sabato 27 novembre 2010

luce sotto il moggio


Fraternità Sacerdotale San Pio X - Comunicato della Casa Generalizia

Note sulle dichiarazioni di Benedetto XVI
sull'utilizzo del profilattico





In un libro-intervista intitolato Luce del mondo pubblicato in tedesco ed in italiano il 23 novembre 2010 e che lo sarà in francese ed in inglese il 3 dicembre, Benedetto XVI ammette, per la prima volta, l’uso del preservativo “ in certi casi ”, “ per ridurre i rischi di contaminazione ” col virus dell’Aids. Queste affermazioni sbagliate richiederebbero di essere chiarite e corrette perché i loro effetti disastrosi – che una campagna mediatica non ha perso l’occasione di sfruttare – provocano tra i fedeli scandalo e smarrimento .


1. Quello che ha detto Benedetto XVI

Alla domanda “ la Chiesa cattolica non è fondamentalmente contro l’uso del preservativo?”, il papa risponde, secondo la versione originale tedesca: “ In certi casi, quando c’è l’intenzione di ridurre il rischio di contaminazione, ciò può comunque essere un primo passo per aprire la via ad una sessualità più umana, vissuta altrimenti.” Per illustrare la sua affermazione, il papa fa un solo esempio, quello di un “ uomo prostituito ”. Egli considera che, in questo caso particolare, ciò può essere “ un primo passo verso una moralizzazione, un principio di responsabilità che permetterebbe di diventare nuovamente coscienti che non è tutto permesso e che non si può fare tutto ciò che si vuole ”. Quindi si tratta del caso di qualcuno che, commettendo già un atto contro natura, con fini venali, avrebbe la preoccupazione – per di più – di non contaminare il suo cliente.

2. Quello che ha voluto dire Benedetto XVI secondo il suo portavoce

Queste affermazioni del papa sono state recepite, dai media e dai movimenti che militano a favore della contraccezione, come una “ rivoluzione ”, una “ svolta ” o quanto meno una “ breccia ” nell’insegnamento morale costante della Chiesa sull’uso dei mezzi contraccettivi. Per questo il portavoce del Vaticano, P. Federico Lombardi, il 21 novembre ha pubblicato una nota esplicativa in cui si legge: “ Benedetto XVI considera una situazione eccezionale dove l’esercizio della sessualità rappresenta un vero rischio per la vita dell’altro. In questo caso, il papa non giustifica moralmente l’esercizio disordinato della sessualità, ma ritiene che l’utilizzo del preservativo per diminuire il rischio di contagio è ‘ un primo atto di responsabilità ’, ‘ un primo passo sul cammino verso una sessualità più umana ’, piuttosto che non farne uso, esponendo l’altro al pericolo di vita ”. E’ opportuno notare, per essere esatti, che il papa parla non soltanto di un “ primo atto di responsabilità ”, ma anche di un “ primo passo verso la moralizzazione ”. Nello stesso senso, il cardinale Georges Cottier che fu teologo della Casa Pontificia sotto Giovanni Paolo II e all’inizio del pontificato di Benedetto XVI, in occasione di un’intervista all’Agenzia Apcom il 31 gennaio 2005 aveva dichiarato: “ In situazioni particolari – e io penso in ambienti in cui circola la droga o in cui regna una grande promiscuità umana ed una grande miseria, come in certe zone dell’Africa e dell’Asia – in questi casi, l’uso del preservativo può essere considerato come legittimo.” Legittimità dell’uso del preservativo visto come un passo verso la moralizzazione, in certi casi, questo è il problema posto dall’affermazione del papa in Luce del mondo.

3. Quello che Benedetto XVI non ha detto e che i suoi predecessori hanno sempre detto

“ Nessuna ‘ indicazione ’o necessità può trasformare un’azione intrinsecamente immorale in un atto morale e lecito.” ( Pio XII, Allocuzione alle ostetriche del 29 ottobre 1951).

“Non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura.” ( Pio XI, Enciclica Casti Connubii)

