sabato 13 marzo 2010

giochetti e maghetti in Vaticano

Segnaliamo che sul sito della Santa Sede (http://www.vatican.va/), nella sua sezione italiana, nella  pagina dei documenti ufficiali di Benedetto XVI è sparita la versione italiana del Motu Proprio Summorum Pontificum: resta solo disponibile il link del testo in latino e in ungherese (come si puo ben vedete qui). Una volta cliccato il testo latino, però, basta un fare piccolo giochetto, vale a dire cambiare la "elle" della parte finale _lt.html con una "i" e, voilà, che compare magicamente il testo italiano nascosto. Leggerezza o dolo? In ogni caso non è certo il miglior modo di collaborare alla diffusione degli indirizzi pastorali del Santo Padre. C'è in memoria: perché nasconderlo? Già perché? A questo punto ritorna alla mente una antica, ma sempre attuale, riflessione: "qual meraviglia se i cattolici, strenui difensori della Chiesa, son fatti segno dai modernisti di somma malevolenza e di livore? Non vi è specie d'ingiurie con cui non li lacerino: l'accusa più usuale è quella di chiamarli ignoranti ed ostinati. Che se la dottrina e l'efficacia di chi li confuta dà loro timore, ne incidono i nervi colla congiura del silenzio. E questa maniera di fare a riguardo dei cattolici è tanto più odiosa perché nel medesimo tempo e senza modo né misura" (S. Pio X, Enciclica Pascendi).

desertum faciunt et pacem appellant

Proponiamo un interessante contributo per l'Anno sacerdotale pubblicato su "Il Foglio" di ieri, come sempre Gnocchi e Palmaro mettono il dito sulla piaga che va sanata prima che sia troppo tardi. In questi giorni possiamo vedere come la Provvidenza abbia guidato il nostro Santo Padre nella decisione di indire un Anno speciale di riflessione e preghiera per i sacerdoti. Parce populo tuo, Domine!

Il curato fallimentare
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

I santi parroci esistono ancora, e vanno in pellegrinaggio ad Ars. Le risposte sociologiche alla crisi del clero stanno facendo un deserto


Grazie a Dio, ci sono ancora parroci che, quando li si cerca, si trovano in chiesa, magari in ginocchio davanti al Santissimo oppure a confessare. Sono quei parroci che celebrano la Messa con devozione, consci di offrire sull’altare, a soddisfazione del Padre e per il bene dei fedeli, il sacrificio del Figlio. Sono quei parroci consapevoli del fatto che anche il più indegno dei sacerdoti può compiere ciò che nemmeno centomila battezzati integerrimi possono fare: perdonare un peccato mortale e trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Sono quei parroci che, durante l’Anno sacerdotale voluto da Papa Benedetto XVI, non li si è visti per qualche giorno tra canonica, sacrestia e chiesa perché sono andati in pellegrinaggio ad Ars, dipartimento dell’Ain, Francia, 45° e 58’ di latitudine nord, 4° e 49’ di longitudine est e hanno fatto delle coordinate del villaggio a suo tempo affidato al Santo Curato la croce che segna il cuore del loro sacerdozio. Ma quanti sono? Il parroco moderno, di solito, si presenta sotto altre spoglie. E’ iperattivo e impegnato altrove. In tipografia per il bollettino parrocchiale, sul cantiere del nuovo oratorio, a controllare le attività della Caritas, a discutere con l’assessore ai Servizi sociali, a passare le carte dell’ennesimo piano pastorale partorito dall’ennesimo ufficio diocesano, a barcamenarsi nelle discussioni del consiglio pastorale. Altrove. Non di rado una vittima del sistema, spesso è anche un onest’uomo. Ma noi fedeli non possiamo accontentarci di parroci che siano solo onest’uomini.

L’abate Giovanni Battista Chautard in un aureo libretto intitolato “L’anima di ogni apostolato” diceva impietosamente: “A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio”. Anche i più inguaribili ottimisti devono riconoscere che la crisi pluridecennale in cui si dibatte il cattolicesimo è essenzialmente una crisi del sacerdozio e dei sacerdoti. Un dramma in tre atti. Il primo, andato in scena negli anni successivi al Concilio, è stato accompagnato da clamorosi fenomeni di contestazione e da una imponente emorragia di preti che hanno abbandonato la tonaca. Nel secondo, gli abbandoni sono diminuiti e i fenomeni di dissenso sono andati scemando, lasciando il posto a una diffusa visione burocratica del ruolo del sacerdote, fedele esecutore della linea dettata dal vescovo e insensibile, quando non addirittura refrattario, alla volontà del Papa. Si è così affermata una figura di parroco conservatore nella sua fedeltà incrollabile alla teologia moderna e allo “spirito del Concilio”, ma, proprio per questo, progressista nella sua aperta dissonanza dal magistero e dalla tradizione. Il terzo atto è appena cominciato ed è caratterizzato dall’inesorabile declino numerico dei sacerdoti nella vecchia Europa, cui corrisponde un tremendo “che fare?”.

Molti sostengono che la mancanza di vocazioni sia un fatto che deve essere accettato senza tentare alcuna contromisura. Anzi, dicono, siccome è Dio che manda operai nella vigna, è Lui stesso che decide di rallentare o addirittura estinguere il flusso delle vocazioni. Ragion per cui saremmo di fronte a uno di quei famosi “segni dei tempi” che esigono di “pensare” una chiesa diversa da quella che abbiamo fin qui conosciuto. Tradotto in parole più semplici, bisogna prepararsi a una chiesa senza sacerdoti. Ma chi nella storia aveva pensato a costruire una chiesa senza preti? Martin Lutero. L’ombra della protestantizzazione si allunga su non poche diocesi sotto le mentite spoglie dell’emergenza vocazionale. Ecco così fiorire l’idea di parrocchie in cui i laici impegnati, quasi sempre donne, rimpiazzino il prete nelle sue funzioni. Ed ecco attuarsi, come ad esempio nella diocesi di Milano, un complesso piano di accorpamento delle parrocchie sotto il cappello delle comunità pastorali, con la regia di sacerdoti-funzionari di mezza età. Una riforma che in questi mesi sta mettendo tutti d’accordo, nel senso che laici e sacerdoti non ne possono più.

Quello milanese è un laboratorio tanto pericoloso quanto interessante. Chiunque vi si applichi può osservare da vicino il rischio di sgomberare il campo dalla vecchia figura del parroco, che nel diritto canonico ha una sua potestas molto robusta, per sostituirlo con dei preti che appaiono più simili a dei burocrati diocesani. I danni pastorali di una simile impostazione sono evidenti. Il prete che non risiede stabilmente in una comunità non riesce a essere un punto di riferimento per i fedeli. E, soprattutto, non diventa un modello, anche sul piano antropologico, per i ragazzi e i giovani che sempre meno avranno voglia di diventare come lui e verificare se hanno la vocazione al sacerdozio. Non a caso, nella terra di Ambrogio, si stanno affidando alcuni oratori a degli “animatori” stipendiati. Non a caso, nella diocesi che fu di San Carlo, un parroco può spiegare ai fedeli attoniti che “la domenica, invece di prendere la macchina e andare a Messa in una chiesa vicina, potete riunirvi e leggere insieme il Vangelo”. Il progetto sembra evidente. Siccome ci sono meno preti, si fanno fare più cose ai laici, con la conseguenza che ci saranno sempre meno preti e sempre più laici, finché il sistema progettato per funzionare perfettamente senza preti arriverà a pieno regime. Come sarebbe piaciuto a Lutero.

Ma questo ragionamento, viziato da una conclusione precofenzionata, risulta di conseguenza viziato anche in origine. E’ proprio vero che non esistono vocazioni? Oppure le si va a cercare dove non ci sono? A riprova di questa idea, sta il fatto che, mentre i seminari diocesani si svuotano, molte famiglie religiose di recente fondazione e fortemente incentrate sul sacerdozio cattolico hanno i loro seminari, anche minori, stracolmi. Forse, a voler leggere i “segni dei tempi”, si impara qualcosa dallo svuotarsi dei seminari diocesani. Innanzi tutto che sono un problema. Nessuno sa dire con certezza quale siano gli standard dottrinali comuni ai luoghi in cui si devono vagliare e far crescere le vocazioni. C’è però un’aneddotica inquietante che racconta di seminaristi costretti a recitare il rosario di nascosto, a non rimanere inginocchiati durante la Messa, a farsi mandare a casa propria riviste di apologetica come Il Timone, ad ascoltare clandestinamente Radio Maria. Per le misteriose vie della Provvidenza, nonostante un simile apparato deformante, ci sono ancora buoni preti cattolici che oggi si affacciano, giovani e freschi di ordinazione, alla loro missione apostolica. Ma sono fiori nel deserto, perché la crisi è ben più drammatica di quanto si voglia dire.

E' sufficiente una ricognizione della prassi liturgica invalsa in questi anni per rendersene conto. Le Messe domenicali offrono esempi a non finire. Dal prete che, al momento della comunione, si fa da parte e va a dirigere i canti mentre i ministri straordinari dell’eucaristia svolgono ordinariamente ciò che non toccherebbe loro, a quello che alla Messa per la Prima Comunione invita i bambini a recitare la formula di consacrazione assieme a lui, a quello che fa tenere l’omelia alla catechista. E’ il sacerdozio universale, bellezza. Una deriva ormai lontana mille miglia da quanto la Chiesa cattolica ha sempre insegnato. San Tommaso d’Aquino spiega benissimo che il sacerdozio dei fedeli consiste nel “ricevere” da Dio, mentre il sacerdozio ordinato consiste nell’“offrire” a Dio. Ma, una volta oscurato nella teologia l’aspetto sacrificale della Messa, il sacerdote ordinato finisce per essere come un comune fedele.

