sabato 29 gennaio 2011

Mons. Lefebvre aveva consacrato la sua vita per la Chiesa, per Roma, per il Papato, viveva per essa e per Lui servire la Chiesa voleva dire salvare le anime.

Mons. Lefebvre visto da un suo vicino collaboratore
a cura di Marco Bongi

Presentiamo il resoconto di un interessante colloquio con uno dei primi collaboratori di mons. Marcel Lefebvre. Don Emanuel Du Chalard, noto per essere stato il pioniere della presenza FSSPX in Italia e per aver sempre mantenuto contatti diplomatici informali fra la Fraternità e Roma, ci descrive alcuni aspetti della personalità del fondatore, uscendo, forse per la prima volta, dal suo proverbiale ed umile riserbo.

* * *

Don Emanuele, Lei è stato uno dei primi sacerdoti ordinati da mons. Lefebvre dopo la fondazione della FSSPX. Gli è poi stato vicino per molti anni. Ci può brevemente descrivere la sua personalità nella vita quotidiana, al di là dei momenti pubblici?

Prima di tutto mons. Lefebvre fu per noi un padre e un esempio. Sempre attento a tutto anche ai più piccoli dettagli. Voleva che il seminario fosse semplice ma pulito e ordinato. Viveva in seminario come noi, seguiva lo stesso orario, era sempre presente a tutte le preghiere comunitarie, prendeva i pasti in refettorio con i seminaristi, non chiedeva mai niente di speciale per lui. D’altra parte non gli piacevano i favoritismi. Era molto attento alle persone, sempre pronto ad ascoltare i seminaristi, si poteva andare a trovarlo nel suo ufficio quando si voleva, sembrava che non avesse mai altre cose da fare. Fu un esempio di disponibilità. Aveva sempre una grande attenzione per gli ospiti, una conversazione gradevole e gli piaceva l’umorismo o la battuta. Trasmetteva un senso di gioia oltre che di pace e serenità. Era un uomo buono, ma era soprattutto un sacerdote e un Vescovo vicino a tutti. Per vederlo o avere un appuntamento non era difficile: non aveva un segretario privato, si gestiva tutto da solo, appuntamenti, corrispondenza, organizzazione dei viaggi.

Il suo stile di vita fu un esempio per noi tutti. E possiamo serenamente affermare che la Fraternità San Pio X ha improntato il suo modo di vivere più sull'esempio del suo fondatore che traendolo dal suo insegnamento.

Ci può raccontare qualche aneddoto inedito da lei vissuto accanto a mons. Lefebvre?

Non saprei, ma posso affermare che più ho conosciuto e frequentato mons. Lefebvre, soprattutto nel contesto romano, più mi sono reso conto che era davvero un grande uomo di Chiesa. Ben pochi hanno avuto la sua esperienza maturata dalle responsabilità ricevute. Conosceva la Curia Romana e i suoi meccanismi alla perfezione. Praticamente, per una ragione o per un'altra, aveva frequentato tutti i dicasteri vaticani. Non solo conosceva bene la Chiesa e i suoi problemi ma aveva di essa una visione di fede e soprannaturale. Tutto ciò faceva di lui un ecclesiastico di gran statura.

Lei accompagnò spesso mons. Lefebvre nelle sue visite in Vaticano. Con quale animo venivano vissuti tali momenti, come si conciliava in lui l'amore per la Roma cattolica ed il desiderio di difendere la dottrina di sempre, spesso contraddetta dalle medesime autorità?

Mons. Lefebvre aveva consacrato la sua vita per la Chiesa, per Roma, per il Papato, viveva per essa e per Lui servire la Chiesa voleva dire salvare le anime. Per questo la crisi post-conciliare fu da lui vissuta come un dramma. Il senso missionario era iscritto profondamente nella sua anima. Possiamo dire che la sua reazione davanti alla crisi della Chiesa fu determinata dalla consapevolezza di quali fossero i veri bisogni anime. Se la fede non è più trasmessa, le anime non possono salvarsi.

Mi ricorderò sempre della sua reazione all’annuncio della prima giornata di Assisi dell’ottobre 1986. Di passaggio ad Ecône, ero nel suo ufficio, e gli dissi quello che si sussurrava su questo progetto. Egli si mise la testa fra le mani e disse con tono molto addolorato: “E’ la distruzione della missione”. Era la sua anima profondamente missionaria chi reagiva.

Ho sempre constatato in lui un grande rispetto per la gerarchia ecclesiastica. Forse la sua timidezza e anche questo rispetto, facevano sì che se un Cardinale nella conversazione affermava un errore o diceva cose sbagliate, generalmente Monsignore taceva e non parlava più. Per lui era inconcepibile che un uomo di Chiesa potesse parlare così. E uscito dall’incontro mi diceva “Ma come è possibile che il Cardinale possa affermare queste cose!” Era sbalordito.

Fu per lui una tragedia certamente il trovarsi in opposizione con Roma e con il Papa. Lui che per decenni fu incoraggiato dal Papa per il suo apostolato in Africa, non concepiva come non potesse più lavorare nello stesso spirito e con lo stesso zelo. Qualche cosa era cambiato con il Concilio. In tali situazioni fu solo la sua gran fede a guidarlo, e fu una fede fino all’eroismo. Pagò con la sua persona.

Nella fede infatti c’è un ordine. La Chiesa è al servizio della Verità (Verità soprannaturale), la Chiesa è la guardiana della Verità, non fa la Verità e non può cambiarla. Poi essa deve trasmetterla nella sua integralità. La Chiesa è anche al servizio delle anime, e ha la responsabilità della loro salvezza. Tutto il resto deve essere ordinato in funzione della Fede e della salvezza delle anime.

Furono questi concetti che guidarono monsignor Lefebvre in questi anni di difficoltà con Roma. Egli era persuaso che un giorno Roma ringrazierà la Fraternità per la sua difesa della fede e per tutti i sacrifici fatti. Io personalmente sono convinto che un giorno la Chiesa riconoscerà la fede eroica di questo Vescovo.

Lei fu accanto a mons. Lefebvre anche nel momento in cui decise di ordinare i quattro vescovi della FSSPX. Come vennero vissuti quei giorni? Quale fu il fatto decisivo che lo portò a questa difficile scelta?

Non fui il solo sacerdote a seguire da vicino questo momento delicato dell'esistenza di Monsignore e della vita interna alla Fraternità. Penso che padre Franz Schmidberger, che era allora il Superiore Generale e i quattro che furono consacrati Vescovi, potrebbero testimoniare meglio di me. Ci furono essenzialmente tre tappe per questo cammino: la decisione di consacrare, quando farlo e infine la consacrazione stessa.