Ora, l’uso del preservativo è contro natura in quanto svia un atto umano dal suo fine naturale. Il suo utilizzo resta dunque sempre immorale. Alla domanda chiara del giornalista “ la Chiesa cattolica è fondamentalmente contro l’uso del preservativo?”, il papa risponde con una situazione eccezionale e non ricorda che la Chiesa è sempre fondamentalmente contraria all’uso dei preservativi. Ora, che l’uso del preservativo sia un’azione intrinsecamente immorale e materia di peccato mortale, è un punto fermo nell’insegnamento tradizionale della Chiesa, per esempio in Pio XI e in Pio XII, e anche nel pensiero di Benedetto XVI che dice al giornalista che lo interroga: “ Evidentemente, la Chiesa non considera il preservativo come una soluzione reale e neanche morale ”, ma il papa comunque l’ammette, in certi casi. Questo tuttavia è inammissibile riguardo alla fede: “ Non vi può essere ragione alcuna, insegna Pio XI in Casti Connubii (II, 2), sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura”. Cosa che ricorda Pio XII nella sua Allocuzione alle ostetriche del 29 ottobre 1951: “ Nessuna ‘ indicazione ’ o necessità può trasformare un’azione intrinsecamente immorale in u atto morale e lecito ”. Cosa che affermò san Paolo: “ Non facciamo il male perché ne venga un bene ” (Rm 3, 8). Benedetto XVI sembra considerare il caso di questo prostituto secondo i principi della “ morale di gradualità ” che vuol permettere certi delitti meno gravi per condurre progressivamente i delinquenti dai delitti estremi all’innocuità. Questi delitti minori non sarebbero senza dubbio morali, ma il fatto che facciano parte di un cammino verso la virtù li renderebbe leciti. Ora, quest’idea è un grave errore perché un male minore resta un male qualunque miglioramento apporti. “ In verità, insegna Paolo VI in Humanæ vitæ (n° 14), se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene (cf. Rm 3, 8), cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali”. Tollerare un male minore non equivale a rendere questo male ‘ legittimo’, né a iscriverlo in un processo di ‘ moralizzazione ’. In Humanæ vitæ ( n° 14) si ricorda che: “ E’ un errore pensare che un atto coniugale reso volontariamente infecondo e perciò intrinsecamente disonesto, possa essere reso onesto dall’insieme di una vita coniugale feconda ”, allo stesso modo che bisogna dire che è un errore avanzare l’idea che il preservativo, in sé disonesto, possa essere onesto dalla speranza di un cammino verso la virtù di un prostituto che lo utilizza. All’opposto di una disassuefazione che passerebbe da un peccato “ più mortale ” a un peccato “ meno mortale ”, l’insegnamento evangelico afferma chiaramente: “ Va’ e non peccare più ” ( Gv 8, 11), e non “ Va’ e pecca di meno ”.

4. Quello che i cattolici hanno bisogno di sentire dalla bocca di un papa

Certamente un libro-intervista non può essere considerato come un atto del magistero, a fortiori quando si allontana da ciò che è stato insegnato in modo definitivo e invariabile. Non di meno i medici e i farmacisti che si rifiutano coraggiosamente di prescrivere e distribuire preservativi e contraccettivi per fedeltà alla fede ed alla morale cattoliche, e più generalmente tutte le famiglie numerose legate alla Tradizione, hanno assolutamente bisogno di sentire che l’insegnamento perenne della Chiesa non cambierà nel corso del tempo. Si aspettano tutti il fermo richiamo ce la legge naturale, come la natura umana in cui è incisa, è universale. Ora, in Luce del mondo si trova un’affermazione che relativizza l’insegnamento di Humanæ vitæ designando coloro che lo seguono fedelmente come “ minoranze profondamente convinte ” che offrono ad altri “ un affascinante modello da seguire ”. Come se l’Enciclica di Paolo VI fissasse un ideale irraggiungibile; cosa di cui si era già del tutto persuasa la maggioranza dei vescovi per meglio far scivolare questo insegnamento sotto il moggio – laddove proprio Cristo ci vieta di mettere la “ luce del mondo” ( Mt 5, 14). L’esigenza evangelica diventerebbe dunque sfortunatamente l’eccezione destinata a confermare la regola generale del mondo edonista nel quale viviamo? Quel mondo al quale il cristiano non si deve conformare (cf. Rm 12, 2), ma che egli deve trasformare come “ il lievito nella pasta ” (cf. Mt 13, 33) e al quale deve dare il gusto della Saggezza divina come “ il sale della terra ” (Mt 5, 13).

Menzingen, 26 novembre 2010

(Tradotto da http://www.dici.org/)

Lumen Caritatis

Poichè forse a più di uno è sfuggito il recente Messaggio "Lumen Caritatis" che il Papa ha indirizzato alla Chiesa Ambrosiana in occasione del 4° Centenario di san Carlo Borromeo. E' significativo che il Papa che ha fatto della "Caritas" un po' il motto del Pontificato, applichi il termine nel titolo della lettera al santo ambrosiano. La vogliamo riproporre perché in essa il Papa  sembra tracciare il cammino per una vera "riforma" della Chiesa...

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
ALL’ARCIVESCOVO DI MILANO
IN OCCASIONE DEL IV CENTENARIO DELLA CANONIZZAZIONE
DI SAN CARLO BORROMEO

LUMEN CARITATIS

Al venerato Fratello
Cardinale DIONIGI TETTAMANZI
Arcivescovo di Milano

Lumen caritatis. La luce della carità di san Carlo Borromeo ha illuminato tutta la Chiesa e, rinnovando i prodigi dell’amore di Cristo, nostro Sommo ed Eterno Pastore, ha portato nuova vita e nuova giovinezza al gregge di Dio, che attraversava tempi dolorosi e difficili. Per questo mi unisco con tutto il cuore alla gioia dell’Arcidiocesi ambrosiana nel commemorare il quarto centenario della canonizzazione di questo grande Pastore, avvenuta il 1° novembre 1610.

1. L’epoca in cui visse Carlo Borromeo fu assai delicata per la Cristianità. In essa l’Arcivescovo di Milano diede un esempio splendido di che cosa significhi operare per la riforma della Chiesa. Molti erano i disordini da sanzionare, molti gli errori da correggere, molte le strutture da rinnovare; e tuttavia san Carlo si adoperò per una profonda riforma della Chiesa, iniziando dalla propria vita. È nei confronti di se stesso, infatti, che il giovane Borromeo promosse la prima e più radicale opera di rinnovamento. La sua carriera era avviata in modo promettente secondo i canoni di allora: per il figlio cadetto della nobile famiglia Borromeo si prospettava un futuro di agi e di successi, una vita ecclesiastica ricca di onori, ma priva di incombenze ministeriali; a ciò si aggiungeva anche la possibilità di assumere la guida della famiglia dopo la morte improvvisa del fratello Federico.

