sabato 10 dicembre 2011

Mons. Gherardini contro coloro che usano il vecchio trucchetto della petitio principii, ossia "dimostrare" il Magistero del Vaticano II utilizzando... il Vaticano II.

Contro coloro che implicitamente si spacciano per garanti dell'intervento dello Spirito Santo.

Contro coloro che trasformano nobili concetti da realtà penultime a realtà ultime: ossia, assolutizzano.

Contro coloro che in buona fede trasformano il Magistero in una sorta di superchiesa, una casta privilegiata a cui si deve solo obbedienza: ossia confondendo lo strumento col fine.

Contro coloro che con sottili giochi di parole seminano il relativismo perfino nel vangelo
di Giovanni.

Contro coloro che pretendono di agganciare all’assistenza dello Spirito Santo ogni stormir di fronda.

Nonostante la cappa di "filtri" di cui è stato circondato, mons. Gherardini riesce a far trapelare questa riflessione sul Concilio Vaticano II, ad onta delle celebrazioni del cinquantenario, il cui tam-tam è già avviato nella giungla clericale:

http://letturine.blogspot.com/2011/12/grande-intervento-di-gherardini.html

 

Mons. Gherardini sull’importanza

 e i limiti del Magistero autentico

Il Coetus Internationalis Patrum in piazza San Pietro


 
Disputationes Theologicae ha chiesto a Mons. Brunero Gherardini un contributo sulla nozione di Magistero autentico e sui suoi eventuali limiti. L’illustre docente emerito all’Università del Papa, decano della facoltà di teologia, che già è intervenuto su queste colonne qualificando l’insegnamento costituito dal Concilio Vaticano II, apporta ora più ampiamente, in maniera agile e profonda, alcune precisazioni, richiamando l’attenzione su alcune distinzioni spesso omesse. Tale richiamo è in consonanza con quanto rilevato negli anni ‘70 da S. Ecc. Mons. De Castro Mayer, allora ordinario di Campos, a conclusione dello studio teologico sulla libertà religiosa da lui inviato a S.S. il Papa Paolo VI (che non lo condannò): c’è un caso specifico in cui un insegnamento non è vincolante in coscienza, pur essendo un atto di Magistero autentico, quando vi sia una dissonanza rispetto a quanto già dalla Chiesa lungamente insegnato.

