venerdì 17 dicembre 2010

la fretta urticante della nuova liturgia

L’adorazione
La messa in latino cancella la fretta urticante della nuova liturgia e ci fa girare
di Francesco Agnoli

Ai piedi di una bella montagna, slanciata verso il cielo, ogni uomo sente dentro di sé qualcosa, un movimento segreto, intimo, incomunicabile, che la parola non sa esprimere, ma che assomiglia molto ad un desiderio di umile adorazione. L’immensità buona e potente della montagna risveglia nell’uomo di città, nell’uomo delle moderne metropoli piatte e monotone, confuse e rumorose, quello che Romano Amerio considerava il cuore dell’esperienza umana: “Il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e sostanza”. Che l’adorazione sia il problema dell’uomo, oggi, non è tanto facile capirlo. Non ci aiutano a farlo né le infinite occupazioni, né gli svaghi senza uscita offertici dalla tecnologia, né il diluvio di parole in cui siamo sommersi. Eppure, come scrive il Radaelli, nel suo bellissimo “Ingresso alla bellezza” (Fede & Cultura), “l’adorazione è un atto che soddisfa perfettamente il fine ultimo dell’universo, il quale, a cominciare dal nome, esige in primo luogo l’unità: ma non solo e non tanto l’unità del proprio essere universo, ma l’unità con l’Essere da cui esso, ‘ente per partecipazione’, in tutto dipende: con Dio, con l’Ente in sé sussistente; l’adorazione è l’atto che permette di non fratturarsi da Lui, pena trovarsi, statim, nulla”.

Su un pensiero analogo a questo si fonda la recente decisione di Benedetto XVI di liberalizzare l’antica messa latina, e di attuare col tempo una riforma liturgica nella riforma del 1970. Perché è innegabile che là dove l’adorazione dovrebbe trovare il suo culmine, nella sacra liturgia, nella preghiera comune della chiesa, nel sacrificio che unisce cielo e terra, purgatorio e paradiso, uomini e angeli, vi è sempre di più, oggi, qualcosa di assolutamente incongruo, dissonante. Al punto che il momento fondante della Messa, l’incontro con Gesù eucarestia, che dovrebbe rappresentare il massimo della umiliazione e divinizzazione, al tempo stesso, del fedele, avviene nella nuova liturgia nel più completo anonimato, alla fine della celebrazione, quasi in extremis, non più in ginocchio, come un tempo, ma in piedi, da pari a pari, con una frettolosità orticante, per chi, appunto, desideri adorare, prostrarsi; non più in bocca, con quella riverenza che si conviene, ma in mano, come se la comunione fosse non un panis angelicus caduto dal cielo ma un cibo qualsiasi, che si prende da soli, che si sceglie di afferrare, e non di ricevere in dono, così come si fa dalla tavola, a ogni pasto.

Per non degenerare in show

L’adorazione infatti implica un atto di umile sottomissione, e soprattutto un verso, una direzione: è un orare ad, cioè verso qualcuno, e quel qualcuno può e deve essere solo Dio, a cui è presente tutta l’umanità, non solo il “popolo”, la comunità di un determinato istante o di un determinato luogo. Pregare verso Dio, verso oriente, esige allora un atteggiamento del cuore e del corpo, che tutta la celebrazione deve contribuire a creare. La messa deve tornare a essere dialogo tra Dio e gli uomini, tramite il Dio che si è fatto uomo e che si presenta a noi sotto le spoglie del sacerdote, non dialogo tra un presidente e la sua assemblea.

E tutto, dall’arte, alle statue, all’altare, alla musica, deve tornare a servire a questo, perché “se manca il genius dell’adorazione trinitaria, subito subentra e gli si impone il genius opposto dell’antiadorazione, ossia della dispersione, della vacuità, del laicismo irrazionale e relativizzante”.