E’ doloroso portarne le prove, ma non si può raccontare la progressiva scomparsa dei parroci nascondendone i segni. E’ capitato per esempio che, venute a scarseggiare le ostie consacrate per la comunione in una chiesa di un’importante città lombarda, si sia corsi in fretta e furia a prendere delle particole in sacrestia e le si sia mischiate alle altre, quasi che la consacrazione possa avvenire per semplice contatto. Qui è in gioco il cuore della fede cattolica. Qui ci si balocca con il dogma della presenza reale di corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo nell’ostia consacrata a opera del sacerdote. Sarà brutale, ma senza presenza reale non c’è sacerdozio. Senza la certezza che nell’ostia c’è tutto Gesù Cristo, senza riverenza per quel pane bianco e immacolato, senza sacro timore al cospetto di tanta grandezza, senza dolcezza al cospetto del manifestarsi della Grazia pallida e pura, il sacerdote può solo farsi da parte. Quando si arriva a questo, si comprende che il vecchio parroco, quello che anche tanti atei ricordano con un certo rispetto o persino un certo affetto, quello che magari metteva soggezione ma era capace di dire la parola giusta al momento giusto, quello che induceva a guardare in Cielo quando si rischiava di affezionarsi troppo alla terra, quel parroco non c’è più.

Non poteva andare diversamente viste le premesse. Quando il 24 ottobre 1967, davanti al Sinodo dei vescovi, si tenne nella Cappella Sistina una celebrazione sperimentale della Messa prodotta dalla riforma postconciliare, l’impressione più diffusa venne riassunta benissimo dai molti che definirono il rito “freddo come una cena luterana”. Col risultato che più della metà dei padri sinodali votò contro o, quanto meno, chiese modifiche sostanziali. Monsignor Annibale Bugnini, artefice della riforma, accusò il colpo, ma non arretrò, anzi. Nel suo libro “La riforma liturgica” spiega quanto inadeguati fossero quei vescovi che non avevano gradito il suo lavoro. In particolare, riserva parole poco benevole per quelli “assillati dal dogma della presenza reale” che, poveri ruderi medievali, “avevano visto con preoccupazione qualche riduzione nei gesti e nelle genuflessioni, l’allungarsi della liturgia della Parola”.

Proprio così, tra i vescovi di santa romana chiesa ce n’erano ancora molti con la fissa della presenza reale di Nostro Signore nell’eucaristia. Levata quella fissa, oggi, in gran parte dei seminari, è considerato chiaro segno di non-vocazione rimanere inginocchiati per il ringraziamento dopo la comunione. Ma se un sacerdote non insegna ai suoi parrocchiani la reverenza per Dio che cos’altro può fare? Se non vuol rimanere con le mani in mano, ecco che insegnerà la reverenza per qualcos’altro: per l’ambiente, per la pace, per i poveri, per le balene in via d’estinzione. Persino per il dio delle altre religioni: ma non per il proprio. Non è un caso se, nell’udienza generale del 1° luglio 2009, a proposito dell’anno sacerdotale, Papa Benedetto XVI ha detto: “Dopo il Concilio Vaticano II, si è prodotta qua e là l’impressione che nella missione dei sacerdoti in questo nostro tempo, ci fosse qualcosa di più urgente; alcuni pensavano che si dovesse in primo luogo costruire una diversa società”. Ma non è in un progetto umanitario che trova compimento la vocazione al sacerdozio.

Il sacerdote radica la sua identità nel primato della Grazia divina. “A fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino: ‘Il più piccolo dono della Grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’”.

Nell’udienza precedente aveva inoltre spiegato che “in un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale la funzionalità diviene l’unica decisiva categoria, la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale”. Perso di vista tutto questo, il destino del parroco è quello di essere uno fra i tanti. A far marciare le cose per bene in parrocchia ci pensa il popolo che, liberato da secoli di oppressione liturgica, può dare finalmente sfogo alla sua democratica creatività. Ma il popolo, quand’anche sia il “popolo di Dio”, una volta abbandonato a se stesso, al massimo riesce a mettere su la Festa dell’Unità, fosse pure la Festa dell’Unità dei cristiani.

E il prete, nella gran parte dei casi cresciuto nella stessa temperie, partecipa con entusiasmo. Poiché l’entusiasmo è l’unico criterio che oggi misura la riuscita di qualsiasi iniziativa ecclesiale, dalla celebrazione della Messa alla raccolta di carta per il Mato Grosso. Se una Messa non è partecipata entusiasticamente, se non è animata entusiasticamente pare quasi non sia valida. Così, ognuno ci mette del suo. C’è chi si affanna nella corsa al microfono per leggere chilometriche preghiere dei fedeli, chi compie gesti simbolici che danno un senso ulteriore alla Messa, chi sale alla ribalta per spiegare che cosa significhino quei gesti simbolici, chi dai gesti simbolici si sente edificato e chi, ma raramente, volta i tacchi dicendo: “Se me lo devi spiegare che razza di simbolo è?”.

Quanto sono lontane le Messe del Curato d’Ars. Quanto lontana la sua concezione del sacerdozio. Quanto lontano il suo essere parroco, responsabile davanti a Dio del destino eterno di ogni anima affidatagli. “Tolto il sacramento dell’Ordine” diceva ai suoi parrocchiani il santo “noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire per il peccato, chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote”. E poi ancora sopraffatto dalla responsabilità di dare a Dio ciò che gli spetta anche per conto altrui: “E’ il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra. Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti, è lui che apre la porta, è lui l’economo del buon Dio, l’amministratore dei suoi beni. Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie”.

venerdì 12 marzo 2010

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (4)

Abbiamo precedentemente visto che la Riforma liturgica inglese fu un'opera di straordinaria ambiguità. Dopo la morte di Enrico VIII, sotto la guida dell'arcivescovo di Canterbury Cranmer, l'Inghilterra fu portata sempre più a tagliare le sue radici cattoliche, per approdare a un nuovo cristianesimo, eretico, l'Anglicanesimo. L'attualità ci mostra a quale tristezza è giunta la chiesa anglicana, seguendo tutte le mode e perdendo progressivamente la fede. Questo taglio con la radice cattolica, lo sappiamo, fu fatto GRADUALMENTE, con prudenza, attraverso una riforma della liturgia lente ma inesorabile nell' eliminare l'aspetto sacrificale della Messa, così come comanda il più puro protestantesimo. La gradualità era necessaria, nel disegno sovversivo e ereticale di Cranmer, per non provocare lo scandalo degli inglesi, sacerdoti e laici, ancora naturalmente cattolici: si sa, chi agisce nell'ombra, non potendo manifestare il proprio disegno rivoluzionario, non vuole gli scandali... che tutto sia tranquillo, purche l'opera di distruzione continui!
Con questa logica vennero approntate delle misure preparatorie alla riforma del messale romano che, considerate attentamente, rivelano tutto il loro carattere protestante. Iniziamo, in questo numero, a considerare la prima di queste misure preparatorie, la sostituzione degli altari con delle tavole: i lettori potranno in tutta facilità farne i dovuti collegamenti con la nostra triste realtà post-conciliare, che per frettolosità e superficialità (ma in alcuni casi per volontà di protestantizzazione) ha seguito l'esempio anglicano.
L'abbazia di Rievaulx in North Yorkshire
La sostituzione degli altari con delle tavole

La sostituzione degli altari con delle tavole fu, anch’essa, una misura conforme alla linea di condotta adottata dai riformatori dell’Europa continentale in materia di liturgia. Ciò che ne risultò finalmente si trova molto esattamente riassunto in una descrizione della santa cena come la si celebrava a Strasburgo dopo il 1530,quando l’influenza di Bucer vi fu divenuta preponderante. (E’ senza dubbio inutile ricordare che Bucer ebbe su Cranmer e dunque sulla sua nuova liturgia, più influenza di qualunque altro riformatore del continente). “La messa, il prete e l’altare sono dunque sostituiti dalla santa cena, il ministro e la tavola della santa cena; al posto di rivolgersi verso l’oriente, il celebrante guarda verso l’occidente” (D.Harrison, The first and second Prayer Books of Edwar VI, Londra 1968, p.VI). Per Calvino, poiché il Cristo ha compiuto il suo sacrificio una volta per tutte, Dio “ci ha donato una tavola per la festa e non un altare per offrirvi una qualsiasi vittima; non ha consacrato dei preti per offrire dei sacrifici, ma dei ministri per condividere con gli altri il banchetto sacro”.

La distruzione in massa degli altari non intervenne in Inghilterra che dopo l’imposizione del Prayer Book del 1549; tuttavia, un primo passo era già stato compiuto dal 1548; riguardava gli altari delle cappelle delle fondazioni mortuarie, di cui Cranmer aveva ordinato la distruzione. A partire dal 1549, gli altari di pietra sui quali, da secoli, si offriva il santo sacrificio, furono sostituiti con dei tavoli di legno collocati nel coro. Il 27 novembre 1548, Jean d’Ulm scriveva a Bullinger: “Tutti gli altari privilegiati sono ora stati abbattuti in buona parte dell’Inghilterra e, con l’accordo generale dell’alta società, sono stati puramente e semplicemente soppressi. Cosa aggiungere a questo? Questi altari idolatri sono ora diventati delle mangiatoie di maiali (arae factae sunt harae), cioè la dimora dei porci e delle bestie” (Original Letters Relative to the English Reformation, Parker Society, Cambridge,1846 e 1847, t. II, pag. 384). Nel 1549, il vescovo di Norvich, William Rugg, che aveva l’animo cattolico, dimissionò per protestare contro il primo Atto di uniformità, che imponeva il nuovo Prayer Book. La sede resterà vacante per un anno; in virtù della sua autorità di primate, Cranmer fece effettuare una visita della diocesi che ebbe come risultato la distruzione della maggioranza degli altari. Il nuovo vescovo, Thomas Thirlby, si era anche lui dichiarato ostile all’Atto di uniformità; lo accettò però quando fu adottato. (Più tardi, sotto il regno di Elisabetta I, fu gettato in prigione per aver rifiutato di prestare il giuramento di supremazia).