La Redazione

Chiesa-Tradizione-Magistero

di Mons. Brunero Gherardini


La grande celebrazione cinquantenaria è iniziata. Non s’è ancor al tam-tam, ma lo s’avverte nell’aria. Il cinquantenario del Vaticano II darà la stura a quanto di più superlativo, in fatto di giudizi elogiativi, sarà possibile escogitare. Della sobrietà ch’era stata richiesta, come atteggiamento e come momento di riflessione e d’analisi per una valutazione più criticamente approfondita dell’evento conciliare, neanche l’ombra. Già si procede a ruota libera nel dir e ripetere quello che da cinquant’anni si va dicendo e ripetendo: il Vaticano II è il punto culminante della Tradizione e la sua stessa sintesi. Congressi internazionali sul più grande e più significativo fra tutt’i Concili ecumenici son già programmati; altri, di maggiore o di minore portata, lo saranno strada facendo. E, sull’argomento, la saggistica s’arricchisce di giorno in giorno. L’Osservatore Romano, ovviamente, fa la sua parte e batte soprattutto sul tasto dell’adesione dovuta al Magistero (2/12/2011, p. 6): il Vaticano II è un atto di Magistero, quindi… La ragione addotta è che ogni atto di Magistero va recepito da Pastori che, a motivo della successione apostolica, parlano con il carisma della verità (DV 8), con l’autorità di Cristo (LG 25), alla luce dello Spirito Santo (ibid.).
A parte il fatto di provare il Magistero del Vaticano II con il Vaticano II, che un tempo si chiamava petitio principii, sembra evidente che un tal modo di procedere parte dalla premessa del Magistero come assoluto, soggetto indipendente da tutto e da tutti, tranne che dalla successione apostolica e dall’assistenza dello Spirito Santo. Ora, se della successione apostolica garantisce la legittimità della sacra ordinazione, difficile appare stabilire chi garantisca l’intervento dello Spirito Santo, nei termini in cui se ne parla.
Una cosa, peraltro, è fuori discussione: nulla al mondo, ricettacolo delle cose create, ha la dote dell’assoluto. Tutt’è in movimento, in un circuito di reciproche interdipendenze, e pertanto tutto dipende, tutto ha un inizio ed avrà una fine: “Mutantur enim – diceva il grande Agostino – ergo creata sunt”. La Chiesa non fa eccezione, non la sua Tradizione, non il suo Magistero. Si tratta di realtà sublimi, ai vertici della scala di tutt’i valori creaturali, dotate di qualità che danno il capogiro, ma sempre di realtà penultime. L’eschaton, la realtà ultima è soltanto Lui, Dio. Si ricorre spesso ad un linguaggio che capovolge questo dato di fatto e si riconosce a codeste sublimi realtà una portata ed un significato al di là e al di sopra dei loro confini; cioè s’assolutizzano. La conseguenza è che le si espropria del loro statuto ontico, se ne fa un presupposto irreale, che perde per ciò stesso anche le sublimi grandezze della loro realtà penultima.
Immersa nel momento trinitario della sua progettazione, la Chiesa è ed opera nel tempo come sacramento di salvezza. Il teandrismo, che ne fa una continuazione misterica di Cristo, non si discute, le sue proprietà costitutive (unità, santità, cattolicità ed apostolicità) nemmeno, e nemmeno la sua struttura ed il suo servizio, ma tutto questo rimane all’interno d’una realtà di questo mondo, abilitata a mediare sacramentalmente la divina presenza, ma sempre come ed in quanto realtà di questo mondo, che per definizione, dunque, rifugge dall’assoluto.
Tant’è che s’identifica nella sua Tradizione, dalla quale attinge la continuità con se stessa, alla quale deve il suo respiro vitale, dalla quale deriva la certezza che il suo ieri diventa sempre oggi per preparar il suo domani. La Tradizione, pertanto, le dà il movimento interiore che la sospinge verso il futuro, salvaguardandone il presente ed il passato. Ma nemmeno la Tradizione è un assoluto: incominciò con la Chiesa, finirà con essa. Dio solo rimane.
