giovedì 29 settembre 2011

L’Eucaristia è "un affacciarsi del Cielo sulla terra" (Sacramentum Caritatis, 35)

Intervento tenuto dal Cardinale Ranjith all'Assemblea Ecclesiale
della Diocesi di Porto - Santa Rufina,
il 23 settembre 2011http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_det.php?neid=1409
Introduzione
Il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen Gentium, nomina l’Eucaristia come “fonte e apice di tutta la vita cristiana” (Lumen Gentium, 11). Inoltre il Decreto sul ministero e la vita dei Presbiteri Presbyterorum Ordinis, dice così: “Infatti, nella Santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini” (Presbyterorum Ordinis, 5). Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce l’Eucaristia “il compendio e la somma della nostra fede” (CCC 1327).

Il ruolo determinante che l’Eucaristia svolge nella vita spirituale della Chiesa è stato riconosciuto sin dai primi momenti della sua esistenza. Proprio il brano scritturistico proposto come base di riflessione oggi, cioè Atti 2, 42-46, indica come la prima comunità dei chiamati celebrava l’Eucaristia: si usa l’espressione “klasei tou artou” – “spezzare il pane” (versetto 42-46) per definire la celebrazione eucaristica.

Ora non è mio compito introdurvi nella storia della teologia eucaristica. Sentirete su questo argomento anche il Prof. Padre Mathias Augè, CMF. Comunque è interessante ascoltare ciò che San Giustino martire scrive sui momenti più significativi della celebrazione eucaristica già al suo tempo. Egli scrive: “Nel giorno chiamato ‘del sole’ ci si raduna tutti insieme, abitanti della città o delle campagne. Si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo lo consente. Poi, quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi. Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere sia per noi stessi .. sia per tutti gli altri, dovunque si trovino, affinché appresa la verità, meritiamo di essere nei fatti buoni cittadini e fedeli custodi dei precetti e di conseguire la salvezza eterna. Finite le preghiere, ci salutiamo l’un l’altro con un bacio. Poi al preposto dei fratelli vengono portati un pane e una coppa d’acqua e di vino temperato. Egli li prende ed innalza lode e gloria al Padre dell’universo nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e fa un rendimento di grazie (in greco “eucharistein”) per essere stati fatti degni da Lui di questi doni. Quando egli ha terminato le preghiere ed il rendimento di grazie, tutto il popolo presente acclama: ‘Amen’. Dopo che il preposto ha fatto il rendimento di grazie e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane, il vino e l’acqua « eucaristizzati » e ne portano agli assenti” (Apologia 1, 65).

Come a quel tempo, così l’Eucaristia ha continuato ad essere al centro della vita dei discepoli ed ha continuato ad animare la vita ecclesiale lungo tutti i secoli. La Chiesa ha sempre vissuto dell’Eucaristia e per l’Eucaristia crescendo sempre di più nella sua fede e nella comprensione di questo mistero anche, come spiegava il Beato Giovanni Paolo II, attraverso le scelte “dei Concili e dei Sommi Pontefici” (Ecclesia de Eucharistia, 9). Basta pensare alle mirabili pagine dottrinali del Concilio di Trento (Denzinger 877, 883, 884), delle Encicliche Mirae Caritatis di Leone XIII (1902), Mediator Dei di Pio XII (1947) e Mysterium Fidei di Paolo VI (1965).

Questo processo esplicativo della dottrina eucaristica ha continuato il suo cammino fino ad oggi, acquistando una profondità di grande rilievo soprattutto negli insegnamenti del Concilio Vaticano II, specialmente nella sua costituzione dogmatica Lumen Gentium ed il decreto Presbyterorum Ordinis. Papa Giovanni Paolo II attraverso la lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia ha dato una singolare spinta alla dottrina eucaristica ed ora il Papa Benedetto XVI nei suoi numerosi scritti, omelie e soprattutto nell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis ha stimolato nuovi impulsi di approfondimento. Credo che nel pensiero dell’attuale Papa troviamo un senso profondamente mistico dell’Eucaristia ed una visione della stessa Chiesa in chiave veramente eucaristica. I suoi scritti dimostrano ampiamente come egli sia un Papa profondamente eucaristico. Forse, il fatto di essere stato eletto alla Sede di Pietro proprio nell’anno eucaristico 2005 – 2006 ha stimolato questo suo orientamento.

Actio Dei – Actio Christi

Parlando dell’Eucaristia affermiamo prima di tutto che essa è, come la Chiesa ha sempre insistito, Actio Dei – Actio Christi. Difatti il “mistero” della liturgia cristiana, come tale, non prende tanto le sue mosse dalla terra, ossia dalla carne e dal sangue, nel tentativo titanico o disperato degli uomini di raggiungere il Cielo con le proprie forze, imitando la religione dei costruttori della torre di Babele, quanto da Dio stesso che, nei santi misteri celebrati dalla Chiesa, compie il suo piano di salvezza: svela a noi la sua grandezza e ci invita a diventare partecipi delle realtà eterne. Perciò la liturgia è soprattutto opera divina in favore dell’uomo, attuazione qui e ora, attraverso i riti e le preghiere, del disegno di comunione tra Dio e l’uomo realizzato in Cristo Gesù a beneficio di tutte le generazioni umane. I misteri storici di Cristo rivivono nella liturgia, il cui centro è rappresentato dall’Eucaristia, attirandoci a Dio e al prossimo nella realtà dell’amore divino.

In questa luce prende tutto il suo spessore l’esordio della Lettera Apostolica del Papa Benedetto XVI: “Sacramento della Carità, la Santissima Eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo … Gesù nel Sacramento Eucaristico continua ad amarci ‘fino alla fine’, fino al dono del suo Corpo e del suo Sangue. Quale stupore deve aver preso il cuore degli Apostoli di fronte ai gesti e alle parole del Signore durante quella Cena! Quale meraviglia deve suscitare anche nel nostro cuore il Mistero eucaristico” (Sacramentum Caritatis, 1).

L’azione Eucaristica dunque non è tanto ciò che facciamo noi, quanto ciò che il Signore realizza in noi: “Cristo ci attira a sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola in Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli e la comunione con il Signore è sempre anche comunione con le sorelle e con i fratelli” (Benedetto XVI, Omelia pronunciata a Bari il 29 Maggio 2005 per la conclusione del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale).

In altre parole, ciò che fonda, motiva e sostiene la celebrazione Eucaristica è la volontà divina di donarsi: “Nel Sacramento dell’altare, il Signore viene incontro all’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen. 1, 27) facendosi suo compagno di viaggio. In questo Sacramento infatti il Signore si fa cibo per l’uomo affamato di verità e di libertà” (Sacramentum Caritatis, 2). Questo è proprio il movimento inverso alla religione dei costruttori della torre di Babele, i quali rappresentano, per così dire, i tentativi dell’uomo di farsi Dio, senza lo spirito di umiltà ed apertura capace di accogliere la discesa di Dio incontro all’uomo, in quella mistica d’amore che lo libera. L’Eucaristia è dunque l’espressione più tangibile di quel movimento discendente di Dio che va incontro all’uomo per stringerlo a sé in comunione mirabile – quel movimento che attraversa l’intera storia della salvezza centrata in Cristo, si prolunga e si perpetua nella celebrazione Eucaristica.

Che cos’è la liturgia della Parola, se non l’azione di Dio che rivela se stesso, la sua identità e la nostra identità in rapporto a Lui? E che cosa è la Liturgia Eucaristica se non l’incessante offerta senza misura del Dono di Cristo, nel sacramento del suo Corpo e Sangue, per attirarci sempre più e meglio nella logica e nella realtà dell’amore che redime dal male e riscatta dalla morte? Non è questo il fascino dell’al di là, della chiamata a cercare le cose di lassù (cf. Col. 3, 1)? Di vedere tutta la nostra vita, le nostre scelte, come parte integrante di quell’abbraccio dell’eterno amore che siamo chiamati a realizzare tramite la celebrazione dell’Eucaristia? La nostra partecipazione a questa Actio Christi è proprio come la partecipazione di Maria nel mistero dell’Incarnazione. Non è stata Lei l’attrice principale di ciò che è avvenuto, ma il Signore stesso. Eppure, senza la sua partecipazione tale processo non avrebbe potuto realizzarsi. La prima iniziativa comunque è sempre di Dio e ciò che spetta a noi è semplicemente di adeguarci a Lui. Anche la stessa ars celebrandi deve riflettere questo senso dell’al di là (cf. Sacramentum Caritatis, 40).

Quale mistico dono di Dio alla Chiesa, l’Eucaristia deve essere sempre accolta e non stravolta, deve essere servita, custodita e fedelmente trasmessa. Lo ricorda il n. 37 dell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis: “poiché la liturgia Eucaristica è essenzialmente actio Dei che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito, il suo fondamento non è a disposizione del nostro arbitrio e non può subire il ricatto delle mode del momento …. La celebrazione dell’Eucaristia implica, infatti, la Tradizione viva. La Chiesa celebra il sacrificio eucaristico in obbedienza al comando di Cristo, a partire dall’esperienza del Risorto e dall’effusione dello Spirito Santo”.


Dimensione dell’aldilà
L’Eucaristia è il radunarsi escatologico del popolo di Dio. Il Banchetto eucaristico è per noi reale anticipazione del banchetto finale, preannunziato dai profeti (cf. Is. 25, 6-9) e descritto nel Nuovo Testamento come « le nozze dell’Agnello » (Ap. 19, 7-9) da celebrarsi nella gloria della comunione dei Santi” (Sacramentum Caritatis, 31).

