venerdì 12 ottobre 2012

contro semplicismi e tatticismi vari: "Magistero contro Tradizione?" di Don Pierpaolo Petrucci

Una spiegazione chiara ed intelliggibile dello staus queastionis
 

Magistero contro Tradizione?

Il motivo di contrasto fra la Fraternità San Pio X e le autorità romane è il suo opporsi all’insegnamento attuale della Chiesa, che fonda le sue radici nell’ultimo concilio. Tale opposizione è da noi motivata dal fatto che si insegnano ora nuove dottrine in contrasto con l’insegnamento passato. Il Vaticano ci accusa per questo di avere una concezione erronea della Tradizione e del magistero della Chiesa.
Secondo Giovanni Paolo II la posizione della Fraternità San Pio X ha come origine il fatto che non si consideri la Tradizione come qualcosa di vivente, rimanendo fissati sul passato. Così si esprimeva nel 1988, all’occasione della consacrazione dei nostri quattro vescovi: «La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione».[1]
A sua volta Benedetto XVI accusa la Fraternità San Pio X di essersi fissata al magistero pre-conciliare e di non riconoscere appunto il magistero del Concilio e del post-concilio: «Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità».[2]
La Tradizione deve essere vivente, cioè interpretata dal magistero attuale che ci dice oggi ciò che è conforme o meno alla fede. Chi vuole opporre la Tradizione di ieri al magistero di oggi si erge a giudice della Chiesa e del suo insegnamento, rimpiazzandolo appunto con il suo personale giudizio.
Per sviscerare il problema, rispondere a questa obiezione e comprendere in cosa consista questa opposizione che sembra sia fondamentale risolvere, prima di poter giungere ad una soluzione giuridica fra la Fraternità San Pio X e Roma, è necessario definire e chiarire i concetti di Tradizione e magistero.
La Rivelazione
Poiché la Tradizione è la trasmissione della Rivelazione divina tramite il magistero, cominciamo con il definire tale nozione. La Rivelazione è l’atto con cui Dio si manifesta all’uomo. Egli si fa conoscere prima di tutto tramite la creazione dell’universo, che riflette gli attributi divini per sé invisibili, ed è questa la Rivelazione naturale.
In modo particolare Dio si è manifestato per mezzo dei profeti e di Gesù Cristo, facendoci conoscere direttamente verità di per sé naturali, come l’immortalità dell’anima, ma anche verità che superano la ragione dell’uomo come tutti i misteri soprannaturali, per esempio la Santissima Trinità e l’Incarnazione.
La Rivelazione soprannaturale si definisce quindi come un insegnamento fatto da Dio agli uomini in ordine alla loro santificazione e alla vita eterna.[3] Essa si è chiusa con la morte dell’ultimo apostolo[4] e la Chiesa ricevette da Gesù Cristo il mandato di annunciarla a tutte le genti perché, tramite la fede nelle verità rivelate, gli uomini potessero giungere alla salvezza.
Compito della Chiesa è quindi trasmettere la Rivelazione intatta e approfondirla, attingendo dalle sue fonti che sono la Sacra Scrittura e la Tradizione, senza alterarla.[5]

La Tradizione
Il termine “tradizione” è di origine greca e significa trasmissione, dottrina orale. Nel senso teologico si può definire come la parola di Dio, concernente la fede e la morale, non scritta ma trasmessa a viva voce da Gesù, dagli apostoli e da questi ai loro successori fino a noi. Parola “non scritta” non nel senso che non possa essere contenuta in alcuno scritto, ma per differenziarla dalla Sacra Scrittura, altra fonte della Rivelazione divina, che appunto è stata scritta sotto l’ispirazione divina.
La Tradizione si dice divina quando l’insegnamento venne direttamente da Gesù Cristo; divino-apostolica quando esso fu dato agli apostoli per ispirazione dello Spirito Santo secondo la promessa di Gesù: «Il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto».[6]
Contro l’eresia protestante che nega la Tradizione come fonte della Rivelazione, il Concilio di Trento ha definito che la dottrina riguardante la fede e la morale «si contiene tanto nei libri scritti (Sacra Scrittura) quanto nelle tradizioni non scritte» e quindi bisogna ricevere con «uguale pietà e amore e riverenza» sia l’una che l’altra fonte della Rivelazione.[7]
Gesù, dopo aver predicato (e non scritto) la sua dottrina, affidò agli apostoli la missione non di scrivere ma di propagare oralmente quanto avevano udito dalle sue labbra o avrebbero imparato dai suggerimenti dello Spirito Santo. «Andate dunque ad insegnare a tutte le genti» (Mt 28,18). «Andate per tutto il mondo e predicate l'evangelo a ogni creatura» (Mc 16,15).
I principali strumenti attraverso i quali si è conservata la Tradizione divina sono le professioni di fede, la sacra liturgia, gli scritti dei Padri, gli atti dei martiri, la prassi della Chiesa, i monumenti archeologici. La Rivelazione divina quindi ci proviene da due fonti: la Tradizione e la Sacra Scrittura. L’organo che ce la trasmette intatta è il magistero infallibile della Chiesa.[8]
Il magistero
Nel senso etimologico il magistero è una funzione che ha per scopo di istruire. Poiché l’oggetto del magistero ecclesiastico sono le verità di fede rivelate, questa istruzione si farà essenzialmente per testimonianza: trasmissione delle verità di fede ricevute da Dio per permettere agli uomini di giungere al fine per cui sono stati creati: la salvezza eterna.
Il magistero si può definire come il potere conferito da Gesù Cristo alla sua Chiesa in virtù del quale essa è costituita unica depositaria e autentica interprete della Rivelazione divina da proporre agli uomini come oggetto di fede per la loro salvezza eterna, in maniera infallibile in quanto assistita divinamente da Gesù Cristo.[9] Quando si parla di magistero è opportuno distinguerne il soggetto (il Papa ed i vescovi) dal contenuto (trasmissione e approfondimento del deposito rivelato) e infine dal suo modo di esercizio (infallibile o semplicemente autentico).
Chi insegna?
Il soggetto di tale potere è il Papa cui il Signore ha affidato il compito di pascere le sue pecorelle, aiutato dai vescovi. È questa la Chiesa insegnante. Si tratta di un soggetto umano e quindi volontario, assistito da Dio, nella missione che gli è stata affidata, nella misura in cui vorrà sottomettersi a questa assistenza divina ed esercitare il potere di insegnare.
L’oggetto del magistero
L’oggetto del magistero sono le verità rivelate da trasmettere, approfondire e difendere, senza alcuna variazione né cambiamento. Il magistero della Chiesa, in quanto contenuto, è essenzialmente tradizionale e costante.
Fra l’insegnamento degli apostoli e quello dei loro successori vi è una differenza importante che il card. Franzelin sintetizza con questo parole: «L’apostolato fu istituito per fondare la Chiesa predicando tutta la verità rivelata. Per questo i successori degli apostoli non possono aver per funzione di rivelare ancora un’altra verità; devono al contrario conservare e predicare nella sua integrità e nel suo significato autentico tutta la verità che gli apostoli hanno ricevuto». In altre parole il magistero degli apostoli è stato l’organo della Rivelazione mentre il magistero della Chiesa è quello della Tradizione nel suo senso più etimologico, cioè quello della trasmissione del deposito ricevuto. Per questo una tale trasmissione dipende della Rivelazione che è la sua regola ed il suo principio fondamentale. «I successori degli apostoli – continua il nostro autore – appaiono sempre come i testimoni ed i dottori incaricati di proporre unicamente ciò che hanno ricevuto dagli apostoli. Il loro incarico apostolico ed il loro compito infatti ha per oggetto il rimanere fedeli all’insegnamento che hanno ricevuto e alle verità che sono state loro affidate dagli apostoli».[10]