Nel 1550, dopo aver preso possesso della sua nuova sede, osservava: “La maggioranza degli altari della mia diocesi sono già stati distrutti per ordine dei visitatori inviati da Sua Grazia Monsignore di Canterbury in occasione dell’ultima visita che ha fatto effettuare, essendo allora la sede episcopale vacante” (F. Gasquet e H.Bishop, Edward VI and the Book of Common Prayer, Londra 1890). In una serie di seminari per la Quaresima che pronunciò davanti al Re e al Consiglio, il vescovo Hooper reclamò con insistenza la distruzione totale degli altari e la loro sostituzione con dei tavoli, perché non ci sono che tre forme di sacrificio che i cristiani possono offrire e non necessitano di altari: il sacrificio di azione di grazia; la bontà e la generosità verso i poveri; e la mortificazione dei nostri corpi e la morte al peccato. “Se noi non ci applichiamo ad offrire ogni giorno questi sacrifici a Dio, non siamo più cristiani. Considerando che i cristiani non hanno altri sacrifici che questi, che si possono e si devono compiere senza altari, non si dovrebbero trovare altari fra i cristiani… Sarebbe dunque a proposito che piacesse ai magistrati sostituire gli altari con dei tavoli, conformemente a ciò che fu istituito dal Cristo, questo al solo scopo di fare scomparire la credenza erronea, diffusa nel popolo, secondo la quale si offrono dei sacrifici sugli altari; perché fino a quando ci saranno gli altari il popolo ignorante e il prete adepto di false dottrine continueranno a sognare dei sacrifici. Sarebbe dunque preferibile che i magistrati facciano scomparire tutti i monumenti e i segni dell’idolatria e della superstizione; questo non farebbe che affrettare lo stabilirsi della vera religione di Dio” (Original Lettres..., t. II, pag. 488). Il 27 marzo 1550, dopo la nomina di Ridley al seggio episcopale di Londra, Hooper scriveva a Bullinger: “Spero che si metta a distruggere gli altari di Baal come ha già fatto nella sua chiesa quando era vescovo di Rochester. Non so come dirvelo, carissimo amico, in mezzo a quali difficoltà e di quali pericoli noi lavoriamo e combattiamo per arrivare ad eliminare questa pratica idolatrica che è la messa” (Original Letters..., t. I, pag.79). E aggiungeva: “Dal mio arrivo qui, molti altari sono stati distrutti in questa città (Londra)”. Le speranze che Hooper metteva in Ridley erano fondate. In meno di tre mesi, questi aveva ordito che gli altari fossero tolti dalle chiese della sua diocesi (F.Clark, Eucharistic Sacrificie and the Reformation, Devon, 1980, pag 188). Gli altari erano dei “monumenti che perpetuavano troppo l’antica credenza del sacrificio della messa. La distruzione degli altari era già un tratto caratteristico della Riforma nell’Europa continentale, dove aveva generalmente accompagnato l’abolizione della messa” (Ibid., pp.187-188). Il 24 novembre 1550, il Consiglio del Re ordinò che questa politica fosse universalmente adottata in Inghilterra, e “che tutti gli altari del regno fossero distrutti. Ormai, ogni volta che si celebrava il rito della santa cena, si doveva farlo su una tavola di legno coperta da una tovaglia di lino” (P. Hughes, The Reformation in England, Londra 1950, t.II, p.121). In una lettera indirizzata in questa data a Ridley dal Consiglio, a nome del Re, e portante, tra l’altro, le firme di Somerset e di Cranmer, si afferma che la sostituzione generale degli altari con dei tavoli in legno eliminerà una causa “di nuovi turbamenti e disordini”: “Reverendissimo Padre in Dio, fedelissimo e amatissimo, vi indirizziamo i nostri buoni saluti. E’ arrivato a nostra conoscenza che, essendo stati abbattuti gli altari nella maggioranza delle chiese del regno per delle buone e sante ragioni, ne esistono ancora, nonostante questo, in diverse altre chiese, cosa che occasiona molte dispute e litigi fra alcuni dei nostri sudditi, e che, se non vi si sta attenti, potrebbe essere causa di grandi mali e dispiaceri; vi facciamo sapere che, preoccupati di eliminare ogni causa di discordie come le originano sovente queste diversità e altre simili, e considerando che fra le altre cose che appartengono alla nostra funzione e carica regale, la più importante è preservare la pace pubblica nel nostro regno, abbiamo giudicato bene, dopo parere del nostro Consiglio, di richiedervi e ancor di più di darvi ordine e comando formale, al fine di evitare ogni soggetto di nuove discordie e violenze a proposito del mantenimento o della soppressione dei detti altari, di dare delle istruzioni precise su tutta l’estensione della vostra diocesi, perché con ogni diligenza siano abbattuti tutti gli altari, in ogni chiesa o cappella di detta diocesi, che sia nei luoghi esenti o non esenti, e che al loro posto sia eretta una tavola, in qualche posto appropriato del coro, destinata, in ogni chiesa o cappella, a servire all’amministrazione della santa comunione. E, preoccupato che questo sia fatto senza offendere coloro tra i nostri affezionati sudditi che non sono ancora su questo punto così convinti come ce lo augureremmo, vi indirizziamo congiuntamente alcune considerazioni raccolte e ordinate ad ogni scopo utile; le quali, come altre che vi sembrerà appropriato avanzare, per persuadere gli esitanti di riunirsi alla nostra azione su questo punto, vi preghiamo di voler volentieri far conoscere al popolo, da qualche predicatore avveduto, nei luoghi che giudicherete appropriati, prima di abbattere i detti altari; in modo che le coscienze mal irrobustite di altri possano essere, anche loro, debitamente istruite e rassicurate, per quanto si possa fare e che il nostro buon piacere ne sia tanto più facilmente eseguito. Perché questo sia fatto al meglio, vi domandiamo di fare innanzitutto conoscere di persona le considerazioni suddette nella nostra chiesa cattedrale, se voi lo potete facilmente, o altrimenti di farlo dall’intermediario del vostro cancelliere, o da qualche altro predicatore serio, in questo luogo e in altri borghi e luoghi più importanti della vostra diocesi, come vi sembrerà più appropriato” (T.Cranmer, Writings on the Lord's Supper, t.II, p.524).

Tra le “considerazioni” che accompagnavano la lettera, sei non permettevano di dubitare, scrive Mons. Hughes, “che negli animi di coloro che ordinavano questo cambiamento , una religione (migliore) era sostituita ad un’altra” (The Reformation in England, t.II, p.121). Questo emerge con una particolare evidenza dalla prima delle "Reasons why the Lord’s Board should rather be after the form of a Table than an Altar" (Ragioni per le quali la tavola del Signore dovrebbe avere la forma di un tavolo piuttosto che quella di un altare): “In primo, la forma di una tavola allontanerà maggiormente la gente semplice dalle idee superstiziose della messa papista, per condurla al buon uso della santa cena. Perché ci si serve di un altare per offrire un sacrificio; ma ci si serve di una tavola per il pasto degli uomini.

Ora, quando noi rinnoviamo la cena del Signore, con che scopo lo facciamo? Forse per sacrificare il Cristo una nuova volta e crocifiggerlo ancora, o per mangiare il suo corpo spiritualmente e bere il suo sangue spiritualmente, cosa che è ben in realtà il senso della vera santa cena?Nessuno potrebbe dunque negare che la forma di una tavola conviene meglio di quella di unaltare alla celebrazione della detta santa cena” (T.Cranmer,Writings on..., pp.524-525).

Si soppressero dunque in tutto il paese tutti gli altari consacrati che servivano al sacrificio cristiano. Il padre T.E. Bridgett sottolinea che il rifiuto del santo sacrificio della messa era tale dalla parte dei “preti apostati che introdussero la Riforma nel XVI secolo o che vi cooperarono” che sussiste “poca sopravvivenza dell’antica pietà”. Poi aggiunge: “Ovunque esistono dei libri di conto dei fabbriceri, troviamo delle iscrizioni simili a quella di Burnham, nel Buckinghamshire: “Payd to tylars for breckynge downe forten aster in the cherche” (“Pagato ai muratori per abbattere quattordici altari nella chiesa”). Non è che attraverso tali briciole di storia che possiamo ricostruire e popolare di nuovo con l’immaginazione l’interno delle vecchie chiese, oggi vuote, ove furono nel passato offerte innumerevoli messe” (T.E.Bridgett, A History of the Eucarist in Great Britain, Londra 1908, p.63).

Il padre Bridgett non forza il tratto quando parla di “odio della messa”; è ciò che emerge dalle istruzioni indirizzate ai fabbriceri nel 1571, sotto il regno di Elisabetta, da Edmund Grindal, arcivescovo di York. Non solamente insisteva sulla distruzione o degradazione di ogni oggetto suscettibile di evocare il ricordo della messa, come sulla eliminazione di tutti gli altari, rialzati sotto il regno di Maria Tudor, ma prescriveva anche che fosse soppressa ogni traccia della loro esistenza: “I fabbriceri veglieranno in modo che, in tutte le chiese e cappelle di cui hanno la responsabilità, tutti gli altari siano interamente abbattuti e distrutti fino alle loro fondamenta e che il posto dove si innalzavano sia pavimentato, e che il muro al quale erano sigillati sia imbiancato e reso perfettamente uniforme, in modo che nessuna differenza o nessuna traccia non possa apparire. E veglieranno anche a che le pietre dell’altare siano spezzate, raschiate e impiegate per qualche uso profano. “I fabbriceri e i ministri del culto veglieranno (anche) al fatto che gli antifonari, messali, graduali, portesses (libro portatile, equivalente del breviario), processionali, manuali, lezionari e tutti gli altri libri che appartenevano un tempo alla loro chiesa o cappella e che erano utilizzati per gli uffici della superstizione in latino, siano resi interamente illeggibili e siano strappati e distrutti. Allo stesso modo, che tutti i paramenti, albe, tuniche, stole, fanoni (manipoli), ciborii, strumenti di pace, campanelle, campane della consacrazione, turiboli, ampolle del crisma,croce, candelieri, recipienti dell’acqua benedetta e aspersori, immagini e tutte le reliquie e monumenti della superstizione e dell’idolatria siano totalmente degradati, spezzati e distrutti. “Due volte all’anno, dovranno comunicare all’ordinario i nomi di tutte le persone favorevoli al potere romano e straniero, i nomi di coloro che ascoltano o dicono la messa od ogni altro ufficio in latino, come i nomi di coloro che danno asilo ai preti papisti vagabondi o agli altri spregiatori notori della vera religione” (Ibid. p.63).