Eppure, Carlo Borromeo, illuminato dalla Grazia, fu attento alla chiamata con cui il Signore lo attirava a sé e lo voleva consacrare al servizio del suo popolo. Così fu capace di operare un distacco netto ed eroico dagli stili di vita che erano caratteristici della sua dignità mondana, e di dedicare tutto se stesso al servizio di Dio e della Chiesa. In tempi oscurati da numerose prove per la Comunità cristiana, con divisioni e confusioni dottrinali, con l’annebbiamento della purezza della fede e dei costumi e con il cattivo esempio di vari sacri ministri, Carlo Borromeo non si limitò a deplorare o a condannare, né semplicemente ad auspicare l’altrui cambiamento, ma iniziò a riformare la sua propria vita, che, abbandonate le ricchezze e le comodità, divenne ricolma di preghiera, di penitenza e di amorevole dedizione al suo popolo. San Carlo visse in maniera eroica le virtù evangeliche della povertà, dell’umiltà e della castità, in un continuo cammino di purificazione ascetica e di perfezione cristiana.

Egli era consapevole che una seria e credibile riforma doveva cominciare proprio dai Pastori, affinché avesse effetti benefici e duraturi sull’intero Popolo di Dio. In tale azione di riforma seppe attingere alle sorgenti tradizionali e sempre vive della santità della Chiesa cattolica: la centralità dell’Eucaristia, nella quale riconobbe e ripropose la presenza adorabile del Signore Gesù e del suo Sacrificio d’amore per la nostra salvezza; la spiritualità della Croce, come forza rinnovatrice, capace di ispirare l’esercizio quotidiano delle virtù evangeliche; l’assidua frequenza ai Sacramenti, nei quali accogliere con fede l’azione stessa di Cristo che salva e purifica la sua Chiesa; la Parola di Dio, meditata, letta e interpretata nell’alveo della Tradizione; l’amore e la devozione per il Sommo Pontefice, nell’obbedienza pronta e filiale alle sue indicazioni, come garanzia di vera e piena comunione ecclesiale.

Dalla sua vita santa e conformata sempre più a Cristo nasce anche la straordinaria opera di riforma che san Carlo attuò nelle strutture della Chiesa, in totale fedeltà al mandato del Concilio di Trento. Mirabile fu la sua opera di guida del Popolo di Dio, di meticoloso legislatore, di geniale organizzatore. Tutto questo, però, traeva forza e fecondità dall’impegno personale di penitenza e di santità. In ogni tempo, infatti, è questa l’esigenza primaria e più urgente nella Chiesa: che ogni suo membro si converta a Dio. Anche ai nostri giorni non mancano alla Comunità ecclesiale prove e sofferenze, ed essa si mostra bisognosa di purificazione e di riforma. L’esempio di san Carlo ci sproni a partire sempre da un serio impegno di conversione personale e comunitaria, a trasformare i cuori, credendo con ferma certezza nella potenza della preghiera e della penitenza. Incoraggio in modo particolare i sacri ministri, presbiteri e diaconi, a fare della loro vita un coraggioso cammino di santità, a non temere l’ebbrezza di quell’amore fiducioso a Cristo per cui il Vescovo Carlo fu disposto a dimenticare se stesso e a lasciare ogni cosa. Cari fratelli nel ministero, la Chiesa ambrosiana possa trovare sempre in voi una fede limpida e una vita sobria e pura, che rinnovino l’ardore apostolico che fu di sant’Ambrogio, di san Carlo e di tanti vostri santi Pastori!

2. Durante l’episcopato di san Carlo, tutta la sua vasta Diocesi si sentì contagiata da una corrente di santità che si propagò al popolo intero. In che modo questo Vescovo, così esigente e rigoroso, riuscì ad affascinare e conquistare il popolo cristiano? È facile rispondere: san Carlo lo illuminò e lo trascinò con l’ardore della sua carità. “Deus caritas est”, e dove c’è l’esperienza viva dell’amore, lì si rivela il volto profondo di Dio che ci attira e ci fa suoi.

Quella di san Carlo Borromeo fu anzitutto la carità del Buon Pastore, che è disposto a donare totalmente la propria vita per il gregge affidato alle sue cure, anteponendo le esigenze e i doveri del ministero ad ogni forma di interesse personale, comodità o tornaconto. Così l’Arcivescovo di Milano, fedele alle indicazioni tridentine, visitò più volte l’immensa Diocesi fin nei luoghi più remoti, si prese cura del suo popolo nutrendolo continuamente con i Sacramenti e con la Parola di Dio, mediante una ricca ed efficace predicazione; non ebbe mai timore di affrontare avversità e pericoli per difendere la fede dei semplici e i diritti dei poveri.

San Carlo fu riconosciuto, poi, come vero padre amorevole dei poveri. La carità lo spinse a spogliare la sua stessa casa e a donare i suoi stessi beni per provvedere agli indigenti, per sostenere gli affamati, per vestire e dare sollievo ai malati. Fondò istituzioni finalizzate all’assistenza e al recupero delle persone bisognose; ma la sua carità verso i poveri e i sofferenti rifulse in modo straordinario durante la peste del 1576, quando il santo Arcivescovo volle rimanere in mezzo al suo popolo, per incoraggiarlo, per servirlo e per difenderlo con le armi della preghiera, della penitenza e dell’amore.