L’approfondimento del deposito rivelato
Il compito del magistero non consiste unicamente nel trasmettere le verità di fede ma anche nell’approfondirle, cioè darne ai fedeli una comprensione più grande. Ciò deve farsi non nel senso di una evoluzione eterogenea del dogma, ma soltanto tramite una comprensione più grande di ciò che è già stato rivelato. Il magistero contribuisce al passaggio da una conoscenza implicita ad una conoscenza più esplicita della fede. Così si esprime padre Marin Zola nel suo studio magistrale su dogma cattolico: «Gli apostoli non hanno comunicato alla Chiesa una spiegazione perfetta di tutto il senso implicito (della Rivelazione) che conoscevano esplicitamente. Però hanno lasciato il magistero dogmatico permanente, prolungamento perpetuo del loro magistero divino, per spiegare o manifestare sempre più “l’implicito” del deposito rivelato, a seconda che lo avrebbero richiesto le eresie, le controversie o le necessità di ogni epoca».[11]
Un tale approfondimento, come dichiara il Concilio Vaticano I, deve prodursi «nella stessa credenza, nello stesso senso, nello stesso pensiero». Non è mai possibile allontanarsi dal senso delle verità di fede definite «sotto il pretesto o in nome di una comprensione più approfondita».[12]
Il modo dell’insegnamento
Questa assistenza divina alla Chiesa è differente a secondo di come essa esercita il suo potere magisteriale poiché esso dipende dalla volontà del soggetto. Il Papa può insegnare in maniera infallibile, in modo semplicemente autentico, si può accontentare di riferire opinioni personali, oppure, e questo sembra essere il nocciolo del problema del concilio Vaticano II, limitarsi a dare consigli pastorali.

Il magistero infallibile
Magistero infallibile è quello in cui il Papa è assistito divinamente perché possa insegnare senza errore la verità rivelata. Egli gioisce del carisma dell’infallibilità nel suo atto solenne quando, da solo ex cathedra oppure quando si trova alla testa di tutto il corpo dei vescovi riuniti in concilio ecumenico, definisce una dottrina sulla fede o la morale in quanto pastore supremo, da tenersi da tutta la Chiesa.[13]
Nel concilio il soggetto dell’infallibilità è sempre il Papa, capo di quella persona morale che è il concilio, anche se il modo di insegnamento è diverso (non da solo ma appunto in unione con tutti i vescovi riuniti). Non vi sono due soggetti distinti del carisma dell’infallibilità ma uno solo, il Papa, che può insegnare in modi diversi. Il concilio è quindi formalmente soggetto del primato in ragione del Papa poiché, secondo il Concilio Vaticano I[14], il soggetto del primato è unico ed è il Papa.[15]
Il concilio ecumenico è quindi infallibile quando intende definire una verità di fede perché partecipa dell’infallibilità del Papa. Tale volontà di definire si può constatare nei suoi decreti quando si afferma che una verità deve essere creduta fermamente dai fedeli o ancora quando la si deve ricevere come un dogma di fede; quando si condanna con l’anatema l’errore contrario, quando la proposizione contraddittoria alla verità di fede insegnata è qualificata come eretica.
Il Papa poi può anche definire infallibilmente delle dottrine e condannare errori senza affermare esplicitamente che sono da tenersi di fede. In questo caso chi le nega non può considerarsi formalmente eretico, ma pecca gravemente contro la fede.[16]

Il magistero ordinario e universale
Il magistero infallibile del Papa si esercita in maniera ordinaria, quando egli insegna alla testa ed in unione con il corpo episcopale disperso nel mondo. È questo il Magistero ordinario universale (MOU).
Lo si chiama ordinario perché è dato al di fuori delle circostanze eccezionali delle definizioni ex cathedra e del concilio ecumenico. Esso si esercita tutti i giorni tramite la predicazione abituale dei pastori. È universale perché, per gioire della nota di infallibilità, deve esercitarsi, dal Papa e dai vescovi a lui sottomessi e dispersi nel mondo, in maniera concorde ed unanime.
Questa unanimità non deve essere soltanto considerata nello spazio, cioè tutti i vescovi viventi uniti al Papa, ma anche nel tempo per ciò che riguardo la dottrina insegnata. Esso è per definizione tradizionale, nel senso che si fa eco oggi della dottrina insegnata nei secoli.
Non definisce, come lo fa il magistero solenne, ma propone semplicemente l’oggetto della fede e lo trasmette. Un elemento che secondo Pio IX (Tua libenter) permette di riconoscere le verità che sono proposte come dogmi dal magistero ordinario della Chiesa dispersa è l’accordo unanime e costante dei teologi: «Infatti anche se si tratta di quella sottomissione che si deve prestare con un atto di fede divina, tuttavia questa non deve essere limitata a quelle cose che sono state definite con espliciti decreti dei concili o dei pontefici romani e di questa sede apostolica, ma deve essere estesa anche a quelle cose che, per mezzo del magistero ordinario di tutta la chiesa diffusa su tutta la terra, sono trasmesse come divinamente rivelate e quindi, per l’universale e costante consenso, dai teologi cattolici sono considerate come appartenenti alla fede» (Dz 2879).
La definizione dogmatica suppone l’insegnamento del magistero universale; essa precisa che tale verità, già insegnata dalla Chiesa, deve essere creduta come definita di fede divina e cattolica.

Regola prossima della fede
La Sacra Scrittura e la Tradizione sono quindi la fonte e la regola remota della fede, mentre la regola prossima è il magistero della Chiesa. Si tratta del magistero infallibile e definitivo che nel corso dei secoli ci ha trasmesso intatto ed in maniera sempre più intelligibile il deposito rivelato, senza mai alterarlo, e che deve continuare nella sua opera fino alla fine del mondo.
Sant’Agostino, facendosi eco di tutto l’insegnamento della Tradizione, affermava che egli non crederebbe neppure al Vangelo se il Magistero della Chiesa non glielo proponesse a credere.[17] Lutero ha osato impugnare questa verità vissuta già da 15 secoli di cristianesimo e, rinnegando il magistero della Chiesa, ha proclamato come unica regola di fede la Sacra Scrittura affidata all'interpretazione individuale dei fedeli. Le innumerevoli sette protestanti, con lo smarrimento e la degenerazione dottrinale che le caratterizza, sono una prova evidente del fallimento di quel falso principio.[18]

Il magistero semplicemente autentico
Il magistero semplicemente autentico è quello che si esercita senza impegnare l'infallibilità. La stessa definizione dell’infallibilità pontificia data dal Concilio Vaticano I, stabilendo le condizioni nelle quali il Papa è infallibile, lascia aperta la possibilità che, al di fuori di esse, non vi sia questa assistenza. Questo può verificarsi quando non vi è giudizio positivo sulla dottrina rivelata, ma il Papa vuol semplicemente dirimere una controversia; oppure vi è un giudizio positivo ma unicamente prudenziale e non definitivo.[19]
Gli atti di un insegnamento non infallibile reclamano comunque un assenso religioso interno, cioè dell’intelletto sotto la mozione della volontà. Questo assenso può essere sospeso solo nel caso in cui appare affermata una dottrina chiaramente in contrasto con il magistero infallibile.
Quando si constatasse «un’opposizione precisa tra un testo di enciclica e le altre testimonianze della Tradizione apostolica» allora, per il cattolico che abbia approfondito la questione, è possibile sospendere o negare il suo assenso al documento papale.[20]