La prima tappa fu lungamente preparata con una riflessione personale sulla crisi della Chiesa. molto probabilmente chiese pareri a persone competenti e soprattutto pregò molto. Si sa, ad esempio, che per almeno un anno Monsignore si alzò tutte le notti per pregare un’ora davanti al Santissimo Sacramento allo scopo di avere le grazie necessarie per capire quello che doveva fare. L’ho sentito dire: “Potrei lasciare le cose come sono, e poi il Signore provvederà per il futuro della Fraternità, ma il Signore mi potrebbe dire anche il giorno del giudizio: ha fatto tutto quello che poteva come Vescovo?” Al mio umile avviso sarebbe sbagliato pensare che Monsignore abbia preso questa decisione solo per la Fraternità e il suo avvenire.

Certamente, egli vedeva piuttosto il bisogno della Chiesa in generale e ritenne, in coscienza, che questo passo era necessario per un ritorno della Tradizione, specialmente attraverso il rinnovamento di un sacerdozio autentico.

Questa fu la prima tappa e, una volta presa la decisione, ci fu per lui come un senso di sollievo perché aveva capito con chiarezza che quella era la volontà del Signore.

La seconda tappa riguardò il quando procedere a tali consacrazioni episcopali. La soluzione del problema venne a seguito di una successione di avvenimenti. Prima volle ancora tentare con Roma la possibilità di vedere che cosa si potesse fare: incontri con il Cardinale Ratzinger, poi visita canonica con il Cardinale Gagnon, quindi la commissione fra la Santa Sede e la Fraternità, infine il famoso protocollo del 5 maggio 88.

Tutto ciò non avrebbe tuttavia permesso di continuare con serenità la sua opera, anche se Monsignore riconosceva che nel protocollo la Santa Sede faceva delle concessioni importanti come l’uso dei libri liturgici tradizionali.

Certamente inoltre un fatto non secondario era la sua età avanzata. Capiva che non poteva più continuare a viaggiare per impartire le Cresime e fare le ordinazioni. E così prese la decisione di consacrare quattro vescovi il 30 giugno 1988.

La terza tappa la conosciamo tutti. Fu vissuta con un po’ di tensione, a causa di alcune minacce e della gran folla di giornalisti venuti da tutto il mondo.

Aggiungo, a tal proposito, due considerazioni. La prima concerne la serenità e la pace che ha accompagnato Monsignore in tutte e tre le tappe e che seppe sempre comunicare a quelli che gli erano vicino. L’altra considerazione riguarda la sua determinazione. Una volta presa una decisione, più niente lo fermava. Prima delle consacrazioni ha avuto tante pressioni da Roma e da altri ambienti, affinché rinunciasse. Questo mi ricorda come avesse mantenuto il medesimo comportamento in occasione della conferenza tenuta nel giugno 1977 a Roma, nel palazzo della principessa Pallavicini. All’epoca ci fu una forte pressione mediatica dei giornali italiani, e delle visite di diverse personalità, ma niente e nessuno lo avevano fermato. Non era un uomo precipitoso nelle sue decisioni. Quando però le decisioni erano state assunte, soprattutto se erano sofferte, più niente lo fermava.

E' vero che l'incontro di Assisi del 1986 rappresentò un elemento importante che spinse mons. Lefebvre alla scelta delle consacrazioni episcopali?

Non direi che l’incontro d’Assisi fu l’elemento decisivo. Esso rappresentò piuttosto un segno evidente, e sotto gli occhi di tutti, della gravità della crisi. Indicava infatti con chiarezza dove potevano portare le novità del Concilio Vaticano II. L’Osservatore Romano all’epoca aveva giustificato Assisi con il Concilio. Ecco dove portava la famosa libertà religiosa e l’ecumenismo del Concilio, al di là di tutte le interpretazioni artificiose che si intesero dare a tale evento.

In fin dei conti la crisi attuale porta all’apostasia e ciò che viviamo oggi, la rende ancora più evidente che nel 1988.

Mons. Lefebvre le parlò mai del suo incontro con padre Pio? Alcuni autori in proposito raccontano che in tale occasione il santo di Pietralcina rimproverò mons. Lefebvre, altri lo negano. Lei ne sa qualcosa di più?

Monsignore era molto discreto su tutto quello che aveva fatto e faceva. Ma su questo punto, ci ha precisato che l’incontro fu molto breve. Chiese a Padre Pio di pregare per il capitolo generale della congregazione dei missionari dello Spirito Santo della quale era allora il Superiore Generale. Era infatti molto preoccupato e chiese una benedizione. La risposta di Padre Pio fu: E’ lei che deve benedirmi. Non ci furono altre parole. Contro le dicerie sul fatto che padre Pio avrebbe detto che Monsignore sarebbe stato all'origine di uno scisma, abbiamo potuto avere la testimonianza dei due sacerdoti che l’avevano accompagnato a San Giovanni Rotondo. Tali testimonianze confermano quello che Monsignore ha sempre detto su questo incontro.

Anche nei momenti più difficili mons. Lefebvre mantenne rapporti di amicizia con alcuni alti prelati. Ci può dire qualcosa in proposito, specialmente rispetto al suo successore a Dakar il Card. Thiandum e al Card. Siri?

Monsignore fu sempre rispettato da molti prelati a Roma. Da una parte per gli incarichi che aveva svolto: Arcivescovo di Dakar, Delegato Apostolico per tutta l’Africa francese, poi Superiore Generale dei Padri dello Spirito Santo, congregazione questa che contava allora cinquemila membri. Egli compì un lavoro enorme, è un fatto che nessuno può negare. Fu rispettato anche perché era un uomo integro, non ricattabile, coerente e poi parecchi sapevano che in fondo aveva ragione, mentre loro non avevano avuto il suo coraggio per delle questioni di opportunità. Essere criticato, ingiuriato, disprezzato, umiliato, condannato, considerato come fuori della Chiesa, scomunicato, e accettarlo per amore di Gesù Cristo e della sua Chiesa non è dato a tutti.

Il Cardinale di Dakar, mons. Thiandium fu certamente uno dei più coraggiosi. Aveva una grande ammirazione per Monsignore, gli doveva tutto, sacerdozio, episcopato e possiamo dire anche cardinalato in quanto, in un certo senso, gli aveva preparato la strada. Non fu soltanto per questo che il Cardinale stimava mons. Lefebvre; conosceva le sue qualità e l’aveva visto all’opera a Dakar. So che il Cardinale è intervenuto presso Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II in favore di mons. Lefebvre. In occasione del Sinodo sulla famiglia aveva organizzato un incontro fra il Cardinale Ratzinger, mons. Lefebvre e lui stesso. Ci furono anche alcuni incontri con il Cardinale Siri, ma non saprei dire in quale clima si svolsero.

Poi, fu sempre ricevuto dai Cardinali Oddi e Palazzini.

