sabato 20 giugno 2015

venerdì 19 giugno 2015

il card. Sarah contro-corrente in materia liturgica

Silenziosa azione del cuore
del Card. Robert Sarah,
Prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti
Mentre qua e là nel mondo cattolico si notano non certo inattesi gli ultimi colpi di coda di un progressismo liturgico fanatico e autoritario il card. Sarah mette i puntini sulle i  e propone di recuperare l'autentico spirito della liturgia attraverso le forme della Liturgia tradizionale.
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Cinquant’anni dopo la sua promulgazione da parte di Papa Paolo VI, si leggerà, infine, la costituzione del concilio Vaticano II sulla sacra liturgia? La "Sacrosanctum concilium" non è di fatto un semplice catalogo di “ricette” di riforme, ma una vera e propria "magna charta" di ogni azione liturgica.

Il concilio ecumenico ci dà in essa una magistrale lezione di metodo. In effetti, lungi dall’accontentarsi di un approccio disciplinare ed esteriore alla liturgia, il concilio vuole farci contemplare ciò che è nella sua essenza. La pratica della Chiesa deriva sempre da quello che riceve e contempla nella rivelazione. La pastorale non si può disconnettere dalla dottrina. 

Nella Chiesa "ciò che proviene dall’azione è ordinato alla contemplazione" (cfr. n. 2). La costituzione conciliare ci invita a riscoprire l’origine trinitaria dell’opera liturgica. In effetti, il concilio stabilisce una continuità tra la missione di Cristo Redentore e la missione liturgica della Chiesa. "Come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato gli apostoli" affinché "mediante il sacrificio e i sacramenti attorno ai quali gravita tutta la vita liturgica" attuino "l’opera di salvezza " (n. 6).

Attuare la liturgia non è dunque altro che attuare l’opera di Cristo. La liturgia è nella sua essenza "actio Christi": l’"opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio" (n. 5). È Lui il grande sacerdote, il vero soggetto, il vero attore della liturgia (cfr. n. 7). Se questo principio vitale non viene accolto nella fede, si rischia di fare della liturgia un’opera umana, un’autocelebrazione della comunità.

Al contrario, l’opera propria della Chiesa consiste nell’entrare nell’azione di Cristo, nell’iscriversi in quell’opera di cui egli ha ricevuto dal Padre la missione. Dunque "ci fu data la pienezza del culto divino ", perché "la sua umanità, nell’unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra salvezza" (n. 5). La Chiesa, corpo di Cristo, deve quindi divenire a sua volta uno strumento nelle mani del Verbo.

Questo è il significato ultimo del concetto-chiave della costituzione conciliare: la "participatio actuosa" [vedi]. Tale partecipazione consiste per la Chiesa nel diventare strumento di Cristo-sacerdote, al fine di partecipare alla sua missione trinitaria. La Chiesa partecipa attivamente all’opera liturgica di Cristo nella misura in cui ne è lo strumento. In tal senso, parlare di “comunità celebrante” non è privo di ambiguità e richiede vera cautela (cfr. Istruzione "Redemptoris sacramentum", n. 42). La "participatio actuosa" non dovrebbe dunque essere intesa come la necessità di fare qualcosa. Su questo punto l’insegnamento del concilio è stato spesso deformato. Si tratta invece di lasciare che Cristo ci prenda e ci associ al suo sacrificio.

La "participatio" liturgica deve perciò essere intesa come una grazia di Cristo che "associa sempre a sé la Chiesa" ("Sacrosanctum concilium", n. 7). È Lui ad avere l’iniziativa e il primato. La Chiesa "l’invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’eterno Padre" (n. 7).

Il sacerdote deve dunque diventare questo strumento che lascia trasparire Cristo. Come ha da poco ricordato il nostro Papa Francesco, il celebrante non è il presentatore di uno spettacolo, non deve ricercare la simpatia dell’assemblea ponendosi di fronte a essa come il suo interlocutore principale. Entrare nello spirito del concilio significa al contrario cancellarsi, rinunciare a essere il punto focale.

