Joseph Ratzinger fu incaricato a suo tempo da Giovanni Paolo II delle trattative con il vescovo ribelle. Egli non ha mai accettato questo fallimento. Né, una volta diventato Papa, la prospettiva di uno scisma duraturo nella Chiesa.

Benedetto XVI spinge la Chiesa a riconciliarsi con se stessa
Uno dopo l'altro, Benedetto XVI ha demolito, con tutta la sua autorità papale, gli ostacoli che hanno impedito una completa riconciliazione con i discepoli di Mons. Marcel Lefebvre. E, se un accordo definitivo è annunciato nei prossimi giorni, la parte essenziale del lavoro è stata già messo in atto da questo papa:
  • Il ripristino nel 2007 - come rito «straordinario» nella Chiesa cattolica - della Messa detta in latino, cioè, secondo il Messale di Giovanni XXIII in vigore prima del Concilio Vaticano II.
  • La rimozione, nel 2009, delle scomuniche che colpivano i quattro vescovi ordinati da Mons. Lefebvre.
  • L'avvio, in quello stesso anno, delle discussioni dottrinali tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X sul Concilio Vaticano II.
L'apparente fallimento di queste ultime, un anno fa, aveva dato l'impressione di un completo fallimento della trattativa.

Il dissenso dottrinale tra i lefebvriani e Roma per quanto riguarda il Concilio Vaticano II è effettivamente abissale. Ma si era dimenticato che l'oggetto di quelle conversazioni non è stato trovare un accordo, ma stabilire l'elenco delle divergenze e delle loro ragioni.

È quindi in piena consapevolezza e, dunque senza alcuna ambiguità, che Roma intende suggellare questa unità ritrovata con Ecône, roccaforte dei lefebvriani in Svizzera. Essa probabilmente comporterà la creazione di uno statuto speciale - una «prelatura personale» - già sperimentato dall'Opus Dei. Questa struttura garantisce una vera autonomia di azione e nello stesso tempo la condivisione della fede cattolica. Il suo superiore risponde direttamente al papa, e non ai vescovi.

Ma la vera «rivoluzione» che Benedetto XVI cerca di lasciare agli occhi della storia della Chiesa cattolica è altrove. Essa non tocca aspetti periferici della Chiesa cattolica. Questi d'altronde fanno già sobbalzare i gruppi contrari a questa riconciliazione. I cosiddetti «progressisti» della Chiesa conciliare che vedono le «conquiste» del Concilio Vaticano II rimesse in discussione. I cosiddetti «ultras» dei ranghi lefebvriani che vedono in questo un tradimento e un compromesso con la Roma modernista.

Questa rivoluzione mira ad una visione allargata della Chiesa cattolica. Benedetto XVI, il teologo, non ha mai ammesso che nel 1962 la bimillenaria Chiesa cattolica si discostasse dalla cultura e dalla forza del suo passato. Più che una riconciliazione con i lefebvriani, egli si ripropone, con questo gesto, una riconciliazione della Chiesa cattolica con se stessa