Antiadorazione significa, come scriveva il cardinal Ratzinger nella prefazione ad un libro del grande liturgista Klaus Gamber, “liturgia degenerata in show, nella quale si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali seducenti, con successi momentanei nel gruppo dei fabbricatori liturgici, e di conseguenza una tendenza al ripiegamento sempre più forte in coloro che nella liturgia non cercano lo showmaster spirituale ma l’incontro col Dio vivente”. Dio vivente, come nota sempre il Radaelli, che viene addirittura eliminato nelle immagini, nelle piante non più a croce, e nelle croci stesse, con una strana furia iconoclasta: “Non c’è più Volto, perché spesso il sacro Volto non lo si figura più o, se lo si figura, gli si svellono i caratteri dell’individuo: sacri volti senza occhi, sante mani senza dita, croci senza Crocifissi…”. Lo notava, quasi quarant’anni fa, anche Guareschi, in una amara lettera al suo don Camillo, in cui lo invitava ironicamente a seguire le disposizioni della riforma liturgica, a dimenticare la sua storia, ad abbandonare la liturgia che aveva sempre celebrato: “Lei don Camillo… aveva pur visto alla tv la suggestiva povertà dell’ambiente e la toccante semplicità dell’Altare, ridotto a una proletaria tavola. Come poteva pretendere di piazzare in mezzo a quell’umile sacro desco un arnese alto tre metri come il suo famoso crocifisso cui lei è tanto affezionato? … non si era accorto che il crocifisso situato al centro della tavola era tanto piccolo e discreto da confondersi coi due microfoni?”.

Ecco, dopo oltre trent’anni, torneremo, piano piano, alla centralità della croce, e alla centralità dell’Altare: verso il Signore.

E’ questa la restaurazione liturgica che Benedetto XVI persegue da quando era cardinale. La Croce che, come scrive Radaelli, significa “umiltà, obbedienza, dipendenza, contrizione, conversione del cuore, sacrificio, penitenza, silenzio”; la croce senza la quale il cristianesimo diviene una filosofia, una sociologia, una forma di moralismo, una forma di scoutismo, una serie di cose per le quali “mestier non era parturir Maria”.


da Il Foglio del 2 agosto 2007

martedì 14 dicembre 2010

Servire Dio, onorarLo, glorificarLo, ecco la ragion d’essere degli uomini, e di conseguenza della Chiesa!

Lettera agli amici e benefattori
di S. Ecc. Mons. Bernard Fellay
Superiore Generale della Fraternità San Pio X
28 novembre 2010


Cari amici e benefattori,
                                  quarant’anni fa, il 1 novembre 1970, Mons. François Charrière, vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo, firmava il decreto di erezione della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Chi avrebbe pensato allora che noi avremmo attraversato questi quarant’anni come abbiamo fatto? Infatti, la somma degli avvenimenti a cui è andata incontro la nostra società supera ogni immaginazione. A cominciare dall’ingiusta soppressione che la colpì cinque anni più tardi…

Il cardinale Oddi riassumeva il motivo di questa situazione dicendo che Mons. Lefebvre aveva agito per un amore troppo grande della Chiesa! Argomento piuttosto sorprendente per spiegare una sequenza impressionante di condanne. Quel che è certo, è che la nostra società ha conosciuto un destino unico negli annali della storia della Chiesa.

La consacrazione dei quattro vescovi ha certo amplificato la controversia nella quale la Fraternità è stata implicata quasi fin dalla sua fondazione. E tuttavia, questa controversia ha continuato a riguardare persone che hanno a cuore la conservazione di tutti i principi più cari della Chiesa cattolica. Essi si glorificano del titolo di fedeli e sono talmente legati a questi elementi essenziali che hanno meritato l’appellativo di tradizionalisti. Essi hanno in orrore la contestazione, la sovversione, la rivoluzione, eppure, fin dall’inizio, essi apparivano come dei ribelli, dei contestatori in aperta opposizione all’autorità, un’autorità che essi affermano di voler riconoscere sinceramente e alla quale tuttavia si oppongono fermamente.