La celebrazione Eucaristica non è perciò limitata a chi vi partecipa fisicamente ma si svolge, oltre al piano terrestre della nostra partecipazione, sul piano escatologico e riflette la celebrazione nuziale ed il Banchetto dell’Agnello immolato nella Gerusalemme celeste. Per questo, già ogni celebrazione Eucaristica è fortemente apocalittica ed escatologica, come anche profondamente ecclesiale, cioè coinvolge sia la Chiesa vittoriosa del cielo, che quella sofferente nel Purgatorio come anche la Chiesa militante qui sulla terra. Proprio per questa ragione l’Eucaristia non è sotto il nostro arbitrio. È proprio questa dimensione, soprannaturale e celeste, che rende l’Eucaristia un’esperienza profondamente al di là delle nostre concezioni e del nostro controllo. Non siamo noi i protagonisti principali di ciò che accade.


Sacrificio del Calvario
D’altra parte, ciò che accade nella celebrazione Eucaristica è ciò che Cristo continua a realizzare attraverso noi sui nostri altari: il suo grande atto immolativo e salvifico della croce. Dice Papa Giovanni Paolo II “La Messa rende presente il sacrificio della Croce, non vi si aggiunge e non lo moltiplica” (Ecclesia de Eucharistia, 12), ma ogni Santa Messa è “l’unico e definitivo sacrificio redentore di Cristo che si rende sempre attuale nel tempo” (ibid.). Difatti dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: “il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’Eucaristia sono un unico sacrificio” (CCC, 1367).

Diceva San Giovanni Crisostomo: “noi offriamo sempre il medesimo Agnello, e non oggi uno e domani un altro, ma sempre lo stesso. Per questa ragione il Sacrificio è sempre uno solo” (Omelie sulla Lettera agli Ebrei, 17, 3; PG 63, 131). L’Eucaristia dunque è il sacrificio del Calvario che si compie ogni volta sui nostri altari e chi lo adempie è Cristo stesso nella persona del sacerdote celebrante. Anzi il sacerdote celebrante viene assunto da Cristo e trasformato in un “alter Christus”.
Per questo il Santo Padre nell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis dice: “è necessario, pertanto, che i sacerdoti abbiano coscienza che tutto il loro ministero non deve mai mettere in primo piano loro stessi o le loro opinioni, ma Gesù Cristo. Contraddice l’identità sacerdotale ogni tentativo di porre se stessi come protagonisti dell’azione liturgica. Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo, rimanda a Lui” (n. 23).

Tutta la vita liturgica ecclesiale è solamente un’associazione a quel continuo cantico di lode che si rende al Padre per Cristo, Agnello immolato, nello Spirito Santo nella Gerusalemme celeste; non siamo noi i protagonisti principali di tale azione. D’altronde l’Eucaristia è quell’espressione privilegiata, quel sacrificio d’espiazione che piacque a Dio, che Gesù rinnova in noi per la salvezza del mondo. Per questa ragione la vita liturgica è un dono fatto a noi, è data per noi. Non siamo noi i suoi inventori. Allo stesso modo, l’Eucaristia è un dono di Cristo fatto a noi. Per tale motivo ciò che noi realizziamo sull’altare, come si esprime la Mediator Dei, non appartiene tanto a noi, quanto a Cristo perché è “il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra” (Mediator Dei, 20).


La tentazione del protagonismo
Il problema è che noi Vescovi e sacerdoti, in quanto essere umani, siamo tentati dal protagonismo: metterci al centro ci dà soddisfazione – ciò che chiamo ‘coccolare l’ego. Con la Messa celebrata versus populum tale tentazione è molto più forte. Con la nostra faccia verso il popolo aumenta la tentazione di essere uno ‘showman’.

In un bell’articolo scritto da un autore tedesco si trova il seguente commento interessante in materia: “Mentre nel passato il sacerdote funzionava come l’anonimo intermediario, primo tra i fedeli, rivolto verso Dio e non il popolo, rappresentante di tutti e con loro offrendo il sacrificio … oggi lui è una persona speciale, con caratteristiche personali, il suo stile personale, la sua faccia rivolta verso il popolo. Per molti sacerdoti questo cambiamento è una tentazione che non riescono a superare … per loro, il livello del loro successo nel protagonismo diventa una misura del loro potere personale e così l’indicatore di un feeling della loro sicurezza e disinvoltura personale” (K. G. Rey, Pubertaetserscheinungen in der Katholíschen Kirche, - Segni della Pubertà nella Chiesa Cattolica - Kritische Texte, Benzinger, vol. 4, p. 25).

Oggi si nota sempre di più una forte mancanza di consapevolezza di ciò che accade durante la celebrazione Eucaristica. Con questo tipo di protagonismo del quale Rey parla, il sacerdote diventa l’attore principale che esegue un’opera teatrale con altri attori su di un palco, e più creativo e attivo egli diventa, più pensa di essere riuscito ad impressionare gli spettatori e così trova una soddisfazione personale. Ma dove è Cristo in tutto questo? Lui sembra essere il grande dimenticato!

Ars celebrandi
E’ proprio per questo che il santo Padre parla - nella Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis, dell’ars celebrandi, da intendersi non come un’altra arte per rendere più impressionante le celebrazioni liturgiche, nel senso descritto dall’autore Rey, ma come un modo effettivo di adeguarsi al vero senso della liturgia, adeguarsi al suo senso più profondo e mistico.

Dice il Papa: “l’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti, i quali sono chiamati a vivere la celebrazione in quanto Popolo di Dio, sacerdozio regale e nazione santa (cf. 1Pt 2, 4-5, 9)” (Sacramentum Caritatis, 38). Inoltre afferma il Papa: “l’ars celebrandi deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come ad esempio l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arredo e del luogo sacro” (ibid. 40). L’ars celebrandi perciò connota fedeltà a Cristo, alla prassi della Chiesa, al senso mistico e sacro che sfugge ai nostri sensi, e fedeltà alle norme liturgiche come ai libri liturgici.

Che le norme liturgiche non vanno manipolate, toccate o ignorate è stato chiaramente indicato nella Costituzione Liturgica del Concilio - la Sacrosanctum Concilium. Essa diceva: “Regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo … di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica” (SC 22). L’allora Cardinale Ratzinger nel suo libro Introduzione allo Spirito della Liturgia, spiega che le grandi forme rituali “sono sottratte all’intervento del singolo, della singola comunità, o anche di una Chiesa particolare. La non arbitrarietà è un elemento costitutivo della loro stessa natura. Essi [i riti] sono espressione del fatto che nella liturgia mi viene incontro qualcosa che non sono io a farmi da me stesso, che io entro in qualcosa di più grande che, ultimamente, proviene dalla Rivelazione. Per questo la liturgia è chiamata in oriente « divina liturgia », un’espressione che ne sottolinea la non disponibilità da parte degli uomini” (Introduzione allo Spirito della Liturgia, San Paolo, Milano 2001, p. 161).


Eucaristia e Adorazione
L’Eucaristia è la visibile presenza di Cristo tra noi. Difatti, come definiva il Concilio di Trento: “per consecrationem panis et vini conversionem fieri totius substantiae panis in substantiam Corporis Christi Domini Nostri, et totius substantiae vini in substantiam Sanguinis eius. Quae conversio convenienter et proprie a Sancta Cattolica Ecclesia transubstantiatio est appellata” (Denzinger, 877), e: “in almo Sanctae Eucharistiae Sacramento post panis et vini consecrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter sub specie illarum rerum sensibilem contineri” (Denzinger, 874).

Tali constatazioni ci vengono proposte sulla base delle stesse parole di Gesù che in quell’ultima Cena con gli apostoli, la sera prima della sua morte, prendendo il pane nelle sue mani sante pronunciò quelle parole – “questo è il mio Corpo, dato per voi” (Lc. 22, 19), e, con il vino “questo calice è il nuovo patto nel mio sangue sparso per voi” (Lc. 22, 20) e poi ordinò loro: “fate questo in memoria di me” (Lc. 22, 19). Così è nata la celebrazione liturgica dell’Eucaristia.

Il sacerdote agisce in persona Christi e ripetendo le stesse parole di Gesù effettua la totale trasformazione del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo. La transustanziazione delle specie del pane e del vino avviene in questo modo tramite la strumentalità del sacerdote. Dice San Giovanni Crisostomo: “non è l’uomo che fa diventare le cose offerte, Corpo e Sangue di Cristo, ma è Cristo stesso, che è stato crocifisso per noi. Il sacerdote figura di Cristo, pronunzia quelle parole, ma la loro virtù e la grazia sono di Dio. Questo è il mio Corpo, dice. Questa parola trasforma le cose offerte” (De proditione Judae, 1, 6; PG 49, 380 c).

Per questa ragione le specie eucaristiche diventano non solo il ricordo vivo del sacrificio salvifico di Cristo sul Golgota, ma anche l’espressione reale, viva e tangibile della sua presenza tra noi. La Chiesa ha sempre difeso e salvaguardato questo grande dono di Cristo e la fede eucaristica. Inoltre, col passare dei secoli, altre espressioni di questa fede venivano scoprendosi gradualmente diventando un grande patrimonio di pratiche liturgiche e paraliturgiche come anche delle devozioni nuove al Signore presente nelle specie eucaristiche: adorazione eucaristica fuori dalla Santa Messa, processioni eucaristiche, visite al Santissimo Sacramento, preghiere giaculatorie, celebrazione della festa del Corpus Domini, Ora santa, Quarantore, benedizione del Santissimo Sacramento, confraternite di adoratori e congressi eucaristici. Tali pratiche hanno subito un continuo processo di sviluppo e arricchimento.