In un buon numero delle venerabili chiese e cattedrali d’Inghilterra, la mensa di pietra dell’altare fu trasformata in una pietra, sovente utilizzata come gradino che i fedeli attraversavano entrando nella chiesa per assistere al nuovo servizio in vernacolare. Nella sola contea di Cambridge, si trovano ancora più di trenta pietre d’altare così collocate per essere calcate dai piedi (Ibid.,p. 65).
In una biografia che ha dedicato al suo antenato riformatore, un discendente del vescovo Ridley scrive che la distruzione degli altari, che la gente del popolo considerava un sacrilegio, li scandalizzò talmente che fece loro chiaramente comprendere l’importanza della rivoluzione che era stata compiuta, sostituendo una religione ad un’altra, come dice Mons. Hughes. Ecco cosa scrive J.-G. Ridley al riguardo: “La distruzione degli altari significò per tuti i sudditi del regno che l’oggetto che, da più di mille anni,si innalzava nel cuore delle loro chiese, e che, dalla loro più tenera infanzia, guardavano ogni Domenica con un timore reverenziale, era considerato come idolatrico e rigettato con disprezzo dagli adepti della nuova religione che era stata loro imposta” (J.G. Ridley, Nicholas Ridley ,Londra 1957, pp. 218-219).

Il fatto che il termine “altare” sia utilizzato in alcune rubriche del Prayer Book del 1549 può sembrare in contraddizione con l’insegnamento dei riformatori. La questione è affrontata nella seconda delle spiegazioni che accompagnano l’ordine del Consiglio del Re prescrivente la distruzione degli altari: “Allo stesso modo, poiché si sente dire che il Libro della Preghiera comune parla di un altare e che non è dunque permesso di sopprimere ciò che questo libro permette, ecco cosa conviene rispondere a questo proposito: Il Libro della Preghiera comune chiama la cosa sulla quale si celebra la santa cena, indifferentemente tavola, altare, tavola del Signore, senza prescrivere al riguardo alcuna forma particolare, che sia quella di una tavola o di un altare: di modo che la tavola del Signore, che abbia la forma di un altare o quella di una tavola, Il Libro della Preghiera comune lo chiama a volte altare e tavola. Perché, come chiama la cosa sulla quale si celebra la santa cena, altare, tavola e tavola del Signore o della santa cena, così chiama altare la tavola dove è distribuita la santa comunione, con lodi e azioni di grazie rese a Dio; perché è lo stesso sacrificio di lode e di azione di grazia che è offerto. Così è chiaro che parlando in questo modo non si dice o non si vuol dire nulla che contraddica Il Libro della Preghiera comune” (Cranmer, Writings...,t.II, p. 525). La parola altare non fu più menzionata nelle rubriche del Prayer Book del 1549; non fu mai reintrodotta in seguito.




Abbiamo preso molto spazio nel citare questo paragrafo della grande opera di M.Davies sulla riforma liturgica inglese, ma crediamo di aver fatto dono ai nostri lettori di una approfondita documentazione, oggi più che mai preziosa per rispondere a coloro che si scandalizzano per il fatto che il sacerdote celebri “spalle ai fedeli”.

continua...

giovedì 11 marzo 2010

Benedetto XVI: "le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono"



Dalla Catechesi di Mercoledì 10 Marzo 2010 di Sua Santità Papa Benedetto XVI

«A questo punto forse è utile dire che anche oggi esistono visioni secondo le quali tutta la storia della Chiesa nel secondo millennio sarebbe stata un declino permanente; alcuni vedono il declino già subito dopo il Nuovo Testamento. In realtà, "Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt", le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono. Che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità dei Cistercensi, dei Francescani e Domenicani, della spiritualità di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, e così via? Anche oggi vale questa affermazione: "Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt", vanno avanti.

San Bonaventura ci insegna l’insieme del necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi donati da Cristo, nello Spirito Santo, alla sua Chiesa. E mentre si ripete questa idea del declino, c’è anche l’altra idea, questo "utopismo spiritualistico", che si ripete.

Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente "altra". Un utopismo anarchico!»


Con buona pace di quei liturgisti che hanno visto nell'ultimo millennio un progressivo declino della Liturgia della Chiesa fino al novus ordo e dei nuovi gioachimiti che hanno  intravisto nel Concilio una "nuova pentecoste", hanno annunciato una "nuova novella", hanno tentato di fondare una "nuova chiesa" in "movimento", hanno spacciato per verità vecchie eresie e si sono autoproclamati "nuovi (super) apostoli" dei tempi moderni(stici).

mercoledì 10 marzo 2010

Lo splendore della Messa cattolica: Era l'atto che aveva valore presso Dio, e non già le parole


Pubblichiamo un brano tratto dal romanzo "Con quale autorità?" di Mons. Robert H. Benson (1871-1914), figlio del Primate della Comunione Anglicana, convertitosi al cattolicesimo, fu ordinato sacertote il 12 Giugno del 1904 nella basilica di San Silvestro a Roma. Benson è anche l'autore de "Il padrone del mondo" (Milano, Jaca Book, 1987).  


"La cappella della Hall era nell’ala del chiostro, ma certo nessun estraneo avrebbe mai sospettato che fosse l’andito che univa il salottino di Lady Maxwell con la sua camera da letto. Quest'andito di circa quattro metri per ogni lato pareva avere la stessa larghezza delle due stanze, ma non era che un'illusione prodotta dal fatto che una delle sue pareti era un poco sporgente e l'altra più sottile, mentre le pareti delle stanze erano rivestite di legno e di pesanti arazzi. In quell'andito non c'era che un gran cassone con dentro un vecchio vestito e delle stoffe, ma, spingendo il suo fondo in due punti contemporaneamente, l'asse dal lato della parete cedeva, rivelando un nascondiglio, dove erano riposti gli arredi sacri; di lì poi si passava in una stanzina dove vi era posto per due persone e dalla quale, in caso di estremo pericolo, si poteva arrivare sul tetto.

La mattina seguente, prima ancora delle quattro, Mrs. Margaret andò a svegliare Isabel, raccomandandole di vestirsi al buio perché la casa poteva essere sorvegliata e dalla finestra trasparire un po' di luce. La fanciulla si vestì in fretta e poi, attraversati alcuni corridoi rischiarati soltanto da lumicini a olio posti negli angoli, entrò nel salottino di Lady Maxwell e quindi nell'andito, che aveva adesso un aspetto del tutto diverso dal solito. Il cassone, trasformato in altare, era ricoperto da una tovaglia; un piccolo rialzo indicava il posto della pietra sacra e nel mezzo era un gran crocifisso d'argento con ai lati delle candele accese; il davanti del cassone, sul quale era scolpito il sacrificio di Abramo e l'offerta di Melchisedech, faceva le veci di paliotto e alla parete era appeso un quadro raffigurante la Vergine col Bambino Gesù. Tre panche erano state poste davanti all'altare. Isabel andò a prender posto nella prima accanto a Mrs. Margaret; in quelle dietro erano già varie persone di servizio. Fuori spirava una leggera brezza e l'aria dell'andito, anch'essa un poco mossa, faceva vacillare le fiammelle delle candele. Dopo un po' si udì il passo di una persona che camminava a stento, e si vide comparire il prete in veste talare sostenuto da sua madre; giunti vicini al posto di Lady Maxwell, egli le fece un rispettoso inchino; poi lentamente si avvicinò all'altare e si fece il segno della croce. Uno dei servi, accortosi che non aveva la forza d'indossare da solo le vesti sacerdotali, gli pose intorno al collo l'amitto; poi gli mise il camice raccogliendolo intorno ai fianchi col cingolo, gli dette la stola da baciare, gli adattò manipolo al braccio sinistro e per ultimo lo coprì con la rossa pianeta e il prete fu di nuovo, come la domenica precedente, in rossi paramenti; ma ahimè, quanto cambiato! Quindi il servo gli si inginocchiò accanto e il sacerdote incominciò a recitare le preghiere che servono di preparazione all'atto più grande della religione; accostatosi poi all'altare, si chinò lentamente, lo baciò e la messa ebbe principio.

L'attenzione di Isabel era così concentrata nell'ascoltare quel mormorio di parole latine e nell'osservare i movimenti del prete, che non aprì neppure il libro di preghiere imprestatole da Mrs. Margaret.

Sino allora il culto pubblico era stato per lei qualche cosa di affatto diverso, ed era consistito nell'ascoltare il predicatore dal pulpito, credendo che la sua parola dovesse avere un effetto sacramentale sull'anima, o nel seguire le preghiere che egli recitava distintamente e con enfasi affinché l'intelletto dei suoi uditori vi assentisse con un sincero Amen. Il ministro protestante era un ministro della parola di Dio all'uomo, era un interprete del Vangelo; qui invece il sacerdote si rivolgeva a Dio e non all'uomo, e per questa ragione parlava a bassa voce e in una lingua che, come Campion aveva detto sul patibolo, «entrambi intendevano». Inoltre, e qui stava la seconda fondamentale differenza, non era affatto necessario seguire parola per parola ciò che il prete diceva, poiché l'essenza di quel culto non consisteva nell'afferrare il significato di parole, ma in un volontario e pieno assenso e partecipazione dei fedeli al supremo atto per il quale le parole erano sì necessarie, ma subordinate; era dunque l'atto che aveva valore presso Dio, e non già le parole. E Isabel, nel pensare che per quei cattolici lì riuniti era di nuovo offerto a Dio il Sacrificio della Croce, si sentì, per quanto non intravedesse ancora che in modo confuso il sublime mistero, profondamente commossa. Intanto Iddio, che dall'alto dei cieli aveva guardato con compiacenza fra le tenebre del Calvario allorquando vi si compiva l'atto supremo col quale il mondo veniva redento, guardava ora nell'oscura cappellina, dove si rinnovava il medesimo Sacrificio per opera di un uomo, il quale, in virtù della sua partecipazione al sacerdozio del Figlio di Dio, aveva il potere di pronunciare quelle impressionanti parole, per mezzo delle quali quel Corpo che era stato appeso in croce, e quel Sangue che da Esso era uscito, erano di nuovo esposti ai Suoi occhi sotto le specie del pane e del vino.