Magistero vivente e perennità della fede
Poste queste premesse cerchiamo ora di rispondere alle accuse mosse alla Fraternità San Pio X di «non tener conto del carattere vivo della Tradizione» e di «voler congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962».[21]
Quando si parla di “carattere vivo della Tradizione”, se si intende la capacità che ha l’insegnamento di Gesù e degli apostoli, trasmessoci dalla Chiesa fino ad oggi tramite il suo magistero infallibile e quindi immutabile, di dare la vita spirituale alle anime e di vivificare la società contemporanea, siamo i primi ad aderire a questa verità incontestabile.
Se si intende invece il concetto di “tradizione vivente” come una caratteristica del deposito rivelato trasmesso dalla Chiesa di trasformarsi ed adattarsi ai tempi e alle circostanze fino al punto di essere in contraddizione con l’insegnamento infallibile del passato, allora siamo di fronte alla teoria modernista dell’evoluzione dei dogmi.
Se per “voler congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962” si vuol affermare che la Chiesa non ha più potere di insegnare a partire da quell’anno, chiaramente rigettiamo quest’errore e riconosciamo che la Chiesa anche oggi ha il potere di insegnare, di trasmettere e approfondire con il suo magistero infallibile la verità, e questo fino alla fine del mondo.
Ma se si intende con questa affermazione che l’autorità della Chiesa di oggi avrebbe il potere di insegnare ed obbligare a credere qualche cosa di diverso da quello che il magistero ha già definito infallibilmente, chiaramente ci troviamo di fronte ad una concezione erronea del magistero, slegata dal motivo formale per cui fu istituito da Nostro Signore, cioè la trasmissione di ciò che già è stato rivelato, approfondendolo «nello stesso senso e nello stesso pensiero».
L’attributo “vivente” può concernere il soggetto dell’atto del magistero, cioè il Papa ed i vescovi, oppure riguardare il contenuto del loro insegnamento. Per quel che è del soggetto, “vivente” si oppone a “postumo”. Il magistero postumo è quello esercitato con autorità da tutti i Papi e vescovi del passato, che continua comunque ad esercitarsi tramite i loro scritti che, in quanto infallibili, sono di loro natura immutabili. Il magistero vivente invece è l’insegnamento attuale dei pastori della Chiesa che si esercita principalmente tramite la predicazione orale fatta dai ministri legittimi, e per i loro scritti.
Ma quanto al contenuto dell’insegnamento, le professioni di fede, i dogmi, tutte le verità definite ed insegnate infallibilmente nel passato, continuano, tramite lo scritto, a far parte del magistero vivente della Chiesa e nessuna autorità ecclesiastica potrà mai legittimamente contraddirle o insegnare l’opposto.
Il magistero vivente può, come abbiamo visto, approfondire sempre di più le verità di fede già rivelate, darne una comprensione sempre più profonda, ma sempre nello stesso senso e nella stessa linea di ciò che è già stato insegnato in maniera definitiva.
In questo senso l’attributo “vivente” è una caratteristica essenziale del magistero della Chiesa. I pastori di oggi si fanno eco di quelli di ieri e quelli di domani continueranno ad annunciare il messaggio ascoltato da Gesù e dagli apostoli fino alla fine del mondo, difendendolo dagli errori e dalle eresie, per generare la fede negli uomini e dare così loro la possibilità di raggiungere la salvezza eterna.
Libero esame o difesa della fede?
“Come i protestanti anche voi giudicate il magistero della Chiesa, ma al posto della Sola Scriptura utilizzate il criterio Sola Traditione, come se non fosse la Chiesa ad insegnarci ciò che è contenuto nella Tradizione. Sostituite così il vostro giudizio a quello della Chiesa e cadete nell’errore del libero esame”. Questa l’accusa ricorrente da parte di alcuni dei nostri oppositori.
Si risponde facilmente a una tale obiezione che il criterio di giudizio non è soggettivo. Non è l’individuo che può ergersi a giudicare il magistero attuale, secondo le sue idee personali.
Il criterio di giudizio, poi, non si può neppure assumere unicamente da una sorgente del deposito rivelato, come fanno i protestanti con la Sacra Scrittura. Tale criterio può essere soltanto tutto il deposito rivelato cioè Sacra Scrittura e Tradizione come ci è stata trasmessa infallibilmente appunto dal magistero Chiesa.
Quando una contraddizione appare in maniera manifesta alla ragione fra una dottrina proposta con ciò che sono obbligato a credere, devo far riferimento a ciò che la Chiesa, guidata dal magistero, ha sempre creduto.[22] La ragione manifesta questa opposizione, ma chi permette di portare il giudizio sull’errore è il magistero definitivo della Chiesa, criterio assoluto e definitivo di verità.
Concretamente, se un giorno una qualunque autorità nella Chiesa, compreso il Papa, affermasse che nella Santissima Trinità ci sono quattro persone, non potrei essere tacciato di libero esame se affermassi che tale insegnamento è falso, perché il mistero della Santissima Trinità è già stato definito in maniera irrevocabile dalla Chiesa e quindi nel futuro essa potrà soltanto cercare di approfondire questo dogma, ma mai insegnare il contrario di ciò che ha già insegnato infallibilmente.
Ora vi è palese contraddizione fra l’insegnamento tradizionale della Chiesa e numerose nuove dottrine propagate dal Concilio Vaticano II e nel post-concilio come è stato dimostrato in numerose pubblicazioni e come teologi di rilevanza, anche nell’ambito della Chiesa ufficiale,[23] hanno anche recentemente messo in rilievo. In questa sede sarà sufficiente mostrare, con qualche citazione, come questo disaccordo è riconosciuto persino da personalità di spicco della Chiesa, che hanno partecipato attivamente all’ultimo concilio.
«Non si può negare che la Dichiarazione sulla libertà religiosa dica materialmente altra cosa che il Sillabo del 1864 e anche più o meno il contrario».[24]
«Se si cerca una diagnosi globale del testo (Gaudium et spes), si potrebbe dire che è (unitamente ai testi sulla libertà religiosa e sulle religioni del mondo) una revisione del Sillabo di Pio IX, una sorta di contro-sillabo».[25]
«Si potrebbe fare una lista impressionante delle tesi insegnate a Roma prima del Concilio come unicamente valide e che furono eliminate dai Padri del concilio».[26]

«È chiaro, sarebbe vano nasconderlo, il decreto conciliare Unitatis Redintegratio afferma su più punti altra cosa che “Fuori dalla Chiesa non vi è salvezza”, nel senso in cui si è inteso questo assioma durante dei secoli. (…) Lumen Gentium ha abbandonato la tesi che la Chiesa Cattolica sarebbe Chiesa in maniera esclusiva».[27]
«In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. (…) Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità».[28]
Di fronte a questi cambiamenti che toccano la fede e sono alla radice della grave crisi che la Chiesa sta subendo, è doveroso manifestare pubblicamente la propria opposizione, alla luce del vero magistero vivo della Chiesa che è il suo insegnamento costante, infallibile e definitivo, il solo capace di illuminare l’oscurità e l’incertezza dottrinale contemporanea.
da La Tradizione Cattolica anno XXIII n° 2