Si, le contraddizioni riscontrate nel corso della nostra piccola storia ci fanno ripetere con commosso stupore le parole con le quali San Paolo descriveva le prove che lui stesso attraversava allora: «nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possiede tutto» (2 Cor 6, 8-10).

Ma in questa riflessione, possiamo andare ancora più lontano, soprattutto quando vediamo che siamo precisamente puniti a causa della nostra obbedienza, in particolare a causa del nostro attaccamento alle verità affermate dalla Chiesa da sempre e a causa della nostra opposizione agli errori da essa condannati.

Ecco ciò che ci ha procurato tante maledizioni da parte di coloro che oggi hanno autorità nella Chiesa. Fino al punto in cui, ancora oggi, certi ci considerano o ci dichiarano scismatici. Mentre noi vogliamo solo portare la buona novella della Salvezza, i nostri comportamenti e le nostre iniziative vengono considerate come pericolose da molti; la più piccola delle nostre azioni provoca delle reazioni totalmente sproporzionate.
Si prenderebbero maggiori precauzioni se bisognasse premunirsi contro il diavolo?

Noi davvero portiamo in noi il segno annunciato dalla profezia di Simeone alla Santissima Vergine, il segno di contraddizione di Nostro Signore. Ma se questo implica molta sofferenza nei nostri cuori, molta incomprensione, ciò malgrado noi ci rallegriamo per aver parte alle sofferenze di Nostro Signore e alla magnifica beatitudine, l’ultima riportata da San Matteo: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5, 11-12).

Tutti questi elementi ci ricordano che qui in terra la Chiesa porta il nome di “militante”, perché essa deve sempre combattere. Il fine che le ha assegnato Nostro Signore e che consiste nel salvare le anime, non si ottiene senza lotta, una lotta essenzialmente spirituale, ma molto reale, che conosce qua e là delle ricadute temporali più o meno marcate.

Nostro Signore Gesù Cristo ha ingaggiato una battaglia definitiva col demonio per strappargli queste povere anime che arrivano nel mondo in suo potere con la macchia del peccato originale. Questa battaglia è quella di tutti i secoli; dimenticarla significa condannarsi a non comprendere seriamente alcunché della grande storia degli uomini.

Quanto a noi, portiamo tutti i giorni le stimmate di questa battaglia, e questo è per noi occasione di grande gioia. In ogni tempo, gli autori spirituali hanno considerato la prova come un buon segno e anche un marchio di predilezione. Poiché oggi si fa di tutto per dimenticare e perfino per negare queste verità fondamentali del combattimento spirituale, noi siamo felici di contribuire, per la nostra piccola parte, a mantenere viva nella nostra carne una tale verità.

Non che noi non aspiriamo alla pace, che verrà a suo tempo, secondo il beneplacito della Divina Provvidenza, che non vogliamo anticipare in niente.

In questo, noi seguiamo da vicino il cammino tracciato dal nostro venerato fondatore, Mons. Marcel Lefebvre. Cammino luminoso in mezzo alle tenebre della più spaventosa prova che possa capitare ad un cattolico: trovarsi in una situazione di contraddizione con le autorità romane e perfino col Vicario di Cristo.

Questi quarant’anni sono zeppi di lezioni che fanno vedere quanto la percezione di Mons. Lefebvre fosse giusta. Sul Concilio, sulle cause della crisi, sulla decadenza del sacerdozio, sull’indebolimento della dottrina, sulla simpatia mai vista della Chiesa per il mondo e le altre religioni, sul liberalismo. Ma anche sui rimedi da applicare, che si basano sulla fedeltà sia alla dottrina sia alla plurisecolare disciplina della Chiesa.
Veramente, noi non abbiamo nulla da inventare!