venerdì 13 aprile 2012

Passio Christi, Passio Ecclesiae



riportiamo da "Riscossa Cristiana", quest'intervento del Prof. Vassallo



PASSIO CHRISTI, PASSIO ECCLESIAE
 di Piero Vassallo

Dalla lettura dell'opera di Romano Amerio, monsignor Brunero Gherardini deduce l'evidenza dell'unicità della passione di Cristo e della Chiesa, "unico essendo il martirio che, nella corsa del tempo, s'accanisce sul Cristo mistico con quella medesima virulenza con cui a suo tempo s'accanì contro le carni immacolate del Cristo fisico" (Cfr.: Aa. Vv. Passione della Chiesa. Amerio e altre vigili sentinelle, Il Cerchio, Rimini 2011, pag. 21).
Causa della passio Ecclesiae, che si rinnova dopo il Concilio Vaticano II, è l'illusione di poter trovare un'intesa con il pensiero dei moderni apostati. Tale infondata speranza, si è impadronita di una parte della gerarchia, trascinandola nel gorgo del più disarmante ottimismo-buonismo.
Sostiene Gherardini: "Qualcosa di più sottile e di più diabolico [della persecuzione cruenta, che, peraltro il mondo moderno non fa mancare ai fedeli] stringe la Chiesa in una strozza mortale, nell'intento di soffocare il rapporto della mistica Sposa con lo Sposo celeste, d'aprirla all'amplesso neomodernistico e soffocante della cultura contemporanea pacificandola con essa e con il mondo totus in maligno positus (1Gv 5,9)".
L'idea della pace con il mondo è penetrato nel candido e incolpevole ottimismo del Beato Giovanni XXII. Nell’Allocuzione inaugurale del Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia, papa Roncalli, forse consigliato da teologi avventurosi, suggerì due opposti indirizzi: un Concilio finalizzato alla risoluta, intransigente conferma dei dogmi, “il Concilio deve condurre ad un sempre più intenso rafforzamento della fede”,e un Concilio orientato ad evitare la condanna degli errori moderni, visto che “ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.
Il cardinale Giuseppe Siri comprese l'assoluta infondatezza dell'ottimismo in circolazione nell'aula conciliare ed avvertì tempestivamente che dell'ideologia comunista (e dell'intera filosofia moderna) si stava impossessando la scolastica francofortese, impegnata a trasformare l'ateismo scientifico di Marx in una religione perfettamente capovolta e perciò irriducibile al dialogo con la verità cattolica. Il grande arcivescovo fondò la rivista Renovatio, per indicare la via d'uscita dallo stato d'animo conformista e dai suoi tortuosi percorsi: la comprensione dell'arretramento del pensiero laico alla superstizione nichilista.
Al fine di rinnovare l'ideologia comunista i francofortesi, infatti, avevano trovato sostegno nell’esperienza gnostica del mondo e perciò rammentavano che nel linguaggio dell’eresia, cosmo vuol dire anche ordine e legge, “ma il segno che questi vocaboli possiedono in greco viene invertito. L’ordine diventa l’ordinamento rigido e ostile, la legge diventa la legislazione tirannica e malvagia. ... Il limite che nello schema cosmologico antico era garante dell’ordine armonico, nell’esperienza gnostica diventa la barriera esteriore che bisogna superare”.
Di qui il rovesciamento della dottrina della salvezza nell'assoluta empietà:“Il concetto di Aldilà nel linguaggio gnostico possiede un significato evidente. L’Aldilà è il luogo del Dio oltremondano, che è concepito come un contro-principio rispetto al mondo. I predicati gnostici di Dio – inconoscibile, innominabile, indicibile, illimitato, non esistente ecc. – sono predicati negativi. Devono essere intesi come negazione del mondo e determinano polemicamente l’opposizione del Dio oltremondano nei confronti del mondo”.
Alla luce della novità rappresentata dal nichilismo francofortese, la ricerca del dialogo si riduceva all'affannoso inseguimento di una chimera.
Le c. d. avanguardie cattoliche si sono estenuate nel tentativo di evangelizzare un sistema filosofico in rovinosa fuga da se stesso.
Animata da un giudizio irrealistico e ingannevole, la rincorsa del marxismo mutante ha suggerito l'abbandono della filosofia tomista, ha impoverito la liturgia e ha alterato la teologia.
Matteo D'Amico al proposito rammenta le conseguenze esiziali della rinuncia alla dottrina di San Tommaso e dimostra che la passio Ecclesiae ha origine dal cedimento a una concezione dell'essere, dell'Assoluto e della verità di tipo hegeliano, immanentistico, dialettico, storicistico, segnata dal primato del divenire e del negativo.
Quando si riflette sulle omelie del cardinale Siri e sui saggi di Julio Meinvielle, Gianni Baget Bozzo, Ennio Innocenti e Massimo Borghesi, che dimostrano il decisivo influsso dello gnosticismo nella filosofia di Hegel, diventa facile valutare la potenza dell'abbaglio che ha dominato il dialogo dei teologi progressisti con il mondo moderno.
Opportunamente padre Cavalcoli rammenta il rovesciamento della dialettica del peccato e della redenzione attuato da Karl Rahner e il suo disastroso effetto nella coscienza dei fedeli aperti alla novità: "Il peccato esiste, dice Rahner, ma si annulla da sé, perché comunque la tendenza verso Dio è necessaria ed invincibile perché caratterizza l'essenza stessa dell'uomo. Il sì prevale sempre sul no. Da qui la convinzione di Rahner che tutti si salvano. ... Ci si può domandare: se il peccato già elimina se stesso a causa di questa dialettica fra il sì e il no a Dio, che bisogno c'è allora della redenzione di Cristo?"
La libera circolazione di errori devastanti è una delle cause del dramma cattolico in atto dopo il Vaticano II. E una causa che può essere rimossa, quando (al seguito del suggerimento del vescovo di San Marino, Luigi Negri) si riconosca apertamente che "E' giusto guardare al Concilio, interpretarlo e quindi affrontare anche coraggiosamente quei punti per cui è necessario un ulteriore approfondimento, ma certamente senza cedere alla tentazione ideologica".
Il nodo da sciogliere è appunto l'ostinata presenza di cascami ideologici come tematiche nelle culture dei fedeli. Di qui infatti discende una divisione incline a scadere nel settarismo e nel cannibalismo. L'estinzione delle ideologie, la loro discesa nel sottosuolo del nichilismo ha chiuso le falle ecumeniche aperte dall'ottimismo galoppante negli anni del Vaticano II.
I fantasmi del comunismo e dell'illuminismo liberale, purtroppo, si aggirano ancora in associazioni autistiche consacrate alla contrapposizione feroce o all'intesa incauta con figure della modernità sorpassate dalle nuove e più velenose tematiche.
Nelle scolastiche intitolate alla lite nel vuoto, la scarsa informazione, l'impettita autostima e la smania esibizionistica generano lo zoccolo duro della dissidenza e della rivalità fine a se stessa.
Lanciato da fronti opposti, il recente, esemplare attacco cattolico al professor Roberto De Mattei è l'emblema di una teologia indirizzata all'umiliante guerra contro l'amico.
Il rimedio all'errore infantile degli apprendisti settari è magistralmente indicato da Luigi Negri: "è la Chiesa che dobbiamo amare come il luogo dove il Signore torna continuamente presente. E' un evento unico, assolutamente irriducibile a qualsiasi altro evento della vita e della storia."
La coscienza di appartenere a Cristo nella Chiesa, sollecita i fedeli ad affrontare efficacemente il nodo della discordia: "Se si devono indicare linee di fatica e sacrificio, di dialogo e confronto anche duro, ciò deve essere fatto, ma nel tentativo di cercare di mettere il Concilio dentro il flusso della vita della Chiesa che vuole rendere possibile oggi l'incontro fra Cristo e il cuore dell'uomo".