[1] Giovanni Paolo II, Motu proprio Ecclesia Dei afflicta del 2 luglio 1988
[2] Benedetto XVI, Lettera ai vescovi, 10 marzo 2009
[3] Pietro Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica, ed. Studium 1952 p. 293
[4] Il decreto Lamentabili di S. Pio X nella sua 21° proposizione condanna l’errore opposto.
[5] Concilio Vaticano I, Costituzione Dei Filius, c. 4; DS 3020
[6] Gv 14,26
[7] Sess. 4
[8] Cfr. Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica p. 332 et ss.
[9] Cfr. Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica p. 204
[10] Tesi 22
[11] Marin Sola, L’évolution homogène du dogme catholique n° 59
[12] Conc. Vat. I Dei Filius cap. 4; DS 3020
[13] Concilio Vaticano I, Pastor aeternus, c. 4
[14] Pastor aeternus cap 3 Dz 3059
[15] La nuova teoria proposta da Lumen gentium (cap. 3, 22) secondo cui il corpo dei vescovi unito al Papa sarebbe, oltre al Papa solo, un altro soggetto permanente ed ordinario del potere supremo, è totalmente contraria all’insegnamento tradizionale della Chiesa.
[16] Non è stata ancora definita l’infallibilità per ciò che non è presentato dal Papa come di fede divina. Marin Sola, L’Evolution homogène du dogme catholique, T. I n° 269 p. 472
[17] Contra ep. fundam. C. 5, PL, 42, 176
[18] Cfr. Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica p. 204
[19] Billot, De Ecclesia Q 14 Tesi 31, 1 p. 640
[20] Arnaldo Xavier da Silveira, La nouvelle messe de Paul VI: qu’en penser? DPF 1974, p. 300 et ss.
[21] Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, vedi introduzione all’articolo.
[22] È il criterio che ci propone san Vincenzo di Lerino: «Quod semper quod ubique quod ab omnibus».
[23] Come per esempio mons. Brunero Gherardini e padre Serafino Lanzetta. Leggere in particolare Lo hanno detronizzato, mons. Marcel Lefebvre, ed. Amicizia Cristiana 2009.
[24] Y. Congar, La crise de l’Eglise et Mgr Lefebvre, le Cerf 1977, p. 54
[25] I principi della teologia cattolica, Card. Ratzinger 1982
[26] Card. Suenens, I.C.I del 15 maggio 1969
[27] Congar, Essais oecumeniques, le Centurion 1984 p. 216
[28] Benedetto XVI, Discorso alla Curia, 22-12-2005

martedì 9 ottobre 2012

de Mattei e l'omissione del Concilio

Ecco perché

il Vaticano II

non condannò

il comunismo

L’Unione Sovietica e i Paesi del blocco ricattarono i vertici ecclesiastici affinché il sinodo non approvasse petizioni contro gli orrori staliniani


 
Poiché in questi giorni se ne evocano soprattutto le luci, mi sia permesso ricordarne una vasta zona d'ombra: la mancata condanna del comunismo. Erano gli anni '60 e aleggiava un nuovo spirito di ottimismo incarnato da Giovanni XXIII, il «Papa buono», Nikita Kruscev, il comunista dal volto umano, e John Kennedy, l'eroe della «nuova frontiera» americana. Ma erano anche gli anni in cui veniva innalzato il muro di Berlino (1961) e i sovietici installavano i missili a Cuba (1962). L'imperialismo comunista costituiva una macroscopica realtà che il Concilio Vaticano II, il primo «concilio pastorale» della storia, apertosi a Roma l'11 ottobre 1962 e conclusosi l'8 dicembre 1965, non avrebbe potuto ignorare.
In Concilio vi fu uno scontro tra due minoranze: una chiedeva di rinnovare la condanna del comunismo, l'altra esigeva una linea «dialogica» e aperta alla modernità, di cui il comunismo pareva espressione. Una petizione di condanna del comunismo, presentata il 9 ottobre '65 da 454 Padri conciliari di 86 Paesi, non venne neppure trasmessa alle Commissioni che stavano lavorando sullo schema, provocando scandalo.
Oggi sappiamo che nell'agosto del '62, nella città francese di Metz, era stato stipulato un accordo segreto fra il cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano, e il nuovo arcivescovo ortodosso di Yaroslav, monsignor Nicodemo, il quale, come è stato documentato dopo l'apertura degli archivi di Mosca, era un agente del KGB. In base a questo accordo le autorità ecclesiastiche si impegnarono a non parlare del comunismo in Concilio. Era questa la condizione richiesta dal Cremlino per permettere la partecipazione di osservatori del Patriarcato di Mosca al Concilio Vaticano II (si veda: Jean Madiran, L'accordo di Metz, Il Borghese, Roma 2011). Un appunto di pugno di Paolo VI, conservato nell'Archivio Segreto Vaticano, conferma l'esistenza di questo accordo, come ho documentato nel mio Il Concilio Vaticano II. Una storia non scritta (Lindau, 2010). Altri documenti interessanti sono stati pubblicati da George Weigel nel secondo volume della sua imponente biografia di Giovanni Paolo II (L'inizio e la fine, Cantagalli, 2012).Weigel ha infatti consultato fonti come gli archivi del KGB, dello Sluzba Bezpieczenstewa (SB) polacco e della Stasi della Germania Est, traendone documenti che confermano come i governi comunisti e i servizi segreti dei Paesi orientali penetrarono in Vaticano per favorire i loro interessi e infiltrarsi nei ranghi più alti della gerarchia cattolica. A Roma, negli anni del Concilio e del postconcilio, il Collegio Ungherese divenne una filiale dei servizi segreti di Budapest. Tutti i rettori del Collegio dal 1965 al 1987, scrive Weigel, dovevano essere agenti addestrati e capaci, con competenza nelle operazioni di disinformazione e nell'installazione di microspie. L'SB polacco, secondo lo studioso americano, cercò persino di falsare la discussione del Concilio sui punti peculiari della teologia cattolica come il ruolo di Maria nella storia della salvezza. Il direttore del IV Dipartimento, il colonnello Stanislaw Morawski, lavorò con una dozzina di collaboratori esperti in mariologia per preparare un pro-memoria per i vescovi del Concilio, in cui si criticava la concezione «massimalista» della Beata Maria Vergine del cardinale Wyszynski e di altri presuli.
La costituzione Gaudium et Spes, sedicesimo e ultimo documento promulgato dal Concilio Vaticano II, volle essere una definizione completamente nuova dei rapporti tra la Chiesa e il mondo. In essa mancava però qualsiasi forma di condanna al comunismo. La Gaudium et Spes cercava il dialogo con il mondo moderno, nella convinzione che l'itinerario da esso percorso, dall'umanesimo e dal protestantesimo, fino alla Rivoluzione francese e al marxismo, fosse un processo irreversibile. Il pensiero marx-illuminista e la società dei consumi da esso alimentata era in realtà alla vigilia di una crisi profonda, che avrebbe manifestato i primi sintomi di lì a pochi anni, nella Rivoluzione del '68. I Padri conciliari avrebbero potuto compiere un gesto profetico sfidando la modernità piuttosto che abbracciarne il corpo in decomposizione, come avvenne. Ma oggi ci chiediamo: erano profeti coloro che in Concilio denunciavano l'oppressione brutale del comunismo reclamando una sua solenne condanna o chi riteneva, come gli artefici dell'Ostpolitik, che occorreva trovare un compromesso con la Russia sovietica, perché il comunismo interpretava le ansie di giustizia dell'umanità e sarebbe sopravvissuto uno o due secoli almeno, migliorando il mondo?
Il Concilio Vaticano II, ha affermato recentemente il cardinale Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato per le Scienze Storiche, «avrebbe scritto una pagina gloriosa se, seguendo le orme di Pio XII, avesse trovato il coraggio di pronunciare un ripetuta ed espressa condanna del comunismo». Così purtroppo non accadde e gli storici devono registrare come un'imperdonabile omissione la mancata condanna del comunismo da parte di un Concilio che si proponeva di occuparsi del problemi del mondo a lui contemporaneo.