La carità, inoltre, spinse il Borromeo a farsi autentico e intraprendente educatore. Lo fu per il suo popolo con le scuole della dottrina cristiana. Lo fu per il clero con l’istituzione dei seminari. Lo fu per i bambini e i giovani con particolari iniziative loro rivolte e con l’incoraggiamento a fondare congregazioni religiose e confraternite laicali dedite alla formazione dell’infanzia e della gioventù.

Sempre la carità fu la motivazione profonda delle asprezze con cui san Carlo viveva il digiuno, la penitenza e la mortificazione. Per il santo Vescovo non si trattava solo di pratiche ascetiche rivolte alla propria perfezione spirituale, ma di un vero strumento di ministero per espiare le colpe, invocare la conversione dei peccatori e intercedere per i bisogni dei suoi figli.

In tutta la sua esistenza possiamo dunque contemplare la luce della carità evangelica, la carità longanime, paziente e forte che “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,7). Rendo grazie a Dio perché la Chiesa di Milano è sempre stata ricca di vocazioni particolarmente consacrate alla carità; lodo il Signore per gli splendidi frutti di amore ai poveri, di servizio ai sofferenti e di attenzione ai giovani di cui può andare fiera. L’esempio e la preghiera di san Carlo vi ottengano di essere fedeli a questa eredità, così che ogni battezzato sappia vivere nella società odierna quella profezia affascinante che è, in ogni epoca, la carità di Cristo vivente in noi.

3. Non si potrebbe comprendere, però, la carità di san Carlo Borromeo se non si conoscesse il suo rapporto di amore appassionato con il Signore Gesù. Questo amore egli lo ha contemplato nei santi misteri dell’Eucaristia e della Croce, venerati in strettissima unione con il mistero della Chiesa. L’Eucaristia e il Crocifisso hanno immerso san Carlo nella carità di Cristo, e questa ha trasfigurato e acceso di ardore tutta la sua vita, ha riempito le notti passate in preghiera, ha animato ogni sua azione, ha ispirato le solenni liturgie celebrate con il popolo, ha commosso il suo animo fino a indurlo sovente alle lacrime.

Lo sguardo contemplativo al santo Mistero dell’Altare e al Crocifisso risvegliava in lui sentimenti di compassione per le miserie degli uomini e accendeva nel suo cuore l’ansia apostolica di portare a tutti l’annuncio evangelico. D’altra parte, ben sappiamo che non c’è missione nella Chiesa che non sgorghi dal “rimanere” nell’amore del Signore Gesù, reso presente a noi nel Sacrificio eucaristico. Mettiamoci alla scuola di questo grande Mistero! Facciamo dell’Eucaristia il vero centro delle nostre comunità e lasciamoci educare e plasmare da questo abisso di carità! Ogni opera apostolica e caritativa prenderà vigore e fecondità da questa sorgente!

4. La splendida figura di san Carlo mi suggerisce un’ultima riflessione rivolta, in particolare, ai giovani. La storia di questo grande Vescovo, infatti, è tutta decisa da alcuni coraggiosi “sì” pronunciati quando era ancora molto giovane. A soli 24 anni egli prese la decisione di rinunciare a guidare la famiglia per rispondere con generosità alla chiamata del Signore; l’anno successivo accolse come una vera missione divina l’ordinazione sacerdotale e quella episcopale. A 27 anni prese possesso della Diocesi ambrosiana e dedicò tutto se stesso al ministero pastorale. Negli anni della sua giovinezza, san Carlo comprese che la santità era possibile e che la conversione della sua vita poteva vincere ogni abitudine avversa. Così egli fece della sua giovinezza un dono d’amore a Cristo e alla Chiesa, diventando un gigante della santità di tutti i tempi.

Cari giovani, lasciate che vi rinnovi questo appello che mi sta molto a cuore: Dio vi vuole santi, perché vi conosce nel profondo e vi ama di un amore che supera ogni umana comprensione. Dio sa che cosa c’è nel vostro cuore e attende di vedere fiorire e fruttificare quel meraviglioso dono che ha posto in voi. Come san Carlo, anche voi potete fare della vostra giovinezza un’offerta a Cristo e ai fratelli. Come lui, potete decidere, in questa stagione della vostra vita, di “scommettere” su Dio e sul Vangelo. Voi, cari giovani, non siete solo la speranza della Chiesa; voi fate già parte del suo presente! E se avrete l’audacia di credere alla santità, sarete il tesoro più grande della vostra Chiesa ambrosiana, che si è edificata sui Santi.

Con gioia Le affido, venerato Fratello, queste riflessioni, e, mentre invoco la celeste intercessione di san Carlo Borromeo e la costante protezione di Maria Santissima, di cuore imparto a Lei e all’intera Arcidiocesi una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 1° novembre 2010, IV Centenario della Canonizzazione di san Carlo Borromeo.