giovedì 12 aprile 2012

miti che si infrangono

APPUNTI SUL “MAGISTERO”
DEL PRIORE DI BOSE

di Pietro De Marco



Due cose colpiscono nella querelle sorta attorno alle critiche mosse da Antonio Livi a Enzo Bianchi, occasionate da un articolo di Bianchi, su “La Stampa” dell’11 marzo, sulla nuova edizione di “Essere cristiani” di Hans Küng.

La prima è la difficoltà di Enzo Bianchi a valutare autocriticamente la portata dei suoi interventi, sia che cadano su un terreno ricettivo (dove attecchiscono senza che lui per primo ne possa controllare i frutti) sia che arrivino a menti e ad ambienti critici nei suoi confronti, ove vengono di regola, ma legittimamente, valutati con allarme se non con ostilità. Su questo punto tornerò.

La seconda è la preziosa occasione di riflessione e mediazione che “Avvenire” poteva mettere a frutto, ma ha mancato. Marco Tarquinio, il direttore del quotidiano della conferenza episcopale italiana, ha perso (e in modo irragionato e scomposto: da vecchio collaboratore del giornale me ne dolgo) l’opportunità di offrire finalmente uno spazio al severo, duro, dibattito che percorre la Chiesa cattolica da alcuni anni su questioni della massima importanza: in primo luogo la quotidiana diluizione della “fides quae” (cioé dei contenuti della dottrina della fede) che avviene per molte vie e, non secondariamente, attraverso la manipolazione militante o abitudinaria del Vaticano II.