Roberto de Mattei, autore di Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau 2010, vincitore del Premio Acqui Storia 2011 e tradotto o in corso di traduzione in cinque lingue
 

lunedì 8 ottobre 2012

"Che se pure si vuole conservato il culto esterno secondo i placiti del simbolismo modernista, esso è ridotto a un'ombra, a un cadavere di culto, senza spirito nè vita, o più veramente a una forma d'impostura"

La Civiltà Cattolica, anno 59°, vol. 4 (fasc. 1401, 29 ottobre 1908), Roma 1908, pag. 288-301.

tratto da: http://progettobarruel.zxq.net/novita/11/modernismo_riformista.html

IL MODERNISMO RIFORMISTA

L'eretico - che è l'anarchico dell'ordine religioso e morale - insorge volentieri, come l'anarchico politico e sociale, a nome di qualche idea, o piuttosto di qualche parola sublime, particolarmente al suono grandioso di rinnovazione, di progresso, di riforma. Solo, quando dalle altezze della speculazione scende alle enormezze dell'applicazione, alla pratica, egli si scopre qual'è di fatto: sotto il manto del riformatore ardimentoso un abbietto e orgoglioso pervertitore. Tutta la storia dei secoli cristiani è piena di questo fatto: e il fatto, del resto, ha la sua radice nell'istinto, già sovente denunziato, dell'errore e del vizio, che è di trasfigurarsi nelle sembianze della verità e della virtù. È quindi sommamente benemerito chi strappandogli la maschera a tempo, ne mette a nudo la laida figura, prima che la simulazione gli abbia procacciato credito e potenza a danno della religione e della morale, della Chiesa e della società. Ora ciò è avvenuto al modernismo, grazie sopra tutto alla vigorosa enciclica Pascendi: esso apparve nella sua vergognosa nudità, non saggio riformatore, quale si vanta, ma distruttore insipiente, ma pervertitore. E tale dobbiamo ora mostrarlo anche noi, brevemente, su le tracce dell'enciclica, per conchiudere, con questa rapida occhiata, la nostra già troppo lunga trattazione del modernismo.

I.

Ma innanzi tratto avvertiamo - per dissipare un equivoco, futile ma assai comodo ai modernisti e però troppo abusato - avvertiamo che non dicesi il modernismo pervertitore e distruttore per ciò solo che denunzi abusi o dimandi riforme, tutt'altro: sarebbe questo anzi un gran merito di sincerità e di zelo, ove si facesse debitamente, come fu proprio sempre delle anime nobili, disinteressate e sante. Infatti o per abuso s'intende più propriamente l'uso disordinato di alcun potere o diritto legittimo, ovvero più largamente vi si comprende qualsiasi specie di disordine, di inconveniente, di difetto. Ora nell'un senso e nell'altro è troppo chiaro che l'abuso non può mancare mai, a lungo andare, d'insinuarsi per qualche parte in qualsiasi opera, società o istituzione di creature razionali e libere, ma insieme manchevoli e finite. Il denunziarlo dunque in modo convenevole e più l'adoperarsi a rimuoverlo è opera onesta: spesso è difficile, talvolta delicata, ma sempre necessaria. E questa è l'opera del riformatore.
Nè l'opera, pertanto, di riforma è propria dell'età nostra, nè di questa o quella età: è di tutti i tempi. Nè vale solo per questa o quella condizione di società o di vita, ma è necessità, è legge, è quasi di essenza, della vita stessa umana, sia individuale o sociale. Più, la riforma è legge e condizione di progresso nelle cose tutte soggette a mutabilità o di scadimento o d'incremento: quindi riforma di studii e di idee nella vita scientifica, riforma di costumi e di leggi nella vita morale dell'individuo e della società, e via dicendo. Più ancora; per salire alla ragione ultima e profonda, questa legge o condizione della vita è ineluttabile e perpetua, siccome conseguenza intrinseca e necessaria della defettibilità per una parte, e per l'altra della perfettibilità dell'uomo e di quanto è soggetto all'uomo quaggiù. Dall'essere, cioè, defettibile viene che la creatura può scadere a mano a mano dalla sua nativa perfezione; dall'essere perfettibile segue che può essere ricondotta alla perfezione antica, che è quanto dire, riformata. La defettibilità fa l'uomo bisognoso; la perfettibilità lo fa capace di progresso, di emendazione o di riforma. Poichè, rispetto a ciò, è assioma ben vecchio nella vita dello spirito, che lo stesso non progredi retrogredi est.
Nè perchè facciano parte della Chiesa gli uomini, siano semplici fedeli, siano pastori, perdono punto o l'una o l'altra proprietà loro intrinseca, onde vanno soggetti ad abusi o certo a deficienze, e restano quindi bisognosi sempre ed insieme sempre capaci di perfezionamento o di riforme. Ma questo elemento umano, così mutevole ed imperfetto, che va unito all'elemento divino, costante e immutabile nella Chiesa, non va però mai con esso confuso, nè mai lo altera per abusi nè per riforme lo modifica, bensì mantenendolo fra abusi e riforme immutato, ne comprova col fatto stesso della sua storia la natura e l'origine diversa, cioè divina.
Ora nel confondere l'uno e l'altro elemento pecca anzitutto il modernismo riformista: esso chiama crisi della Chiesa, abusi e disordini della Chiesa quelli che sono nella Chiesa; e con ciò perverte il concetto della Chiesa stessa e ne rinnega l'origine e la vitalità divina, attribuendo a lei, alla sua essenza, al suo governo o costituzione essenziale gli abusi che sono proprii dei suoi membri infermi, con la conseguente necessità delle riforme. La Chiesa, in quanto società divina, quale uscì dalle mani di Cristo fondatore, non ha nè può avere macchia nè ruga nè altra imperfezione siffatta. Con lei è Cristo, maestro e autore della santità, fino alla consumazione dei secoli; e Cristo la preserva dalla corruzione della colpa come dal traviamento dell'errore, e così intatta egli la guida, fra la pestilenza del secolo e le torbide vicende della storia, serbandola sempre giovine e fiorente per le sponsalizie eterne.
Quindi pure il corpo intero della Chiesa non è, nè può dirsi mai contaminato da abusi, nè che mai li approvi o li fomenti. Perchè, siccome scriveva al nostro proposito S. Agostino, «la Chiesa di Dio, così posta fra molta paglia e molta zizzania, molte cose tollera; ma quelle che sono contro la fede o la vita buona non approva, nè tace, nè fa» [1].
A tale distinzione, elementare ma vitalissima, non ponendo mente il modernista, e talora anzi positivamente irridendola, egli si accosta, o peggio entra innanzi, agli eretici tutti dei secoli andati, nominatamente al protestante della pseudo-riforma del secolo decimosesto, al giansenista del decimosettimo, al filosofo e libertino del decimottavo, al liberale del decimonono. Tutti costoro infatti sono concordi a gridar tralignata la Chiesa per gli abusi di alcuni suoi figli, bisognosa quindi d'essere svecchiata o riformata a loro capriccio sotto l'uno o l'altro pretesto; sebbene per alcuni il pretesto è la necessità di ricondurla indietro alla semplicità dei primi secoli, alla sublime povertà delle catacombe - e il maligno aggiunge con sarcasmo, alla paglia di Betlem - per altri è il bisogno di sospingerla innanzi, a seconda della corrente impetuosa dei tempi, di ringiovanirla nella freschezza perenne del progresso; perchè, fatta piacente al secolo, stringa con lui il nuovo connubio.
Fra questo doppio intento ondeggiano appunto i seguaci del modernismo riformista; e se discordano tra loro, ciò è solo nell'apparenza o in qualche proposito secondario: il principio onde muovono ad accusare la Chiesa stessa per gli abusi veri o supposti di alcuni suoi figli, è uno in tutti: lo spirito del mondo e il disamore della Chiesa. Quindi uno è pure in tutti l'esito finale: il pervertimento, non la riforma.