La costatazione importante qui è che siccome Cristo è presente nelle specie eucaristiche non solo durante la celebrazione della Santa Messa (quella è la concezione protestante) ma anche dopo, Gesù eucaristico deve essere adorato e glorificato sempre. Le specie eucaristiche una volta consacrate rimangono divine e così adorabili – la visibile presenza di Cristo tra noi. “E’ Lui!” Esclamava spesso San Giovanni Maria Vianney, il santo Curato D’Ars.

Ci sono purtroppo delle persone che la pensano diversamente e dicono che il Concilio Vaticano II non avrebbe dato grande importanza all’Adorazione Eucaristica. Tale constatazione non è senza una base poiché, di fatto, la costituzione liturgica del Concilio non menziona l’Adorazione Eucaristica. Il testo infatti include una sezione sulle devozioni popolari (n. 13) ma non menziona devozioni eucaristiche. È quanto mai sorprendente come dopo numerosi pronunciamenti in materia, sia nel decreto sull’Eucaristia del Concilio di Trento che nei successivi scritti Pontifici e poi nella Lettera Encliclica Mediator Dei (n.129 – 137) del Papa Pio XII, pubblicata appena qualche anno prima, nessun accenno al tema si trova nella costituzione liturgica del Concilio Vaticano II Sacrosantum Concilium. Forse è per questo silenzio che in certi ambienti era nata una presa di posizione sfavorevole all’Adorazione Eucaristica nell’epoca della riforma postconciliare. Infatti il Papa, parlando di ciò, dice: “mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra la Santa Messa e l’Adorazione del Santissimo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto ad esempio dal rilievo secondo cui il Pane Eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato ma per essere mangiato” (Sacramentum Caritatis, 66).

Tale posizione va collocata anche nell’insieme di alcune confusioni teologiche verificatesi durante e dopo il Concilio e contro le quali Papa Paolo VI già prima della fine del Concilio volle porre fine con la sua grande Enciclica sull’Eucarestia, la Mysterium Fidei. Infatti diceva Papa Paolo VI: “Tuttavia, Fratelli Venerabili, non mancano, proprio nella materia che ora trattiamo, motivi di grave sollecitudine pastorale e di ansietà, dei quali la coscienza del Nostro dovere apostolico non ci permette di tacere. Ben sappiamo infatti che tra quelli che parlano e scrivono di questo Sacrosanto Mistero ci sono alcuni che circa le Messe private, il dogma della transustanziazione e il culto eucaristico, divulgano certe opinioni che turbano l'animo dei fedeli ingerendovi non poca confusione intorno alle verità di fede, come se a chiunque fosse lecito porre in oblio la dottrina già definita dalla Chiesa, oppure interpretarla in maniera che il genuino significato delle parole o la riconosciuta forza dei concetti ne restino snervati. Non è infatti lecito, tanto per portare un esempio, esaltare la Messa così detta « comunitaria » in modo da togliere importanza alla Messa privata; né insistere sulla ragione di segno sacramentale come se il simbolismo, che tutti certamente ammettono nella Santissima Eucaristia, esprimesse esaurientemente il modo della presenza di Cristo in questo Sacramento; o anche discutere del mistero della transustanziazione senza far cenno della mirabile conversione di tutta la sostanza del pane nel Corpo e di tutta la sostanza del vino nel Sangue di Cristo, conversione di cui parla il Concilio di Trento, in modo che essi si limitino soltanto alla « transignificazione » e « transfinalizzazione » come dicono; o finalmente proporre e mettere in uso l'opinione secondo la quale nelle Ostie consacrate e rimaste dopo la celebrazione del sacrificio della Messa Nostro Signore Gesù Cristo non sarebbe più presente” “(Mysterium Fidei, 9-11). Il Papa spiega quale sia l’intento dell’Enciclica: “Affinché dunque la speranza, suscitata dal Concilio, di una nuova luce di pietà eucaristica, che investe tutta la Chiesa, non sia frustrata e inaridita dai semi già sparsi di false opinioni, abbiamo deciso di parlare di questo grave argomento a voi, Venerabili Fratelli, comunicandovi sopra di esso il Nostro pensiero con apostolica autorità” (ibid. 13).

Questa lunga citazione dell’Enciclica uscita il 3 settembre 1965, già prima della fine del Concilio, dimostra quanto il Papa fosse turbato per ciò che stava accadendo. D’altronde il Papa si impegnava con una certa celerità a regolare un’altra prassi che nasceva nella chiesa, specialmente nel nord Europa, sulla ricezione della Santa Comunione. Con l’Istruzione Memoriale Domini, della Congregazione per il Culto Divino del 28 maggio 1969, Papa Paolo VI voleva regolare questa prassi, cioè la comunione sulla mano abusivamente introdotta in questi ambienti. Il documento spiega che il modo di ricevere la Santa Comunione sulla lingua doveva essere conservato, non solo perché fa parte di una lunga tradizione, ma per la ragione di conservare il senso di riverenza per il Signore Eucaristico presso i fedeli (cf. n. 8). Pur accettando la possibilità di ricevere la Santa Comunione sulla mano, l’Istruzione voleva assicurare che tutto si facesse in modo ordinato. È interessante notare come, in un sondaggio fatto presso i Padri Conciliari, la stragrande maggioranza avesse votato “non placet” a tre domande favorevoli a questa prassi (cf. n. 13). Tutte queste scelte di Papa Paolo VI dimostrano un senso di grave preoccupazione che sentiva in verso certe posizioni teologiche – dottrinali erronee, o riduttive, del Santissimo Sacramento, presso alcune scuole teologiche e liturgiche.

Anche il Papa Benedetto XVI, come abbiamo visto sopra nella Sacramentum Caritatis al n. 66, raccomanda ai fedeli di salvaguardare un grande senso di riverenza verso l’Eucaristia e non lasciarsi confondere da certe posizioni erronee. Tali posizioni effettivamente riducevano il senso divino dell’Eucaristia ad un livello puramente materialista ed umano. Il Papa osserva che già Agostino aveva detto: « nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando – nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo » (Sacr. Carit. 66).
Per il Papa senza adorazione non c’è un vero ricevimento del Signore: “ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso colui che riceviamo … soltanto nell’adorazione può maturare un’accoglienza profonda e vera” (Sacramentum Caritatis, 66). Per celebrare con intenso coinvolgimento il mistero della salvezza realizzata sull’altare ci vuole un profondo atteggiamento di silenzio, contemplazione e intensa comunione con Gesù Eucaristico. Dovremmo infatti vivere tale atteggiamento di riverenza e adorazione durante tutta la giornata, per esprimere la nostra disponibilità ad essere in piena comunione con Cristo. Più adoratori diveniamo sull’altare, più saremo toccati dalla comunione trinitaria in Cristo e capaci perciò di rispondere meglio alla nostra chiamata cristiana.

Senza un atteggiamento di adorazione, perciò, non può essere completata una vera celebrazione del Sacrificio Eucaristico. Come spiega Papa Benedetto XVI, ‘adorazione’ nella lingua greca è ‘proskynesis’, parola che significa un gesto di sottomissione: “il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire” (Omelia a Marienfeld, Colonia, 21 agosto 2005). La parola latina ‘adoratio’, come spiega il Papa, significa “contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi, in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è amore” (ibid.). Adorazione perciò è l’atteggiamento di lasciarsi coinvolgere nell’immenso atto d’amore e auto-donazione di Cristo sulla croce. L’Eucaristia, ripresentando questa auto-donazione sulla croce ci avvolge e ci inserisce intimamente nella sua Pasqua – il passaggio dalla morte alla vita nel quale l’egoismo, il peccato e la morte umana vengono superati definitivamente.
Non è dunque strano che i primi adoratori ai piedi della Croce, che vengono travolti dall’amore di Dio, siano stati Maria, la Madre di Dio, Giovanni e il centurione romano il quale grida la prima confessione di fede, parola di adorazione profonda: “veramente quest’uomo era il Figlio di Dio” (Mc 15, 39).

Siamo noi veramente consci della grandezza di ciò che, in un certo modo, sta accadendo sui nostri altari? Le nostre espressioni di fede come “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo” oppure “in questo sacrificio o Padre, noi tuoi ministri e tutto il tuo popolo santo, celebriamo il memoriale della beata passione, della risurrezione dai morti” oppure “O Signore non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola e io sarò salvato”: sono veramente ciò che sentiamo nell’intimo del nostro cuore? Oppure sono solo suoni senza contenuto?