Contrariamente a quanto è stato a volte sostenuto, è del tutto conforme alla costituzione conciliare, è addirittura opportuno che, durante il rito della penitenza, il canto del Gloria, le orazioni e la preghiera eucaristica, tutti, sacerdote e fedeli, si voltino insieme verso Oriente, per esprimere la loro volontà di partecipare all’opera di culto e di redenzione compiuta da Cristo. Questo modo di fare potrebbe opportunamente essere messo in atto nelle cattedrali dove la vita liturgica deve essere esemplare (cfr. n. 41).

Ben inteso, ci sono altre parti della messa in cui il sacerdote, agendo "in persona Christi Capitis", entra in dialogo nuziale con l’assemblea. Ma questo faccia a faccia non ha altro fine che condurre a un tête-à-tête con Dio che, per mezzo della grazia dello Spirito Santo, diverrà un cuore a cuore. Il concilio propone così altri mezzi per favorire la partecipazione: "le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo" (n. 30).

Una lettura troppo rapida, e soprattutto troppo umana, ha portato a concludere che bisognava far sì che i fedeli fossero costantemente occupati. La mentalità occidentale contemporanea, modellata dalla tecnica e affascinata dai media, ha voluto fare della liturgia un’opera di pedagogia efficace e redditizia. In questo spirito, si è cercato di rendere le celebrazioni conviviali. Gli attori liturgici, animati da motivazioni pastorali, cercano a volte di fare opera didattica introducendo nelle celebrazioni elementi profani e spettacolari. Non si vedono forse fiorire testimonianze, messe in scena e applausi? Si crede così di favorire la partecipazione dei fedeli mentre di fatto si riduce la liturgia a un gioco umano.

"Il silenzio non è una virtù, né il rumore un peccato, è vero", dice Thomas Merton, "ma il tumulto, la confusione e il rumore continui nella società moderna o in certe liturgie eucaristiche africane sono l’espressione dell’atmosfera dei suoi peccati più gravi, della sua empietà, della sua disperazione. Un mondo di propaganda, di argomentazioni infinite, di invettive, di critiche, o semplicemente di chiacchiere, è un mondo nel quale la vita non vale la pena di essere vissuta. La messa diviene un baccano confuso; le preghiere un rumore esteriore o interiore" (Thomas Merton, "Le signe de Jonas", Ed. Albin Michel, Paris, 1955, p. 322).

Si corre il rischio reale di non lasciare alcun posto a Dio nelle nostre celebrazioni. Incorriamo nella tentazione degli ebrei nel deserto. Essi cercarono di crearsi un culto alla loro misura e alla loro altezza, e non dimentichiamo che finirono prostrati davanti all’idolo del vitello d’oro.

È tempo di metterci all’ascolto del concilio. La liturgia è "principalmente culto della maestà divina" (n. 33). Ha valore pedagogico nella misura in cui è completamente ordinata alla glorificazione di Dio e al culto divino. La liturgia ci pone realmente alla presenza della trascendenza divina. Partecipazione vera significa rinnovare in noi quello “stupore” che san Giovanni Paolo II teneva in grande considerazione (cfr. "Ecclesia de Eucharistia", n. 6). Questo stupore sacro, questo timore gioioso, richiede il nostro silenzio di fronte alla maestà divina. Si dimentica spesso che il silenzio sacro è uno dei mezzi indicati dal concilio per favorire la partecipazione.

Se la liturgia è opera di Cristo, è necessario che il celebrante vi introduca i propri commenti? Ci si deve ricordare che, quando il messale autorizza un intervento, questo non deve diventare un discorso profano e umano, un commento più o meno sottile sull’attualità, o un saluto mondano alle persone presenti, ma una brevissima esortazione a entrare nel mistero (cfr. Presentazione generale del messale romano, n. 50). Quanto all’omelia, è essa stessa un atto liturgico che ha le sue proprie regole. La "participatio actuosa" all’opera di Cristo presuppone che si lasci il mondo profano per entrare nell’"azione sacra per eccellenza " ("Sacrosanctum concilium", n. 7). Di fatto, "noi pretendiamo, con una certa arroganza, di restare nell’umano per entrare nel divino" (Robert Sarah, "Dieu ou rien", p. 178).