Sulla Tradizione la Chiesa esercita un vero controllo: un discernimento che distingue l’autentico dal non autentico. Lo fa con uno strumento, al quale non fa difetto “il carisma della verità”, purché non si lasci prender la mano dalla tentazione dell’assoluto. Tale strumento è il Magistero, di cui titolari son il Papa, come successore del primo Papa, l’apostolo san Pietro, sulla cattedra romana, ed i vescovi come successori dei Dodici nel ministero o servizio alla Chiesa, ovunque sia una sua espressione locale. Ricordare le distinzioni del Magistero – solenne, se del Concilio ecumenico oppure del Papa, quando l’uno o l’altro definiscono verità di fede e di morale; ordinario, se del Papa nella sua attività specifica, e dei vescovi nel loro complesso ed in comunione col Papa – è superfluo; molto più importante è precisar entro quali limiti al Magistero è garantito “il carisma della verità”.
Occorre dir anzitutto che il Magistero non è una superchiesa che imponga giudizi e comportamenti alla Chiesa stessa; né una casta privilegiata al di sopra del popolo di Dio, una sorta di potere forte al quale è doveroso obbedir e basta. E’ un servizio, una diakonìa. Ma anche un compito da svolgere, un munus, appunto il munus docendi, che non può né deve sovrapporsi alla Chiesa, dalla quale e per la quale esso nasce ed opera. Dal punto di vista soggettivo, coincide con la Chiesa docente, Papa e vescovi uniti col Papa, in funzione della proposta ufficiale della Fede. Dal punto di vista operativo, è lo strumento con cui tale funzione viene svolta.
Troppo spesso, però, si fa dello strumento un valore a sé e si fa appello ad esso per troncare sul nascere ogni discussione, come se esso fosse al di sopra della Chiesa e come se davanti a sé non avesse la mole enorme della Tradizione da accoglier interpretar e ritrasmettere nella sua integrità e fedeltà. E proprio qui s’evidenziano quei limiti che lo salvaguardano dal pericolo dell’elefantiasi e dalla tentazione assolutistica.
Non è il caso di soffermarsi sul primo di tali limiti, la successione apostolica. Non dovrebb’esser difficile per nessuno il dimostrarne, caso per caso, la legittimità e quindi la conseguente successione nel possesso del carisma proprio degli Apostoli. Qualche parola, invece, occorre dire sul secondo, ovvero sull’assistenza dello Spirito Santo. Il procedimento sbrigativo oggi invalso è più o meno il seguente: Cristo promise agli Apostoli, e quindi ai loro successori, val a dire alla Chiesa docente, l’invio dello Spirito Santo e la sua assistenza per un esercizio del munus docendi nella verità; l’errore è dunque scongiurato in partenza. Sì, Cristo fece una tale promessa, ma indicò pure le condizioni del suo avverarsi. Se non che, proprio nel modo d’appellarsi alla promessa se ne intravede una grave adulterazione: o non si riportan le parole di Cristo, o qualora vengan citate non si dà loro il significato che hanno. Vediamo di che cosa si tratta.
La promessa è riferita soprattutto da due testi del quarto evangelista: Gv 14,16.26 e 16,13-14. Già nel primo risuona con estrema chiarezza uno dei suddetti limiti: Gesù infatti non si ferma alla promessa de “lo Spirito della verità” – si noti questo corsivo, dovuto all’articolo specificativo thV, che in alto ed in basso si continua a tradurre di, come se la verità fosse un optional dello Spirito Santo, che invece la impersona -, ma ne preannuncia la funzione: riporterà alla memoria tutto quanto Lui, Gesù, aveva prima insegnato. Si tratta, dunque, d’un’assistenza conservativa della verità rivelata, non d’un’integrazione in essa di verità altre o diverse da quelle rivelate, o presunte come tali .
Il secondo dei due testi giovannei, confermando il primo, scende ad ulteriori precisazioni: lo Spirito Santo, infatti, “vi guiderà a tutta la verità”, anche a quella che ora Gesù tace, perché al di là e al di sopra della portata dei suoi (16,12). Nel far questo, lo Spirito “non parlerà per conto suo, ma dirà tutto quello che ascolta […] prenderà del mio e ve lo comunicherà”. Dunque non ci saranno ulteriori rivelazioni. L’unica si chiude con coloro ai quali Gesù sta ora parlando. Le sue parole si presentano con un significato univoco, riguardante l’insegnamento da Lui impartito e soltanto codest’insegnamento. Un linguaggio, questo, non criptato o cifrato, ma limpido come il sole. Si potrebbe sollevar un’obiezione sulla prospettiva d’apparente novità in relazione a quello che, ora taciuto da Gesù, verrà annunziato dallo Spirito Santo; ma la delimitazione della sua assistenza ad un’azione di guida verso il possesso di tutta la verità rivelata da Cristo esclude novità sostanziali. Se novità emergeranno, si tratterà di significati nuovi, non di verità nuove; donde il giustissimo “eodem sensu eademque sententia” del Lerinense. Insomma, la pretesa d’agganciar all’assistenza dello Spirito Santo ogni stormir di fronda, voglio dire ogni novità e segnatamente quelle che commisurano la Chiesa sulle dimensioni della cultura imperante e della c. d. dignità della persona umana, non solo è un capovolgimento strutturale della Chiesa stessa, ma è pure un gran segno di croce sui due testi sopra indicati.