A quanto le risulta mons. Lefebvre ebbe esperienze mistiche?

Se certamente Monsignore fu un uomo molto aperto, amabile e di facile approccio, era però molto discreto su quello che aveva fatto per esempio in Africa. Raccontava volentieri delle storie di avventure nella savana ma non il suo operato. Un giorno ho chiesto a sua sorella carmelitana, Madre Marie Christiane se sapesse qualche cosa dell’apostolato in Africa, mi ha risposto: ogni volta che ho chiesto a mio fratello notizie su quello che faceva come missionario o Vescovo, lui cambiava discorso.

Essendo stato lui sempre molto riservato circa la sua persona, sarei incapace di dire se ha avuto esperienze mistiche. So con certezza che pregava molto soprattutto quando aveva delle difficoltà da risolvere, e d’altra parte di quel sogno nella cattedrale di Dakar sulla restaurazione del sacerdozio al quale fa allusione all’inizio dell’Itinerario Spirituale, libro che consideriamo un po’ come il suo testamento. Che tipo di sogno era però non lo sappiamo.

Alcuni giornalisti hanno sostenuto che mons. Lefebvre, negli ultimi giorni di vita, fosse angosciato e, in un certo senso, "pentito" di alcuni suoi gesti. Le risulta? Quando fu l'ultima volta che lo vide?

Da quello che io posso sapere, Monsignore non si è mai pentito di quello che ha fatto. Personalmente ho avuto la grazia di passare una settimana con lui un mese prima della sua morte, tre giorni in Sardegna e tre giorni in Toscana. Lo ho ancora visto in ospedale a Martigny, per un'ora, una settimana prima della sua scomparsa e prima dell’intervento chirurgico a cui fu sottoposto. Posso testimoniare che era molto sereno, mi ha parlato della Fraternità, dei fedeli e più volte ha anche scherzato.

giovedì 27 gennaio 2011

Chi è, allora, che disobbedisce al Concilio ?

Pubblichiamo il testo di una conferenza tenuta dal compianto Michael Davies (1936-2004), nel 1982, a Londra, e riproposta nel numero di novembre 2010 della rivista della Latin Mass Society (Londra): Mass of Ages.
Michael Davies, insegnante inglese convertitosi al Cattolicesimo, fin da dopo la fine del Concilio Vaticano II si è distinto per la difesa della Tradizione liturgica e dottrinale della Santa Chiesa. È stato Presidente della Federazione Internazionale Una Voce dal 1995 al 2003 ed ha sviluppato una intensa attività apologetica con un gran numero di libri, di articoli e di conferenze.
La conferenza che qui presentiamo riassume una tematica che, a quasi 30 anni di distanza, conserva tutta la sua attualità. La traduzione in italiano è di un vecchio amico di Michael Davies, il Dott. Mario Seno, uno dei fondatori di Una Voce Italia che ha condotto per anni la buona battaglia per la salvaguardia della Liturgia Tradizionale.
La rivista Mass of Ages ha presentato così la pubblicazione della conferenza:
Non c’era da aspettarsi che Papa Benedetto avrebbe menzionato le “guerre di liturgia” durante la sua visita (del settembre 2010 in Gran Bretagna, ndr.).
In una famosa conferenza dei Cattolici Tradizionali al Porchester Hall di Londra nel 1982 si protestò energicamente contro la riluttanza dei membri della gerarchia “ad aprire generosamente i cuori e far posto per ogni cosa che la Fede stessa ammette” (Papa Benedetto XVI).
Questa riluttanza esiste ancora perfino dopo la pubblicazione del “Summorum Pontificum”.
Michael Davies (1936-2004) fece il seguente discorso in quella conferenza, che è ancora oggi d’attualità.


Cattolici leali e tuttavia emarginati


Vorrei rivolgere le mie osservazioni ai membri della Commissione Cattolica per la Giustizia Razziale e al suo Presidente, il vescovo ausiliare di Birmingham. Si può avere la commissione giusta e l’ausiliare sbagliato, o la commissione sbagliata e l’ausiliare giusto o entrambi possono essere sbagliati o, con un po’ di fortuna, entrambi possono essere giusti. Abbiamo così tante commissioni e così tanti vescovi ausiliari che la burocrazia della Chiesa cattolica deve essere l’unica industria in espansione nello stato britannico.

Rivolgo le mie osservazioni alla Commissione a proposito della sua dichiarazione che il Rastafarianismo è un’esperienza religiosa valida e che ai suoi fedeli dovrebbe essere dato accesso alle sedi cattoliche per adorare l’imperatore Hailè Selassiè e il defunto Duca di Gloucester, benché si sottintenda che il culto di quest’ultimo è limitato al grado di dulìa (onore o devozione dovuti propriamente ai santi).

Devo ammettere che la raccomandazione della Commissione mi ha causato l’inarcamento di un sopracciglio, probabilmente perché sono considerato un cattolico pre-conciliare. Io non sono aggiornato, riciclato, all’avanguardia, orientato alla collettività o con la mentalità ecumenica.

È naturalmente un po’ impertinente essere un cattolico pre-conciliare oggi. Benché ci fosse un tempo in cui alcuni cattolici pre-conciliari erano considerati piuttosto rispettabili : S. Pietro, S. Atanasio, S. Tommaso d’Aquino, S. John Fisher, S. Thomas More, S. Richard Gwyn, S. Teresa d’Avila, S. Bernadette, S. Pio X.

Dove sono i loro omologhi nella Chiesa post-conciliare ?

Come cattolico pre-conciliare avevo immaginato che Nostro Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio Incarnato, avesse fondato una Chiesa e solo una Chiesa, e avesse dato alla Sua Chiesa e soltanto alla Sua Chiesa, il mandato di predicare il Vangelo, di amministrare i Sacramenti e di offrire adorazione pubblica nel Suo nome. Avevo anche immaginato che fosse totalmente incompatibile con l’unicità e con il mandato divino della Chiesa, permettere a chiunque sia al di fuori della sua visibile unità di usare le sue sedi per l’adorazione dei propri culti erronei.

Ciò si applicherebbe anche ai cristiani non cattolici, la cui adorazione è almeno centrata sul vero Dio e sul Suo divino Figlio. Non avrei mai creduto che avremmo offerto le nostre sedi agli adepti di un culto grottesco, a una falsa religione se mai ce ne fu. Mi chiedo cosa hanno provato quelle devote famiglie cattoliche delle Indie Occidentali con i cuori infranti, poiché i loro figli sono stati circuiti e sono entrati in questa setta, quando sono venuti a conoscenza di quella dichiarazione.