Benedetto XVI

venerdì 26 novembre 2010

Conferenza a Livorno

ASSOCIAZIONE «CRISTO RE» LIVORNO


Venerdì 3 dicembre - Ore 21,00

Parrocchia di S. Rosa - Via Machiavelli, 32

LIVORNO

CONFERENZA PUBBLICA SUL TEMA

 
L'ANTICRISTO
E LA FINE DI UN'EPOCA
Profilo dimenticato di una figura
e di un evento escatologico
alla luce della Scrittura e delle apparizioni mariane:
elementi di riflessione per il nostro tempo

di
P. Serafino Tognetti
della Comunità dei Figli di Dio (Don Divo Barsotti),
curatore di una rubrica di spiritualità di Radio Maria

Per maggiori informazioni: cristore.livorno@hotmail.it

"Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l'apostasia e si rivelerà l'uomo dell'iniquità, il figlio della perdizione, l'avversario, colui che s'innalza sopra ogni essere, chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio" (2 Tess. 2, 3).

giovedì 25 novembre 2010

parole sante!




«Le nostre anime sono fatte per la verità. Le nostre intelligenze, riflesso dello spirito divino, ci sono state date al fine di conoscere la Verità, di darcene la luce che ci indicherà lo scopo verso il quale deve orientarsi tutta la nostra vita […]. È per questo che il dovere più pressante dei vostri pastori, che devono insegnarvi la verità, è quello di diagnosticarvi quelle malattie dello spirito che sono gli errori. E come non deplorare, come già faceva san Paolo, che alcuni di coloro che hanno ricevuto la missione di predicare la Verità non han più il coraggio di dirla, oppure la presentano in modo tanto equivoco che non si sa più dove si trova il limite fra la Verità e l’errore».
                                           
                                         Mons. Marcel Lefebvre

Novus Horror

Nihil est innovandum, nisi Novus Ordo


Gli stilisti del Novus Horror devono rinnovare la collezione primavera-estate 2011 con nuove proposte, esattamente come nella moda da un anno all'altro si portano pantaloni stretti e non più larghi, giacche a due bottoni anziché a tre e via elencando. Lo stile e la bellezza immutabile della Liturgia Romana non è ovviamente alla mercé del volger dei tempi, proprio come certi capi intramontabili, classici e destinati ad una clientela rigorosamente chic. Ma il rito riformato, che fu pensato furbescamente come un prodotto di scadentissimo marketing applicato al culto di Dio, è irreparabilmente soggetto alla moda, ad iniziare da alcune espressioni che, proprio per essere espresse in vernacolo, non hanno quel carattere di immutabilità che viceversa caratterizza la lingua sacra della Chiesa.

 
E così, armati di buona volontà e di affilatissime forbici, i Dolce & Gabbana della CEI si sono dati un gran daffare per a metter mano al liso Messale montiniano, edito nientemeno che quarant'anni or sono, modificando una frase, accorciando un risvolto, stringendo un po' sui fianchi. E le modifiche, ben inteso, si sono apportate in più punti, addirittura al Gloria e al Padre nostro, ma ci si è ben guardati dal cambiare quanto il Sant'Uffizio aveva ordinato: il per tutti in traduzione al pro multis nella formula consacratoria. Analogamente si è proceduto con il Domine non sum dignus, lasciando invariata la versione di partecipare alla tua mensa che fa molto luterano e nelle parrocchie va sempre di moda. Per non dire del materialista io sarò salvato, anziché l'anima mia sarà salva.

Il risultato è tristissimo: altre tonnellate di carta stampata andranno ad accumularsi nelle sacrestie, mandando al macero i Messali precedenti, sempre più pesanti, sempre più voluminosi, ma altrettanto soggetti al passare delle mode.

Il Missale Romanum di San Pio V, invece, a parte insignificanti variazioni – peraltro apportate quasi tutte quando ormai la Curia era già infeudata dai novatori, ad iniziare dal discutibile Ordo Hebdomadæ Sanctæ Instauratus – brilla per esser intramontabile e non aver bisogno di aggiustamenti ad ogni lustro. Un po' come il frac rispetto allo smoking.

E se la sollecitudine pastorale di tante Eminenze ed Eccellenze Reverendissime è così attenta a non suscitare lo stupore ed il disorientamento delle greggi affidate alle loro cure, quand'è ora di correggere degli errori sesquipedali deliberatamente introdotti per compiacere i protestanti; per qual ragione essa non dovrebbe applicarsi alle parole stesse del Padre nostro, che forse è l'unica preghiera che ancora conoscono a memoria i pochi cattolici italiani? E, a maggior ragione: come possiamo giustificare, sulla base di questi loro timori, l'empito iconoclasta degl'inventori del Novus Horror, con cui ben maggior scandalo fu gettato in tutto l'orbe cattolico, facendo strame della preghiera, della fede e della religiosità plurisecolare del nostro popolo?

Ma a quell'epoca, nel pieno della contestazione, si fumavano gli spinelli, si portavano i capelli lunghi e si okkupavano le facoltà universitarie, ed era un'ottima operazione commerciale svendere la Messa cattolica sottocosto, rinnovare i locali sbaraccando altari, balaustre, organi e paramenti, per far vetrina con prodotti di infimo valore e di facile smercio come l'amore universale, il pauperismo, il pacifismo, le mani alzate verso te Signor, le chitarre e tutto quello che di lì a poco si sarebbe rivelato nient'altro che ciarpame ideologico.