La voce del sacerdote si fece sempre più sommessa, sino a che si spense in un solenne silenzio; i fedeli si prostrarono in una più profonda adorazione ed egli, con un doloroso sforzo, alzò le deboli braccia tenendo l'Ostia fra le dita; in quel momento anche la giovane puritana chinò il capo, ed elevò il cuore a Dio supplicandolo di guardare il mistero che si stava compiendo in terra e, per amore del Suo Figlio diletto, di diffondere la Sua Grazia sulla Chiesa cattolica, di fortificare e salvare i vivi, di dare pace e riposo ai morti, e di ricordarsi in special modo di suo fratello Anthony e di Hubert, ch'essa amava tanto; di Mrs. Margaret, di Lady Maxwell e di suo figlio, il quale non solo come prete, ma anche come vittima aveva acquistato una somiglianza con l'Eterno Sacerdote, e che ora portava sul suo corpo i suggelli di Gesù Cristo.

Allorché il sacerdote si fu comunicato, Lady Maxwell e Mrs. Margaret si alzarono per ricevere da lui il Corpo del Signore; seguirono alcune brevi preghiere e con esse ebbe termine la messa. Isabel aiutò allora Mrs. Margaret a rimettere tutto a posto e poi uscì con lei dalla cappella, dove non rimasero che il sacerdote e sua madre.

Giunte nel salottino, la vecchia signora gettò le braccia al collo della fanciulla. «Che Dio ti benedica! avevo pregato tanto per te. Adesso torna a coricarti perché non sono che le cinque; ti chiamerò prima che James parta.»

La fanciulla obbedì ma stette a lungo senza poter prender sonno; le pareva ancora di udire la voce sommessa del prete, e di vederlo chinarsi per baciare l'altare, mentre accanto a lui, in ginocchio e a capo chino, stava il vecchio servitore. Poi cominciò a riflettere su ciò che aveva fatto: era stata presente a quello che il governo considerava un delitto; ed era per quell'innocente insieme di atti, di parole e di oggetti che creature di carne e ossa come lei erano pronte a morire, mentre altre avevano il coraggio di metterle a morte. Sì, era alla messa, a quell'atto sublime e terribile, così pieno di significato e di valore ch'essa aveva assistito. Pensò ad Anthony che sarebbe stato così indignato se lo avesse saputo; a Hubert che forse per lei aveva rinunciato a questa fede sublime; a suo padre che su questa terra non l'aveva mai conosciuta, e finalmente a Mrs. Margaret, la quale possedeva una così profonda vita spirituale da superare tutto ciò che lei aveva mai sperimentato, o soltanto immaginato, e l'anima di questa vita era la messa. Questo insieme di atti e di parole pure per migliaia di altre persone era più prezioso di qualsiasi preghiera e meditazione; ma era possibile che l'intero edificio di preghiera e di sacrifici posasse su una follia?

Passò quindi a considerare il lato spirituale della messa; era veramente avvenuto ciò a cui credeva così fermamente la buona Mrs. Margaret? Erano cioè il Corpo e il Sangue del Signore divenuti presenti sull'altare in virtù delle Sue stesse parole? Era realmente quell'azione di una sola mezz'ora l'atto più grande della religione? Era vero che l'Agnello di Dio, eternamente immolato, offriva se stesso e la sua morte al Padre per mezzo di un sacrificio incruento e così augusto che gli stessi angeli non potevano celebrarlo e lo veneravano di lontano? Oppure era tutto ciò, come le era stato insegnato nella sua infanzia, una fanciullesca, empia buffonata? La giovane puritana, che durante quella sua prima messa si era offerta con Gesù all'eterno Padre, fece ora tremante il primo passo verso il riconoscimento di una reale, visibile autorità: «Credo» diss’ella a se stessa «che la messa è nella sua essenza un medesimo sacrificio con quello della croce, non già perché la mia esperienza me lo insegna, e neanche perché la Bibbia me lo attesta, visto che le parole della Scrittura possono interpretarsi in modo diverso; ma credo perché me lo dice quella società che io mi propongo di considerare come divina, e che rappresenta in terra il Verbo Incarnato, la quale anzi è il Suo Mistico Corpo; e io mi rimetto a Lei, mi abbandono nelle sue braccia, che sono le stesse braccia dell'Eterno, e pendo dalle sue labbra per mezzo delle quali parla l'Infallibile Verbo».

E dopo questo primo atto di fede cattolica, la fanciulla provò finalmente un senso di quiete e di pace e, stanca per tante emozioni, finì coll'addormentarsi."

(Robert. H. Benson, Con quale autorità, Milano 1997, pp. 243-248)

prima di Mons. Gherardini: don Mauro Tranquillo

Quale autorità per il Concilio Vaticano II?
di don Mauro Tranquillo

Da lungo tempo non manchiamo di denunciare gli errori del Concilio Vaticano II e dei testi successivi pubblicati dagli stessi Pontefici, e certo non è mancato chi ha rimproverato la Fraternità San Pio X o lo stesso Mons. Lefebvre di ergersi a giudice del Magistero o del Papa stesso. Lungi da noi un simile atteggiamento, abbiamo sempre fondato i nostri attacchi alle nuove dottrine sui documenti del Magistero dei Papi, presentando le difficoltà che nascono dal confronto dei testi del Magistero di un tempo con quelli usciti dal Concilio e dal post-Concilio, difficoltà che arrivano in alcuni punti a insolubili contraddizioni.
Ora dobbiamo cercare di capire come questo sia possibile: se i testi conciliari fossero magisteriali, a nessun cattolico sarebbe lecito discuterli, tantomeno se dovessero godere della prerogativa dell’infallibilità. E a nessun cattolico sarebbe lecito giudicare il Magistero alla luce della Tradizione, essendo il Magistero interprete di questa (e della Scrittura) e non viceversa; e forse nemmeno sarebbe lecito a un cattolico misurare un documento magisteriale con altri precedenti testi del Magistero stesso, se non sottoponendo umilmente la questione alle autorità nel caso non arrivasse a sciogliere un dubbio.
D’altronde qui sta anche la questione tanto agitata della continuità del Concilio con il Magistero precedente: se in alcuni punti tale continuità si rivela da un punto di vista logico del tutto impossibile, non potendo il Magistero, in virtù delle sue prerogative divine, contraddire se stesso, forse c’è qualcosa che non ha funzionato. A meno di limitarsi ad affermare contro ogni evidenza che tale continuità esiste perché deve esistere.
In questo breve testo ci proponiamo dunque di ricapitolare argomenti già noti in forma più sistematica, onde mostrare che non si può parlare del Vaticano II come di un Concilio che vuole dare un insegnamento (men che meno infallibile), né degli atti successivi dei Papi come di atti dotati d’autorità magisteriale. Essendo il solo Papa interprete dei suoi atti, ci limiteremo a citare le più ufficiali dichiarazioni dei Papi medesimi. Se l’uso del potere magisteriale si vedrà escluso da questi atti, si potrà capire che essi divengono opera di un dottore privato (o di un insieme di dottori privati) e come tali contestabili e analizzabili alla luce del vero Magistero. La nostra analisi, vogliamo anche far notare, si pone sul piano dell’agire e non dell’essere: non discutiamo qui se Vaticano II sia stato riunito come Concilio ecumenico, ma vediamo quale valore abbia voluto dare ai suoi atti. In effetti non interessa a noi qui sviluppare in abstracto la questione dei gradi d’autorità del Magistero e del loro valore: ma al di là dei termini usati, capire quale tipo di assenso questa autorità richiede in concreto a questi atti: non un Magistero globalmente preso, che non significa nulla, ma degli atti precisi con un loro preciso valore che sarà l’autorità a spiegarci.

Un Concilio infallibile?

La suprema autorità della Chiesa, cioè il Papa, come insegna il Concilio Vaticano I e come ribadisce il catechismo, è colui che è in grado di dare un insegnamento infallibile, ovvero di definire una dottrina come rivelata da Dio, contenuta nel deposito della Fede, insegnata da Gesù Cristo e dagli Apostoli. Questa infallibilità si esercita ogni qual volta il Papa insegni una verità di fede (o condanna l’errore opposto) con la volontà di imporre a ogni cristiano di aderirvi e credervi: in tal caso lo Spirito santo agisce come una barriera che blocca ogni errore (non come una sorta di ispirazione che suggerisce la verità). In un atto magisteriale del Papa si può quindi sempre supporre l’uso di tale autorità, a meno che egli non lo escluda: essendo infatti l’atto magisteriale un atto volontario, il Papa dovrà volerlo porre: altrimenti parlerà come dottore privato, secondo la nota e classica distinzione.
Si considera che tale autorità possa svolgersi esercitarsi dal Papa solo o dal Papa che unisce a sé il corpo dei Vescovi per un atto comune. Beninteso il soggetto dell’azione sarà sempre il Papa, cambierà solo la modalità d’azione. Il Papa potrà agire insieme ai Vescovi poi in due modi: o mentre il corpo episcopale è disperso nelle varie sedi del mondo, nell’insegnamento quotidiano delle verità comuni della fede e del catechismo (Magistero ordinario universale); o mentre il corpo dei Vescovi è riunito da lui nel Concilio ecumenico, in particolare per definire le verità messe in dubbio dagli eretici e condannare gli errori.
In questo senso Vaticano II è stato un Concilio diverso dagli altri. Non ha voluto usare del supremo potere di Magistero, dell’infallibilità, nemmeno per promulgare leggi universali in senso classico (anch’esse sono considerate infallibili, cioè conformi a fede e morale).
Che cosa ci permette di affermarlo, andando contro la presunzione di diritto che vuole che un insegnamento conciliare sia dotato di infallibilità? L’unico interprete del Magistero, il Papa, ha voluto così. Già Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio, Gaudet Mater Ecclesia (11 ottobre 1962), ha spiegato che questo non sarebbe stato un Concilio come gli altri, ma che avrebbe agito diversamente: sarebbe stato «un Magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale»; senza lo scopo della «discussione di questo o di quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa», che il Papa supponeva scontato; né il Concilio intende formulare condanne: semplicemente riproporre la dottrina «in modo che risponda alle esigenze della nostra epoca».
Questa nuova tendenza pastorale, e soprattutto l’esclusione di definizioni dogmatiche, sarà in seguito confermata nei modi più ufficiali. A due riprese, il 6 marzo e il 16 novembre 1964, la Commissione dottrinale, cui era stato chiesto quale doveva essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa circa la Collegialità, rispose: «Tenendo conto della procedura conciliare e della finalità pastorale del presente Concilio, questo Santo Sinodo definisce come vincolante per la Chiesa soltanto quello che in materia di fede e di morale avrà apertamente dichiarato come tale. Le altre cose che il S. Sinodo propone, in quanto dottrina del Supremo Magistero della Chiesa, tutti e ciascun fedele devono accoglierle e aderirvi secondo la mente dello stesso Santo Sinodo, quale si deduce sia dalla materia trattata sia dal tenore dell’espressione verbale, secondo le norme dell’interpretazione teologica». Si afferma dunque che nel Concilio “pastorale” la presunzione che l’insegnamento sia infallibile cessa, e che ci vuole una dichiarazione espressa insieme al semplice fatto di rivolgersi a tutta la Chiesa. Ciò suppone una volontà abituale del Papa a non insegnare, o almeno a non insegnare infallibilmente, sempre presunta a meno che non si specifichi il contrario. Ci si deve dunque chiedere ora se una tale volontà di definire sia mai stata “apertamente dichiarata”. Paolo VI ritornò due volte su questo punto. Nel discorso di chiusura del 7 dicembre 1965 afferma: «...il magistero della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; è sceso, per così dire, a dialogo con lui; e, pur sempre conservando la autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed amica della carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti; non si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria». Di nuovo nel discorso del 12 gennaio 1966: «Vi è chi si domanda quale sia l’autorità, la qualificazione teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai insegnamenti, sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti l’infallibilità del magistero ecclesiastico. E la risposta è nota per chi ricorda la dichiarazione conciliare del 6 marzo 1964, ripetuta il 16 novembre 1964: dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti». Lo stesso Joseph Ratzinger ricorderà queste spiegazioni nel suo Lexicon für Theologie und Kirche: «Il Concilio non ha creato alcun nuovo dogma su nessuno dei punti toccati (...) Ma i testi includono, ciascuno secondo il proprio genere letterario, una proposizione ferma per la coscienza del cattolico».
Appurato che Vaticano II non contiene sentenze infallibili, e non per mancanza di materia (molti punti abbordati sono espressi in termini abbastanza formali, tanto che in altri Concili si sarebbero tenuti per dogmatici), resta da vedere che cos’è questo “supremo magistero ordinario” non infallibile, di cui parla Paolo VI, alla luce di quanto egli stesso e il Concilio affermano, visto che sia il Papa sia la Commissione ricordano che bisogna leggere i documenti secondo la loro natura e il loro tenore, nello spirito di quel dialogo che il Concilio ha deciso di instaurare.