II.

E ciò appare altresì, con troppo trista evidenza, dallo strano contegno e dal modo con cui questi nuovi falsi riformatori, a somiglianza degli antichi, si fanno denunziatori di scandali e di abusi. Qui parliamo di cose a tutti note, in Italia e fuori di Italia: e senza che noi li ripetiamo ne ricorrono alla mente di ognuno gli autori. Come quelli antichi, così questi moderni o inventano o aggravano o propalano ingiustamente; come quelli antichi, appaiono quasi invasati da una smania, da una frenesia morbosa di calunnia, di esagerazione, di pettegolezzo. E questa frenesia mette lingua in ogni cosa; ogni cosa maledice o deprime, nè ha riguardo a persona, se non sia modernista o in qualche modo anticattolica; e che è peggio, scambia le ombre con la realtà, dà come veri fatti i sogni delle stravolte immaginazioni e i macchinamenti degli animi inveleniti, o infine sopra una tenuissima trama di verità viene ricamando tutta una tela fantastica di accuse, d'insinuazioni, di esagerazioni, insomma d'ingiustissime denunzie; le quali poi, ingrossate sformatamente, va propalando contro ogni ragione di giustizia, nonchè di carità e di convenienza. Tutto ciò a nome della sincerità e della lealtà; di cui si attribuiscono essi il vanto e per poco il monopolio. Ma noi qui diremo solo con ogni mitezza ciò che si scriveva, già, oltre un secolo fa, dei modernisti d'allora, del pari smaniosi di propalare scandali ed abusi:
«Può darsi che questa specie di mania sia zelo: ma può darsi altresì che sia avversione ed amor proprio. S'ella è zelo, dee trar la sua origine da un cuor retto, deve accompagnarsi colla carità e colla imparzialità. In tal caso non si udranno fremere le nostre labbra, quando ci verrà occasione di parlare dei disordini del clero, non si tingeranno di sangue i nostri occhi, non cercheremo compagni nelle nostre impetuose declamazioni, e non crederemo troppo volentieri a tutto quello che ci si racconta di tali disordini. Ma s'ella poi è avversione e amor proprio, le invettive si affolleranno con disordine su le nostre labbra, volgeremo le spalle a chiunque osi difendere la fama del clero, e si proverà una segreta compiacenza de' suoi mali e delle sue sventure. Gli Ebrei, i Turchi, gli eretici saranno nostri teneri fratelli, perchè non mettono nessun ostacolo alle nostre passioni, e perchè con noi accoppiano la lingua a maledire i preti e i claustrali», ecc..
Così scriveva il dotto e pio Alfonso Muzzarelli [2], all'entrare del secolo passato, e le sue parole sembrano di ieri: tanto bene si applicano ai modernisti; se non che questi ai teneri fratelli, nominati sopra, aggiungono atei, socialisti, massoni ed ogni simile generazione di nemici della Chiesa e con loro accoppiano la lingua a maledire non solo il clero, ma ciò che vi è di più sacro e reverendo nel magistero, nel culto, nel governo, nella morale in ogni cosa.
Nè occorre che andiamo qui in citazioni: sono bene, per via di esempio, alla memoria di tutti le maldicenze del «Santo» modernista e dei suoi devoti: «la Chiesa contrasta la ricerca della verità»... la Chiesa «incatena e soffoca tutto che dentro di lei vive giovanilmente»... la Chiesa «è ostile a chi vuole contendere ai nemici di Cristo la direzione del progresso sociale»... Peggio ancora - assai peggio di ciò che bestemmiavano i giansenisti - la Chiesa è inferma, se non moribonda addirittura, come altri la vogliono: quattro spiriti maligni «sono entrati nel suo corpo per farvi guerra allo Spirito Santo» e sono spirito di menzogna, spirito di dominazione del clero, spirito di avarizia, spirito d'immobilità. E quasi tanto non bastasse, un'altra gran piaga si aggiunge: il «difetto di coraggio morale» ; onde «piuttosto di mettersi in conflitto coi superiori, ci si mette in conflitto con Dio...» ; e con questo un cumulo di altri disordini e abusi.
Ma notisi che qui, come altrove, lo scrittore, degno di miglior soggetto, è un'eco semplice delle declamazioni appassionate di uomini ambiziosi e frivoli, i quali da anni, da oltre un decennio, venivano riempiendo di simili brutture le colonne dei loro giornali e periodici, quale, ad es., la Cultura Sociale, abusando della longanime tolleranza dei calunniati e dell'autorità stessa della Chiesa. Su quelle colonne, per darne un saggio, si poteva scrivere (agosto 1905) che «dall'epoca della Santa Alleanza... la nostra vita pubblica è stata e continua ad essere una grande menzogna, diretta contro gli interessi degli umili, del popolo, della verità e della giustizia, e contro il contenuto sociale del cristianesimo, soffocato dalle parvenze della reazione»! Così un maestro di vita pubblica modernista, che sogna l'alleanza col socialismo ateo. E altre insolenze non meno belle si avventavano periodicamente contro gli abusi della vita privata dei cattolici, e in genere di tutta la vita religiosa, dallo stesso maestro di modernismo riformista, il quale riserbava invece mille carezzevoli blandizie pei «teneri fratelli», nemici di Dio e di ogni religione.
Del resto, su tali insipienze dei riformisti nuovi non occorre più oltre insistere: essi vi si mostrano da se stessi, nell'abbiettezza del linguaggio, col marchio vecchio degli pseudo-riformatori, cioè dire distruttori insipienti e pervertitori.

III

Ma più assai ci si mostrano tali, quando per far riparo agli abusi veri o falsi, che essi denunziano così malamente, ci vengono a mettere innanzi le loro grandiose proposte di riforma. Di esse, come di punto più vitale per la questione di principio, parla energicamente l'enciclica, e ne descrive bene al vivo, ciò che andiamo dicendo, come le rovine si moltiplicano sotto i colpi del modernismo riformatore.
Questo infatti, più che il liberalismo, mira al cuore: vuole riformata anzi tutto la dottrina; quindi riformata la formazione filosofica e teologica delle giovani speranze della Chiesa, con la soppressione della filosofia scolastica e della teologia razionale; indi riformata l'istruzione dei fedeli, con la soppressione o mutazione radicale del catechismo, divenuto secondo alcuni «un trattatello sibillino di scolastica». Appresso, e logicamente, vuole riformato il culto, segnatamente con la diminuzione arbitraria o la soppressione delle divozioni esterne. Quindi pure riformato il governo e la costituzione ecclesiastica, massimamente per la parte disciplinare e dogmatica, introducendovi più largamente il clero inferiore ed il laicato, e diminuendo l'eccessivo accentramento dell'autorità; riformati gli organi dell'autorità che sono le congregazioni romane, particolarmente quelle più incommode del S. Officio e dell'Indice; riformato l'atteggiamento dell'autorità stessa nelle questioni politiche e sociali. Infine vuole riformata la morale, e quindi la vita tutta del popolo cristiano, singolarmente con dare prevalenza. alle virtù attive su le così dette passive; e con ciò altresì riformato il clero, riconducendolo all'antica povertà, ma insieme alla nuova libertà del modernismo, la quale, secondo certuni, vorrebbe anche soppresso il celibato; riformata insomma ogni cosa, salvo la vita degli stessi nuovi riformatori. Così la loro smania d'innovazione, come parla l'enciclica, «ha per oggetto quanto vi è nel cattolicismo».
E in tutte le proposte siffatte e in altre poco meno esiziali, i riformisti nuovi procedono rapidi, risoluti. Scoperto, o così creduto, l'abuso, hanno in pronto il rimedio: mettere mano alla radice, e di un colpo reciderla. Nè la radice, secondo essi, è la defettibilità o la colpa dell'individuo: è l'autorità stessa, il potere o il diritto, del quale si fa o si può fare abuso; è il soggetto, è l'istituzione in cui l'abuso stesso appare. Quindi attenuano essi o rigettano al tutto la legittimità dell'esistenza di quella istituzione, autorità o potere, del quale vedono o credono di vedere l'abuso; e procedendo conseguenti ai principii vogliono reciso di un tratto e distrutto, ovunque si trovi, il soggetto degli abusi, degli inconvenienti dei difetti, che loro dispiacciano.
Così è soggetto di abuso o d'inconvenienti l'istituzione rigidamente scolastica; è troppa austera, è ostica all'anemia intellettuale moderna: dunque si sopprima. È soggetto di abuso o d'inconveniente l'istruzione popolare, strettamente catechistica; è troppo arida, è dura per la frivolezza delle menti contemporanee: dunque si abolisca. E dopo ciò, alla scolastica gretta si sostituisca la positiva «evoluzionistica»; alla catechetica pedestre la conferenza «alata». Similmente è, o pare, soggetto di abuso il culto esterno; molte sue manifestazioni contrastano alla delicatezza dei tempi nostri: dunque si deprima, si sminuisca fino a ridurlo ai minimi termini; e alla «religione esteriore» sottentri la «religione interiore», la religione dello spirito, senza troppo impaccio di dogmi, di formule, di riti.
Lo stesso dicasi per quanto riguarda l'amministrazione e il governo, i decreti dell'autorità e dei suoi organi autentici, le congregazioni romane e i loro ordinamenti, le istituzioni religiose e i loro indirizzi, gli obblighi del popolo e quelli del clero: si corre alla negazione, si grida all'abolizione o alla trasformazione di quanto mostri qualche lato manchevole, qualche abuso.