Adesso che i fondi invenduti vengono astutamente riproposti come modernariato, anche in ambito ecclesiastico si imita maldestramente il bieco stratagemma, cercando di far tornar di moda il vecchiume che nemmeno le più esagitate declamatrici di preghiere dei fedeli avevano voluto portarsi a casa a prezzo di saldo. Così i meschini che continuano a frequentare più o meno saltuariamente la Messa – anzi, l'Eucaristia – domenicale nelle parrocchie di rito woitiliano si devono sorbire un repertorio démodé rispolverato da tristissimi chierici con velleità contestatarie, e come certe signore bene sempre aggiornatissime devono pure sfoderare il più smagliante sorriso di compiacimento perché quelle Eminenze e quelle Eccellenze dalla croce pettorale infilata nel taschino hanno nientemeno che cambiato non ci indurre in tentazione con non ci abbandonare alla tentazione. Questa sì che è una cosa che riporterà la gente in chiesa! Milioni di cattolici italiani, oltraggiati da quarant'anni di malversazioni filologiche, potranno finalmente cedere alla tentazione di mandarli solennemente a quel paese.

martedì 23 novembre 2010

interviste e continuità nell'ermeneutica (=nella tradizione)


Dichiarazioni di Benedetto XVI e
magistero perenne della Chiesa

Sabato scorso l’Osservatore Romano ha anticipato alcuni stralci del libro-intervista “Luce del Mondo” a Benedetto XVI, scritto dal giornalista Peter Seewald e che uscirà prossimamente.

Fra le affermazioni del Pontefice vi è quella in cui dichiara che ci sono "singoli casi" in cui l'uso del profilattico "può essere giustificato"… "Ad esempio con una prostituta, se questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole".

Di fronte a tale dichiarazione, pubblicizzata mondialmente, la Fraternità San Pio X vuol ricordare che i principi della legge naturale e della morale, insegnati in maniera perenne dalla Chiesa, non possono cambiare col tempo e che un’azione intrinsecamente cattiva non può divenire lecita a secondo delle circostanze.

Le dichiarazioni di un libro-intervista non possono considerarsi come un atto del Magistero della Chiesa, soprattutto quando contraddicono ciò che essa ha sempre insegnato in maniera definitiva e invariabile.

Riportiamo di seguito alcuni estratti di encicliche che ribadiscono questo insegnamento:

Pio XI, Enciclica Casti Connubi del 31 dicembre 1930.

“Non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura. E poiché l’atto del coniugio è, di sua propria natura, diretto alla generazione della prole, coloro che nell’usarne lo rendono studiosamente incapace di questo effetto, operano contro natura, e compiono un’azione turpe e intrinsecamente disonesta”.

“La Chiesa Cattolica, cui lo stesso Dio affidò il mandato di insegnare e difendere la purità e la onestà dei costumi, considerando l’esistenza di tanta corruttela di costumi, al fine di preservare la castità del consorzio nuziale da tanta turpitudine, proclama altamente, per mezzo della Nostra parola, in segno della sua divina missione, e nuovamente sentenzia che qualsivoglia uso del matrimonio, in cui per la umana malizia l’atto sia destituito della sua naturale virtù procreatrice, va contro la legge di Dio e della natura, e che coloro che osino commettere tali azioni, si rendono rei di colpa grave”.

“Se qualche confessore o pastore delle anime, che Dio non lo permetta, inducesse egli stesso in simili errori i fedeli a lui commessi, o, se non altro, ve li confermasse, sia con approvarli, sia colpevolmente tacendo, sappia di dovere rendere severo conto a Dio, Giudice Supremo, del tradito suo ufficio, e stimi a sé rivolte le parole di Cristo: « Sono ciechi, e guide di ciechi: e se il cieco al cieco fa da guida, l’uno e l’altro cadranno nella fossa ».

 
Paolo VI, Humanae Vitae, 25 luglio 1968

“Un atto di amore reciproco, che pregiudichi la disponibilità a trasmettere la vita che Dio creatore di tutte le cose secondo particolari leggi vi ha immesso, è in contraddizione sia con il disegno divino, a norma del quale è costituito il coniugio, sia con il volere dell’Autore della vita umana. Usare di questo dono divino distruggendo, anche soltanto parzialmente, il suo significato e la sua finalità è contraddire alla natura dell’uomo come a quella della donna e del loro più intimo rapporto, e perciò è contraddire anche al piano di Dio e alla sua santa volontà”.

“In conformità con questi principi fondamentali della visione umana e cristiana sul matrimonio, dobbiamo ancora una volta dichiarare che è assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite, l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l’aborto diretto, anche se procurato per ragioni terapeutiche. È parimenti da condannare, come il magistero della chiesa ha più volte dichiarato, la sterilizzazione diretta, sia perpetua che temporanea, tanto dell’uomo che della donna. È altresì esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione. Né, a giustificazione degli atti coniugali resi intenzionalmente infecondi, si possono invocare, come valide ragioni: che bisogna scegliere quel male che sembri meno grave o il fatto che tali atti costituirebbero un tutto con gli atti fecondi che furono posti o poi seguiranno, e quindi ne condividerebbero l’unica e identica bontà morale. In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali. È quindi errore pensare che un atto coniugale, reso volutamente infecondo, e perciò intrinsecamente non onesto, possa essere coonestato dall’insieme di una vita coniugale feconda”.


lunedì 22 novembre 2010

un nuovo Schuster per Milano: volesse il cielo!