L’”Avvenire” di Tarquinio preferisce invece incrementare nei cattolici italiani una koinè magmatica di “sociale” e “spirituale”, senza domandarsi se il bagno nell’emozionale attivistico e nei fasti dell’ecclesialese che – con eccezioni – vi dominano, non si accodi alla perdita di rigore dell’intelletto cattolico di questi anni, e non stenda una patina opaca anche sulla forza e determinatezza dell’insegnamento papale.

Può darsi che la valutazione che Livi ha dato della “predicazione” di Bianchi (in effetti inarrestabile, senza tregua, per cento canali) abbia ecceduto in durezza. Livi recentemente ha pubblicato un importante volume sulla teologia come scienza della fede (contro le derive di quella “filosofia religiosa” venduta per teologia che infesta le facoltà cattoliche e molta produzione teologica), libro di cui “Avvenire” non ha finora parlato e che le librerie cattoliche si guardano bene dal mettere in evidenza. Da un’intelligenza esercitata al rigore come quella di Livi non sorprende che sia arrivata una reazione dura, nell’attimo in cui il fenomeno deprecato gli è sembrato superare ogni soglia di tollerabilità.

Questo traboccare, lo sappiamo, può essere provocato anche solo da una goccia. Anch’io avevo messo da parte l’articolo di Bianchi su Küng: un episodio, non così minore, di mancanza di responsabilità non solo nei confronti dei tanti che bevono le sue parole ma della sua stessa intelligenza. Chiedo: si può scrivere di Hans Küng su un giornale (che prevede una quota di lettori occasionali e non sistematici di ciò che si scrive) senza prendere esplicitamente da lui le distanze, e non tanto per opportunità ma per l’obiettiva pericolosità di un autore che ha prodotto danni enormi alla Chiesa? Non è legittimare, anzi incentivare presso il lettore (magari un “sincero cercatore di Dio”) la lettura di qualsiasi altra cosa di Küng, dai pamphlet più insidiosi e in odore di eresia alle piatte eppure maliziose compilazioni storico-religiose, dalle costanti e insolenti aggressioni a Roma ai velleitari progetti di “etica mondiale”? Non prevale in Bianchi, in questi casi, una presunzione di “magistero” divenuta talmente automatica da mettere, come Livi ha denunciato, sullo stesso piano Küng e Roma, giocando cioè a una sorta di superiore terzietà? Una goccia, magari, nel mare degli interventi del priore di Bose, eppure un brutto sintomo.

A suo tempo avevo lasciate “pro bono pacis” nel mio cassetto delle annotazioni sulle pagine iniziali de “La differenza cristiana”, un lettissimo volumetto di Bianchi pubblicato da Einaudi nel 2006. Ora è forse il momento di usarle. Nessun processo all’autore; ma una conferma di quell’enunciare incoerente o equivoco che, a più modesti livelli, sta corrompendo il laicato colto e settori del clero delle generazioni di mezzo, anzitutto.

Si possono sottolineare già le coordinate offerte dall’indice del libro: 1. “Una laicità del rispetto”, ove si indulge in formule problematiche come “laicità, una garanzia per la religione”, o “chi minaccia il cristianesimo” fino a “l’etica, un dono dell’esperienza”; poi: 2. “La differenza cristiana” in cui, dopo aver ricordato che “la fede non si impone”, si insiste sul dato che “i cristiani non sono perseguitati” e si proclama: “Siate profeti, ma non entrate in politica”; per finire con: 3. “Dialogare e accogliere l’altro”, ove colpisce la formula “un solo Dio, molti modi per dirlo” e altre del tipo “sei diverso da me, quindi ti accetto”. Verrebbe da dire sorridendo che siamo nel cuore del cattolicesimo politicamente corretto. Ma non è più l’ora di sottovalutare il peso di alcune di queste formule che, per usare un’immagine, non stanno a galla ma trascinano sul fondo coloro che vi si aggrappano.

Sottolineo subito la piega anti-apologetica di Bianchi. La tensione e l’assuefazione anti-apologetica non vanno considerate una virtù. Come è enorme la ricchezza che l’apologetica ha donato alla Chiesa (dai primi Padri ad Agostino, nei secoli, fino agli intelletti che guidarono le grandi conversioni nella cultura europea tra Otto e Novecento), così il suo mancato esercizio ha snervato, reso incolto e intimistico l’intelletto cristiano comune. Per Bianchi invece, nella da lui temutissima sfida laici-cattolici, la Chiesa rischierebbe di sentirsi “costretta ad esprimersi” (!) in modo apologetico, e con ciò a non essere più capace di sostenere in termini di pacifico confronto la sua collocazione nella “compagnia degli uomini” (pp. 3-4).