Io spero che la Commissione Cattolica per la Giustizia Razziale e il suo Presidente episcopale siano gente in buona fede e siano perciò disposti a mettere una buona parola per un’altra minoranza incompresa, la cui esperienza religiosa è per loro - così spero – almeno altrettanto valida del Rastafarianismo, benché i suoi aderenti tendano a favorire la dolce fragranza dell’incenso piuttosto che l’odore della canapa indiana.

Parlo della Fede cattolica tradizionale e della Messa cattolica tradizionale del rito romano, la Messa nota a noi tutti come la Messa Tridentina. Non potrebbero il vescovo e la sua commissione trovare nei loro cuori la forza di ammettere che questa Messa costituisce “una valida esperienza religiosa” ?

Risalendo alle origini

Scrisse Padre Faber : “È la cosa più bella da questa parte del cielo. Proveniva dalla grande mente della Chiesa e ci innalzava oltre la terra e oltre noi stessi, avvolgendoci in una nube di mistica dolcezza, e le sublimità di una liturgia più che angelica ci purificavano e ci incantavano con fascino celestiale così che i nostri sensi medesimi sembravano trovare visione, ascolto, fragranza, gusto e tatto più di quanto si possa percepire.”

Quanti di noi possono testimoniarlo per esperienza propria !

Il termine “Messa tridentina” è, naturalmente, una denominazione impropria. Padre Adrian Fortescue, il più grande storico liturgico d’Inghilterra, scrisse: “La nostra Messa risale senza cambiamenti essenziali all’epoca quando Cesare governava il mondo e pensava di poter sradicare la Fede di Cristo e i nostri padri si riunivano prima dell’alba e cantavano un inno a Cristo come Dio… non c’è nella Cristianità un rito così venerabile come il nostro”.

Ma oggi quel rito venerabile è meno accettabile nelle sedi della Chiesa cattolica dell’adorazione dell’imperatore Hailè Selassiè.

S. Pio V non ha certamente inventato un nuovo rito della Messa. Si accontentò di codificare il messale romano vigente e di estenderne l’uso in tutte le diocesi di rito romano come baluardo contro l’eresia protestante. Le sue preghiere e i suoi rituali resero esplicite le dottrine del Sacrificio e della Presenza Reale secondo il principio lex orandi, lex credendi. La legge della preghiera è la legge della fede.

I laici cattolici hanno il diritto di rendere note le loro esigenze spirituali ai loro pastori, soprattutto al loro Supremo Pastore, il Santo Padre stesso. Certamente noi siamo autorizzati a dirgli che desideriamo esprimere la nostra fede con il rito della Messa che ha sorretto innumerevoli milioni di cattolici attraverso le nazioni e i secoli. Questa era la forma della Messa che i preti martiri d’Inghilterra e del Galles celebravano in segreto, spesso a costo delle loro vite. Era la forma della Messa che S. Francesco Saverio portò nelle Indie, che i missionari martiri del Canada portarono agli indiani a prezzo di sofferenze troppo terribili da descrivere.

È “la perla di grande valore” della Chiesa che avrebbe dovuto essere più inviolabile e più sacrosanta di qualsiasi altra cosa essa stessa possedesse. Se fosse stato proposto di distruggere la cattedrale di Chartres o la Basilica di San Pietro per rimpiazzarle con mostruosità in calcestruzzo più in linea con la “mentalità dell’uomo moderno”, non è difficile immaginare il moto di ribellione e di protesta che avrebbe pervaso tutto il mondo. Ma distruggere la Messa di S. Pio V, in verità “la cosa più bella da questa parte del cielo”, è un atto di vandalismo liturgico di tale dimensione di fronte al quale la distruzione di tutte le cattedrali d’Europa apparirebbe di poca importanza.

Ma, ci dicono, “lo ha ordinato il Concilio Vaticano Secondo”. Davvero ?

Il Concilio decretò che nulla nella Messa dovesse essere cambiato, a meno che non lo richiedesse veramente e con certezza il bene della Chiesa.

Bene, prendete in mano il vostro messale romano, guardate i cambiamenti che sono stati fatti e trovatene uno che il bene della Chiesa abbia richiesto veramente e con certezza. Trovatene uno che ci abbia reso dei cattolici migliori e più spirituali. Trovatene uno che abbia contribuito all’unità della Chiesa.

Avrebbe dovuto andarsene il “Judica me” ? Lo stupendo doppio Confiteor era una causa di atrofia spirituale ? La genuflessione al “Et incarnatus” nel Credo nuoceva alla causa dell’ortodossia dottrinale ? Quelle sublimi preghiere dell’Offertorio causavano la perdita di milioni di praticanti ? L’Ultimo Vangelo alienava la gioventù ?

Chi allora disobbedisce al Concilio ?

Il Concilio stabilì che tutti i riti esistenti fossero preservati e incoraggiati con grande cura.

Padre Joseph Gelineau, uno dei commissari liturgici responsabili dell’invenzione e dell’imposizione del nuovo rito, affermava con orgoglio che il rito romano era stato distrutto. Noi preserviamo e incoraggiamo qualche cosa distruggendola ? Certamente no !

Chi allora disobbedisce al Concilio ?

Il latino doveva rimanere la norma nel rito romano : è stato così ? Naturalmente no.

Il canto gregoriano doveva essere la norma nelle Messe cantate : è così ?

Domani passate per la vostra parrocchia, poi andate a vedere la parrocchia vicina, poi la prossima e poi la seguente ancora e vedrete quando mai il canto gregoriano è la norma.

Chi è, allora, che disobbedisce al Concilio ?

Il Concilio stabilì che i fedeli dovessero essere in grado di recitare o cantare assieme in latino le parti della Messa di loro pertinenza. Noi possiamo farlo, come si verificava quando noi cantavamo il Credo; ma che succede ai bambini nelle nostre scuole di oggi ? Anche loro dovrebbero essere in grado di farlo. È un loro diritto: un diritto acquisito con la nascita, ma essi ne sono stati privati.

Cercate sui documenti conciliari più diligentemente che potete, non troverete una parola sulla Messa rivolta al popolo, la Comunione sulla mano, i ministri laici della Comunione, la rimozione del tabernacolo dall’altare maggiore.

La rivoluzione che ci è stata imposta non ha proprio nulla a che fare con le riforme moderate proposte dal Concilio.

Il cardinale Heenan testimoniò che Papa Giovanni XXIII e i Padri conciliari non avevano alcuna idea di quello che gli esperti, che avevano redatto le bozze dei documenti, stavano progettando. Un vescovo americano affermò che i Padri conciliari vi avrebbero riso in faccia, se aveste detto loro quale sarebbe stata la riforma effettiva il giorno in cui votarono la Costituzione sulla Liturgia. Un prelato italiano disse che se ne avesse avuta la possibilità, sarebbe andato davanti a un notaio per ritirare il suo voto per la Costituzione sulla Liturgia, certificando che gli era stato ottenuto con un tranello.