In tal senso, è deplorevole che il sacrario delle nostre chiese non sia un luogo strettamente riservato al culto divino, che vi si penetri in abiti profani, che lo spazio sacro non sia chiaramente delimitato dall’architettura . Poiché, come insegna il concilio, Cristo è presente nella sua parola quando questa viene proclamata, è ugualmente deleterio che i lettori non abbiano un abbigliamento appropriato che mostri che non pronunciano parole umane ma una parola divina.

La liturgia è una realtà fondamentalmente mistica e contemplativa, e di conseguenza fuori dalla portata della nostra azione umana; anche la "participatio" è una grazia di Dio. Pertanto, presuppone da parte nostra un’apertura al mistero celebrato. Così, la costituzione raccomanda la comprensione piena dei riti (cfr. n. 34) e al tempo stesso prescrive "che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi" (n. 54).

In effetti, la comprensione dei riti non è opera della ragione umana lasciata a se stessa, che dovrebbe cogliere tutto, capire tutto, padroneggiare tutto. La comprensione dei riti sacri è quella del "sensus fidei", che esercita la fede vivente attraverso il simbolo e che conosce per sintonia più che per concetto. Questa comprensione presuppone che ci si avvicini al mistero con umiltà.

Ma si avrà il coraggio di seguire il concilio fino a questo punto? Una simile lettura, illuminata dalla fede, è però fondamentale per l’evangelizzazione. In effetti, "a coloro che sono fuori essa mostra la Chiesa, come vessillo innalzato di fronte alle nazioni, sotto il quale i figli di Dio dispersi possano raccogliersi " (n. 2). Essa deve smettere di essere un luogo di disobbedienza alle prescrizioni della Chiesa.

Più specificatamente, non può essere un’occasione di lacerazioni tra cristiani. Le letture dialettiche della "Sacrosanctum concilium", le ermeneutiche di rottura in un senso o nell’altro, non sono il frutto di uno spirito di fede. Il concilio non ha voluto rompere con le forme liturgiche ereditate dalla tradizione, anzi ha voluto approfondirle. La costituzione stabilisce che "le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti" (n. 23).

In tal senso, è necessario che quanti celebrano secondo l’"usus antiquior" lo facciano senza spirito di opposizione, e dunque nello spirito della "Sacrosanctum concilium". Allo stesso modo, sarebbe sbagliato considerare la forma straordinaria del rito romano come derivante da un’altra teologia che non sia la liturgia riformata. Sarebbe anche auspicabile che s’inserisse come allegato di una prossima edizione del messale il rito della penitenza e l’offertorio dell’"usus antiquior" al fine di sottolineare che le due forme liturgiche s’illuminano a vicenda, in continuità e senza opposizione.

Se vivremo in questo spirito, allora la liturgia smetterà di essere il luogo delle rivalità e delle critiche, per farci infine partecipare attivamente a quella liturgia "che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede quale ministro del santuario" (n. 8).
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1. Non possiamo ignorare che alcune pratiche che la Sacrosanctum Concilium non aveva mai contemplato - e che di fatto influiscono sulla lex credendi - furono permesse nella liturgia, come la Messa versus Populum, la Santa Comunione nella mano, l’eliminazione totale del latino e del canto gregoriano in favore della lingua volgare nonché di canti e inni che non lasciano molto spazio per Dio, e l’estensione, al di là di ogni ragionevole limite, della facoltà di concelebrare la Santa Messa.
Ma, nello stesso tempo le innovazioni sono state permesse dai diversi, 'però', e 'ma anche', che seguono le affermazioni di principio che garantirebbero la 'continuità'.
 