Il Papa chiede che ogni volta che si celebra la Santa Messa ci siano non solo il senso di raccoglimento e di sobrietà, ma anche momenti di silenzio e di contemplazione. Parlando anzi dell’actuosa participatio dice – “con tale parola non si intende fare riferimento ad una semplice attività esterna durante la celebrazione. In realtà, l’attuale partecipazione auspicata dal Concilio deve essere compresa in termini più sostanziali, a partire da una più grande consapevolezza del mistero che viene celebrato” (Sacramentum Caritatis, 52). Il Papa rigetta quell’atteggiamento di alcuni di noi che per “l’incapacità di distinguere, nella comunione ecclesiale, i diversi compiti spettanti a ciascuno”, causano la confusione dei ruoli di chi deve occupare il presbiterio e chi la navata. In particolare, è necessario “che vi sia chiarezza riguardo ai compiti specifici del sacerdote” (ibid. 53).
L’atteggiamento di venerazione verso ciò che accade esige anche, come dice il Papa, uno spirito “di costante conversione che deve caratterizzare la vita di tutti i fedeli”. E aggiunge: “non ci si può aspettare una partecipazione attiva alla liturgia eucaristica, se ci si accosta ad essa superficialmente, senza prima interrogarsi sulla propria vita” (ibid. 55). Inoltre Egli parla del raccoglimento del silenzio, del digiuno e, quando necessario, della confessione sacramentale (cf. Sacramentum Caritatis, 55).
L’Eucaristia – come si vede – è quel trasporsi dalla nostra quotidianità ai piedi della croce dove Cristo, assieme a Maria, Giovanni ed il centurione è l’Agnello immolato che rinnova il suo sacrificio d’amore donandosi per la nostra salvezza eterna.


La lingua sacra
Una delle banalizzazioni ed interpretazioni molto riduttive dell’Eucaristia è stata il quasi totale abbandono dell’uso della lingua latina nella liturgia. Bisogna comunque affermare che non c’è niente di negativo se noi celebriamo la liturgia nella lingua vernacolare. Anzi, la scelta del Concilio di introdurre più uso delle lingue vernacolari nella liturgia era il punto d’arrivo, dopo decenni di tentativi, soprattutto nelle Chiese d’oltralpe, affinché i fedeli partecipassero con maggior intensità alla preghiera della Chiesa, soprattutto nella sua espressione eucaristica. In un tempo nel quale la conoscenza e l’apprezzamento delle lingue classiche perdeva terreno, la Chiesa non aveva altra scelta.

Ma ciò che avrebbe dovuto accadere era un graduale ed illuminato uso delle lingue vernacolari e non l’abbandono totale di una lingua comune liturgica universalmente usata. Tale abbandono ha portato non solo a una riduzione in generale del senso del sacro, particolarmente nella liturgia, ma anche ad una sorta di convenzionalismo nei confronti della Chiesa. Noi per esempio abbiamo nello Sri Lanka, nel contesto del dopoguerra, contrasti a livello liturgico fra i due gruppi etnici e linguistici dei cingalesi e tamil, di pregare insieme in una lingua. La liturgia non ci unisce più, ma ci divide; questa è la nostra esperienza odierna.

Il Concilio non aveva auspicato un abbandono totale della lingua comune liturgica della Chiesa, la lingua latina. Di fatto, esso aveva così auspicato: “l’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium, 36). Anche nell’apertura verso le lingue vernacolari a scopi di utilità per il popolo, il Concilio aveva affermato: “si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi”. Non era previsto né era raccomandato dai Padri conciliari il totale abbandono della lingua latina, come la mens del documento Sacrosanctum Concilium chiaramente indica.

L’uso di una lingua antica nel culto religioso, una lingua non usata nel contesto odierno, è comune per molte altre religioni. Per esempio, la lingua liturgica dell’Induismo è il sanscrito, del Buddismo è il pali, e nell’Islam l’arabo coranico. Nessuna di queste lingue è parlata oggi. Ognuna di queste lingue è rispettata e riservata per esprimere qualcosa che oltrepassa il livello dei suoni e delle lettere. Nel Giudaismo, per esempio, si scrive con il tetragramma il non pronunciabile nome di Dio. Di per sé le quattro lettere di questa parola non hanno un significato linguistico particolare, ma rappresentano il sacrosanto nome di Dio nella tradizione scritta della Masora. La parola stessa non è traducibile ed è stata lasciata intoccabile sia dai rabbini, che da esperti del Giudaismo. Di fatto, in alcune culture le lingue sono nate da una combinazione di suoni e concetti liturgici. La parola “Om” nell’Induismo, o la parola “Nirvana” del Buddismo, sono parole che esprimono molto più di ciò che il suono originale rappresenta, e cercare di spiegare con altre parole tali concetti comporta un impoverimento.

La fede cattolica è spesso identificata con alcuni concetti teologici di base che non sono di per sé traducibili e che sono intimamente legati al patrimonio linguistico greco e latino nel quale tali concetti sono nati. Abbandonando questo patrimonio nella nostra liturgia si corre il pericolo di impoverimento e di gravi errori quanto al contenuto della nostra stessa fede. Per questo il Concilio era cauto su tale scelta; ed infatti incoraggiava i fedeli a “recitare e cantare insieme anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della Messa che spettano ad essi” (Sacrosanctum Concilium, 54) e i chierici a recitare l’Ufficio divino in lingua latina (cf. 101, 1). Credo che l’insistenza con la quale Papa Benedetto parli dell’uso della lingua latina e del canto gregoriano nella liturgia (cf. Sacamentum Caritatis, 62), vada nella giusta direzione, quella auspicata dal Concilio Vaticano II.

Conclusione
Nelle mie riflessioni non ho cercato di presentare una totale ed esauriente presentazione sull’Eucaristia o sulla liturgia ma, anche per la limitatezza del tempo, solo alcuni punti che a me sembrano importanti. L’Eucaristia, come dice la dottrina della Chiesa, è un mistero; mistero anche perché è il Signore. Nessuno lo ha mai capito o compreso. Le stesse sacre pagine attestano che nessun uomo capirà mai le vie del Signore: “Chi ha diretto lo spirito del Signore e come suo consigliere gli ha dato suggerimenti? A chi ha chiesto consiglio, perché lo istruisse e gli insegnasse il sentiero della giustizia?” (Is. 40, 13-14).

La Chiesa nella sua lunga tradizione ha celebrato Cristo nella sua auto-donazione sul Calvario. Ciò che spetta a noi è solo di adeguarci a ciò che Egli, misticamente, realizza sui nostri altari, diventando noi stessi l’alter Christus, la vittima e sacerdote che, con grande devozione e fede, aderisce a lui e gli permette di abbracciarci nel suo atto d’amore: “quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo, amore, questo, nella sua forma più radicale” (Deus Caritas Est, 12).

Vorrei terminare questa riflessione con alcune parole del Santo curato d’Ars, bellissime per la profondità, non solo teologica, ma anche per la sua tenera affettuosità verso il Signore: “Tutte le buone opere non sono uguali nel valore quando si considera il sacrificio della Messa, perché quelle sono opere degli uomini, ma la Santa Messa è l’opera di Dio. Il martirio non è niente paragonato ad essa; esso è il sacrificio che l’uomo fa della sua vita a Dio. Ma la Messa è il sacrificio che Dio fa all’uomo del suo Corpo e del suo Sangue. Quanto grande è un sacerdote! Se capisce questo, morrà … Dio gli obbedisce; lui pronuncia due parole e il Signore scende dal cielo e si chiude dentro una piccola ostia. Quale dono!" (Piccolo Catechismo).