I mezzi dati da Nostro Signore alla sua Chiesa sono sempre assai fecondi e lo saranno sempre, poiché vengono da Dio nostro Creatore e Salvatore; la fede e la grazia superano tutte le circostanze di tempo e di luogo, tutte le contingenze, poiché esse superano essenzialmente la natura umana, le sue capacità, le sue speranze. Questi mezzi sono propriamente soprannaturali.

Ecco perché il cammino di Mons. Lefebvre è sempre attuale. Ciò che egli diceva trent’anni, quarant’anni fa, è ancora perfettamente valido oggi. Questo ci obbliga ad una grandissima azione di grazie verso Dio per averci donato – come a tutta la Chiesa – un tale vescovo.

Non v’è alcun dubbio che, se nella Chiesa si seguissero le sue preziose indicazioni, tutto il Corpo Mistico si comporterebbe meglio e ben presto uscirebbe da questa crisi.

Ma a guardare ciò che accade nella Chiesa, anche se qua e là appaiono dei barlumi di speranza, si deve constatare che, nel suo insieme, il vascello prosegue la sua corsa iniziata a partire dal Vaticano II – certo un po’ rallentata con Benedetto XVI, ma niente di più che una caduta libera frenata da un paracadute.

***
Fra le lezioni che Mons. Lefebvre ci ha lasciato, vorremmo sottolinearne due che egli legava intimamente.

La prima riguarda il regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo, e cioè il titolo e il diritto di Nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio, Creatore dell’intero Universo, per il quale e col quale tutto è stato creato (Col 1), e vero uomo. «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra»: parole queste che ci vengono direttamente dalla sua bocca divina.

Questa regalità esprime proprio il fatto che, anche se la prima missione di Gesù Cristo è la salvezza degli uomini, questa non sopprime affatto le altre sue prerogative, che Egli utilizza a servizio di tale fine primario.

Quanto è più facile per le anime operare la propria salvezza allorché la società civile, penetrata dai principi che le ispira il diritto cristiano, esercita su di esse quell’influenza benefica di leggi conformi al diritto naturale e alla legge eterna! Non occorre riflettere molto per prendere coscienza dei benefici che può e che dovrebbe apportare la società temporale agli uomini che la compongono, che Dio ha creato per un fine soprannaturale.

Monsignore ha riassunto questa questione in una frase lapidaria: «è perché il regno di Nostro Signore non è più al centro delle preoccupazioni e delle attività di coloro che ci sono praepositi, che essi hanno perduto il senso di Dio e del sacerdozio.»

Frase molto forte, e estremamente profonda, che descrive bene il dramma della Chiesa del nostro tempo. A forza di volersi allineare al mondo si è perduto di vista l’essenziale, Dio. Al pari di colui che è stato scelto da Dio per condurre gli uomini a Lui, il sacerdote.

Già Paolo VI, alla fine del Concilio, diceva che più di ogni altro, anche la Chiesa ha il culto dell’uomo. Giovanni Paolo II parlava di antropocentrismo della Chiesa. Queste espressioni dimostrano bene lo slittamento che si è prodotto a partire dal Vaticano II: la nuova preoccupazione della Chiesa è l’uomo. Mentre prima era – e dev’esserlo per tutti i tempi, poiché non può esserci altro fine – la gloria di Dio, inseparabile dalla salvezza.

Servire Dio, onorarLo, glorificarLo, ecco la ragion d’essere degli uomini, e di conseguenza della Chiesa!

Seguendo la china del mondo è come se ci si fosse dimenticati di Dio fin nel suo Tempio, sostituendovi il culto dell’uomo.

Che le autorità della Chiesa rimettano Dio, Nostro Signore, al suo posto nel mondo, e la restaurazione della Chiesa si produrrà come per miracolo! Certo, non si tratta di confondere tutto, la dottrina cattolica ha sempre riconosciuto che la Chiesa e la società civile sono due società perfette, distinte, aventi ciascuna il loro fine e i loro mezzi propri. Ma questo non elimina Dio né dall’una né dall’altra.