Quale Magistero?

Resta ora da vedere che cosa sia questo insolito Magistero del Concilio, che cosa significhi un Magistero non infallibile cui bisogna aderire ma secondo il genere letterario, il tenore o la natura propria di ogni testo. Alcuni teologi parlavano un tempo di questo Magistero non infallibile ma autorevole, contraddire il quale non era peccato di eresia, ma cui bisognava prestare l’ossequio interno e religioso dell’intelligenza. Si tratterebbe di questo? O Vaticano II si smarca anche da questa categoria (che se esiste, sarebbe assolutamente insolita per un Concilio ecumenico, riunito normalmente per formulare solenni sentenze dogmatiche; anzi ci sarebbe da chiedersi se un Concilio ecumenico, straordinario per definizione, possa porre atti di tale Magistero “ordinario”; ma passiamo oltre)? In realtà Paolo VI presenta non solo il Concilio ma tutta la sua chiesa (“conciliare”, come dirà anni dopo Mons. Benelli) come il contrario del concetto stesso di Magistero, tanto verso l’esterno quanto verso i fedeli.
E questo nell’enciclica programmatica del suo pontificato (Ecclesiam suam, 6 agosto 1964), che dà l’impronta a tutto quello che farà: «...Andate, dunque, istruite tutte le genti, è l’estremo mandato di Cristo ai suoi Apostoli. Questi nel nome stesso di Apostoli definiscono la propria indeclinabile missione. Noi daremo a questo interiore impulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo. La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio (nn. 66-67) [...] Né possiamo fare altrimenti, nella convinzione che il dialogo debba caratterizzare il Nostro ufficio Apostolico (n. 69)». Questo dialogo esclude altre forme anche legittime di rapporto con “il mondo”, che hanno caratterizzato la Chiesa del passato: «Teoricamente parlando, la Chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società profana; come potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi, anatematizzandoli e movendo crociate contro di essi; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e così via. Sembra a Noi invece che il rapporto della Chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma adattato all’indole dell’interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è infatti il dialogo con un fanciullo ed altro con un adulto; altro con un credente ed altro con un non credente). Ciò è suggerito: dall’abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni, nonché dalla maturità dell’uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall’educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo. Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità d’inutile conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la conversione dell’interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena comunione di sentimenti e di convinzioni (nn. 80-81)». Dunque è evidente la rinuncia a imporre la dottrina rivelata come vera all’interlocutore per la sua salvezza, proponendo invece un dialogo per il suo vantaggio (che comunque non è immediatamente la conoscenza della Verità rivelata) rispettandone la “dignità e libertà”. Si esclude cioè il Magistero in ogni sua forma; si badi non vuol dire di per sé che le verità della fede cessino di essere tali, ma che non si vuole più imporle sotto forma di insegnamento in senso classico. Questo dialogo si rivolge a tutti (n. 97 e ss.; ad extra è evidente nella prassi ecumenica e nella nuova concezione dell’evangelizzazione, che meriterebbe una trattazione a parte), si svolge anche all’interno della Chiesa cattolica come in una famiglia (nn. 117-118) e al momento in cui Paolo VI scrive, quando il Concilio è a metà del suo corso, è già operante (n.121). Questi principi trovano la loro più solenne conferma nella Dignitatis humanae, la dichiarazione sulla libertà religiosa: se ogni uomo (quindi compreso il cattolico) ha per la dignità della sua stessa natura il diritto (non la possibilità, il diritto) di seguire la sua coscienza in materia religiosa, quale autorità potrà mai pretendere di imporsi ad essa? Eppure proprio del Magistero, che partecipa dell’autorità e della scienza divina, sarebbe di imporsi alle coscienze e alle intelligenze di ognuno. Può l’autorità della Chiesa, finché pubblicamente professa un tale principio e non lo rinnega, voler fare atto vincolante di vero Magistero? Noi stimiamo di no, non perché non ne abbia in assoluto la possibilità, ma perché non embra possa più averne l’intenzione.

Note sui testi dei papi post-conciliari

Questa presunzione di non esercizio dl Magistero nata con il Concilio è stata cnfermata o smentita dai Papi successivi?
In primo luogo nessuno di essi ha rivisto quanto affermato in Dignitatis humanae, anzi tale documento è sempre tenuto in onore, quindi la volontà di imporre una dottrina alle coscienze sembra sempre lontana. Sulla dottrina del Concilio stesso i Papi attuali, pur avendone imposta l’applicazione anche con forza, continuano a dare indicazioni in linea con un’assenza di valore magisteriale. In particolare proprio nei rapporti con coloro che questo Concilio rifiutano o rifiutavano e proprio nelle parole del Papa regnante è emersa la necessità di “interpretare” il Concilio, nel senso di una pretesa continuità. Ossia questo Concilio non sarebbe la norma prossima della fede, sarebbe in sé insufficiente a sapere cosa si deve credere, senza l’intervento di un superiore criterio, quello della continuità o della Tradizione. Non un Concilio in senso classico quindi, cioè un atto del Magistero che interpreta e definisce ciò che è secondo la Tradizione e ciò che non lo è, ma tutto il contrario: un atto che ha bisogno della Tradizione per essere interpretato e definito nel giusto senso. La confusione interpretativa che ha portato alle più disastrose conseguenze, a detta dello stesso Benedetto XVI, è la prova del nove di questa mancanza di autorità e di chiarezza nei testi stessi. Si badi bene: poco importa ora se sia possibile o no interpretare tali testi “nel senso della Tradizione” (ed è chiaro che no, specie in alcuni punti); ma il fatto che l’autorità ammetta la necessità di interpretazione (di ermeneutica) indica che ammette che non sono l’ultima istanza, ciò che sarebbe proprio del Magistero.
Quanto all’uso dell’infallibilità nel “magistero” post-conciliare (le virgolette sono d’obbligo), esso è stato escluso perfino dall’unico documento che sembrava avere perfino l’aperta declaratio di cui parlava Paolo VI, la lettera Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II contro l’ordinazione delle donne (22 maggio 1994). Una risposta ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede del 28 ottobre 1995 confermava quanto già detto dal Card. Ratzinger nella presentazione del documento: il documento non è un atto dell’autorità infallibile («è un atto del Magistero pontificio ordinario, in sé non infallibile») ma contiene una dottrina che è infallibile perché insegnata dal Magistero Ordinario Universale. Così, nonostante le formule usate nella lettera, nemmeno questo documento è infallibile: evidentemente il “nuovo magistero” esclude la presunzione di infallibilità (un tempo normale per qualsiasi documento dottrinale dei Papi) ovunque non sia più che esplicitamente espressa.
Resta allora da vedere, al di là delle parole, come definisce se stesso questo “magistero pontificio ordinario” dei Papi attuali. Richiede forse un’adesione interna dell’intelligenza sotto pena di peccato grave, sebbene non contro la fede, come dicevano i teologi? Oppure, malgrado il nome immutato, ricopre un’altra realtà? Se da un lato Dignitatis humanae e il principio del dialogo già esposto ci danno una risposta già chiara a priori, un altro documento uscito sotto Giovanni Paolo II ci aiuta a discernere la nuova linea e ben capire l’intenzione di questi Papi. Perché di questo si tratta: questi Papi potrebbero proclamare dogmi e definire dottrine come tutti i loro predecessori, ma sono essi stessi a dirci che non ne hanno intenzione, e solo alcuni illusi possono credersi ancora ai tempi di san Pio X e non vedere oltre le parole. Questo importante documento è Donum veritatis, pubblicato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1990, e ci spiega come venga inteso oggi il Magistero.
Il testo presenta il lavoro dei teologi come quello dei profeti e dei precursori che con la loro audacia portano avanti l’evoluzione del dogma, mentre il Magistero veglia che tutto avvenga con ordine (riprendendo così quanto dice Pascendi dei modernisti), e li spinge a considerare il loro sensus fidei (e non il Magistero stesso) come norma ultima e sicura (n. 8). Il teologo è libero di pensare ciò che vuole, purché la sua coscienza gli imponga di edificare in dialogo con la Chiesa (presentata come comunità depositaria collettivamente della verità) e con le autorità (n. 11).