“Beneficio pastorale”

Si potrebbe argomentare – e di fatto si è argomentato – che anche se questo non è ciò di cui ha dato mandato il Concilio, è stato comunque di grande beneficio pastorale.

Lo è stato davvero ?

In Olanda e in Francia la presenza alla Messa è diminuita di oltre il 60%, in Italia del 50%, negli Stati Uniti del 30% e in Inghilterra e nel Galles del 20%.

“Voi non potete provare che ciò è connesso con la riforma”, ci dicono i nostri esperti liturgici. Ma supponiamo che la presenza alla Messa fosse aumentata di più del 20% dall’epoca del Concilio: avrebbero detto allora che non era connessa con la riforma ? Naturalmente no !

Questo, tra l’altro, è sintomatico del pessimo stato odierno della Chiesa cattolica in Inghilterra e nel Galles. Lo stesso Papa Paolo VI avvertì che la Chiesa attraversa una fase di autodistruzione.

Aveva ragione. La Chiesa cattolica in Inghilterra e nel Galles, che era fiorente prima del Concilio, è ora stagnante e moribonda. Constatatelo voi stessi esaminando le statistiche dell’assistenza alla Messa, dei battesimi, delle ordinazioni, delle conversioni.

I cattolici tradizionali non stanno rigettando un rinnovamento liturgico fruttuoso.

Non c’è rinnovamento di sorta in questo Paese. È una fantasia della burocrazia.

Il recente sondaggio sui vescovi in tutto il mondo condotto dal Vaticano pretende di rivelare che praticamente nessuno desidera la Messa tridentina. Ma quando The Universe (giornale inglese, ndr.) consultò i suoi lettori per scoprire i loro sentimenti, ricevette un responso da primato in cui la maggioranza schiacciante optò per la Messa tradizionale in latino. Sondaggi d’opinione indipendenti condotti in Germania e negli Stati Uniti indicavano che il 64% e il 46% rispettivamente dei cattolici vorrebbero assistere alla Messa tridentina. Il rilevamento del Vaticano ha più o meno la stessa credibilità dell’occultamento del Watergate.

Un amico anglicano mi scrisse recentemente riguardo ad una Messa di Prima Comunione, cui assistette con la sua famiglia su invito di alcuni vicini cattolici. Ciò che ebbe luogo apparve come una discoteca per piccini piuttosto che un atto di adorazione. Il prete della parrocchia invitò ognuno a ricevere la Comunione: cattolici e protestanti allo stesso modo. I miei amici pensarono che, per essere cortesi, anch’essi avrebbero dovuto ricevere la Comunione, ma il loro bambino rifiutò. “Voi chiamate questa una funzione religiosa ?” disse, “io non prendo la Comunione qui”.

Potrei citare centinaia di esempi di simili abusi, che mi sono stati segnalati.

Nella sua lettera “Dominicae Cenae” del 24 febbraio 1980 Papa Giovanni Paolo II ci chiese scusa per tutti gli scandali e gli sconvolgimenti che abbiamo dovuto sopportare nella liturgia. Noi lo ringraziamo per le sue scuse. Ammiriamo la sua umiltà nel farlo: nessun Papa ha mai sentito il bisogno di presentare simili scuse in tutta la storia della Chiesa.

Vorremmo ricordargli le parole del suo predecessore Papa Benedetto XV, il quale scrisse :

“I Romani Pontefici non solo non hanno mai ripudiato quei sacri riti, la cui antichità dovrebbe garantire rispetto, finché essi mantengono l’obbedienza dovuta alla Santa Sede nell’unità della fede; essi hanno anche desiderato di vedere questi riti riverentemente conservati ed eseguiti comunque conformemente alle legittime disposizioni della Sede Apostolica, alla quale – sia chiaro – ogni rito deve obbedienza come al Sovrano Magistero”.

Così sia.

Io non sono secondo a nessuno nella mia devozione alla Santa Sede e sono sicuro che non c’è mai stata una riunione di cattolici più leale di quella presente oggi in questa sala. È certamente un caso fortuito che noi siamo proprio il tipo di cattolici che al Santo Padre non sarà concesso di incontrare durante la sua visita in questo Paese.

Il Cardinale Hume ha affermato che noi possiamo essere devoti figli e devote figlie della Chiesa e tuttavia praticare la contraccezione.

L’Arcivescovo Worlock sostiene che, se abbandoniamo i nostri consorti legittimamente sposati ed entriamo in un matrimonio invalido, saremmo comunque benvenuti alle balaustre dell’altare per la Santa Comunione.

Il vescovo ausiliare di Birmingham dice che ai Rastafariani dovrebbe essere permesso di usare le sedi cattoliche.

Bene, oggi sto per chiedervi di presentare un’istanza per la parità con tali individui. Perché i soli cattolici tradizionali devono essere i paria della Chiesa ?

Io mi appello a tutti quelli di voi che amano il sacro rito, la cui antichità dovrebbe garantire rispetto - un’esperienza religiosa veramente valida, “la cosa più bella da questa parte del cielo” – per sostenere la risoluzione che io vorrei proporre: Santo Padre, per il nostro beneficio spirituale e il bene di Santa Madre Chiesa, noi Vi preghiamo di togliere ogni restrizione per la celebrazione della Messa Tridentina.


lunedì 24 gennaio 2011

fantasmi dal passato...

Da che pulpito!


Sulla querelle destata dall'annuncio del prossimo Incontro Interreligioso di Assisi ricomincia, come da copione, la serie di articolesse di questo o quel personaggio di spicco del progressismo italiano. Strano che Manlio Sodi ed Enzo Bianchi non abbiano ancora pontificato. Strano che Avvenire taccia, senza sventolare il suo nihil est innovandum, che oggi più che mai avremmo condiviso. Curioso il silenzio del valetudinario card. Martini, che dell'ecumenismo fu espertissimo propugnatore e divulgatore.

All'appello indirizzato da alcuni intellettuali cattolici al Santo Padre e pubblicato sul Foglio dello scorso 11 Gennaio, risponde con livore Alberto Melloni, sul Corriere del giorno dopo: Gli zelanti e irrispettosi cattolici che cercano di influenzare il papa.

Melloni tradisce il proprio disappunto perché nell'omologato panorama del Cattolicesimo italiano vi è chi ha osato levare rispettosamente la voce ed esprimere le proprie perplessità ed i propri timori per le conseguenze che potrebbero concretamente derivare da un fraintendimento della presenza del Santo Padre alla riunione di Assisi.