 
 

giovedì 18 giugno 2015

«La Madonna gli ha già schiacciato la testa»

La profezia di Suor Lucia: «Lo scontro finale tra Dio e Satana è su famiglia e vita»


 
 
Dio contro Satana: l'ultima battaglia, «lo scontro finale», sarà sulla famiglia e sulla vita. La profezia è di suor Lucia dos Santos, la veggente di Fatima di cui il 13 febbraio scorso è cominciato il processo di beatificazione. 
LA LETTERA A LUCIA
A raccontarla è il cardinale Carlo Caffarra in un'intervista concessa a La Voce di Padre Pio (marzo 2015). Il porporato ebbe da Giovanni Paolo II l’incarico di ideare e fondare il Pontificio Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia, di cui oggi è professore emerito. «All’inizio di questo lavoro - spiega Caffarra - ho scritto a suor Lucia di Fatima, attraverso il vescovo perché direttamente non si poteva fare. Inspiegabilmente, benché non mi attendessi una risposta, perché chiedevo solo preghiere, mi arrivò dopo pochi giorni una lunghissima lettera autografa – ora negli archivi dell’Istituto». 

LA RISPOSTA DELLA SUORA
In quella lettera di Suor Lucia è scritto che lo scontro finale tra il Signore e il regno di Satana sarà sulla famiglia e sul matrimonio. «Non abbia paura, aggiungeva, perché chiunque lavora per la santità del matrimonio e della famiglia sarà sempre combattuto e avversato in tutti modi, perché questo è il punto decisivo».

LA COLONNA PORTANTE DELLA CREAZIONE
La suora di Fatima sosteneva che la Madonna ha già «schiacciato» la testa a Satana. «Si avvertiva - prosegue il porporato - anche parlando con Giovanni Paolo II, che questo era il nodo, perché si toccava la colonna portante della creazione, la verità del rapporto fra l’uomo e la donna e fra le generazioni. Se si tocca la colonna portante crolla tutto l’edificio, e questo adesso noi lo vediamo, perché siamo a questo punto, e sappiamo». 

sources: ALETEIA

 

mercoledì 17 giugno 2015

importante intervista di mons. Schneider



Mons. Athanasius Schneider:
“Travisati i documenti
del Concilio Vaticano II”

Mons. Athanasius Schneider, segretario Generale della Conferenza Episcopale del Kazakhstan, è il vescovo ausiliare di Astana (Kazakhstan) e vescovo titolare di Celerina. Nato Anton Schneider (il 7 aprile 1961), a Tokmok, nell’allora Unione Sovietica, ha assunto il nome religioso Atanasio dopo essere entrato nell’ordine dei Canonici Regolari della Santa Croce di Coimbra. Studioso e docente di patristica, Mons. Schneider, da qualche anno, fa sentire la sua voce profetica per cercare di svegliare l’Occidente dal torpore spirituale che sta vivendo, a seguito, specialmente, di false interpretazioni dei perenni insegnamenti della Chiesa e della teologia cattolica. Ha concesso una intervista esclusiva per l’Italia a www.lafedequotidiana.it

Monsignor Schneider, nel suo libro “Dominus Est – Riflessioni di un Vescovo dell’Asia Centrale sulla sacra Comunione”, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, lei ha incoraggiato la Chiesa a sostenere la pratica della Santa Comunione sulla lingua e in ginocchio. Ci spiega brevemente le motivazioni teologiche e storiche di tale modalità?

“Le motivazioni teologiche si appoggiano sulla verità della fede della presenza vera, reale e sostanziale del Corpo e del Sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino, e questa presenza contiene anche la divinità di Cristo a causa dell’unione ipostatica, cioè contiene “totum et integrum Christum“, come ha detto il Concilio di Trento. C’è anche la verità che Cristo è presente in ogni parte o frammento del pane. Poi c’è la verità della transubstanziazione. Tutte queste verità sono state dogmaticamente definite dal Magistero della Chiesa. Se prediamo sul serio la verità nella quale crediamo, dobbiamo mostrare la nostra fede con il nostro comportamento esteriore. La fede deve riflettersi nelle opere concrete, la teoria e la prassi, la fede e il culto, la lex credendi e la lex orandi devono concordare vicendevolmente. Altrimenti la nostra fede diviene zoppicante e col tempo prenderà la forma di una fede gnostica. Alla fine la fede concreta nella presenza reale, la fede nella presenza della divinità, la fede nella presenza di Cristo nei minimi frammenti, la fede nella transustanziazione svanisce. C’è una legge inesorabile della psicologia umana: i gesti ripetuti e divenuti poi abituali, determinano con il tempo il modo di pensare. Quindi, se io tratto ciò che è il più sacro, il più sublime, ciò che è il mistero per eccellenza, ciò che è Dio onnipotente stesso (totus et integer Christus) quasi con lo stesso gesto come io prendo l’alimento ordinario e con un modo sprovvisto di un inequivocabile gesto d´adorazione, io non solamente contraddico la profondità della mia fede, ma commetto oggettivamente un atto d’informalità, indegno della maestà infinita di Cristo (anche se questa maestà è umilmente nascosta nella specie del pane). Questo pericolo reale rappresenta una vera motivazione pastorale. Qui entrano ancora altri due aspetti d’importanza eminentemente pastorale: – il fatto sempre più diffuso della perdita dei frammenti eucaristici, i quali cadono sulla terra e in seguito sono calpestati; – il furto dilagante delle ostie sacre. Tutto ciò si verifica a causa del gesto così insicuro, banale e mai esistito nella Chiesa, cioè l’uso odierno di distribuire la santa Comunione sulla mano (l’uso dei primi secoli era notevolmente diverso)”.