Il mondo liberale e socialista vuole liberarsi dal giogo di Dio: non v’è niente di più funesto per la creatura umana. La presente situazione del mondo, che mai prima d’ora ha spinto così in avanti le sue aspirazioni di indipendenza riguardo al suo Creatore, presenta ogni giorno il meschino risultato dei suoi disegni insensati. Dappertutto l’instabilità, la paura. Cosa prevedono effettivamente i governanti per gli anni a venire? E i finanzieri, e gli economisti?

«Se non è venuto il momento per Gesù Cristo di regnare, allora non è venuto il momento per i governi di durare» (Card. Pie). Tutte le cose, e non solo quelle soprannaturali, hanno in Lui la loro consistenza. Un mondo senza Dio è insensato. Diventa assurdo. Il fine comune di tutte le creature è e resterà sempre Dio. Di conseguenza, il mezzo migliore per giungere ad una pace e ad una prosperità vere in questo mondo, è rispettare e sottomettersi a Colui che l’ha fatto.

Ecco cosa deve ricordare la Chiesa al mondo odierno, ed ecco dove interviene il sacerdote, di cui Mons. Lefebvre ci ricorda la missione. E questa è la seconda lezione, intimamente legata alla prima.

***

Il mondo decaduto, al pari della natura umana decaduta, non può trovare la sua perfezione al di fuori di Colui che gli è stato inviato dal Padre. Anche se la missione di Nostro Signore è essenzialmente soprannaturale – poiché riguarda la salvezza degli uomini, la loro redenzione, la loro purificazione dal peccato attraverso il sacrificio soddisfattorio della Croce – essa comunque si rivolge a degli uomini che sono destinati a questo fine soprannaturale e insieme sono membri della società umana e civile. Così, quand’essi si santificano, apportano necessariamente il più gran bene alla società umana. Nel piano della salvezza, non v’è posto alcuno per l’opposizione o per la contraddizione; proprio il contrario invece, se ciascuno resta al suo posto e nel suo ordine vi sarà l’armonia più grande e più auspicabile.

Così il sacerdote, tutto dedito alla perpetuazione del sacrificio di Nostro Signore Sommo Sacerdote, renderà a Dio il culto e l’omaggio che Gli sono dovuti, e al tempo stesso apporterà agli uomini i benefici di Dio. Da sempre il mondo ha avuto bisogno di questa mediazione, e questa è stata sempre l’opera del sacerdote, che, alter Christus, giuoca un ruolo centrale nell’avvenire degli uomini.

«Restaurare tutte le cose in Cristo», non potrebbe essere un’opzione tra le altre, ma è esattamente una necessità che scaturisce dalla natura delle cose, dal loro essere create. Poco importa che la società moderna si dimostra impermeabile ad un tale discorso! Che persegua i suoi sogni, il risveglio sarà tanto più doloroso! Ma più che mai la Chiesa ha qualcosa da dire al mondo. E si tratta sempre della stessa cosa.

Gli avvenimenti di questi ultimi anni mostrano un certo movimento di ritorno, finora ancora assai leggero, e tuttavia molto reale. Nessun dubbio che la Fraternità San Pio X può apportarvi un contributo molto importante. Ma rimane molto difficile predire qualcosa di più concreto nelle sue relazioni con Roma.

***

Infine, noi vogliamo continuare nel nostro slancio mariale, confermare la necessità della consacrazione al Cuore Immacolato di Maria e proseguire la nostra campagna di preghiere. Facciamo il posto al trono delle grazie della Madonna; con la moltitudine delle rose dei nostri Rosari offriamole i nostri omaggi, proseguiamo nella nostra domanda e intensifichiamo la nostra supplica: che il suo Cuore Immacolato e doloroso voglia proprio trionfare! Che ella voglia affrettare questo tempo benedetto.

Noi non vi dimentichiamo, cari amici e benefattori, nelle nostre preghiere e azioni di grazie quotidiane. Che Dio vi renda il centuplo per la vostra generosità, soprattutto in grazie eterne, e che vi benedica abbondantemente.