Non è tutto. Il limite dell’intervento magisteriale sta anche nella sua stessa formulazione tecnica. Perché sia veramente magisteriale, in senso definitorio o no, occorre che l’intervento ricorra ad un formulario ormai consacrato, dal quale risulti senz’incertezza alcuna la volontà di parlare da “Pastore e Dottore di tutt’i cristiani in materia di Fede e di Morale, in forza della sua apostolica Autorità”, se a parlare è il Papa; o risulti con pari certezza, p. es. da parte d’un Concilio ecumenico, attraverso le consuete formule dell’asserto dogmatico, la volontà dei Padri conciliari di collegare la Fede cristiana con la Rivelazione divina e la sua ininterrotta trasmissione. Mancando tali premesse, solo in senso lato si potrà parlare di Magistero: non ogni parola del Papa, scritta o detta, è necessariamente Magistero; ed altrettanto si dica dei Concili ecumenici, non pochi dei quali di dogma o non parlarono, o non esclusivamente; talvolta addirittura innestaron il dogma in un contesto di diatribe interne e di liti personali o di corrente, da render assurda una loro pretesa magisteriale all’interno del detto contesto. Suscita tuttora un’impressione nettamente negativa un Concilio ecumenico d’indiscussa importanza dogmatico-cristologica come quello di Calcedonia, che spese la maggior parte del suo tempo in una vergognosa lotta di personalismi, di precedenze, di deposizioni, di riabilitazioni; non in questo Calcedonia è dogma. Come non lo è la parola del Papa quando privatamente dichiara che “Paolo non intendeva la Chiesa come istituzione, come organizzazione, ma come organismo vivente, nel quale tutti operano l’uno per l’altro e l’uno con l’altro, essendo uniti a partire da Cristo”; è vero esattamente il contrario e si sa che la prima forma istituzionale, proprio per favorire l’organismo vivente, fu strutturata da Paolo in modo piramidale: l’apostolo al vertice, poi gli episcopoi-presbuteroi, gli hgoumenoi, i proistamenoi, i nouqetounteV, i diakonoi: sono distinzioni di compiti e d’uffici non ancora esattamente definiti, ma son già distinzioni d’un organismo istituzionalizzato. Anche in questo caso, sia ben chiaro, l’atteggiamento del cristiano è quello del rispetto e, almeno in linea di principio, anche dell’adesione. Se però alla coscienza del singolo credente l’adesione ad un caso come quello sopra esposto non è possibile, ciò non comporta ribellione al Papa o negazione del suo Magistero: significa solo che ciò non è Magistero.
Il discorso ritorna ora, in chiusura, al Vaticano II, per dire, se possibile, una parola definitiva sulla sua appartenenza o meno alla Tradizione e sulla sua qualità magisteriale. Su questa non cade nessun interrogativo e quei laudatores che non si stancano da ben cinquant’anni di sostenere l’identità magisteriale del Vaticano II perdono e fanno perder tempo: nessuno lo nega. Stanti però le loro acritiche esuberanze, nasce un problema di qualità: di che Magistero si tratta? L’articolo de “L’Osservatore Romano” al quale mi son inizialmente richiamato, parla di Magistero dottrinale: e chi l’ha mai negato? Perfino un’affermazione puramente pastorale può esser dottrinale, nel senso d’appartener ad una data dottrina. Chi però dicesse dottrinale nel senso di dogmatico, sbaglierebbe: nessun dogma è all’attivo del Vaticano II, il quale se ha anche un valore dogmatico, lo ha di riflesso là dove s’aggancia a dogmi precedentemente definiti. Il suo, insomma, come s’è detto e ridetto a chiunque abbia orecchi per intendere, è un Magistero solenne e supremo.
Più problematica è la sua continuità con la Tradizione, non perché esso non abbia dichiarato una tale continuità, ma perché, specie in quei punti-chiave dov’era necessario che tale continuità fosse evidente, la dichiarazione è rimasta indimostrata.