In teologia sembra avanzare l’antropocentrismo a discapito del cristocentrismo. Cosa comporterà questo nel prossimo futuro della Chiesa?

“L’antropocentrismo, in ultima analisi, comporta:

– lo svanimento e la perdita della fede soprannaturale;

– l’eliminazione della grazia Divina e dei mezzi della grazia;

– l’eliminazione del senso soprannaturale dei sacramenti, dando loro un significato puramente sociologico;

– l’eliminazione della preghiera personale e delle concrete opere di penitenza e ascesi;

– l’eliminazione, col tempo, dell’adorazione di Dio, cioè della Santissima Trinità e favorisce l’adorazione dell’uomo e della terra (del clima, dell’oceano etc.);

– la dichiarazione pratica e anche teorica che questa terra è il giardino del paradiso, cioè il paradiso sulla terra (teoria dei Comunisti);

– l’apostasia.

L’antropocentrismo comporterà una spaventosa codardia davanti al mondo e la collaborazione dei fedeli e dei chierici con le ideologie anticristiane. Si verificheranno oggi queste parole del Nostro Divino Maestro e dell’apostolo san Paolo: “Quando si dirà: Pace e sicurezza, allora d’improvviso li colpirà la rovina” (1 Tess. 5,3), “Senza de Me non potete far nulla” (Gv 15,5) e “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8)”.

Recentemente, in una bellissima quanto documentata conferenza, Lei ha parlato del Concilio Vaticano II e dei suoi documenti. Può spiegarci quello che non è stato ancora attuato alla luce dei documenti conciliari e quali sono le false e pericolose interpretazioni che alcuni teologi progressisti danno dell’ultimo concilio.

“Il contributo più originale e specifico del Concilio Vaticano II consiste nella chiamata universale alla santità nel capitolo 5 di “Lumen gentium” e nella chiamata universale missionaria all’evangelizzazione (il Decreto “Ad gentes“), la quale si manifesta nella collaborazione dei fedeli laici con i pastori della Chiesa nel testimoniare e nel difendere la purezza e l’integrità della fede cattolica nell’odierno mondo fino al martirio, se necessario (il Decreto “Apostolicam actuositatem“). La seguente affermazione conciliare rimane una delle più belle, necessarie e attuali: “I cristiani, comportandosi sapientemente con coloro che non hanno la fede, s’adoperino a diffondere la luce della vita con ogni fiducia e con fortezza apostolica, fino all’effusione del sangue” (Dichiarazione “Dignitatis humanae“, n. 14). Questi contributi più essenziali dell’ultimo Concilio sono stati purtroppo offuscati e soffocati in larga misura dalla gran parte di chi ha occupato le cattedre teologiche, cioè dai nuovi scribi, e purtroppo anche da parte di non pochi rappresentanti del clero e persino dell’alto clero. Sono state diffuse interpretazioni completamente arbitrarie e interpretazioni erronee di alcune espressioni non sufficientemente chiare o ambigue in alcuni testi conciliari. Si sono creati dei miti conciliari. Questa situazione si spiega, da un lato, dal carattere pastorale e non-definitivo di una considerevole parte dei testi conciliari e, dall’altra parte, di una mancata refutazione dettagliata e sistematica di queste interpretazioni erronee da parte del Magistero. Ci vuole un sillabo degli errori di interpretazioni conciliari”.