Naturalmente, per Bianchi, molto della conflittualità è da imputare alla Chiesa, a un suo “presenzialismo” che privilegia “tematiche e linguaggi di scontro”, una opzione – si suggerisce – gratuita e irresponsabile. Proseguendo su questa strada “ne patirebbe la stessa evangelizzazione” (p. 4). Da ciò il lettore ricava che il parlare a voce alta dei due recenti pontificati e di alcune conferenze episcopali non ha ragion d’essere nel merito ed è contrario all’autentica pastorale.

Sintomatico esordio per tutto il volumetto: assenza di diagnosi dell’attualità storica – che la Chiesa dovrebbe leggere meramente come un’astorica “compagnia” – e una concezione della differenza cristiana esonerata, forse perché immunizzata, dalla dimensione critica, se non quella indotta dall’intelligencija e molto praticata da Bianchi: libertà civili, democrazia, pacifismo, declamazione giustizialista, pauperista e simili.

Certo, Bianchi condanna l’eccesso libertario (”reificazione della libertà”), poichè i cristiani credono che in ogni essere umano vi sia una legge, un ethos non rivelato, non scritto, non codificato, eppure “presente ed eloquente”. In questo consisterebbe l’universalità stessa dell’umano. La Chiesa è di conseguenza “presidio di autentico umanesimo”. Ma come? Egli dice: come spazio di dialogo e di recupero di principi condivisi, luogo di confronto tra etiche e atteggiamenti individuali. In Bianchi, la concessione alla Chiesa d’essere presidio di umanesimo e l’accettazione di una sua funzione pubblica (“patrimonio di sapienza non destinato a restare negli spazi del culto privato”) prendono subito la strada vetero-habermasiana dell’agire comunicativo. Non si capisce come possa un “presidio” coincidere a priori con un’arena o una funzione di confronto di etiche e atteggiamenti individuali: arena ove la materia da presidiare non può che essere questa stessa funzione dialogica, in sé protettiva di qualsiasi contenuto e atteggiamento messo correttamente in campo. Neppure Habermas è più convinto che la Verità sia mero “Diskurs”.

D’altronde un “presidio”, se il termine non è solo retorico, suppone un pericolo e un’azione di prevenzione e difesa; che è altro dall’apertura di spazi dialogici fini a se stessi. Sfugge a Bianchi che solo l’agire recente, anche conflittuale, della Chiesa è la negazione di quel confinamento al culto privato che egli teme, e che la dimensione di “setta per quanto influente” è proprio ciò che la recente politicità della Chiesa cattolica nega. Ma chi legga attentamente Bianchi sa di non potersi attendere molta consequenzialità argomentativa in un quadro ideologico pur coerente.

Per Bianchi, naturalmente, non v’è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e attaccamento all’istanza di laicità. Il priore critica la laicità alla francese, ma la “giusta laicità” sarebbe di “grande giovamento alla Chiesa”. I cristiani vi troverebbero protezione contro l’utilizzo della fede come “religione civile”, termine con cui egli designa del tutto erroneamente l’uso strumentale della religione da parte di quanti “misconoscono nuovamente la distinzione tra Dio e Cesare”. Sullo sfondo del conflitto attuale egli evoca ancora gli eccessi del cesaropapismo e della teocrazia latina medievale. Vi sarebbero, secondo Bianchi, forze che vogliono un ruolo dominante della Chiesa, cioè che non vogliono che la Chiesa mantenga viva la forza profetica, la memoria eversiva del Vangelo. Le istituzioni religiose verrebbero piegate alla “mediazione”, con una vicendevole “strumentalizzazione” di poteri religiosi, politici e sociali (pp. 14-15). Tutto ciò sarebbe contrario alla parola, profezia liberante, che chiede la rinuncia agli idoli societari.