martedì 27 settembre 2011

Supplica al Santo Padre Benedetto XVI

SUPPLICA
AL SANTO PADRE BENEDETTO XVI: APPROFONDITO ESAME
DEL
CONCILIO ECUMENICO VATICANO II
Al Santo Padre Benedetto XVI, Sommo Pontefice, felicemente regnante, affinché voglia promuovere un approfondito esame del pastorale Concilio Ecumenico Vaticano II - Santità, Mons. Brunero Gherardini, sacerdote della diocesi di Prato e canonico della Basilica di S. Pietro, già Ordinario di Ecclesiologia nella Pontificia Università Lateranense e Decano dei teologi italiani, ha rivolto alla Santità Vostra nel 2009 una accorata quanto rispettosa Supplica, mirante ad ottenere l’autorizzazione all’inizio di un ponderato e pubblico discorso critico sui testi del Vaticano II. A questa Supplica si è idealmente associato nel 2010 il prof. Roberto de Mattei, docente di Storia della Chiesa e del Cristianesimo all’Università Europea di Roma, vice presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Nella sua Supplica, il prof. Gherardini ha scritto: “Per il bene della Chiesa – e più specificamente per l’attuazione della ‘salus animarum’ che ne è la prima e ‘suprema lex’ – dopo decenni di libera creatività esegetica, teologica, liturgica, storiografica e “pastorale” in nome del Concilio Ecumenico Vaticano II, a me pare urgente che si faccia un po’ di chiarezza, rispondendo autorevolmente alla domanda sulla continuità di esso – non declamata, bensì dimostrata – con gli altri Concili e sulla sua fedeltà alla Tradizione da sempre in vigore nella Chiesa. Sembra, infatti, difficile, se non addirittura impossibile, metter mano all’auspicata ermeneutica della continuità [con tutto il Magistero precedente], se prima non si sia proceduto ad un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti, del loro insieme e d’ogni loro argomento, delle loro fonti immediate e remote, e si continui invece a parlarne solo ripetendone il contenuto e presentandolo come una novità assoluta.
Un esame di tale e tanta portata trascende di gran lunga le possibilità operative d’una singola persona, non solo perché un medesimo argomento esige trattazioni su piani diversi – storico, patristico, giuridico, filosofico, liturgico, teologico, esegetico, sociologico, scientifico – ma anche perché ogni documento conciliare tocca decine e decine d’argomenti che solo i rispettivi specialisti son in grado di signoreggiare.
A ciò ripensando, da tempo era nata in me l’idea – che oso ora sottoporre alla Santità Vostra – d’una grandiosa e possibilmente definitiva mess’a punto sull’ultimo Concilio in ognuno dei suoi aspetti e contenuti. Pare, infatti, logico e doveroso che ogni suo aspetto e contenuto venga studiato in sé e contestualmente a tutti gli altri, con l’occhio fisso a tutte le fonti, e sotto la specifica angolatura del precedente Magistero ecclesiastico, solenne ed ordinario. Da un così ampio ed ineccepibile lavoro scientifico, comparato con i risultati sicuri dell’attenzione critica al secolare Magistero della Chiesa, sarà poi possibile trarre argomento per una sicura ed obiettiva valutazione del Vaticano II in risposta alle seguenti – tra molte altre – domande:
1.Qual è la sua vera natura?
2.La sua pastoralità – di cui si dovrà autorevolmente precisare la nozione – in quale rapporto sta con il suo eventuale carattere dogmatico? Si concilia con esso? Lo presuppone? Lo contraddice? Lo ignora?
3.È proprio possibile definire dogmatico il Vaticano II? E quindi riferirsi ad esso come dogmatico? Fondare su di esso nuovi asserti teologici? In che senso? Con quali limiti?
4.È un “evento” nel senso dei professori bolognesi [del prof. Giuseppe Alberigo e della sua scuola], che rompe cioè i collegamenti col passato ed instaura un’era sotto ogni aspetto nuova? Oppure tutto il passato rivive in esso “eodem sensu eademque sententia”?
È evidente che l’ermeneutica della rottura e quella della continuità dipendono dalle risposte che si daranno a tali domande. Ma se la conclusione scientifica dell’esame porterà all’ermeneutica della continuità come l’unica doverosa e possibile, sarà allora necessario dimostrare – al di là di ogni declamatoria asseverazione – che la continuità è reale, e tale si manifesta, solo nell’identità dogmatica di fondo. Qualora questa, o in tutto o in parte, non risultasse scientificamente provata, sarebbe necessario dirlo con serenità e franchezza, in risposta all’esigenza di chiarezza sentita ed attesa da quasi mezzo secolo”(1).
Nella sua recente, documentatissima, innovatrice storia del Vaticano II, che ha finalmente offerto al pubblico un quadro preciso, realistico delle tormentate e drammatiche vicende di quel Concilio, il prof. de Mattei, così concludeva:
“Al termine di questo volume mi sia permesso rivolgermi con venerazione a Sua Santità Benedetto XVI, nel quale riconosco quel successore di Pietro a cui mi sento indissolubilmente vincolato, esprimendogli un profondo ringraziamento per aver aperto le porte a un serio dibattito sul Concilio Vaticano II. A questo dibattito ribadisco di aver voluto offrire il contributo non del teologo, ma dello storico, unendomi però alle suppliche di quei teologi che chiedono rispettosamente e filialmente al Vicario di Cristo in terra di promuovere un approfondito esame del Concilio Vaticano II, in tutta la sua complessità ed estensione, per verificare la sua continuità con i venti Concili precedenti e per dissipare le ombre e i dubbi che da quasi mezzo secolo rendono sofferente la Chiesa, pur nella certezza che mai le porte degli Inferi prevarranno su di Essa (Mt 16,18)” (2).
Noi sottoscritti, da semplici credenti quali siamo, ci associamo integralmente a queste autorevoli e rispettose richieste. Sicuri di non mancare al nostro filiale rispetto nei confronti di Vostra Santità, ci permettiamo di aggiungere ad esse, ad ulteriore se pur sintetica illustrazione della delicata materia, alcune tra “le molte altre domande” che a nostro umile avviso sicuramente meriterebbero una risposta finalmente chiarificatrice, così come risultano dalle analisi del prof. Gherardini e dei teologi ed intellettuali che, sin dall’inizio del Postconcilio, si sono battuti per ottenere chiarezza sul Vaticano II:
5. Qual è il significato esatto da attribuire al concetto di “tradizione vivente” comparso nella costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione? Nella sua recente fondamentale monografia sul concetto di tradizione cattolica, il prof. Gherardini ha sostenuto che nel Vaticano II si sarebbe verificata addirittura una “Rivoluzione Copernicana” nel modo di concepire la Tradizione della Chiesa, poiché non vi è chiaramente definito il valore dogmatico della Tradizione (DV, 8); vi si opera un’inusitata reductio ad unum delle due fonti della Divina Rivelazione (Scrittura e Tradizione) da sempre ammesse nella Chiesa e confermate nei dogmatici Tridentino e Vaticano Primo (DV, 9); vi compare addirittura un attentato al dogma dell’inerranza dei Sacri Testi (DV, 11.2), perché “ dopo aver affermato che tutto ciò che gli agiografi asseriscono viene dallo Spirito Santo, la caratteristica dell’inerranza viene attribuita solamente alla ‘verità salutare’ o ‘salvifica’, ad una parte del tutto (“veritatem, quam Deus nostrae salutis causae Litteris Sacris consignari voluit”). Ma se lo Spirito Santo ha ispirato tutto ciò che gli agiografi hanno scritto, l’inerranza dovrebbe applicarsi a tutto, non alle sole verità salvifiche. Il testo appare perciò illogico”(3).
6. Qual è il significato esatto da attribuire alla nuova definizione della Chiesa Cattolica, contenuta nella costituzione dogmatica (che tuttavia non definisce dogmi) Lumen gentium sulla Chiesa? Se essa coincide con quella di sempre – che solo la Chiesa cattolica è l’unica e vera Chiesa di Cristo perché l’unica ad aver mantenuto intatto nei secoli il deposito della fede istituito da Nostro Signore e dagli Apostoli sotto la guida dello Spirito Santo – perché si è voluto cambiare, scrivendo, in modo non facilmente comprensibile al semplice credente e mai chiaramente spiegato (bisogna pur dirlo), che “l’unica” Chiesa di Cristo “sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica”? In questa formulazione, non sembra che la Chiesa cattolica appaia come semplice parte della Chiesa di Cristo? Parte, poiché la Chiesa di Cristo, oltre alla Chiesa cattolica, ricomprenderebbe anche “parecchi elementi di santificazione e verità” posti “al di fuori” della Chiesa cattolica? Con la conseguenza che “l’unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica” (Dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, 1.2) sarebbe quella di una “Chiesa di Cristo” che possiede “elementi” al di fuori della Chiesa cattolica. E chi vuole non può forse intendere, allora, che “l’unica vera religione” sussiste per il Concilio anche negli “elementi” non-cattolici della “Chiesa di Cristo”?(4)
7. Qual è l’effettivo significato da attribuire alla nozione di Chiesa intesa globalmente come “Popolo di Dio” (Lumen gentium, 9-17), nozione che in passato indicava solo una parte del tutto, rappresentato quest’ultimo, invece, dal “Corpo mistico di Cristo”?
8. Che significato bisogna attribuire all’omissione dei termini “sovrannaturale” e “transustanziazione” dai testi del Concilio? Quest’omissione coinvolge forse anche i relativi concetti, come sostengono alcuni?
9. Qual è il significato esatto del nuovo modo di intendere la collegialità? L’interpretazione che ne dà la Nota esplicativa previa posta in calce alla Lumen gentium (al fine di dirimere la controversia divampante in materia presso i Padri conciliari) come dobbiamo considerarla alla luce dell’insegnamento perenne della Chiesa? Ci riferiamo ai dubbi lucidamente esposti a suo tempo da Romano Amerio:
“La Nota praevia respinge della collegialità l’interpretazione classica, secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è solo il Papa che la condivide, quando voglia, con l’universalità dei vescovi da lui chiamati a Concilio. La potestà somma è collegiale solo per comunicazione ad nutum [ad un cenno] del Papa. La Nota praevia respinge parimenti la dottrina neoterica [dei Novatori presenti in Concilio] secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è il collegio unito col Papa e non senza il Papa che ne è il capo, ma in guisa tale che quando il Papa esercita, anche solo, la suprema potestà, la esercita in quanto capo appunto del collegio e quindi come rappresentante del collegio che egli ha l’obbligazione di consultare per esprimerne il senso. È la teorica improntata a quella dell’origine moltitudinaria [democratica] dell’autorità, difficilmente compatibile con la costituzione della Chiesa [che è gerarchica e di origine divina, non popolare]. Rifiutando l’una e l’altra di queste due teorie la Nota praevia tiene fermo che la potestà suprema è sì nel collegio dei vescovi unito al loro Capo [e questa è la gran novità], ma che il Capo può esercitarla indipendentemente dal Collegio, mentre il Collegio non può indipendentemente dal Capo [e questa sarebbe la concessione alla Tradizione]”(5).
Ed è esatto sostenere che l’attribuzione di poteri giuridici, quelli di un vero e proprio collegio, all’istituto della Conferenza Episcopale ha di fatto svilito e deformato la figura del vescovo? In effetti oggi i vescovi, uti singuli, non sembrano in pratica contare più niente, nella Chiesa (Vostra Santità ci perdoni la franchezza). Sul punto, ancora Amerio:
“La novità di maggior rilievo nella Chiesa postconciliare è di aver dato alla partecipazione di tutti i ceti della Chiesa organi giuridicamente definiti, quali il Sinodo permanente dei vescovi, le Conferenze episcopali, i Sinodi diocesani e nazionali, i Consigli pastorali e presbiterali e via dicendo […] La costituzione delle Conferenze episcopali ha prodotto due effetti: ha difformato la struttura organica della Chiesa e ha generato l’esautorazione dei vescovi. I vescovi, secondo il diritto preconciliare, sono successori degli Apostoli e reggono ciascuno la propria diocesi con potestà ordinaria, nello spirituale e nel temporale, esercitandovi potestà legislativa, giudiziaria e coattiva (can. 329 e 335 CIC 1917). L’autorità era precisa, individuale e, tranne che nell’istituto del vicario generale, indelegabile (il vicario generale era d’altronde ad nutum del vescovo) […] Il decreto Christus Dominus sull’ufficio pastorale dei vescovi attribuisce al corpo episcopale la collegialità, cioè “suprema e piena potestà sulla Chiesa universale” che sarebbe in tutto pari a quella del Pontefice Romano se potesse esercitarsi senza il consenso del Pontefice Romano. Questa suprema potestà fu sempre riconosciuta [solamente] all’assemblea dei vescovi adunati dal Papa in Concilio ecumenico. Ma si pone la questione se un’autorità che è messa in atto soltanto da un’istanza ad essa superiore si possa riguardare ancora come suprema e se non ricada in una mera virtualità e quasi in un ens rationis. Ma secondo la mente del Vaticano II l’esercizio della potestà vescovile in cui si concreta la collegialità è quello delle Conferenze episcopali.