L’idea di cambiamenti sulla morale matrimoniale crede che sia un reale pericolo che possa verificarsi in occasione del prossimo sinodo dei vescovi a Roma o è solo un pericolo auspicato dai media anti-cristiani?

“Alcuni fatti hanno dimostrato che c’è un pericolo del cambiamento della comprensione e dell’applicazione pratica delle verità Divine sul matrimonio e sulla sessualità umana nell’ambito ecclesiale stesso. Esempi sono stati lo svolgimento del sinodo nel mese di ottobre 2014 con momenti di manipolazione all’interno dello stesso sinodo, la Relatio post disceptationem, il nuovo questionario mandato alle diocesi, le affermazioni pubbliche del Segretario del Sinodo, di alcuni cardinali, di rappresentanti di alcune conferenze episcopali. Questi ecclesiastici usano, sorprendentemente, lo stesso linguaggio e lo stesso modo di argomentare dei mass-media anti-cristiani. Essi hanno, riguardo a questa tematica, la forma mentis del mondo e non del Vangelo. Rimane l’impressione che nelle stesse file del clero ci siano dei collaboratori con la dittatura mediatica e politica della nuova ideologia anti-cristiana “.

Sembra che la società si sia sempre più omosessualizzando e, recentemente, anche in Irlanda, sono stati riconosciuti i matrimoni gay. Quali saranno i pericoli per la Chiesa in questo campo?

“Una delle caratteristiche essenziali della Chiesa è la testimonianza e – se necessario – il martirio della verità. Gesù ha solennemente confessato davanti ai potenti del Suo tempo: “Io sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). E questo rimane sempre la missione della Chiesa e di ogni cristiano. Avere paura, davanti alla prepotenza ideologica del mondo, sarebbe una contraddizione alla missione essenziale della Chiesa e dei cristiani. Le parole di Gesù con le quali Egli incoraggiava all’inizio della predicazione del Vangelo l’apostolo Paolo, sono dirette anche a noi oggi, in primo luogo ad ogni vescovo e poi anche ad ogni fedele: “Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché Io sono con te” (At 18,9). Ed anche queste parole di San Pietro, nella sua Prima Lettera, cioè nella prima enciclica papale, sono attuali più che mai: “E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male” (1 Pt 3,13-17)”.

Eccellenza, in che senso è possibile dialogare cristianamente con gli esponenti delle altre religioni e dell’Islam in particolare?

“Il comandamento dell’amore al prossimo vale per tutti e non c’è un’eccezione. Dobbiamo amare persino i nostri nemici e tutti coloro che ci sono ostili. Dobbiamo amare tutti coloro che si trovano nell’errore della fede e della morale. Anzi, dobbiamo avere in modo speciale misericordia verso queste persone, perché da Dio siano liberati dall’errore e dal peccato, giacché l’errore e il peccato sono la più grande miseria e infelicità dell’uomo. Quindi dobbiamo e possiamo dialogare con tutti, e specialmente con i musulmani, seguendo il metodo di san Paolo e di tutti i Santi: “Operando la verità nella carità (veritatem facientes in caritate)” (Ef 4,15)”.

Matteo Orlando


tratto da: http://www.lafedequotidiana.it/athanasius-schneider-travisati-documenti-del-concilio-vaticano-ii/

martedì 16 giugno 2015

5° PELLEGRINAGGIO DELLA TRADIZIONE A OROPA




5° PELLEGRINAGGIO
DELLA TRADIZIONE
A OROPA

Sabato 3 Ottobre 2015



domenica 14 giugno 2015

Fu già errore dei pelagiani...