IV.

Ora questo procedere così spedito dei modernisti, a recidere ed abolire il soggetto per riformarvi l'abuso vero o supposto che sia, muove da un principio assurdo, da un sofisma. Per quel sofisma cioè che i logici chiamano fallacia dell'accidente, attribuiscono essi alla natura della cosa quello che le conviene solo in modo contingente e variabile, come sarebbe a dire, per caso o per abuso, per insipienza o per malizia dell'uomo. Ovvero per un altro sofisma simile al precedente - il sofisma della falsità di causa (non causa pro causa) - imputano, quasi a cagione propria al soggetto o alla cosa in sè, come all'autorità, alla legge, al metodo, l'effetto dell'abuso, per una semplice ragione di concomitanza, di successione o simile, che vi appaia, come sarebbe perchè l'effetto dell'abuso l'accompagna o lo segue in qualche caso particolare, o, poniamo anche, in molti. Sofisma frequente l'uno e l'altro per certa facile appariscenza; ma tanto più odioso in ogni parte della scienza e della vita, tanto più ripugnante a ragione, come sa ogni novizio di logica, anzi ogni semplice seguace del senso comune.
Che se il modernismo riformista muove da un principio così assurdo, non fa meraviglia che si metta per una via falsa e riesca ad assurde conseguenze: ad errori o eresie nell'ordine speculativo; a rimedi peggiori del male e a rovine nell'ordine pratico.
Sono errori, e spesso eresie, le negazioni a cui esso trascorre della legittimità, della ragionevolezza o del debito di ciò che si trovi per sorte soggetto ad abusi. Sono rimedi peggiori del male, cioè rovine nell'ordine pratico, quei rimedii pratici e radicali che esso propone di menomazione, di abolizione o trasformazione, in cambio di riforma. Tanto più che, ammesso il loro principio o norma pratica di riforma - quella cioè di correre tosto a rinnegare la legittimità speculativamente, e praticamente a dìstruggere l'esistenza di ciò che va incontro ad abusi - nulla più sussiste, in qualsiasi ordine, d'intatto e di sicuro.
Non nell'ordine pratico; perchè non ci vuole alfine grande esperienza, nè grande acume di raziocinio a persuadersi che non si dà cosa al mondo, nella quale o per insipienza o per malizia dell'uomo non possa e a lungo andare non riesca a insinuarsi qualche abuso. E i modernisti stessi, per quanto si suppongano ottimisti, ossia ingenui oltre ogni credere, nelle proposte di riforme senza fine, e tutte rapide e radicali, che ci fanno, non oseranno forse sperar tanto.
Non nell'ordine speculativo; perchè come l'errore dal giro delle idee passa, per naturale estensione, all'ordine dei fatti, alla pratica; così, per un facile ricambio, dal giro dei fatti risale a quello delle idee, senza dire che già la colpa trae seco o presuppone un'ignoranza o un errore. Conforme a ciò, ogni disordine o abuso è facile occasione di errare; mentre chi lo sostiene cerca in un falso principio la propria giustificazione, e chi lo condanna trova nel fatto stesso dell'abuso un pretesto di trarne qualche falsa conclusione.
Ma nell'uno e nell'altro caso, come si è notato più volte nella storia dell'errore, si muove da uno stesso presupposto falso e da esso logicamente si tirano conclusioni contraddittorie.
Il presupposto falso è di confondere il diritto con l'uso, il dovere o il potere con l'attuazione o l'esercizio. Quindi la conclusione degli uni, che la legittimità dì quello scusi o legittimi il disordine di questo, cioè l'abuso. E quindi pure la conclusione degli altri che la illegittimità di questo mostri evidente la illegittimità di quello, cioè del diritto, e perciò la necessità di abolire il diritto stesso o il soggetto dell'abuso, perchè sia efficace la riforma. Sono conclusioni opposte fra di loro e in sè assurde, come ognun vede, ma dedotte logicamente da uno stesso principio. E però, se vale ancora qualche cosa la logica, esse basterebbero da sè, quando altro non vi fosse, a dimostrare la falsità del principio stesso. Dalla falsità e dalla contraddizione del conseguente non si può che risalire alla falsità dell'antecedente; come solo da un'assurdità di principio si può scendere logicamente ad assurdità di conclusioni per una parte così opposte e per altra così concordi nell'errare.
Chi dunque, secondo il dettato dell'antica sapienza, vuol evitare le conseguenze, bisogna che muti i principii, donde queste scaturiscono: Muta antecedentia, si vis vitare sequentia.

V.

Da tutte le cose dette si conferma novamente, che neppure in quest'ultimo estremo del loro sistema i modernisti sono moderni: essi continuano anche qui la vecchia tradizione del vizio e dell'errore.
E il simile notava già, fino dalla prima metà del secolo XV, il gran cancelliere parigino, Gersone, a proposito di molti eretici, anche de' suoi tempi; i quali avevano preso le mosse a traviare dal falso zelo o dal pretesto «di togliere gli scandali dalla casa di Dio per questa o quella via di predicazione». «Di qui - scriveva egli - le eresie contro il primato della Chiesa romana, che senza di essa vi abbia salute; contro le dotazioni della Chiesa universale, che sieno quasi veleno sparso sopra di lei e officina di ogni specie di simonia; contro la condizione splendida e l'ampia famiglia dei prelati, e quindi si possa dai secolari prendere loro ogni cosa; contro l'osservanza dei religiosi, quasi che contrastino alla libertà della legge di Cristo... e così di altre cose molte. Mentre spiacevano i costumi, nacquero gli errori: fu condannato per giunta lo stato, mentre vi si scorgeva spiacevole abuso, a esempio del medico stolto che distrugge il soggetto, mentre si sforza di cacciarne la malattia» [3].
E non meno fiero di Gersone insorgeva contro l'ipocrisia e la sofistica dei falsi riformatori Pietro d'Ailly, al Concilio di Costanza, con parole scultorie in cui vibra davvero il palpito dell'attualità e che noi altrove abbiamo ripetuto ai modernisti [4].
Scendendo poi all'età della pseudo-riforma e giù giù fino a quella del giansenismo, del gallicanesimo, del liberalismo dei tempi nostri, le testimonianze di questa sofistica nei pretesi riformatori sono tante e così palpabili che si rende inutile il farvi insistenza.