Qui è singolare come il decreto Christus Dominus (al n. 37) trovi la ragione di questo nuovo istituto nella necessità per i vescovi di un medesimo paese di operare di conserva, e come non veda che questo vincolo di cooperazione ormai giuridicamente configurato altera l’ordinamento della Chiesa sostituendo al vescovo un corpo di vescovi e alla responsabilità personale una responsabilità collettiva, cioè una frazione di responsabilità […] Con l’istituzione delle Conferenze episcopali la Chiesa è ora un corpo policentrico […] La prima conseguenza del nuovo organamento è dunque un allentamento del vincolo di unità [con il Papa] che si è manifestato con ingenti dissensioni su punti gravissimi [ad esempio sulla dottrina dell’enciclica Humanae vitae, del 25.7.1968, che proibiva l’uso degli anticoncezionali]. La seconda conseguenza è l’esautorazione dei singoli vescovi come tali; essi non rispondono più né ai propri popoli né alla Santa Sede: alla responsabilità individua subentra infatti una responsabilità collegiale che, trovandosi nell’intero corpo, non si può collocare nei singoli componenti del corpo”(6).
10. Qual è il significato esatto da attribuire oggi alla figura del sacerdote, questa autentica colonna della Chiesa, ribattezzato “presbitero” per motivi che al fedele restano oscuri? È vero che già dal Concilio il prete, da “sacerdote di Dio” è stato abbassato a “sacerdote del Popolo di Dio” e ridotto principalmente alle funzioni di “animatore” e “presidente di assemblee” del “Popolo di Dio” e di “operatore sociale”? Vengono criticati, a questo proposito: Lumen Gentium, 10.2 che sembra voler porre sullo stesso piano il sacerdozio “ministeriale” o “gerarchico” e il cosiddetto sacerdozio “comune dei fedeli” – ritenuto in passato semplice titolo d’onore – con l’affermare che entrambi “sono tuttavia ordinati l’uno all’altro” (“ad invicem tamen ordinantur”) (vedi anche LG, 62.2); LG, 13.3 che sembra indicare il sacerdozio come semplice “funzione” del “Popolo di Dio”; il fatto che si ponga al primo posto della “funzione” sacerdotale la predicazione del Vangelo (decreto Presbyterorum Ordinis sul ministero e la vita sacerdotale, 4: “nella loro qualità di cooperatori dei vescovi, i presbiteri hanno anzitutto il dovere di annunciare a tutti il Vangelo di Dio”) quando invece il dogmatico Tridentino ha ribadito che ciò che caratterizza la missione del sacerdote è in primo luogo “il potere di consacrare, offrire, amministrare il corpo e il sangue del Signore” e in secondo quello “di perdonare o ritenere i peccati” (DS, 957/1764). Ed è vero che il Vaticano II svaluta di fatto il celibato ecclesiastico, con l’affermare che “la continenza perfetta e perpetua per il Regno dei Cieli, raccomandata da Cristo Signore […] è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale [anche se] essa non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio” (PO,16); affermazione, quest’ultima, giustificata con un’erronea interpretazione di 1 Tm 3, 2-5 e Tt 1,6?
11. Qual è il significato esatto del principio della “creatività” nella S. Liturgia, che indubbiamente risulta dall’aver concesso alle Conferenze Episcopali un’ampia competenza in materia, comprensiva di un’articolata facoltà di sperimentare forme nuove di culto, per adattarlo all’indole e alle tradizioni dei popoli e per semplificarlo al massimo? Tutto ciò è proposto nella costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra Liturgia : artt. 22.2 sulla nuova competenza delle Conferenze Episcopali; 37, 38, 39 e 40 sull’adattamento all’indole e alle tradizioni dei popoli e sui criteri dell’ adattamento liturgico in generale; artt. 21 e 34 sulla semplificazione liturgica. Simile facoltà di innovare in campo liturgico non fu in ogni tempo fermamente riprovata dal Magistero della Chiesa? È vero che la SC impone sempre il controllo della Santa Sede sulla liturgia e le sue innovazioni (SC 22.1, 40.1 e .2) ma questo controllo si è dimostrato incapace di impedire la capillare devastazione della liturgia, che ha allontanato tanti fedeli dalle chiese e che a tutt’oggi ancora imperversa, nonostante l’azione di disciplina ed eliminazione degli abusi inaugurata e fermamente mantenuta dalla Santità Vostra. Gli auspicati studi qualificati non potrebbero gettar luce sui motivi di questo fallimento?
Non possiamo per ovvie ragioni addentrarci in tutte le domande che i testi del Concilio provocano, in uno con la situazione attuale della Chiesa. Molte ce ne sarebbero ancora da porre, tra l’altro, sui temi fondamentali della libertà di coscienza e dell’ecumenismo. A questo proposito, ci permettiamo solamente di aggiungere quanto segue:
12. Il principio della libertà religiosa, proclamato dal Concilio per la prima volta nella storia della Chiesa, come “diritto umano” o “naturale” della persona, quale che sia la sua religione, prevalente quindi nei confronti del diritto dell’unica Verità Rivelata (la nostra religione cattolica) ad esser professata come vera religione a preferenza delle altre, non rivelate e quindi non provenienti da Dio; questo principio, che si fonda sul presupposto che tutte le religioni siano uguali, la cui applicazione ha pertanto sempre promosso l’indifferentismo, l’agnosticismo ed infine l’ateismo; come inteso dal Concilio, in che cosa si distingue effettivamente dalla laica libertà di coscienza, innalzata al posto d’onore tra “i diritti dell’Uomo” professati dall’ultralaica ed anticristiana Rivoluzione Francese?
13. Ad un risultato simile (indifferentismo e perdita della fede) non sembra condurre anche l’ecumenismo attuale, dato che il suo scopo effettivo sembra essere non tanto la conversione (per quanto possibile) del genere umano a Cristo quanto la sua unità e persino unificazione in una sorta di nuova Chiesa o religione mondiale, capace di inaugurare - si auspica - un’era messianica di pace e fratellanza tra tutti i popoli? Se queste sono le sue finalità, in parte già rinvenibili nella costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, l’attuale dialogo ecumenico non sembra scivolare pericolosamente verso un qualche “accordo fra Cristo e Beliar”?(7) E tutta l’impostazione “dialogica” della Chiesa postconciliare con il mondo contemporaneo, non dovrebbe essere sottoposta a riesame?
Santità,
Le domande che abbiamo avuto l’ardire di rivolgerVi in questa umile Supplica, possono certamente dispiacere a quella parte della Gerarchia che ha già mostrato di non gradire la Supplica inoltrata due anni fa dal prof. Gherardini. Si tratta di quella parte della Gerarchia che non sembra aver ancora compreso – ci permettiamo di dire – la gravità eccezionale della crisi che affligge ormai da un cinquantennio la Santa Chiesa; crisi le cui avvisaglie preconciliari deflagrarono nel Concilio, come hanno dimostrato il libro del prof. de Mattei e prima ancora, più succintamente, quelli del P. Ralph M. Wiltgen S.V.D. e del prof. Romano Amerio.
Per quanto sta alla nostra coscienza di credenti, la richiesta manifestata con tutta la nostra deferenza in questa Supplica ci sembra perfettamente in armonia, osiamo dire, con l’opera di restaurazione, rinnovamento e pulizia della Chiesa militante, coraggiosamente intrapresa da Vostra Santità, nonostante resistenze e difficoltà di ogni genere, a tutti note. Non ci riferiamo solamente all’ inflessibile azione dispiegata da Vostra Santità contro la corruzione dei costumi penetrata in una parte del clero e all’operazione di bonifica iniziata nei confronti di certe ben note istituzioni cattoliche di carità ed assistenza, che di cattolico hanno conservato poco più che il nome, a quanto risulta. Ci riferiamo anche alla “liberalizzazione” della celebrazione della S. Messa di rito romano antico (impropriamente detta “tridentina” visto che il suo Canone risale, secondo una consolidata tradizione, ai tempi apostolici) e dell’amministrazione dei S. Sacramenti e del rito dell’Esorcismo secondo il rituale preconciliare. Ci riferiamo anche alla Vostra remissione delle scomuniche che gravavano (per i noti motivi disciplinari) sui vescovi della Fraternità Sacerdotale S. Pio X, fondata da S. E. Mons. Marcel Lefebvre, che quella “liberalizzazione” avevano rispettosamente ma tenacemente sollecitato dalla Santità Vostra, indicendo a questo scopo anche una ‘Crociata internazionale del S. Rosario’, che ha raccolto un’ampia adesione tra i fedeli.
In tutti questi provvedimenti, certamente di estrema importanza per la rinascita della Chiesa, presi Motu proprio, nella Vostra piena autorità di Sommo Pontefice, che deriva la Sua potestas iurisdictionis su tutta la Chiesa unicamente da Nostro Signore, il nostro sensus fidei di semplici cattolici vede l’opera manifesta dello Spirito Santo. Concludiamo pertanto la nostra umile Supplica invocando l’aiuto dello Spirito Santo affinché la Santità Vostra, nell’intrapresa opera di restaurazione volta a mettere di nuovo Cristo al centro della Cattolicità (Ef, 1, 10), possa includere anche l’ auspicato riesame del Concilio.
Con tutta la nostra filiale devozione e deferenza,
in Domino et in corde Mariae,
24 settembre 2011
Sottoscrivono la presente Supplica al Santo Padre, Benedetto XVI :
1. Prof. Paolo Pasqualucci, docente di filosofia
2. Mons. Brunero Gherardini, decano dei teologi italiani, docente di Ecclesiologia
3. Prof. Roberto de Mattei, Università Europea di Roma
4. Prof. Luigi Coda Nunziante, a titolo personale e in qualità di presidente della Associazione "Famiglia Domani"
5. Dott. Paolo Deotto, direttore di Riscossa Cristiana,
6. Prof. Piero Vassallo, docente di filosofia, condirettore di Riscossa Cristiana
7. Prof. Emilio Biagini
8. Prof. Paolo Mangiante
9. Prof. Primo Siena
10. Dott. Luciano Garibaldi
11. Dott. Mauro Faverzani
12. Dr.ssa Virginia Coda Nunziante
13. Dott. Pucci Cipriani
14. Dott. Normanno Malaguti
15. Dott. Normanno Malaguti
16. Dott. Giovanni Ceroni
17. Dott. Paolo Maggiolo
18. Maria Viscidi
19. Dr.ssa Carla D'Agostino Ungaretti - Roma
20. Alfredo Bazzani - Verona
21. Francesca Poluzzi
22. Diacono Don Roberto Donati - Firenze
23. Fabio Scaffardi - Firenze
24. Dott. Giovanni Catanzaro
25. Annarosa Berselli
26. Tommaso Lopatriello - Policoro (MT)
27. Francesco Dal Pozzo - Bologna
28. Don Marcello Stanzione e tutta la Milizia di San Michele Arcangelo
29. Prof. Dante Pastorelli - Governatore della Venerabile Confraternita di S. Girolamo e S. Francesco Poverino in S. Filippo Benizi, Firenze. Presidente di Una Voce, sez. di Firenze
30. Maria Eleonora Bagnoli - Prato
31. Cesaremaria Glori - Belluno
32. Maria Matilde
33. Calogero Cammarata - Presidente di Inter Multiplices Una Vox - Torino
34. Dr.ssa Cristina Siccardi - Castiglione Torinese (TO)
35. Dott. Carlo Manetti - Castiglione Torinese (TO)
36. Roberto Sgaramella - USA
37. Alessandro Gnocchi
38. Mario Palmaro
39. Mario Crisconio - Cavaliere di Malta, Governatore del Pio Monte della Misericordia (in Napoli), presidente di "Una Voce", sezione di Napoli
40. Enrico Villari - ingegnere e dottore in filosofia - Napoli
41. Marcello Paratore - docente di filosofia - Napoli
42. Giuseppe De Vargas Machuca - Primo Governatore della Reale Arciconfraternita e Monte del SS. Sacramento dei Nobili Spagnoli - Napoli
43. Giovanni Turco - docente universitario, presidente della "Società Internazionale Tommaso d'Aquino", sezione di Napoli
44. Giovanni Tortelli - scrittore, studioso di diritto ecclesiastico e storia della Chiesa - Firenze