E dire che di solito il dissenso della base, in nome della libertà dei figli di Dio propagandata dai figli del Vaticano II, dovrebbe esser ben accolto da chi, per formazione e per convinzione, non fa mistero del proprio progressismo democratico. Ma come? Non siete forse voi che dal Concilio in poi andate sbandierando come fatto positivo e necessario ogni rivolta, ogni dissenso, ogni critica, ogni insubordinazione all'autorità della Sacra Gerarchia, in nome della partecipazione dei fedeli al governo della Chiesa? Non siete voi che raccontate che il vostro Concilio era voluto dal popolo, che il popolo non capiva il latino e chiedeva con insistenza al Papa di dargli una liturgia finalmente comprensibile, nella lingua dei carrettieri e dei braccianti? Non siete voi, soloni di una chiesa moderna e democratica, che criticate apertamente il Pontefice, rammaricandovi con padre Ernesto Balducci (1) e Severino Dianich (2) per la mancata nascita di una chiesa popolare, che tragga la sua autorità dal basso? Non siete voi che concedete le vostre chiese e le aule dei Seminari per le conferenze dei teologi che Roma ha allontanato dagli Atenei Pontifici o di cui ha condannato le teorie? Che date spazio ai preti sposati, ai preti operai, ai preti black block? Non siete voi che disobbedite apertamente al Papa in campo politico, proclamandovi presuntuosamente cattolici adulti, quasi fosse segno di maturità e motivo di vanto dichiararsi apertamente indocili al Magistero? E ancora: non siete voi che avete fermamente avversato il Santo Padre sul Motu Proprio, impartendogli petulanti lezioni di liturgia ed insinuando che con quel gesto si rendeva reo di leso Concilio? La vostra incoerenza vi sconfessa, e vi rivela per quello che siete.

Eppure non siete nuovi a bacchettare il Papa. Nel 1967, il Circolo Cattolico Maritain di Rimini scrisse a Paolo VI un appello che riportiamo nella sua interezza, richiamando l'attenzione anche sui modi in cui questi laici si rivolgono al Sommo Pontefice:

Il cardinale Spellman ha detto che «gli Stati Uniti stanno combattendo nel Nord Vietnam una guerra santa», e, rivolto alle armate statunitensi ha detto: «Voi non solo state servendo il vostro paese, ma state servendo la causa della giustizia, la causa della civiltà e la causa di Dio. Noi siamo tutti uniti nella preghiera e nel patriottismo in questo sforzo». Noi, cattolici di Rimini, siamo scandalizzati e sgomenti. È questa la Pacem in terris? È questa la nuova “età conciliare”? Siamo tornati alle crociate di infausta memoria e al patriottismo di cattiva lega con la benedizione delle armi e dei gagliardetti? Padre, Lei che così ansiosamente e paternamente non perde occasione per ammonire da “errori” e “deviazioni” e “pericoli” che si possono ravvisare negli scritti o nell'impegno di qualche sconosciuto membro di questo o quell'ordine religioso, e nell'attività di qualche “cenacolo” laico [chiaro riferimento a Don Mazzi e Don Milani] non vorrà rimanere inerte di fronte a certe grossolane deviazioni, a certe scandalose negazioni della Pace, solo perché fanno capo ad un cardinale di S. R. Chiesa?(3)

La disobbedienza al Magistero e al Papa non è finita dopo il Sessantotto, ma in nome dello spirito del Concilio è proseguita inarrestabile, legittimando la ribellione. Come fecero le Comunità di Base, giunte a proclamare il proprio sostegno al teologo eretico Hans Kung, sospeso dall'insegnamento, e ad invocare

un cambiamento di una chiesa autoritaria e centralistica [...] consentendo così una reale autonomia delle chiese locali al cui interno si affermino libertà evangelica, democrazia, coscienza critica, uguaglianza, carismi, diritti umani. (4)

Come dimenticare la Dichiarazione di Colonia del 1989, cui seguono “dichiarazioni” di intellettuali e teologi francesi (5) e di sessantadue teologi spagnoli (6), mentre si diffondono costantemente nuovi appelli per il dialogo nella chiesa e segnali di dissenso da parte di esponenti di numerosissimi ordini religiosi? Tra i farneticamenti del documento di Colonia, si legge:

In tutto il mondo, in molti casi, viene negata a teologi e teologhe qualificati l'autorizzazione ecclesiastica all'insegnamento. Si tratta di un grave e pericoloso attentato alla libertà di ricerca e di insegnamento, oltre che alla struttura dialogica della conoscenza teologica, che il Concilio Vaticano II ha ribadito in molti testi. Il conferimento dell'autorizzazione ecclesiastica all'insegnamento viene indebitamente utilizzato come strumento disciplinare. Stiamo assistendo al tentativo, estremamente discutibile dal punto di vista teologico, di rafforzare ed estendere in modo indebito la competenza magisteriale del papa, oltre a quella giurisdizionale. […] L'apertura della chiesa cattolica alla collegialità tra papa e vescovi, che pure è stata una delle acquisizioni fondamentali del Concilio Vaticano II, viene soffocata da un nuovo centralismo romano. L'esercizio dell'autorità, quale trova espressione nelle recenti nomine episcopali, è in contrasto con la fraternità del Vangelo, con le esperienze positive dello sviluppo dei diritti di libertà e con la collegialità dei vescovi. La prassi attuale ostacola il processo ecumenico in punti essenziali. […] Non tutti gli insegnamenti della chiesa sono ugualmente certi e hanno un uguale peso dal punto di vista teologico. Noi ci opponiamo alla violazione di questa dottrina dei gradi della certezza teologica ovvero della “gerarchia delle verità” nella prassi del conferimento e della negazione dell'autorizzazione ecclesiastica all'insegnamento. Singole questioni etiche e dogmatiche di dettaglio non possono perciò venire contrabbandate arbitrariamente come atte a stabilire l'identità della fede.

I ribelli tedeschi attaccavano Giovanni Paolo II anche sulla morale sessuale, appellandosi – guarda caso – proprio alla Dignitatis humanæ:

[…] Recentemente, rivolgendosi a teologi e a vescovi, il papa ha collegato la dottrina della regolazione delle nascite - senza tener conto del grado di certezza e del diverso peso degli asserti ecclesiastici - con verità di fede fondamentali quali la santità di Dio e la redenzione a opera di Gesù Cristo, così che coloro i quali criticano l'insegnamento papale sulla regolazione delle nascite vengono accusati di “minare i pilastri fondamentali della dottrina cristiana”, anzi con il loro richiamarsi alla dignità della coscienza essi cadrebbero nell'errore di rendere “vana la croce di Cristo”, di “distruggere il mistero di Dio” e di negare la “dignità dell'uomo”. I concetti di “verità fondamentale” e di “rivelazione divina” vengono usati dal papa per sostenere una dottrina del tutto particolare, che non può essere giustificata in base alla Sacra Scrittura, nè in base alle tradizioni della chiesa (cfr. i discorsi del 15 ottobre e del 12 novembre 1988). […] Il Concilio Vaticano II afferma: «Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana» (Decreto sull'ecumenismo, n. 11).