Della necessità di pregare per salvarsi
di sant'Alfonso M. de Liguori
 
Fu già errore dei pelagiani il dire, che l’orazione non è necessaria a conseguire la salute. Diceva l’empio loro maestro Pelagio, che l’uomo in tanto solamente si perde, in quanto trascura di riconoscere le verità necessarie a sapersi. Ma gran cosa! diceva Santo Agostino: Pelagio d’ogni altra cosa voleva trattare, fuorché dell’orazione (De natura et orat. c. XVII), ch’è l’unico mezzo, come teneva ed insegnava il santo, per acquistare la scienza dei santi, secondo quel che scrisse già S. Giacomo: Se alcuno di voi è bisognoso di sapienza, la chieda a Dio, che dà a tutti abbondantemente e non lo rimprovera, e gli sarà concesso (Gc 1,5).

Sono troppo chiare le Scritture, che ci fan vedere la necessità che abbiamo di pregare, se vogliamo salvarci. Bisogna sempre pregare, né mai stancarsi (Lc 18,1). Vegliate ed orate per non cadere in tentazione (Mt 26,41). Chiedete ed otterrete (Mt 7,7). Le suddette parole bisogna, chiedete, orate, come vogliono comunemente i teologi, significano ed importano precetto e necessità. Vicleffo diceva, che questi testi s’intendevano non già dell’orazione, ma solamente della necessità delle buone opere, sicché il pregare in suo senso non era altro che il bene operare: ma questo fu suo errore e fu condannato espressamente dalla Chiesa. Onde scrisse il dotto Leonardo Lessio, non potersi negare senza errare nella fede, che la preghiera agli adulti è necessaria per salvarsi; constando evidentemente dalle Scritture, essere l’orazione l’unico mezzo per conseguire gli aiuti necessari alla salute (De Iust. 1, 2, c. 37, dub. 3, n. 9).

La ragione è chiara. Senza il soccorso della grazia, noi non possiamo fare alcun bene. Senza di me non potete far nulla (Gv 15,5). Nota S. Agostino su queste parole, che Gesù Cristo non disse: niente potete compire, ma niente potete fare. Per darci con ciò ad intendere il nostro Salvatore, che noi senza la grazia, neppure possiamo cominciare a fare il bene. Anzi scrisse l’Apostolo: Da per noi neppure possiamo avere desiderio di farlo (2 Cr 3,5). Se dunque non possiamo neanche pensare al bene, tanto meno possiamo desiderarlo. Lo stesso ci significano tante altre Scritture. Lo stesso Dio è quegli che fa in tutti tutte le cose (1 Cr 12,6). Farò che camminiate nei miei precetti, ed osserviate le mie leggi, e le pratichiate (Ez 36,27). In modo che, siccome scrisse san Leone I: Noi non facciamo alcun bene, fuori di quello che Dio con la sua grazia ci fa operare. Onde il Concilio di Trento nella Sess. 6, can. 3, disse: Se alcuno avrà detto, che senza una preventiva ispirazione, ed aiuto dello Spirito Santo, l’uomo può credere, sperare, amare o pentirsi, come bisogna, per ottenere la grazia della giustificazione, sia scomunicato (Sess. 6, can. 3).

L’autore dell’Opera imperfetta, parlando dei bruti ci dice che il Signore altri ha provveduto di corso, altri di unghie, altri di penne, affinché possano così conservare il loro essere; ma l’uomo poi l’ha formato in tal stato, che esso solo, Dio, fosse tutta la di lui virtù (Hom. 18). Sicché l’uomo è affatto impotente a procurarsi la sua salute, poiché ha voluto Iddio, che quanto ha, e può avere, tutto lo riceva dal solo aiuto della sua grazia.

Ma questo aiuto della grazia, il Signore per provvidenza ordinaria, non lo concede se non a chi prega, secondo la celebre sentenza di Gennadio: Crediamo che niuno giunga a salute, se Dio non lo invita; niuno invitato operi la salute, se non è da Dio aiutato; niuno meriti aiuto, se non per mezzo della preghiera (De Eccl. dogm. cap. 26). Posto dunque da una parte, che senza il soccorso della grazia niente noi possiamo; e posto dall’altra che tale soccorso ordinariamente non si dona da Dio se non a chi prega, chi non vede dedursi per conseguenza, che la preghiera ci è assolutamente necessaria alla salute? E’ vero che le prime grazie, le quali vengono a noi senza alcuna nostra cooperazione, come sono la vocazione alla fede, alla penitenza, dice S. Agostino, che Dio le concede anche a coloro che non pregano; tuttavia il santo tiene poi per certo che le altre grazie (e specialmente il dono della perseveranza) non si concedono se non a chi prega (De Dono pers. c. 16).