http://www.pontifex.roma.it/index.php/opinioni/laici/8937-supplica-al-santo-padre-benedetto-xvi-approfondito-esame-del-pastorale-concilio-ecumenico-vaticano-ii

lunedì 26 settembre 2011

"Vivere di grazia e secondo le leggi di natura è il più bel destino che un’anima possa desiderare in terra" (Don Alberto Secci)

Successo del primo Pellegrinaggio della

Tradizione al Santuario mariano di Oropa

«O quam beatus, o Beata, quem viderint oculi tui» (“Oh, davvero è beato, o Vergine Beata, colui sul quale si posano i tuoi occhi”) è la scritta che si trova sull'architrave del portale della chiesa della Madonna Bruna della Basilica Antica di Oropa e sono le parole con le quali don Alberto Secci ha introdotto la sua bellissima omelia della Missa in solemnitate Beatae Mariae Virginis de Oropa in occasione del primo pellegrinaggio della Tradizione dell’Italia Nord-Ovest, che si è tenuto sabato 24 settembre proprio al Santuario biellese. Da più di quarant’anni non veniva qui celebrata una Messa solenne tridentina e oggi, grazie al Santo Padre Benedetto XVI, con il suo Sommorum Pontificum, 500-600 fedeli hanno potuto assistere alla celebrazione del Santo Sacrificio del Figlio di Dio all’altare dove si trova l’affresco dello Sposalizio di Maria Vergine.
«Siamo qui pellegrini, non per fare manifestazioni», ha ancora detto don Alberto, «ma per chiedere grazie e metterci sotto lo sguardo della Madonna, per essere sotto i suoi occhi… Di quante grazie abbiamo bisogno: di una Fede più grande; di un amore più grande per Dio e il prossimo; di santità nelle nostre case; di salute per servire il Signore; di pazienza e costanza nelle prove… Ma dopo aver domandato tutte le grazie, dobbiamo elevare a Dio il nostro infinito ringraziamento perché possiamo celebrare la Messa di sempre all’altare di Oropa… Perché il mondo non si pone più sotto gli occhi della Madonna? Il mondo e tanti della Chiesa seguendo il mondo non accettano più che le persone sentano il peso della Croce. Tuttavia non si può piacere a Dio e alla Madre, non si può essere beati senza la Croce. Chi sfugge la Croce ne trova una più terribile».

Il coro ha cantato la Messa gregoriana cum jubilo e la sacralità è scesa in tutta la chiesa: le persone, immerse nella preghiera e protette dalle distrazioni, grazie al clima spirituale che questo rito diffonde, hanno assistito con grande silenzio e concentrazione. Fra i canti è stato anche possibile ascoltare l'inno, non più cantato da decenni, Maria che dolce nome, composto, proprio ad Oropa, da Padre Maggi, collaboratore dell'allora Patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto, ovvero il futuro papa san Pio X.
Il Santuario Reginae Montis Oropae, il più importante santuario mariano delle Alpi, trasuda Fede millenaria. Questo diamante celeste, incastonato fra le montagne, sorge a 1.200 metri, sopra Biella, in cima alla valle omonima. È uno di quei luoghi sacri dove sono i muri, le pietre, la terra a cantare a gran voce la Tradizione: è una rocca dedicata alla Madonna che porta in sé il sigillo dei santi che hanno fatto grande la storia della Chiesa e che le hanno permesso, con l’intervento di Dio, di trasmettere l’integrità della Fede.
Lo sviluppo del Santuario subì diverse trasformazioni nel tempo, fino a raggiungere le monumentali dimensioni odierne tramutandosi da luogo di passaggio a luogo di destinazione per i pellegrini animati da un forte spirito devozionale. Il maestoso complesso è frutto dei disegni dei più grandi architetti sabaudi: Arduzzi, Gallo, Beltramo, Juvarra, Guarini, Galletti, Bonora che hanno contribuito a progettare e a realizzare l’insieme degli edifici che si svilupparono tra la metà del XVII e del XVIII secolo. Dal primitivo sacello all'imponente Basilica Superiore, consacrata nel 1960, lo sviluppo edilizio ed architettonico è stato grandioso.
Articolato su tre piazzali a terrazza, il complesso è imperniato su due grandi luoghi di culto: la Basilica Antica, realizzata all'inizio del XVII secolo e in cui si venera la Madonna Nera e la Chiesa Nuova. Completano la struttura monumentali edifici, chiostri e la solenne scalinata che conduce alla Porta Regia.
Cuore spirituale del Santuario è la Basilica Antica che è stata realizzata nel Seicento, in seguito al voto fatto dalla città di Biella in occasione dell'epidemia di peste del 1599. Nel 1620, con il completamento della chiesa, si tenne la prima delle solenni incoronazioni che ogni cento anni hanno scandito la storia del Santuario. Innalzata sul luogo dove sorgeva l'antica chiesa di Santa Maria, conserva al suo interno, come un prezioso scrigno, il sacello eusebiano, edificato nel IX secolo. Nella calotta e nelle pareti interne del sacello sono visibili preziosi affreschi risalenti al Trecento, opera di un ignoto pittore, detto il Maestro di Oropa. All'interno del sacello è custodita la statua della Madonna Nera, realizzata in legno di cirmolo.
Secondo la tradizione, la statua della Vergine Maria, che si dice opera dell’evangelista san Luca (alcuni studi fanno, invece, risalire la statua alle mani di uno scultore valdostano del XIII secolo), venne portata da Sant'Eusebio dalla Palestina, nel IV secolo, mentre fuggiva dalla persecuzione ariana. Ispirato da sant’Atanasio, il quale aveva scritto la Vita di sant’Antonio, iniziatore del monachesimo in Oriente, fondò a Vercelli una comunità sacerdotale, simile a una comunità monastica. Questo cenobio diede al clero dell’Italia settentrionale una significativa impronta di santità apostolica e suscitò figure di Vescovi santi come Limenio e Onorato, successori di Eusebio a Vercelli, Gaudenzio a Novara, Esuperanzio a Tortona, Eustasio ad Aosta, Eulogio a Ivrea, Massimo a Torino. Il Vescovo tenace e coraggioso, come ha ancora detto don Alberto nella predica, «fu martire per stenti, per umiliazioni e sofferenze … È un Vescovo cattolico che ha subito l’indicibile per difendere la Chiesa che era stata contaminata dall’Arianesimo. Visse il Vangelo della sofferenza, quella morale e fisica, per salvare la Chiesa e il Cristianesimo. Non spaventiamoci, allora, di fronte a qualche sacrificio».
Oggi viviamo una situazione similare al tempo di sant’Eusebio con l’invadenza del Modernismo in vasti strati della Cattolicità. Oggi, come allora, la Chiesa ha bisogno di uomini di Fede provata, coraggiosi e fieri di fare gli interessi di Dio e della Verità che, senza badare a meschini calcoli, sappiano difendere la Sposa di Cristo dagli attacchi del nemico: il demonio, con le sue seduzioni mondane.