Menzingen, Prima Domenica d’Avvento, 28 novembre 2010

+ Bernard Fellay



lunedì 13 dicembre 2010

Convegno di studi sul Concilio Ecumenico Vaticano II,

Il Vaticano II: un concilio pastorale.
Analisi storico-filosofico-teologica




Il Seminario Teologico “Immacolata Mediatrice”, dei Francescani dell’Immacolata, organizza un
Convegno di studi sul Concilio Ecumenico Vaticano II,
nei giorni 16-17-18 dicembre 2010
presso l’Istituto Maria SS. Bambina,
via Paolo VI, 21 – 00193 Roma

Mossi dal discorso del S. Padre alla Curia Romana (22 dicembre 2005), in cui il Pontefice rilevava che nel post-concilio due ermeneutiche si erano tra loro scontrate: quella vera della «continuità nella riforma» e quella che ha seminato confusione perché privilegiante lo spirito, il fattore “evento”, a scapito della lettera, quella cioè della «rottura», ci si prefigge di esaminare il Vaticano II e di mettere in luce la sua natura e il suo fine peculiari, entrambi di carattere pastorale. Certo, non per fare del Vaticano II un concilio “di serie B”, ma al fine di mettere meglio in luce quest’unicum che caratterizza per la prima volta un Concilio Ecumenico: non voler dichiarare nuovi dogmi o insegnare in modo definitivo ed infallibile, ma prefiggersi di dire la dottrina di sempre al mondo di oggi; con accenti nuovi, espressioni nuove, ma la fede di sempre. Così si espresse Giovanni XXIII nel Discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962):

«Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace».

Il Vaticano II, indubitabilmente, come conviene ad un concilio, ha portato notevoli progressi nel campo dogmatico: nel suo svolgersi, soprattutto con l’impronta ecclesiologica datagli da Paolo VI, si formularono asserti magisteriali “nuovi”, nella continuità dell’unica Tradizione. Basti rammentare il concetto di collegialità inserito nel contesto della Chiesa comunione, un maggiore approfondimento degli elementa Ecclesiae, per i quali le altre confessioni cristiane sono ordinate all’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ecc.

Spesso, però, magari presi dal fervore del nuovo, quando non addirittura da un accecamento storicista, si dimentica di considerare che il Vaticano II non si identifica con la Tradizione della Chiesa, non è il suo fine: questa è più grande, mentre il Concilio ne è un momento espressivo e solenne; si dimentica poi il suo carattere magisteriale ordinario, sebbene espresso in forma solenne dall’Assise conciliare, e l’assenza di pronunciamenti definitivae tenenda; si dimentica, infine, che i documenti del Vaticano II – a differenza di Trento e del Vaticano I, ad esempio – sono distinti in Costituzioni, Dichiarazioni e Decreti, e pertanto non hanno tutti il medesimo valore dottrinale, rimanendo pur sempre chiara e fontale l’attitudine generale del Concilio, di insegnare in modo autentico ordinario.

Paolo VI, infatti, nell’Udienza Generale del 12 gennaio 1966, ricordava che «bisogna fare attenzione: gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico e completo della dottrina cattolica; questa è assai più ampia, come tutti sanno, e non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata; ché anzi il Concilio la conferma, la illustra, la difende e la sviluppa…». Richiamandosi poi alle Notificazioni del Segretario Generale del Concilio, del 16 novembre 1964, aggiungeva: «…dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti».