Gran battage per il libro del Papa. Ma la vera partita si gioca a Milano

E’ stato Gianfranco Ravasi, 68 anni, presidente del Pontificio consiglio della cultura, da oggi cardinale, a lanciare ufficialmente la propria candidatura per la diocesi di Milano (ermeneutica della continuità anche questo?). Sarà nel 2011, infatti, che il cardinale Dionigi Tettamanzi andrà in pensione (ah l'anagrafe!!). “Qualcuno la vede come un altro Martini, strappato agli studi e gettato nella mischia di una grande diocesi. Non le chiedo se è vero, ma solo se accetterebbe la sfida”, gli ha domandato Avvenire due giorni fa. Risposta: “Realisticamente si tratta più di un desiderio (o di un timore…) che di una possibilità concreta. La domanda in sé ha però una base di verità: la funzione di un capo dicastero è anche quella di essere uomo di chiesa, dunque pastore, con un campo pastorale. Per questo ogni sabato e domenica, quando sono in sede, accetto incarichi in tutta la periferia di Roma. Impartisco cresime, celebro feste patronali, partecipo a processioni con tanto di banda e fuochi artificiali” (che degnazione!). Come a dire: sono un uomo di cultura ma anche un pastore, uno che sa stare con la gente e la gente sa ascoltare. Un concetto ribadito ieri anche sul Corriere della Sera: “Quando cammino per Milano in molti, anche persone che non conosco, mi salutano, fermandomi, facendo domande. Resta una metropoli con molte potenzialità che però non sono sviluppate pienamente” (aspettan lui....).

La partita per Milano è ufficialmente aperta. E Ravasi, in questa partita, vuole dire la sua. Ravasi piace a Benedetto XVI, che però non lo vede come pastore ma più che altro come teologo importante, erudito e di peso. Non a caso, nel 2007, prima di affidargli il “ministero” della cultura, Ratzinger non diede seguito alla sua candidatura per le diocesi di Assisi e Parma.

Diversamente, sono il Corriere e il mondo milanese che via Solferino da sempre rappresenta a essere pronti a sostenere Ravasi anche affondando i colpi contro suoi eventuali avversari. Ieri, nella stessa edizione che lanciava Ravasi veniva dedicato ampio spazio al libro di Ferruccio Pinotti in uscita da Chiarelettere dedicato a Comunione e liberazione, la “lobby di Dio”, “la parabola di un movimento che si è fatto sistema”. In fondo al pezzo, l’attacco più duro: “L’obiettivo di Cl? Il prossimo Papa e il prossimo premier” (quod Deus avertat!). Ovvero Roberto Formigoni e Angelo Scola, “cardinale e patriarca di Venezia, considerato organico a Cl. L’impossibile è niente per Comunione e liberazione”. Quanto poi a chi il Corriere vedrebbe bene come Papa basta tornare al pezzo-intervista di Ravasi. In fondo al pezzo l’autore dell’intervista, Armando Torno, informa Ravasi della reazione che un milanese doc, Umberto Eco, ha avuto alla notizia di Ravasi cardinale. Dice Eco a Torno: “Se senti Ravasi, ricordagli che tifo per lui. Se diventa Papa, finalmente darò del tu al Pontefice. Per la prima e ultima volta” (Eco pensa di essere eterno...).

Scola è davvero un candidato per Milano? Fonti vaticane sorridono. E dicono al Foglio: “Inverosimile che il patriarca di Venezia, la diocesi che ha portato al papato Angelo Roncalli e Albino Luciani, lasci per Milano” (e per il card. Giuseppe Sarto damnatio memoriae). Anche se sul piano ideologico questa sembra essere la partita: scegliere tra un uomo nato e cresciuto nell’establishment milanese, amato dalla curia, un divulgatore della fede capace di valorizzare l’eredità che fu di Martini, il quale al progetto della “nuova evangelizzazione” wojtyliana contrappose l’idea della “cattedra dei non credenti” – l’apogeo fu nell’estate del 1997 quando, nel momento culminante dei funerali dello stilista Gianni Versace, trasmessi in mondovisione, al centro della cattedrale di Milano c’erano un pianoforte ed Elton John che suonava e cantava “Candle in the Wind” – a un presule legato a Milano ma all’impostazione martiniana alieno. Scola è tutto questo, senz’altro. Milanese (nato a Malgrate) ma cresciuto in Cl. Uomo del dialogo ma d’impostazione balthasariana: l’idea di “communio” contrapposta a quella di “concilium”, il dialogo “extra ecclesiam nulla salus” a quello “extra ecclesiam” tout court. “Dopo la nomina mi hanno scritto molti atei”, ha detto Ravasi a Torno. Chi? “Non facciamo nomi, sarebbero clamorosi. Diciamo soltanto che si possono quantificare in 5.300 e-mail e in un migliaio di lettere tradizionali” (si vantano di ciò di cui dovrebbero aver vergogna..., ci dica quanti ne ha convertiti finora...).