La Chiesa, oggi, ha bisogno di un clero che risponda alle invocazioni di san Louis-Marie Grignon de Montfort (1673-1716), il poeta per eccellenza di Maria Santissima, il quale, nella sua sublime Preghiera Infocata, supplicava la Santissima Trinità di fortificare e rinvigorire gli eletti del Signore, i sacerdoti:
«Che cosa ti chiedo? Liberos! Sacerdoti liberi secondo la tua libertà […].
Liberos! Uomini totalmente dedicati a te per amore e disponibili al tuo volere, uomini secondo il tuo cuore. Non deviati né trattenuti da progetti propri, realizzino tutti i tuoi disegni e abbattano tutti i tuoi nemici, come novelli Davide con in mano il bastone della Croce e la fionda del rosario.
Liberos! Uomini simili a nubi elevate da terra e sature di celeste rugiada, pronte a volare dovunque le spinga il soffio dello Spirito Santo. I profeti hanno visto anche loro quando si chiedevano: Chi sono quelli che volano come nubi?. Andavano là dove lo Spirito li dirigeva. […].
Le lotte e persecuzioni che la progenie di Belial muoverà ai discendenti di tua Madre, serviranno solo a far meglio risaltare quanto efficace sia la tua grazia, coraggiosa la loro virtù e potente tua Madre. A lei infatti hai affidato fin dall’inizio del mondo l’incarico di schiacciare con il calcagno e l’umile cuore la testa di quell’orgoglioso.
Altrimenti fammi morire! Mio Dio, non è meglio per me morire piuttosto che vederti ogni giorno così crudelmente e impunemente offeso e trovarmi sempre più nel pericolo di venire travolto dai torrenti di iniquità che ingrossano? Preferirei mille volte la morte!
Mandami un aiuto dal cielo, o toglimi la vita! […].
Il regno speciale di Dio Padre è durato fino al diluvio e si è concluso con un diluvio d’acqua. Il regno di Gesù Cristo è terminato con un diluvio di sangue. Ma il tuo regno, Spirito del Padre e del Figlio, continua tuttora e finirà con un diluvio di fuoco d’amore e di giustizia. […].
Chi sono questi animali e questi poveri, che abiteranno nella tua terra e saranno nutriti dai cibi dolci che hai loro preparato? Non sono forse questi missionari poveri, abbandonati alla Provvidenza e saziati dall’abbondanza delle tue delizie? Non sono essi i misteriosi animali di cui parla Ezechiele?. Avranno la bontà dell’uomo, perché ameranno il prossimo con disinteresse e impegno; il coraggio del leone perché arderanno di santo sdegno e prudente zelo di fronte ai demoni figli di Babilonia; la forza del bue, perché si sobbarcheranno alle fatiche apostoliche e alla mortificazione del corpo, e infine l’agilità dell’aquila, perché contempleranno Dio.
Tali saranno i missionari che tu vuoi mandare nella tua Chiesa. Essi avranno un occhio d’uomo per il prossimo, un occhio di leone per i tuoi nemici, un occhio di bue per se stessi e un occhio d’aquila per te».
Di questi uomini di Dio ha bisogno per la sua Chiesa, così è stato, così sempre sarà, fino alla fine dei tempi.


Perché, Don Alberto, ha pensato al Santuario di Oropa come luogo sacro del primo pellegrinaggio della Tradizione dell’Italia Nord-Ovest?
«Innanzitutto è il più grande santuario delle Alpi e poi è la storia intrinseca di questo luogo sacro a richiamare l’attenzione: qui ha trovato riparo sant’Eusebio, qui vivevano gli eremiti, separati dal mondo, uniti a Dio e alla Madonna, custode della Fede cattolica. I santi amano il silenzio, perché in esso si trova la voce di Dio e Dio chiama spesso i Suoi in disparte. La Madonna visse nel silenzio e nella grande umiltà ed Ella, che visse in disparte, ci insegna la custodia della Fede.

Da cosa deriva il “successo” di questa iniziativa?
Questo successo è dato dalla grande semplicità…. C’è tanto bisogno di semplicità! Recarsi al Monte di Oropa, assistere alla Santa Messa, sostare in preghiera con il Santo Rosario questo è ciò che si è fatto: non c’erano altri scopi pastorali in questo pellegrinaggio. La gente ha bisogno di semplicità. La crisi della Chiesa è crisi della Fede e la Fede ha bisogno di semplicità, di essere presi in disparte, di tornare alle piccole comunità, non c’è bisogno di grandi programmi, proprio come ha detto Benedetto XVI durante il suo discorso nella Cappella di San Carlo Borromeo del Seminario di Freiburg im Breisgau (24 settembre 2011):
«Sinceramente dobbiamo però dire che c’è un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito. Aggiungo: La vera crisi della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede. Se non arriveremo ad un vero rinnovamento nella fede, tutta la riforma strutturale resterà inefficace. Ma torniamo alle persone […] Hanno bisogno di luoghi, dove possano parlare della loro nostalgia interiore. E qui siamo chiamati a cercare nuove vie dell’evangelizzazione. Una di queste vie potrebbe essere costituita dalle piccole comunità, dove si vivono amicizie, che sono approfondite nella frequente adorazione comunitaria di Dio».

Perché le persone sentono la necessità di tornare alla Santa Messa di sempre, entrata per molti anni nell’oblio?
Perché, nella Santa Messa di sempre, Dio parla subito, senza mediazioni. Nel Vetus Ordo è Dio che agisce e la Chiesa tutta si unisce a questa offerta. La vita è drammatica, sia nel dolore, sia nei momenti di felicità. L’equilibrio è lo stato migliore per l’uomo, ma è difficilissimo raggiungerlo: in questa Messa l’equilibrio è perfetto. Nella Santa Messa di sempre si “torna a casa”, come dalla propria madre: la mamma non è una pedagoga, ma è una mamma; così la Messa non è scuola di pedagogia religiosa, bensì altare di Sacrificio, dove avviene una realtà di sconvolgente amore: il Figlio di Dio che si immola ogni volta che il sacerdote sale all’altare.

Che cosa ha da offrire la Tradizione al cattolico “svezzato”, “vaccinato”, “impegnato”, come si usa dire “adulto”, degli anni Duemila?
Gli presenta la scuola dell’umiltà di fronte a Dio. La maggior parte dei cattolici “adulti” sono tristi e si sono messi in una solitudine sensibile: hanno fatto la Chiesa come volevano, ma ora non sanno più che cosa farne. Nella Tradizione c’è una Storia grande che ti conduce… per fare qualcosa di veramente nuovo. Il Figlio, spesso, non fa quello che fa il padre, ma nella tradizione familiare trova le sue radici di appartenenza. Nella Tradizione si vive una grande gioia di Fede, ben coscienti del dramma attuale; ma non si ha la saccenza e tracotanza di organizzare la preghiera altrui con nuovi sistemi di evangelizzazione. C’è tutto nella Tradizione, perché lì sta la Verità. Si torna a casa e si mettono le ossa al loro posto: qui c’è l’obbedienza vera e quando si obbedisce alla Verità si è in armonia, proprio come la natura che, obbedendo al Creatore, è perennemente in equilibrio.
Vivere di grazia e secondo le leggi di natura è il più bel destino che un’anima possa desiderare in terra».


Il pellegrinaggio si è chiuso nel pomeriggio con la recita del Santo Rosario nella Chiesa antica, stracolma ancora di gente, dove le litanie lauretane sono risuonate nella loto magnifica semplicità e nel loro genuino affidamento filiale. Nel 2020, ha infine ricordato don Alberto, si svolgerà una nuova incoronazione della statua di Oropa. Quest'anno è, dunque, il primo pellegrinaggio di un’auspicabile novena annuale.

Cristina Siccardi
Tratto da : Messa in Latino