Ond’è che i teologi comunemente con san Basilio, san Giovanni Crisostomo, Clemente Alessandrino, ed altri col medesimo S. Agostino, insegnano che la preghiera agli adulti è necessaria non solo di necessità di precetto, come abbiamo veduto, ma anche di mezzo. Vale a dire che di provvidenza ordinaria, un fedele senza raccomandarsi a Dio, con cercargli le grazie necessarie alla salute, è impossibile che si salvi. Lo stesso insegna san Tommaso dicendo: Dopo il battesimo poi è necessaria all’uomo una continua orazione, affine di entrare in cielo; poiché quantunque per mezzo del battesimo si rimettano i peccati, ciò nondimeno rimane il fomite del peccato che ci fa guerra internamente e il mondo e i demoni, che ci guerreggiano esternamente (3 p. q. 39, art. 5). La ragione dunque, che ci fa certi, secondo l’Angelico, della necessità che abbiamo della preghiera, eccola in breve: Noi per salvarci dobbiamo combattere e vincere: Colui che combatte nell’agone non è coronato, se non ha combattuto secondo le leggi (1 Tm 2,5). All’incontro senza l’aiuto divino non possiamo resistere alle forze di tanti e tali nemici: or questo aiuto divino solo per l’orazione si concede; dunque senza orazione non v’è salute.

Che poi l’orazione sia l’unico ordinario mezzo per ricevere i divini doni, lo conferma più distintamente il medesimo santo dottore in altro luogo dicendo che il Signore tutte le grazie che ab aeterno ha determinato di donare a noi, vuol donarcele non per altro mezzo che per l’orazione (2, 2.ae, q. 83, 2). E lo stesso scrisse S. Gregorio: Gli uomini pregando meritano di ricevere ciò che Dio avanti i secoli dispone loro di dare (Lib. i. Dial. cap. 8). Non già, dice S. Tommaso, è necessario di pregare, affinché Iddio intenda i nostri bisogni, ma affinché noi intendiamo la necessità, che abbiamo di ricorrere a Dio, per ricevere i soccorsi opportuni per salvarci, e con ciò riconoscerlo per unico autore di tutti i nostri beni (Ibid. ad 1 et 2). Siccome dunque ha stabilito il Signore che noi fossimo provveduti di pane col seminare il grano, e del vino col piantare le viti; così ha voluto che riceviamo le grazie necessarie i alla salute per mezzo della preghiera, dicendo: "Chiedete ed otterrete, cercate, e troverete" (Matth. 7,7).

Noi insomma, altro non siamo che poveri mendicanti, i quali tanto abbiamo, quanto ci dona Dio per elemosina. Io per me sono mendico e senza aiuto (Ps. 39,18). Il Signore, dice S. Agostino, bene desidera e vuole dispensare le sue grazie, ma non vuol dispensarle se non a chi le domanda (In Ps. 102). Egli si protesta con dire: Chiedete ed otterrete. Cercate, e vi sarà dato; dunque dice santa Teresa, chi non cerca, non riceve. Siccome l’umore è necessario alle piante per vivere e non seccare, così dice il Crisostomo, è necessaria a noi l’orazione per salvarci. In altro luogo, dice il medesimo santo, che: siccome il corpo senza dell’anima non può vivere, così l’anima senza l’orazione è morta, e manda cattivo odore (De or. D. l. i.). Dice, manda cattivo odore, perché chi lascia di raccomandarsi a Dio, subito comincia a puzzare di peccati. Si chiama anche l’orazione cibo dell’anima perché senza cibo non può sostentarsi il corpo, e senza l’orazione, dice S. Agostino, non può conservarsi in vita l’anima (De sal. doc. c. 28). Tutte queste similitudini che adducono questi santi Padri, denotano l’assoluta necessità, ch’essi insegnano d’esservi in pregare per conseguire la salute.