Questi luoghi comuni non rappresentano solo una confusione estrema – come qualsiasi studioso coglie – tra teocratismo, disciplinamento religioso della società, religione civile, come tra mediazione politica e “strumentalizzazione” delle parti. In tutto il corso del libretto si invocano, come formule di rito, dialogo, ethos e spazio sociale condiviso; e naturalmente “integrazione”, nelle scontatissime pagine sui rapporti interetnici. Paradossalmente, questo corpo retorico che si sviluppa attorno all’espressione “presidio” è affine, senza che Bianchi lo sospetti, al vero quadro ideologico della moderna religione civile: “religione” subordinata alla “volonté générale” di una comunità roussoviana senza conflitto.

Dunque la Chiesa sarebbe “presidio di autentico umanesimo” da esercitare nello spazio pubblico; ma presidio vacuo, poiché ogni sua azione autorevole, se in contrasto con la “volonté générale”, sarebbe in sé, per Bianchi, “spegnimento di profezia” e “sacrificio agli idoli societari”. Nell’idea che “la profezia della Chiesa” si dia nella conformità alla “volonté générale” hanno creduto, a lungo, tutte le subculture cristiane subalterne dell’intelligencija rivoluzionaria. Oggi è tutto dimenticato, ma la religione civile che pretende il dominio è sempre quella dell’intelligencija (dei diritti emancipatori, oggi), mentre è difficile per la Chiesa esercitare il proprio “presidio” pubblico. Né sarà possibile che lo eserciti mai se seguirà il canone di Bianchi: “I pastori chiedono di essere ascoltati, consigliano, mettono in guardia ma non pretendono che la legge evangelica [ma non era il diritto naturale, "ethos non rivelato, non scritto, eppure eloquente" universalmente? - p.d.m.] sia tradotta in legge vincolante per tutti”.

“Evangelizzazione e dialogo, dunque!”. Ma come e su che cosa, se la preoccupazione maggiore è che “la definizione della verità [per Bianchi “prodotta e definita dalla Chiesa stessa” (p. 92)] rischia di sostituirsi alla Verità vivente, Gesù Cristo risorto”? La sudditanza ai “valori” dell’azione politica dell’intelligencija unita alla de-dogmatizzazione sono una pericolosa miscela, che non sarà Bose a trattenere sull’orlo del precipizio fideistico. Nel suo più recente libro “Per un’etica condivisa”, pubblicato nel 2009, il priore di Bose mostra, infatti, che anche in lui la scivolata prosegue. A p. 46 generosamente sostiene che è ancora possibile “raggiungere al cuore del loro vissuto ordinario” gli uomini di oggi: “È ancora possibile rendere conto di un legame vitale con una presenza invisibile che i credenti chiamano Dio. Certo, per fare questo appare oramai infruttuosa se non addirittura impraticabile la via dell’esposizione della dottrina e della dimostrazione dei dogmi”. Ovviamente la strada è, invece, quella del restare “attaccati” a “un Dio soprattutto raccontato, spiegato da Gesù Cristo”.

Che poi il Dio “raccontato, spiegato” da Gesù sia, anche nelle omelie dei parroci poco provveduti, il Dio del “forse Gesù non ha detto questo”, del “probabilmente non è avvenuto quello che l’evangelista racconta”, cioè della critica biblica orecchiata, diffusamente maneggiata senza criteri ermeneutici e senza teologia, insomma il Dio di un Gesù ricostruito arbitrariamente, a Bianchi non interessa. Né gli interessa, sul terreno dei fondamentali, che il Concilio Vaticano II non abbia annullato il rapporto necessario tra Scrittura e Tradizione, che solo può garantire la vera “doxa” sul “Dio spiegato da Gesù Cristo”. Purtroppo, su questo terreno, l’impietosa lettura di Livi tocca difetti e pericoli reali.

Sarebbe stato meglio per Bianchi non arroccarsi nel: “Io? quando mai?”. I “maestri” devono adattarsi, ormai, a un altro regime comunicativo e a maggiore autocontrollo; meglio se anche a una maggiore riflessione.