Ma veniamo al punto principale, quello che ci spiega come l’attuale Magistero veda se stesso in termini tecnici. Il documento distingue tre modi di esercizio del Magistero (n. 23), che richiedono attitudini diverse al teologo. I primi due corrispondono al Magistero infallibile (nei suoi oggetti primario e secondario), con il risultato che bisogna aderire per fede teologale o tenere fermamente la proposizione. Abbiamo però visto con quanta difficoltà siano posti atti di questo tipo; i dogmi passati sono presentati come il risultato acquisito dei dialoghi anteriori; soprattutto anch’essi sono sempre inadeguati e devono sempre essere reinterpretati, come ebbe a dire un documento della Commissione teologica internazionale (L’interpretazione dei dogmi, 1988).
Venendo al terzo modo, quello che più ci interessa, essendo in questione per il Concilio e atti successivi, viene così definito: «Quando il magistero, anche senza l’intenzione di porre un atto “definitivo”, insegna una dottrina per aiutare a un’intelligenza più profonda della rivelazione e di ciò che ne esplicita il contenuto, ovvero per richiamare la conformità di una dottrina con le verità di fede, o infine per mettere in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità, è richiesto un religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza. Questo non può essere puramente esteriore e disciplinare, ma deve collocarsi nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede.
Infine il magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all’errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente.» (nn. 23-24). Su questo modo non infallibile, che appare duplice (e simile - specie nel n. 24 - al “Magistero pastorale”) se il “leale ossequio” è normalmente richiesto, il dissenso resta possibile, anche sul contenuto e non solo sulla forma: verificato il valore dell’atto, si deve ammettere che errori possono esistere, come sarebbe avvenuto anche in passato: «Egli (il teologo) sa che alcuni giudizi del magistero potevano essere giustificati al tempo in cui furono pronunciati, perché le affermazioni prese in considerazione contenevano in modo inestricabile asserzioni vere e altre che non erano sicure. Soltanto il tempo ha permesso di compiere un discernimento e, a seguito di studi approfonditi, di giungere a un vero progresso dottrinale» (ibid.). Allora il dissenso è permesso, se ben esercitato, con prudenza e rispetto: siamo «nel caso del teologo che trovasse serie difficoltà, per ragioni che gli paiono fondate, ad accogliere un insegnamento magisteriale non irreformabile. Un tale disaccordo non potrebbe essere giustificato se si fondasse solamente sul fatto che la validità dell’insegnamento dato non è evidente o sull’opinione che la posizione contraria sia più probabile. Così pure non sarebbe sufficiente il giudizio della coscienza soggettiva del teologo, perché questa non costituisce un’istanza autonoma ed esclusiva per giudicare della verità di una dottrina. (...) Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire a un reale progresso, stimolando il magistero a proporre l’insegnamento della chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato. (...) Può anche accadere che al termine di un esame dell’insegnamento del magistero serio e condotto con volontà di ascolto senza reticenze, la difficoltà rimanga, perché gli argomenti in senso opposto sembrano al teologo prevalere. Davanti a un’affermazione, alla quale non sente di poter dare la sua adesione intellettuale, il suo dovere è di restare disponibile per un esame più approfondito della questione» (nn. 28-30). Quindi appare che il teologo davanti all’atto magisteriale non infallibile non è mai costretto ad un’adesione interiore, ma può fino all’ultimo dissentire e discutere, se ha delle buone ragioni. Non potremmo dunque noi dissentire e discutere fino all’ultimo sui testi “non irreformabili” del Vaticano II e dei Papi seguenti, soprattutto basandoci non su elucubrazioni personali ma sul Magistero certamente infallibile o obbligatorio dei Papi e dei Concili passati? Soprattutto lì dove vi è palese errore e contraddizione?

Conclusioni

Abbiamo cercato di mostrare come il “magistero” conciliare e post-conciliare definisce se stesso: pur ammettendo in teoria l’esistenza di un Magistero infallibile, se ne moltiplicano le condizioni di esercizio perché non lo si vuole esercitare; il Magistero non infallibile (autentico o ordinario che dir si voglia), comunque fosse inteso prima del Concilio, non esiste più come tale, se non per analogia o meglio per equivoco: il “magistero” pastorale e dialogico del Concilio, anzitutto in virtù di Dignitatis humanae (alla luce della quale si capiscono le precisioni di Donum veritatis) non richiede nessun assenso interno reale, visto che è lecito discutere fino all’ultimo anche a chi si basa su elucubrazioni personali. D’altronde si vede ogni giorno come tutti nella Chiesa, a partire dagli episcopati, intendano così il “magistero attuale”, e lo discutano rifiutandolo o accettandolo a piacere, senza che Roma intervenga per sanzionare: tale argomento a posteriori ha il suo valore alla luce di quanto detto finora. Questo “magistero” dialogico somiglia troppo da vicino a quanto descrive san Pio X sul concetto di evoluzione dogmatica dei modernisti, frutto di un confronto tra autorità e teologi, o anche alla sintesi degli opposti della metafisica hegeliana. In ogni caso è chiaro che non è solo lecito ma doveroso denunciare gli errori di tale “magistero”, quando ne è evidente il contrasto con la dottrina definita dalla Chiesa: e che ciò non è ergersi a giudici del Magistero, ma il denunciare uno scandalo contro la fede prodotto da testi erronei e non magisteriali sulla base della Fede che abbiamo nelle verità definite o insegnate dai Papi. Appare anche chiaro che a monte del contenuto a volte buono e a volte erroneo di tali testi, li possiamo considerare tutti privi di ogni autorità di insegnamento, e quindi valutare alla luce della Fede e agire in conseguenza senza timori di coscienza. L’assenza di volontà magisteriale in questi testi spiega come abbiano potuto essere riempiti di errori: dal momento in cui vuole insegnare, il Papa ha la garanzia di non sbagliare; ma se parla per dialogare, allora tale assistenza non c’è più. Coloro che vogliono a tutti i costi trovare l’autorità e la continuità in questi testi, per un preteso rispetto del Papa, sono in realtà coloro che più tradiscono il pensiero e la volontà chiaramente espressa di questi Pontefici, cioè il rifiuto di insegnare. Né tale prolungata assenza di esercizio del Magistero deve spaventarci: il potere di insegnare resta sempre presente nella Chiesa, solo chi lo possiede non vuole esercitarlo a causa della mentalità liberale e modernista dominante. Nulla di essenziale manca alla Chiesa, i difetti sono nell’agire e non nell’essere. Solo uno svincolamento del Papato dall’ideologia liberale professata in Dignitatis humanae sembra poter liberare le forze dell’autorità, sole capaci di porre rimedio alla crisi dottrinale che investe molti membri della Chiesa. Si può capire quanto più che mai dobbiamo esaltare e difendere il Papa e il Papato, mentre i modernisti hanno cercato di imprigionarne l’autorità in una gabbia che non le permettesse di esercitarsi, che la disarmasse, timorosi che lo Spirito Santo le impedisse di diffondere i loro errori. Siamo noi, e non i modernisti che ci accusano di disobbedienza, ad essere i sostegni di questa autorità, siamo noi a crederci davvero e a volerla vedere di nuovo pienamente operante. Teniamo presente, nei tempi di confronto che seguiranno, che noi abbiamo dalla nostra il Magistero infallibile della Chiesa, i modernisti solo le loro elucubrazioni erronee o ereticali propagandate da qualche decennio senza autorità.



martedì 9 marzo 2010

I lupi hanno sentito l'odore del sangue

"Cari amici, in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge, voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi" (Bendetto XVI, Omelia per l'inizio del ministero petrino, 24 aprile 2005).

OREMUS PRO PONTIFICE NOSTRO BENEDICTO
DOMINUS CONSERVET EUM
ET VIVIFICET EUM
ET BEATUM FACIAT EUM IN TERRA
ET NON TRADAT EUM IN ANIMAM INIMICORUM EIUS

«Pare, santissimo Padre, che questa Verità eterna voglia fare di voi un altro Lui; e si perché siete suo vicario di Cristo in terra, e si perché nell’amaritudine e nel sostenere vuole che riformiate la dolce Sposa sua e vostra, che tanto tempo è stata impallidita (…). Ora è venuto il tempo che Egli vuole che per voi, suo strumento, sostenendo le molte pene e persecuzioni, la Sposa sia tutta rinnovata. Di questa pena e tribolazione ella nascerà come fanciulla purissima…» (Santa Caterina Da Siena, Lett. n. 346)

prima di Mons. Gherardini: Mons. Spadafora


Un Concilio «pastorale».

Papa Giovanni XXIII nella allocuzione per l’apertura del Concilio, 11 ottobre 1962: «Il XXI Concilio Ecumenico … vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travestimenti, che lungo venti secoli, nonostante difficoltà e contrasti, è divenuta patrimonio comune degli uomini».

«...Il 'punctum saliens' di questo Concilio non è dunque una discussione di un articolo o dell’altro della dottrina fondamentale della Chiesa e dei Teologi antichi o moderni, quale si suppone ben presente e familiare allo spirito. Per questo non occorreva un concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione quale ancora splende negli atti Conciliari da Trento al Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze, in corrispondenza più perfetta alla fedeltà dell’antica dottrina, anche questa però studiata ed esposta attraverso le forme dell'indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno. Altra è la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la forma del suo rivestimento: ed è di questo che devesi - con pazienza se occorre - tener gran conto, tutto misurando nelle forme e proporzioni di un magistero a carattere prevalentemente pastorale».

Ancora, Paolo VI nella allocuzione per l'apertura del secondo periodo del Concilio, 29 settembre 1963, così si esprimeva: «Nel discorso su citato, Giovanni XXIII ha parlato "per tracciare al Concilio il sentiero da percorrere. Per essere da lui diretti... ut sacrum christianae doctrinae depositum efficaciore ratione custodiatur atque proponatur"».