venerdì 9 dicembre 2011

circa alcune sentenze ed errori insorgenti.....

Con la lettera circolare che pubblichiamo qui sotto si può vedere come le più importanti deviazioni erano state subito individuate e denunciate. Già nel 1966. Impressiona questa data: a tal punto che uno potrebbe chiedersi: “ma era già una questione di interpretazione come dice la lettera o di ermeneutica come si direbbe oggi?”, “a nemmeno un anno dalla fine del Concilio?”. Il card. Ottaviani dimostrò di aver chiaro fin da subito quali sarebbero stati i mali che avrebbero afflitto per anni la Chiesa… Avvenne un po’ come per l’Euro, qualcuno ne denunciò da subito la pericolosità, ma fu inascoltato ed oggi ci troviamo a  dover concordare con chi ha detto che “L’Europa si è incartata”; fin che si tratta dell’Europa …. possiamo anche, per così dire, lasciar correre. Ma quando si tratta della Chiesa… ci preoccupiamo e a leggere interventi come quello di Mons. Ocariz, che è stato commentato nel post precedente, ci viene davvero il sospetto che, se non la Chiesa, gli uomini di Chiesa si siano davvero incartati.

SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE


Giacché il Concilio Ecumenico Vaticano II, da poco felicemente concluso, ha promulgato sapientissimi Documenti, sia in materia dottrinale sia in materia disciplinare, allo scopo di promuovere efficacemente la vita della chiesa, a tutto il popolo di Dio incombe il grave dovere di impegnarsi con ogni sforzò alla attuazione di quanto, sotto l'influsso dello Spirito Santo, è stato solennemente proposto o decretato da quella universale assemblea di vescovi presieduta dal sommo pontefice.
Spetta alla Gerarchia il diritto e il dovere di vigilare, guidare e promuovere il movimento di rinnovamento iniziato dal Concilio, in maniera che i Documenti e i Decreti conciliari siano rettamente interpretati e vengano attuati con la più assoluta fedeltà al loro valore ed al loro spirito. Questa dottrina, infatti, deve essere difesa dai Vescovi, giacché essi, con a Capo Pietro, hanno il mandato di insegnare con autorità. Lodevolmente molti Pastori hanno già cominciato a spiegare come si conviene la dottrina del Concilio.
Tuttavia bisogna confessare con dolore che da varie parti son pervenute notizie infauste circa abusi che vanno prendendo piede nell'interpretare la dottrina conciliare, come pure di alcune opinioni peregrine ed audaci qua e là insorgenti, con non piccolo turbamento di molti fedeli. Sono degni di lode gli studi e gli sforzi per investigare più profondamente la verità, distinguendo onestamente tra ciò che è materia di fede e ciò che è opinabile; ma dai documenti esaminati da questa Sacra Congregazione risulta trattarsi di non poche affermazioni, le quali oltrepassando facilmente i limiti dell’ipotesi o della semplice opinione, sembrano toccare in certa misura lo stesso dogma ed i fondamenti della fede.
Conviene, a titolo di esempio, accennare ad alcune di tali opinioni ed errori, così come risultano dai rapporti di persone competenti e da scritti pubblicati.
1) In primo luogo circa la stessa Sacra Rivelazione: ci sono alcuni, infatti, che ricorrono alla Sacra Scrittura lasciando deliberatamene da parte la Tradizione, ma poi restringono l’ambito e la forza della ispirazione biblica e dell’inerranza, né hanno una giusta nozione del valore dei testi storici.
2) Per quanto riguarda la dottrina della fede, viene affermato che le formule dogmatiche sono soggette all’evoluzione storica al punto che anche lo stesso loro significato oggettivo è suscettibile di mutazione.
3) Il Magistero ordinario della Chiesa, particolarmente quello del Romano Pontefice, è talvolta così negletto e sminuito, fino a venir relegato quasi nella sfera delle libere opinioni.