Scrivo questo con dinanzi agli occhi anche l’ultima sortita pubblica di Bianchi, su “La Stampa” della domenica di Pasqua. L’articolo-omelia è per gran parte opinabile nei limiti della legittima diversità tra tutti noi. Personalmente, né da un giornale né da un pulpito vorrei sentirmi dire che nella Pasqua i cristiani “innanzitutto leggono una storia di passione e di morte”. Ritengo evidente che nella Pasqua i cristiani anzitutto rivivono la resurrezione e “leggono” ciò che in apertura della veglia pasquale recita l’Exultet, quando invoca uno squillante, regale annuncio “pro tanti Regis victoria”. Sarà la diversità delle nostre sensibilità comunicative, o qualcos’altro, che il finale dell’articolo di Bianchi rivela?

In effetti il priore di Bose poteva arrestarsi sulla battuta “politica” contro il Crocifisso come “simbolo culturale”, un tema complicato del genere “religione civile”, per affrontare il quale si richiederebbero categorie giuste. Pazienza. Ma egli si avventa sul terreno della testimonianza cristiana del Risorto: i cristiani ricordano e si dicono – scrive – “semplicemente questo: l’amore vissuto da Gesù ha vinto la morte… Gesù era umanissimo e ciò che aveva di eccezionale non era di ordine religioso [che significa? è un escamotage per evitare di dire che non era di ordine soprannaturale? - p.d.m.] ma umano. È con la sua umanità che egli, il Figlio di Dio e la Parola diventata uomo come noi, ci ha portato a Dio”. Per un cristiano augurare la buona Pasqua sarebbe, quindi, affermare: “Vorrei dirti che l’amore vince la morte”.

La protezione che l’inciso “il Figlio di Dio e la Parola ecc.” esercita sulle 14 righe finali dell’articolo è minima. Restano la romanticheria dell’enunciato: “l’amore vince la morte”, tutto minuscolo, pura enfasi adatta a tutti gli approdi, aperta a tutte le concezioni, da quella delle lettere giovannee al clima del romanzo rosa e della canzonetta. Quale “amore”? E quale “morte”? Abbiamo riflettuto e battagliato su morte e antropologia cristiana per anni, perche i “maestri” arrivino a dirci queste miserie? Qui non c’è neppure il buon senso (o il coraggio, su un quotidiano laico) di introdurre le maiuscole come a suggerire che, comunque, si intendono la vetta incarnata dell’Agape e la visione della Morte propria, poniamo, della teologia paolina della redenzione: “Ubi est mors aculeus tuuus, ubi est mors victoria tua?”.

L’affermazione, poi, che “ciò che Gesù ebbe di eccezionale fu di ordine umano” è follemente equivoca. È la ripetizione di un topos del protestantesimo liberale. È per questo che Bianchi non dice che Gesù ha vinto la morte, ma che “l’amore vissuto da Gesù” lo ha fatto, cioè che a salvarci è stata semplicemente l’esperienza amorevole dell’umanissimo Gesù. Davvero i “teologi” del Gesù solo amore – questi neopietisti postmoderni – pensano che per vincere la Morte non sia stato necessario il Signore della Storia?

Il tutto è irresponsabilmente ai margini, se non fuori, della cristologia dei grandi Concili, di quei fondamenti trinitari e cristologici irrinunciabili la cui alterazione, frequente, conduce sempre a una predicazione dimezzata e infantile, a un cristianesimo informe, alla corruttela “teologica” dei best seller di un Vito Mancuso. Così, a cascata. Solo l’intervento di Pietro, temo, solo il “confirma fratres tuos” potrà fermare questa incosciente, gaia e stolida, caduta collettiva.

Firenze, 9 aprile 2012

Splendore della Liturgia Cattolica




DOMENICA DELLE PALME

Santuario di Campoè,  Rito Ambrosiano
























Genova


Foto di Ermanno Longo


Parigi, Francia





 Chicago, U.S.A.







Philadelphia, U.S.A.





Vocogno, Italia




GIOVEDI' SANTO


Greenville, U.S.A.









Monastère Saint-Benoît, Francia



Ferrandina, Italia




St-Eugene, Parigi, Francia
 





VENERDI' SANTO

Monastère Saint-Benoît, Francia



Basilica Vaticana, Roma






Londra, Inghilterra










VEGLIA PASQUALE
Basilica Vatcana, Roma



Abbazia Cistercense di Heilgenkreuz, Austria






St. Mary's, Norwalk, U.S.A.




Rio de Janeiro, Brasile





Monastère Saint-Benoît, Francia