E segue, riportando le parole del papa Giovanni XXIII: «Ma tu (dice rivolgendosi al suo predecessore), indicando così il più alto scopo del Concilio (conservare e proporre intatto il depositum fidei), gli hai anteposto un altro scopo più urgente e ora più salutare, lo scopo pastorale, affermando: "Neque opus nostrum quasi ad finem primarium, id spectat, ut de quibusdam capitibus praecipuis doctrinae ecclesiasticae disceptetur... ", ma piuttosto: "ea ratione pervestigetur et exponatur, quam tempora postulant nostra".

E, per evitare possibili confusioni, il cardinale decano, E. Tisserant, a nome del Consiglio di Presidenza, cui spettava risolvere i dubbi occorrenti, nella congregazione generale, inizio della III sezione, dopo aver presentato il saluto continuò: «È conveniente ricordare che questo Concilio ecumenico, come il Sommo Pontefice Giovanni XXIII affermò ripetutamente, in nessun modo si propone di stabilire nuovi capitoli di dottrina; il suo proprio fine è di fare in modo che si incrementi l’attività pastorale della Chiesa. Secondo questa norma sono stati redatti tutti gli schemi e a questo sono state dirette le nostre discussioni e i nostri lavori, perché non avvenga si stabilisca altra cosa».

La Lumen gentium par. 54, a proposito della dottrina sulla Vergine SS., dichiara: «Il Sacro Concilio, mentre espone la dottrina riguardante la Chiesa…, intende illustrare attentamente sia la funzione della Beata Vergine nel mistero del Verbo Incarnato e del Corpo Mistico, sia i doveri degli uomini specialmente dei fedeli, pur senza aver in animo di proporre una dottrina esauriente su Maria, e di dirimere le questioni non ancora pienamente illustrate dal lavoro dei teologi. Restano quindi legittime le sentenze, che nelle scuole cattoliche vengono liberamente proposte circa Colei, che nella Chiesa Santa occupa, dopo Cristo, il posto più alto e più vicino a noi».

In calce alla Lumen gentium sono riportate due modificazioni lette dall'Ecc.mo Segretario Generale del Concilio nella 123ª Congregazione Generale del 16 novembre 1964.

Ecco la prima: «È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema della Costituzione dogmatica sulla Chiesa e sottoposta alla votazione. La Commissione dottrinale ha dato al quesito questa risposta: "come consta di per sé, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute». In pari tempo, la Commissione dottrinale rimanda alla sua Dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo qui il testo: "Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo Sacro Concilio definisce soltanto quelle cose riguardanti la fede o i costumi come da tenersi dalla Chiesa, che esso stesso abbia aperta mente dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del Magistero Supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo la mente dello stesso Sacro Concilio, la quale risulta sia dalla materia trattata sia dal tenore dell’espressione verbale, conforme alle norme dell'interpretazione teologica"».

Questa «notifica-risposta» risponde alla domanda in cui si chiedeva di conoscere la «qualificazione teologica» della dottrina sulla Chiesa che stava per essere votata. Questa parola «qualificazione teologica» equivale evidentemente al termine tecnico usato dai teologi di «nota teologica». Con ciò si chiede venga determinato il grado di accostamento, propinquità alla verità rivelata e nello stesso tempo il criterio per determinarlo.

Sono note le distinzioni:

a) una dottrina è di «fede divina» quando s’incontra formalmente nelle fonti della rivelazione;

b) è «teologicamente certa» quando si deduce evidentemente dalla rivelazione e perciò su di essa son concordi i teologi;

c) «infallibilmente certa», quando l’organo magisteriale che la propone, intende espressamente proporla come tale;

d) «autenticamente certa» quando l'organo ministeriale che la propone, non intende proporla come infallibile, ma la presenta con la sua autorità gerarchica.

La «notifica» dice di attenerci, per la «nota teologica» da dare ai documenti di questo Concilio, alla dottrina generale dei teologi, al riguardo.

Per la Chiarezza bisogna tener presente questi dati:

a) questo Concilio, fin dalla sua convocazione e in molte occasioni, ha dichiarato che la sua finalità non è dottrinale, ma pastorale;

b) che pertanto non è sua intenzione di definire niente, che esplicitamente non sia proposto come tale dal Concilio;

c) In quanto a tutto ciò che propone, «giacché è dottrina del magistero supremo della Chiesa», deve essere accolto secondo la «mente» del Concilio; questa deve essere conosciuta: 1) dalla materia trattata; 2) dal modo di trattarla; 3) seguendo le norme dell’interpretazione teologica.

A questo punto è bene ricordare quanto la Lumen gentium afferma nel n. 25: «...i fedeli devono accettare il giudizio del loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, ed aderirvi con religioso rispetto. Questa obbedienza religiosa di volontà e intelligenza la si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del Romano Pontefice, anche quando non parla «ex cathedra»; in modo tale cioè che il suo supremo magistero sia con riverenza accettato e con sincerità si aderisca alle sentenze da lui date, secondo la mente e la volontà da lui manifestata, la quale si palesa specialmente sia dalla natura dei documenti sia dal frequente riproporre la stessa dottrina, sia dal tenore della espressione verbale».

Abbiamo così alcuni criteri sicuri per procedere a distinguere nettamente una forma di proposizione «infallibile» dall'altra solamente «autentica». Nella prima, il magistero della Chiesa soltanto impegna la sua autorità, ma anche la sua «verità». Mentre nella forma meramente «autentica» della proposizione, il magistero non impegna altro che la sua «autorità».

O, se si vuole, con una distinzione più semplice: nel magistero «infallibile» il magistero s’impegna con tutta l'autorità ricevuta da Cristo; mentre nel magistero solamente «autentico» si impegna solamente quanto è necessario per dirigere i fedeli in certi e determinati casi. Per questo, mentre nella infallibilità non possono esserci gradi, essi ci sono invece nella autenticità.

Ora, l’infallibilità va unita alla definizione e questa è limitata da Concilio ai casi nei quali espressamente lo affermi.

Esistono questi casi? Noi crediamo che non ne esista alcuno: il Concilio Vaticano II non ha niente definito infallibilmente. Quando lo fa, lo stesso Concilio si vincola espressamente ad altri concili. Ed è evidente che una medesima dottrina non può essere «formalmente» definita che una sola volta.

Si tratta dunque con tutta certezza di un magistero meramente «autentico», che il Concilio Vaticano II ha voluto esprimere.

Ora quali sono gli obblighi che sorgono da un magistero autentico? Assenso religioso ed interno.

Senza dubbio la distinzione tra magistero «infallibile» e «autentico» tocca anche l'ordine medesimo della verità giacché nel magistero infallibile si parla con un’assistenza del tutto speciale, con cui lo Spirito Santo assiste la Chiesa, sicché quando essa propone una dottrina non può errare.

Invece, nel magistero meramente «autentico», il magistero è assistito dallo Spirito Santo soltanto con un’assistenza generale, per cui procede «con sicurezza» nei suoi giudizi. Questa sicurezza certo tocca anche l’ordine della verità, però è diretta soprattutto nell’ordine della prudenza nel governo.

Con chiarezza il Billot (De Ecclesia [ed. 1927], pp. 445-447) stabilisce la natura dell'assenso dovuto alle dichiarazioni delle Sacre Congregazioni; lo stesso possiamo dire in rapporto al magistero «autentico» del Concilio Vaticano II.

Il consenso religioso (soprannaturale) ed interno deve essere date senza dubbio alcuno, sempre che non ci siano ragioni sufficienti e prurdentemente gravi per non darlo.

È quanto conferma A. Straub, De Ecclesia Christi (ed. 1912) n. 968 ss.: «Se un decreto per qualcuno è certamente falso o opposto ad una ragione così solida da non essere vinta dalla forza dell’autorità sacra, richiedendosi una "obbedienza ragionevole", sarà lecito dissentire».

Applicando tali presupposti al n. 18 della Lumen gentium, il P.J.M. Alonso conclude: 1) il Vaticano II conferma in modo solenne la dottrina sul primato del Romano Pontefice, richiamando le definizioni del Concilio Vaticano I.

2) Circa la dottrina sull'episcopato, intende continuare la linea del Vaticano I e proporla. Niente vi è definito; abbiamo soltanto una dottrina «autentica».

3) Pertanto, esiste la reale e certa possibilità di una riconsiderazione teologica, nei limiti della prudenza, della dottrina esposta, tanto sulla sacramentalità dell’episcopato, come, soprattutto, sul la cosiddetta «collegialità episcopale».

Gli stessi principi sono da applicare, ed a fortiori, a tutti gli altri documenti conciliari: decreti, dichiarazioni...

Ci troviamo, curiosamente e forse per la prima volta nella storia, dinanzi a proposizioni dottrinali (come quelli citati sull’episcopato), promulgate dal più alto magistero della Chiesa, il quale dichiara espressamente da ritenersi magistero autentico, non infallibile.

Questo ha potuto e può ingannare o meravigliare chi abbina questo Concilio in un modo univoco con i precedenti. Si commetterebbe così un grave errore di criteriologia teologica. Questo Concilio, come in genere tutti gli altri, non solamente propone la sua dottrina, ma dichiara anche la sua particolare e propria intenzione di proporla. Deve pertanto essere inteso e spiegato secondo la sua propria criteriologia, espressamente e ripetutamente formulata.

Norma cattolica è leggere i testi del Vaticano II alla luce dei Concili dogmatici precedenti; ogni novità in contrasto con essi è da scartare, secondo l’espressa dichiarazione fatta all’inizio della III Sessione dal Card. Tisserant che la presiedeva.

Ancora, il riconoscimento, la valutazione di Mons. Gherardini, il grande teologo, professore alla Pontificia Università del Laterano, nel libro: La Chiesa mistero e servizio, Istituto Superiore di Scienze Religiose «Ut unum sint», Pontificia Università Lateranense, Roma 1987, pp. 281: «Bisogna per altro riconoscere che la natura pastorale dei documenti conciliari inclusa la Lumen Gentium, ha creato e crea qualche difficoltà alla scienza teologica, sia pure consentendole una maggiore libertà d’azione e di movimento. Si è avvertito e tuttora si avverte il 'limite' di un riferimento conciliare privo di validità dogmatica e di normatività universale».

F. Spadafora, Documenti conciliari del Vaticano II, Palestra del clero, 1 luglio 1984