4) Alcuni quasi non riconoscono una verità oggettiva assoluta, stabile ed immutabile, e tutto sottopongono ad un certo relativismo, col pretesto che ogni verità segue necessariamente il ritmo evolutivo della coscienza e della storia.
5) La stessa Persona adorabile di Nostro Signore Gesù Cristo è chiamata in causa, quando, nell’elaborazione della dottrina cristologia, si adoperano, circa la natura e la persona, concetti difficilmente conciliabili con le definizioni dogmatiche. Serpeggia un certo umanesimo cristologico che riduce Cristo alla condizione di un semplice uomo, il quale un po’ per volta acquistò la consapevolezza della sua filiazione divina. Il suo concepimento verginale, i miracoli, la stessa Risurrezione vengono ammessi solo a parale, ma vengono ridotti al puro ordine naturale.
6) Similmente nella teologia sacramentaria alcuni elementi o vengono ignorati o non sono tenuti nel debito conto, specialmente per quanto riguarda l’Eucaristia. Circa la presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino non mancano alcuni che ne parlano inclinando ad un esagerato simbolismo, quasi che, in forza della transustanziazione, il pane e il vino non si mutassero in Corpo e Sangue di N.S. Gesù Cristo, ma fossero semplicemente trasferiti ad una determinata significazione. Ci sono alcuni che, a proposito della Messa, insistono troppo sul concetto di agape a scapito del concetto di Sacrificio.
7) Alcuni vorrebbero spiegare il Sacramento della Penitenza come un mezzo di riconciliazione con la Chiesa, non esprimendo sufficientemente il concetto di riconciliazione con Dio offeso. Affermano pure che nella celebrazione di questo Sacramento non è necessaria l'accusa personale dei peccati, sforzandosi di esprimere unicamente la funzione sociale della riconciliazione con la Chiesa.
8) Né mancano alcuni che o non tengono in debito conto la dottrina del Concilio Tridentino circa il peccato originale, o la spiegano in modo che la colpa originale di Adamo e la trasmissione del suo peccato ne restano perlomeno offuscate.
9) Né minori sono gli errori che si vanno propagando nel campo della teologia morale. Non pochi, infatti, osano rigettare il criterio oggettivo di moralità; altri non ammettono la legge naturale, affermando invece la legittimità della cosiddetta etica della situazione. Opinioni deleterie vanno propagandosi circa la moralità e la responsabilità in materia sessuale e matrimoniale.
10) A quanto s'è detto bisogna aggiungere alcune parole circa l'ecumenismo. La Sede Apostolica loda, indubbiamente, coloro che nello spirito del Decreto conciliare sull'ecumenismo promuovono iniziative destinate a favorire la carità verso i fratelli separati e ad attirarli all'unità della Chiesa; ma si duole del fatto che non mancano alcuni i quali, interpretando a modo proprio il Decreto conciliare, propugnano un'azione ecumenica tale da offendere la verità circa l'unità della fede e della Chiesa, favorendo un pernicioso irenismo e un indifferentismo del tutto alieno dalla mente del Concilio.
Questi pericolosi errori, diffusi quale in un luogo quale in un altro, sono stati sommariamente raccolti in sintesi in questa Lettera agli Ordinari di luogo, affinché ciascuno, secondo la sua funzione ed il suo ufficio, si sforzi di sradicarli o di prevenirli.
Questo Sacro Dicastero prega vivamente i medesimi Ordinari, riuniti in Conferenze Episcopali, di farne oggetto di trattazione e di riferirne opportunamente alla Santa Sede inviando i propri pareri prima del Natale dell'anno in corso.
Gli Ordinari e quanti altri ai quali per giusta causa essi riterranno opportuno mostrare questa Lettera, la custodiscano sotto stretto segreto, giacché una evidente ragione di prudenza ne sconsiglia la pubblicazione.
Roma, 24 luglio 1966.
A. Card. Ottaviani

l'autogol di Mons. Fernando Ocáriz

Il vero volto
dell'ermeneutica della continuità

L'insegnamento tradizionale va meglio capito
alla luce del Vaticano II
di Belvecchio