E poi la stilettata:

L'obbedienza nei confronti del papa, che in tempi recenti viene sempre più spesso dichiarata e pretesa da vescovi e cardinali, ha l'aspetto di un'obbedienza cieca. L'obbedienza ecclesiale a servizio del Vangelo richiede la disponibilità a un'opposizione costruttiva ( cfr. Codex Iuris Canonici, can. 212, § 3). Invitiamo i vescovi a ricordarsi dell'esempio di Paolo, che è rimasto in comunione con Pietro pur “resistendogli in faccia” nella questione della missione tra i pagani (Gal 2,11)

con la minaccia, tutt'altro che laudativa:

Tuttavia i teologi, che stanno al servizio della chiesa, hanno anche il dovere di esercitare pubblicamente la critica se l'autorità ecclesiastica fa un uso sbagliato del suo potere, contraddicendo così le sue finalità, ostacolando il cammino verso l'ecumene, sconfessando le aperture del Concilio.

Si noti che per gli estensori della Dichiarazione l'«uso sbagliato» del potere da parte della Gerarchia si concretizza quando essa ostacola «il cammino verso l'ecumene», o sconfessa «le aperture del Concilio».

La Congregazione per la Dottrina della Fede promugherà, a condanna della Dichiarazione e degli altri documenti analoghi, l’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, emanata il 24 maggio 1990 dal Prefetto card. Joseph Ratzinger con l'approvazione di Giovanni Paolo II. Le Comunità di Base, per bocca di don Franco Barbero, dissero al cardinale Ratzinger di occuparsi non già dei teologi ribelli, ma piuttosto di quelli eccessivamente obbedienti. Intervenì ovviamente anche Martini e mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, intimò: «il magistero deve ascoltare di più il popolo di Dio» (7). Come vediamo i nomi sono sempre gli stessi.

Tornando al velenoso articolo di Melloni, vi è uno scritto che a nostro avviso merita di non rimanere confinato nell'oblio del passato: è il famoso Documento “dei sessantatre” teologi italiani del 15 maggio 1989, che reca la firma, tra gli altri esponenti del dissenso, proprio dello stesso Alberto Melloni. (8) Va ricordato che questo documento esprimeva sostegno e appoggio alla Dichiarazione di Colonia, segnalando con preoccupazione «l'impressione che la chiesa cattolica sia percorsa da forti spinte regressive» (9).

Il Documento dei sessantatre merita di essere rispolverato per alcune proposizioni deliranti – sottroscritte dal Nostro – che però rivelano una certa incoerenza con l'ultimo suo articolo. Premesso che il Concilio Vaticano II costituirebbe una svolta radicale e irreversibile, nella comprensione della fede ecclesiale, il documento afferma che il Deposito della Fede custodito dalla Sede Apostolica non avrebbe valore in sè, nè valore assoluto, ma piuttosto lo otterrebbe per la sua connotazione pastorale, la sola che renderebbe possibile l'interpretazione fedele della verità dentro l'esistenza storica della comunità; che la natura gerarchica della Chiesa visibile dovrebbe lasciare il posto a una concezione della chiesa come comunione di chiese; che la funzione magisteriale del primato petrino non escluderebbe la varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità; che la funzione del Magistero Pontificio nella chiesa delle origini non era riducibile alla funzione di guida della comunità e, pertanto, occorrerebbe ripensare tale funzione; che non si dovrebbe parlare di infallibilità del Magistero, anche di quello ordinario universale, ma della sua funzione pastorale; che il compito dei teologi non si svolge solo divulgando l'insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione ma, piuttosto, quando raccolgono e propongono le domande nuove [...] o quando percorrono [...] sentieri inesplorati.

Leggere oggi questo sublimato di modernismo dimostra come, più di vent'anni or sono, si stessero gettando le basi per un cambiamento dottrinale non ancora scongiurato, ad iniziare dal ripensamento del Primato Petrino.

Questi sedicenti teologi, dopo cinquant'anni di indottrinamento alla rivolta, di appoggio ideologico, mediatico, logistico ed economico ai più esagitati rappresentanti del dissenso, alzano il ditino ammonitore, e rivestono l'abito austero dell'inquisitore, per stigmatizzare ciò in cui essi per primi si sono dimostrati campioni. E lo fanno a sproposito, perché l'appello di Agnoli, De Mattei, Palmaro ed altri non ha né i toni né i contenuti dei diktat che sono invece usciti dalla penna di questi progressisti.

La ragione di tanto rancore è evidentissima: questo appello rischia di togliere il monopolio del dissenso ai soliti noti, e l'alibi democratico finisce per ritorcersi contro chi lo aveva partorito per servirsene a proprio piacimento, ma sempre e solo a senso unico. E sappiamo bene che è tipico degli artefici della rivoluzione attribuire al popolo una volontà di cui essi per primi sono abili suggeritori; volontà che pesa come un macigno sui governanti, quando si tratta di trarne vantaggio per la causa, ma che per incanto volge in demagogia o deriva populista non appena si discosta dai propri progetti o addirittura osa invocare un ritorno al passato.

Entriamo nel merito dell'articolo di Melloni. Egli sentenzia: «L’obbedienza soprannaturale dovuta al Papa può essere offesa sia con la esplicita ribellione al suo ministero d’unità sia con quello zelo untuoso e cortigiano che cerca di impossessarsi di qualche brandello del suo magistero per bastonare coloro che la pensano diversamente». Parlando di esplicita ribellione, accenna forse a quella obbedienza che «richiede la disponibilità a un'opposizione costruttiva» di cui parlavano i teologi di Colonia? Perché poi usare un'espressione come zelo untuoso e cortigiano? Crede Melloni che parlare come figli ad un padre sia indice di cortigianeria? Pensa che dovremmo rivolgerci al Pontefice come gli esagitati delle Comunità di Base?