Ma c’è anche una terza ipotesi. E sembra la più verosimile. Nei Sacri Palazzi viene chiamata “ipotesi Schuster”. Alfredo Ildefonso Schuster divenne vescovo di Milano nel 1929. Romano, monaco, abate di San Paolo Fuori le Mura, non aveva nulla che lo legasse alla cattedra di sant’Ambrogio, se non che Pio XI intravide in lui i fasti di Carlo Borromeo, l’arcivescovo che riformò Milano puntando tutto su una nuova leva di sacerdoti. E’ questa figura che il Vaticano vaglia: un outsider, un nuovo Schuster (si, ma dove lo trovano???).

usque ad confusionem


































Al concistoro con la claque

Roma Il fulgore della porpora, il Papa rivestito di paramenti dorati con la mitria di Pio IX sul capo, l’ingresso di Benedetto XVI salutato dal suo squillante delle trombe d’argento, la basilica bardata a festa per accogliere i nuovi prìncipi della Chiesa, l’«applausometro» per registrare i boatos dei fedeli nel momento in cui il loro cardinale veniva nominato dal Pontefice... Eppure per un rito così fastoso come quello del concistoro per la creazione di 24 nuovi porporati, elevati a membri del club più esclusivo del mondo, quello degli elettori del Papa, Ratzinger ha deciso di puntare tutta la sua omelia sul significato vero della porpora, spiegando che il servizio ecclesiale non può mai essere «frutto di un proprio progetto o di una propria ambizione», ma significa seguire Gesù sulla croce e conformarsi alla volontà di Dio padre.

«Nella Chiesa nessuno è padrone – ha spiegato Benedetto XVI – ma tutti sono chiamati, tutti sono inviati, tutti sono raggiunti e guidati dalla grazia divina. E questa è anche la nostra sicurezza! Solo riascoltando la parola di Gesù, che chiede “vieni e seguimi”, solo ritornando alla vocazione originaria è possibile intendere la propria presenza e la propria missione nella Chiesa come autentici discepoli». «Non è la logica del dominio, del potere secondo i criteri umani, ma la logica del chinarsi per lavare i piedi, la logica del servizio, la logica della Croce che è alla base di ogni esercizio dell’autorità». Anche il cardinalato, dunque, non va inteso come un onorificenza, un simbolo di potere, l’esibizione di se stessi, ma, ha ricordato ancora una volta il Pontefice, significa l’essere i più stretti collaboratori del successore di Pietro «usque ad sanguinis effusionem», cioè fino allo spargimento del proprio sangue, al sacrificio della propria vita, se necessario. A questo deve richiamare il colore rosso della porpora.

Venti del ventiquattro nuovi cardinali hanno meno di ottant’anni, e sono dunque votanti in caso di conclave. Con la creazione di ieri gli elettori sono 121, dei quali 71 sono stati nominati da Papa Wojtyla, mentre i restanti 50 dall’attuale Pontefice.

Hanno ricevuto il berretto gli italiani Angelo Amato, Mauro Piacenza, Fortunato Baldelli, Paolo Sardi, Francesco Monterisi, Gianfranco Ravasi, Paolo Romeo, Elio Sgreccia e Domenico Bartolucci (novantaquattrenne maestro emerito della Cappella Sistina, l’unico dei nuovi porporati a non essere vescovo).

È toccato all’italiano Amato, Prefetto dei santi e primo della lista dei nuovi porporati, leggere l’indirizzo di saluto e di ringraziamento al Papa: «Riconosciamo con trepidazione i nostri limiti, a fronte della consapevolezza della grande dignità cui veniamo rivestiti», ha detto. Poi ad uno ad uno, i nuovi cardinali si sono inginocchiati davanti al trono papale per ricevere la berretta rossa e la pergamena di nomina, contenente il «titolo», cioè la chiesa romana a loro affidata. Per quanto riguarda gli applausi, sono stati scroscianti per l’arcivescovo di Monaco Reinhard Marx, che ha sorriso imbarazzato, ma ha superato tutti il boato di battimani e cori per l’arcivescovo congolese di Kinshasa Laurent Monsengwo Pasinya. Applausi anche per Ravasi, per l’arcivescovo di Varsavia Kazimierz Nycz e per l’arcivescovo di Palermo Romeo.

Attualmente i cardinali elettori europei sono 62, quelli dell’America settentrionale 15, quelli dell’America latina 21, gli africani 12, gli asiatici 10 e uno è il porporato dell’Oceania. Nel pomeriggio, com’è tradizione, i nuovi cardinali hanno ricevuto il saluto di amici e fedeli nelle cosiddette «visite di calore».

(da il Giornale del 21 novembre 2010)
Circa gli applausi in chiesa

Apprezzo moltissimo l'illuminante magistero del Cardinale Giuseppe Siri, il quale nel 1950 emise un monitum per impedire che nella sua diocesi si commettessero tali abusi. Secondo questo degnissimo successore degli Apostoli “L’applauso in Chiesa è ordinariamente contrario al carattere sacro e raccolto della casa di Dio, dove i sentimenti anche più veementi di fede e di consenso vanno espressi altrimenti”. Pertanto ammonì il clero e i fedeli laici di astenersi in modo assoluto dall'applaudire in chiesa. Ricordò il dovere dei rettori delle chiese di avvertire i fedeli della sconvenienza di simile pratica. Inoltre minacciò provvedimenti disciplinari verso coloro che non avessero rispettato il monitum. Davvero un grande vescovo! Se non si puniscono coloro che non obbediscono agli ordini dei legittimi superiori, gli abusi, i vizi e gli errori continuano a propagarsi a dismisura. Dovremmo pregare di più Iddio, affinché doni a tutti i cristiani, quell'ardore per il bene della Chiesa che caratterizzava l'augusto e compianto Cardinale Siri.