Nel corso degli ultimi due anni, quando venivano diffuse delle indiscrezioni sui colloqui dottrinali fra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X, del tipo: “si tratta di un discorso tra sordi”, tanti benpensanti si sbracciavano dicendo che questi “lefebvriani” erano incontentabili. Adesso che Mons. Fellay, il 28 novembre scorso, ha fatto sapere che sul preambolo dottrinale chiederà chiarimenti a Roma e valuterà dalle risposte se c’è la possibilità di modificarlo per poterlo accettare, gli stessi pensano che si stia scherzando col fuoco.
Non si può non aderire alle offerte generose venute da Roma per volontà di Benedetto XVI – dicono costoro.

Ed ecco che giunge tempestivamente una prima risposta da Roma, per bocca di uno dei quattro teologi della Congregazione per la Dottrina della Fede che hanno partecipato ai famosi colloqui, il quale mette nero su bianco, su L’Osservatore Romano, che un vero cattolico, per capire meglio duemila anni di dottrina cattolica deve rivederla alla luce del Vaticano II.

Sembra una barzelletta, ma è esattamente quello che ha scritto Mons. Fernando Ocáriz, Vicario Generale dell’Opus Dei, in un articolo pubblicato sul giornale del Vaticano del 2 dicembre 2011: Sull’adesione al concilio Vaticano II.

In sostanza, Mons. Ocáriz sostiene che i Padri conciliari non poterono non essere assistiti dallo Spirito Santo, quindi i documenti del Vaticano II sono Magistero vero e autentico, e siccome il Magistero, per la luce dello Spirito Santo, non può che essere sempre lo stesso, da duemila anni ad oggi, le dottrine del Vaticano II sono in continuità con la Tradizione. Discorso chiuso!
La cosa è così lapalissiana che appare evidente che ogni altro ragionamento può solo essere o superfluo o in mala fede.

Disgrazia vuole, però, che lo stesso Mons. Ocáriz introduca il suo articolo con una giustificazione che non giustifica, ma complica sul nascere il suo ragionamento: «non è superfluo ricordarla [la natura dell’adesione intellettuale dovuta agli insegnamenti del Concilio] … tenuto conto della persistenza di perplessità manifestatesi, anche nell’opinione pubblica, riguardo alla continuità di alcuni insegnamenti conciliari rispetto ai precedenti insegnamenti del magistero della Chiesa».
Tale premessa è così pregnante che il resto dell’articolo perde tutta la sua importanza se prima non si chiarisce perché a 50 anni dalla convocazione del Vaticano II persista la perplessità nei fedeli cattolici, non sul significato di un termine o di una frase, ma sulla continuità tra il Vaticano II e il precedente Magistero della Chiesa.
Prima ancora di spiegarci ulteriormente come i cattolici debbano aderire al Vaticano II, Mons. Ocáriz avrebbe dovuto spiegarci perché ancora non vi aderiscano nonostante si tratti, come dice lui, di “dottrina ben nota e sulla quale si dispone di abbondante bibliografia”; avrebbe dovuto spiegarci perché dopo quasi mezzo secolo dalla conclusione del Concilio Vaticano II e dopo quattro Romani Pontefici, di cui uno talmente illuminato da meritare la gloria degli altari, e l’ultimo, divenuto papa dopo essere stato per 24 anni il custode della Dottrina della Fede… avrebbe dovuto spiegarci perché i cattolici continuino a nutrire perplessità circa gli insegnamenti di questo Concilio, tante e tali perplessità che lui stesso sente il bisogno di ribadire ciò che dovrebbe essere ormai ovvio e che invece, in tutta evidenza, non lo è affatto. E questo nonostante in questi 50 anni siano stati diffusi dalle congregazioni vaticane centinaia di documenti chiarificatori, dai vescovi migliaia di lettere pastorali, dai giornali cattolici diecine di migliaia di note e articoli, e questo nonostante non siamo più ai tempi di Nicea (325) e nemmeno ai tempi del Vaticano I (1860), per citare solo il primo e il penultimo Concilio, ma siamo nel terzo millennio e in questi anni i fedeli hanno avuto modo di leggere e rileggere e approfondire… come mai sono ancora perplessi?
Mons. Ocáriz questo non lo spiega, anzi non affronta neanche l’argomento e temiamo che, rinchiuso teologicamente nel suo palazzo lastricato di documenti del Vaticano II, non si sia neanche posto la domanda.