È evidente che si sta concretizzando il timore che – non fosse che proprio in ragione dei modi rispettosi e pacati in cui è formulato l'appello – in Vaticano si finisca col prestare ascolto alle istanze di una parte del mondo cattolico non allineata con i novatori. La mentalità rivoluzionaria concepisce il mondo – e la Chiesa – per categorie, ma è troppo semplice dividere a colpi d'accetta i buoni dai cattivi, il bianco dal nero. E qualcuno inizia a stancarsi di esser bollato come un fanatico o un retrogrado per il solo fatto di non condividere la crisi in cui versa la Chiesa da cinquant'anni. Non dimentichiamo che è proprio del metodo della Rivoluzione identificare il nemico, demonizzandolo e screditandolo, esasperandolo e mettendolo in una posizione di inferiorità. Se il nemico è serio, affidabile, educato; se non lo si può accusare di nazismo o di estremismo, qualcuno gli potrebbe prestar fede, facendo venir meno il controllo omologato sull'opinione pubblica. Non per nulla Melloni osserva che «questa tentata intimidazione» potrebbe non essere «priva di qualche sponda interna alle congregazioni di curia». E meno male: sarebbe davvero sconsolante se tutta la Curia Romana si fosse lasciata lobotomizzare a colpi di spirito del Concilio e di spirito di Assisi. E già presagisce che i congiurati vogliano «ottenere un inciso del discorso papale, da usare ad nauseam come una sanzione contro coloro che detestano [...] dentro la Chiesa cattolica». Ad nauseam? Con che coraggio si sovverte la realtà, dopo averci rintronato col mantra conciliare in tutte le prediche, da tutte le cattedre, su tutti i periodici e giornali?

In verità si auspica ben più di un inciso, perché non pare che il rischio di sincretismo sia trascurabile. Puntualizza infatti De Mattei: «L’appello è una domanda aperta. Non è un’accusa nei confronti di nessuno. Assisi, tra l’altro, non è un evento dottrinale ma è un esercizio di governo. Nel 1986 ero ad Assisi. Ricordo le chiese cattoliche divenute sede di riti animisti. L’evento fu talmente catastrofico che poi Ratzinger cercò di riparare. Non a caso la sua posizione ecumenica fu fortemente diversa da quella del cardinale Walter Kasper. E’ questa diversità che speriamo il Papa metta in campo ad Assisi. Perché la prima Assisi, quella del 1986, con tutto l’impatto mediatico che ebbe, fu un disastro» (10).

Non crediamo che l'appello di persone perbene del mondo cattolico italiano sia una «mossa audace e sbagliata», di certo è meno audace e meno sbagliata di quel Documento dei sessantatre che Melloni ha sottoscritto assieme ad Alberigo, a Bianchi, a Turoldo. Scripta manent.

NOTE

1Cfr. Adista, anno XXV, n. 14, 15 Luglio 1990, pagg. 400-401

2Severino Dianich, Perchè il teologo dopo il Vaticano II è nell'occhio del ciclone?, in Famiglia cristiana, n. 30 del 1990

3Cfr. Lettera aperta al papa sulla “guerra santa” nel Vietnam, 1967. Citata anche in Storia dell'Italia repubblicana di Silvio Lanaro, Marsilio Editori, 1996

4Cfr. Il Regno - Attualità, anno XXXIV, n. 4, 15 Febbraio 1989, pagg. 71-74

5Cfr. Non possiamo più tacere. Documento di intellettuali cattolici francesi: vescovi e Vaticano uccidono la libertà, in Adista, anno XXIII, n. 27, 10/11/12-4-1989, pag. 5

6Cfr. Ibid., anno XXIII, n. 33, 4/5/6-5-1989, pagg. 11-12

7Luigi Bettazzi, Il magistero deve ascoltare di più il popolo di Dio, in Il risveglio popolare del 5 Luglio 1990

8L'elenco dei firmatari è il seguente: Attilio Agnoletto (Università Statale di Milano), Giuseppe Alberigo (Università di Bologna), Dario Antiseri (Università LUISS di Roma), Giuseppe Barbaccia (Università di Palermo), Giuseppe Barbaglio (Roma), Maria Cristina Bartolomei (Università di Milano), Giuseppe Battelli (Istituto per le Scienze Religiose Bologna), Fabio Bassi (Bruxelles), Edoardo Benvenuto (Università di Genova), Enzo Bianchi (Comunità di Bose), Bruna Bocchini (Università di Firenze), Giampiero Bof (Istituto Superiore di Scienze Religiose Urbino), Franco Bolgiani (Università di Torino), Gianantonio Borgonovo (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Franco Giulio Brambilla (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Remo Cacitti (Università di Milano), Pier Giorgio Camaiani (Università di Firenze), Giacomo Canobbio (Seminario di Cremona), Giovanni Cerei (Roma), Enrico Chiavacci (Studio teologico fiorentino), Settimio Cipriani (Facoltà teologica dell'Italia meridionale, Napoli), Tullio Citrino (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Pasquale Colella (Università di Salerno), Franco Conigliano (Università di Palermo), Eugenio Costa (Centro Teologico di Torino), Carlo d'Adda (Università di Bologna), Mario Degli Innocenti (Istituto per le Scienze Religiose Bologna), Luigi Della Torre (Direttore di "Servizio della parola", Roma), Roberto dell'Oro (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Severino Dianich (Studio Teologico Fiorentino), Achille Erba (Comunità San Dalmazzo, Torino), Rinaldo Fabris (Seminario di Udine), Giovanni Ferretti (Università di Macerata), Roberto Filippini (Studio teologico interdiocesano, Pisa), Alberto Gallas (Università del Sacro Cuore, Milano), Paolo Giannoni (Studio Teologico fiorentino), Rosino Gibellini (Direttore Editoriale Queriniana, Brescia), Réginald Grégoire (Università di Pavia), Giorgio Guala (Alessandria), Maurilio Guasco (Università di Torino), Giorgio Jossa (Università di Napoli), Siro Lombardini (Università di Torino), Italo Mancini (Università di Urbino), Luciano Martini (Università di Firenze), Alberto Melloni (Istituto per le Scienze Religiose, Bologna), Andrea Milano (Università della Basilicata), Carlo Molari (Roma), Dalmazio Mongillo (Roma), Mauro Nicolosi (Istituto di scienze religiose di Monreale, Palermo), Flavio Pajer (Istituto di liturgia pastorale, Padova), Giannino Piana (Seminario di Novara), Paolo Prodi (Università di Bologna), Armido Rizzi (Centro S. Apollinare, Fiesole), Giuseppe Ruggieri (Studio teologico S. Paolo, Catania), Giuliano Sansonetti (Università di Ferrara), Luigi Sartori (Seminario maggiore, Padova), Cosimo Scordato (Facoltà teologica sicula, Palermo), Mario Serenthà (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Massimo Toschi (Lucca), Davide Maria Turoldo (Priorato S. Egidio, Sotto il Monte), Maria Vingiani (Segretariato attività ecumeniche, Roma), Francesco Zanchini (Università abbruzzese, Teramo), Giuseppe Zarone (Università di Salerno).

9Cfr. Lettera ai cristiani. Oggi nella chiesa..., in Il Regno - Attualità, anno XXXIV, n. 10, 15 Maggio 1989, pagg. 244-245

10Cfr. Risposta a Melloni, fratello censore. Firmatari dell’appello al Papa su Assisi replicano all’intimidazione, in il Foglio, 13 Gennaio 2011