Dove si annida, però, quella volontà di far risultare il Vaticano II come «un nuovo inizio a partire dal nulla», sì da diventare un «superdogma», mentre esso in verità «escogitò di rimanere in un livello modesto, come un semplice concilio pastorale» (Cardinale J. Ratzinger, Discorso ai Vescovi del Cile, 13 luglio 1988)? A nostro modo di vedere, e come si tenterà di far emergere dai lavori del convegno, una della cause è lo stesso lemma “pastorale”, che nella stagione post-conciliare ha subito notevoli trasformazioni: un ricco approfondimento accanto però ad una voluta equivocità. Si è verificata un’inversione: la pastorale è divenuta la vera dogmatica, mentre la dogmatica è stata superata in nome della pastorale. Non stiamo certo con Otto Hermann Pesch che parla di un «significato rivoluzionario» del Vaticano II, stiamo con la Chiesa e nella Chiesa: solo Ella è portatrice della Tradizione. Ma si tenterà di capire perché, di fatto, sembra che una rivoluzione ci sia stata.

p. Serafino M. Lanzetta, FI



PROGRAMMA DEL CONVEGNO
 
16 dicembre 2010

ore 9:15
Inaugurazione dei lavori

ore 9:30
Conferenza: Rev.do Prof. Brunero Gherardini (Pont. Università Lateranense):
Sull’indole pastorale del Vaticano II: una valutazione

10:30 Pausa

ore 11:00
Comunicazione: Rev.do Prof. Rosario M. Sammarco (Sem. T. Immacolata Mediatrice):
La formazione permanente del Clero alla luce della Presbyterorum ordinis

ore 11:30
Conferenza: Rev.do Prof. Ignacio Andereggen (Pont. Università Gregoriana):
La modernità: un’analisi filosofica

ore 16:00
Conferenza: Prof. Roberto de Mattei (Università Europea di Roma):
La Chiesa nel XX secolo. Immagini di un repentino cambiamento

ore 17:00
Conferenza: Prof. Yves Chiron (Direttore del Dictionnaire de biographie française):
Dal Vaticano I al Vaticano II. I Pontefici dinanzi ad un possibile concilio

ore 18:00 Dibattito con i relatori intervenuti

17 dicembre 2010

ore 9:30
Conferenza: Rev.do Prof. Paolo M. Siano (Sem. T. Immacolata Mediatrice):
Alcuni personaggi, fatti e influssi al Concilio Vaticano II (1962-1965)

ore 10:30 Pausa

ore 11:00
Comunicazione: Rev.do Prof. Giuseppe M. Fontanella (Sem. T. Immacolata Mediatrice):
Il Perfectae caritatis e la vita religiosa. Dove hanno condotto gli esperimenti pastorali?

ore 11:30
Sua Ecc.za Mons. Atanasio Schneider (Vescovo ausiliare di Karaganda):
La teologia pastorale: sviluppi alla luce del Vaticano II per leggere correttamente il Concilio

ore 16:00
Conferenza Rev.do Prof. Serafino M. Lanzetta (Sem. T. Immacolata Mediatrice):
Approccio teologico al Vaticano II. Status quaestionis

ore 17:00
Conferenza: Rev.do Dott. Florian Kolfhaus (Segreteria di Stato)
Annuncio di un insegnamento pastorale – motivo fondamentale del Vaticano II. Ricerche su Unitatis redintegratio, Dignitatis humanae e Nostra aetate

ore 18:00 Dibattito con i relatori intervenuti

18 dicembre 2010

ore 9:30
Conferenza: Sua Ecc.za Mons. Agostino Marchetto:
Rinnovamento all’interno della Tradizione

ore 10:30 Pausa

ore 11:00
Conferenza: Rev.do Prof. Don Nicola Bux (Istituto Ecumenico di Bari):
La Sacrosanctum Concilium e la sua esecuzione postconciliare: dagli adattamenti all'inosservanza dello ius divinum nella liturgia

ore 12:00
Chiusura dei lavori: intervento di Sua Ecc.za Mons. Velasio de Paolis (Presidente della Prefettura degli Affari Economici della S. Sede): Il diritto nell’edificazione della Chiesa

*

Per informazioni: (055) 2398700

email: fifirenze@immacolata.ws
(0776) 3560272
email: fficassino@immacolata.ws