VI.

Piuttosto è a deplorare da capo, che il modernismo riformista peggiori di tanto anche questa vecchia sofistica; e, che è peggio ancora, la indirizzi a sommuovere di soppiatto gli stessi fondamenti della Chiesa, sotto colore di riforma. Chi ci ha tenuto dietro fin qui, non ne avrà più dubbio: chi ne ritenesse ancora qualche ombra, esamini posatamente i quattro capi di riforme, a che si possono ridurre le proposte ardimentose mentovate dall'enciclica e da noi sopra ricordate in compendio: insegnamento, culto, costituzione o governo e costumi.
Anche senza un lungo trattato - quale potrebbe pur farsi per ognuna di tali proposte in particolare - apparirà di primo tratto manifesto, com'esse portino seco un'infinità d'innovazioni, speculative e pratiche, le più radicali; onde infine il pervertimento e la distruzione di ciò che è la essenza stessa della Chiesa. Così l'insegnamento, riformato sopra le rovine della scolastica e del catechismo, nell'istituzione scientifica e nella istruzione popolare, vuole finire con la distruzione di tutto l'edifizio dottrinale del cattolicismo, anzi di ogni cristianesimo dommatico, per introdurvi in quel cambio un «cristianesimo etico» in perpetua evoluzione, con una forma nuova di religione o religiosità dell'avvenire.
Similmente il culto, riformato dal modernista o piuttosto menomato, se non affatto abolito, in tutte o quasi le manifestazioni esteriori, riesce a rompere o a rilassare il vincolo sociale della religione, a soffocare o a rattiepidire il fervore della stessa religione interna, che stante la natura dell'uomo, composta di anima e di corpo, deve espandersi di necessità in atti anche esteriori; infine riesce a stravolgere il concetto stesso del culto debito a Dio, il quale culto non è ristretto al solo spirito dell'uomo, ma a tutto l'uomo, di cui Dio è l'autore. Che se pure si vuole conservato il culto esterno secondo i placiti del simbolismo modernista, esso è ridotto a un'ombra, a un cadavere di culto, senza spirito nè vita, o più veramente a una forma d'impostura.
Nè meno grave è la innovazione che vagheggiano della costituzione e del governo della Chiesa: essa importa la negazione di non pochi dogmi, come della fondazione divina della Chiesa stessa, della sua unità monarchica, del primato di Pietro e dei suoi successori, con tutte le loro doti e prerogative: di più, una introduzione esplicita della prevalenza democratica, che finirebbe in un'anarchia, nella costituzione e nel governo ecclesiastico: questo verrebbe insomma stravolto nella sua triplice funzione, legislativa, giudiziaria ed esecutiva, secondo le teorie politiche del Rousseau, non senza molti riscontri con gli antichi vaneggiamenti dei legulei e degli imperialisti medievali, dei giansenisti e dei gallicani - di cui la storia ricorda i pestiferi effetti nei più gravi disordini - traendo seco un intero rivolgimento della disciplina e del dogma.
Non parliamo poi delle riforme di costumi o di morale; chè qui le proposte si moltiplicano tanto più facilmente, in quanto i modernisti parlano sempre di riformare altrui e non mai se medesimi, al contrario dei santi. Essi anzi s'indegnano, come per insulto, contro chiunque parli loro di pensare qualche poco a se stessi, di riformare le loro idee, i loro modi o costumi. Infatti l'esaminarsi, il pentirsi l'umiliarsi, l'ubbidire, il mortificarsi e tutte le virtù insomma che sono ordinate all'atto, primo e più necessario all'individuo, di perfezionare se stesso, vengono da essi disprezzate col nomignolo di «passive»; esaltate in loro vece, ed esse sole onorate del titolo pleonastico di «attive», le virtù ordinate all'azione esteriore, in cui l'uomo si effonde, si agita e si riversa tutto nel turbine della vita moderna, cercando i suoi modelli, non sul Calvario o a Betlem, ma là, oltre i mari, «nel paese della vita intensa».
Molto meno toccheremo ora delle proposte troppo dubbiamente sincere, di ritornar il clero all'antica povertà, e meno ancora di altre più delicate, quali, ad esempio, l'abolizione del celibato e la coeducazione dei due sessi, difesa quella da don Domenico Battaini, e questa da don Romolo Murri, i quali si guarderanno bene dallo smentirci.
Ora noi vogliamo finire qui, con la chiusa dolorosa del nostro santo Padre Pio X: - «Che si lascia dunque d'intatto nella Chiesa che non si debba da costoro e secondo i loro principii riformare?»- E se così è, non sono essi riformatori saggi, ma distruttori insipienti, ma pervertitori. E tanto basti.

Prospetto degli articoli della Civiltà Cattolica sul modernismo:FascicoloData:AnnoVolume
Decreto Lamentabili, testo, traduzione e commento137124 luglio 190758°III
Enciclica Pascendi testo latino137418 sett. 190758°III
Enciclica Pascendi traduzione italiana137528 sett. 190758°IV
Il modernismo filosofico (I parte)137722 ottobre 190758°IV
Il modernismo filosofico (II parte)137928 novembre 190758°IV
Motu Proprio Prestantia Scripturae Sacrae lat./it137927 novembre 190758°IV
Il modernismo teologico (I parte)138126 dic. 190759°I
Il modernismo teologico (II parte)13828 genn. 190859°I
Il modernismo teologico (III parte)13845 febbr. 190859°I
Il modernismo teologico e il Concilio Vaticano138612 marzo 190859°I
Il modernismo teologico e il suo sistema di conciliazione138810 aprile 190859°II
Il modernismo ascetico13906 maggio 190859°II
Il modernismo apologetico139129 maggio 190859°II
Il modernismo riformista140129 ottobre 190859°IV
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NOTE:

[1] «Ecclesia Dei inter multam paleam multaque zizania constituta, multa tolerat; et tamen quae sunt contra fidem vel bonam vitam non approbat, nec tacet, nec facit». Ep. 55 ad Ianuar. Cf. Migne, Patrol. lat., XXXII, 221 s.
[2] Il buon uso della logica in materia di religione. 4a ediz. Roma 1807. Tom. 1, p. 113 ss.
[3] Gerson, De consol. theol., lib. III, 2. Una simile osservazione faceva altresì, con molta vivezza, a proposito di Arnaldo da Brescia, un suo contemporaneo, Guntero cistercense, nel poema Ligurinus, scritto in lode del Barbarossa (lib. III, v. 288; cf. Migne Patrol. lat., CCXII, 370); ove si duole che l'eresiarca dai veri abusi dei chierici deducesse false conseguenze, e che dalle sue false conseguenze i chierici traessero pretesto a non correggersi degli abusi: ond'egli esclama, in quei suoi esametri bonarii ma efficaci:
«Et fateor, pulchram fallendi noverat artem,
Veris falsa probans quia tantum falsa loquendo
Fallere nemo potest; veri sub imagine falsum
Influit, et furtim deceptas occupat aures».
[4] Cf. Civ. Catt., 1906 (3 febb.), p. 257.