Ma in definitiva, cos’è che ribadisce Mons. Ocáriz?

Innanzitutto che il Concilio Vaticano II è dottrinale e “nei documenti conciliari … ci sono molti insegnamenti di natura prettamente dottrinale”.
Peccato che è da 50 anni che si continua a ripetere che il Vaticano II si volle pastorale, perché, come disse Giovanni XXIII all’apertura, «Il ventunesimo Concilio …vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica, che, seppure tra difficoltà e controversie, è divenuta patrimonio comune degli uomini. … il nostro lavoro non consiste … nel discutere alcuni dei principali temi della dottrina ecclesiastica, e così richiamare più dettagliatamente quello che i Padri e i teologi antichi e moderni hanno insegnato e che ovviamente supponiamo non essere da voi ignorato, ma impresso nelle vostre menti. Per intavolare soltanto simili discussioni non era necessario indire un Concilio Ecumenico» (Discorso Gaudet mater Ecclesia, 11 ottobre 1962).
Adesso veniamo a sapere, peraltro senza la minima sorpresa da parte nostra, che il Vaticano II è stato un concilio dottrinale e non poteva non essere dottrinale.
Mons. Ocáriz ci spiega finalmente che quello che continuiamo a ripetere da 45 anni è sostanzialmente vero: il Vaticano II si volle pastorale, ma divenne dottrinale ed elaborò dei documenti che hanno introdotto nuovi elementi di dottrina, molti dei quali sono in contrasto con quanto insegnato dal Magistero nei duemila anni precedenti.
Che poi si dica, come fa il Monsignore, che anche questo è Magistero autentico che richiede l’assenso dei fedeli nonostante il contrasto col Magistero precedente, è cosa che lasciamo alla sua coscienza e alla sua intelligenza.

Lungo questa linea, Mons. Ocáriz precisa: «Il concilio Vaticano II non definì alcun dogma, nel senso che non propose mediante atto definitivo alcuna dottrina. Tuttavia il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia esercitato mediante il carisma dell’infallibilità non significa che esso possa essere considerato “fallibile” nel senso che trasmetta una “dottrina provvisoria” oppure “autorevoli opinioni”. Ogni espressione di magistero autentico va recepita come è veramente: un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il “carisma della verità”, “rivestiti dell’autorità di Cristo”, “alla luce dello Spirito Santo”».
Con questo ragionamento, Mons. Ocáriz sembra compiacersi della ripetizione di cose ovvie. Quello che lui dice è ineccepibile, ma non significa affatto che i contrasti col Magistero precedente non vi siano improvvisamente più, né che sia scomparso il persistere della perplessità dei fedeli su questo punto.
Delle due l’una: o questa assistenza soprannaturale non ha prodotto alcun buon frutto per la durezza dei cuori e delle menti dei Padri conciliari, o 50 anni di perplessità dei fedeli riguardo alla continuità tra Vaticano II e insegnamenti precedenti, sono una mera fisima, inaccettabile e forse dovuta alla incapacità di comprensione dei fedeli o magari alla loro cinquantennale mala fede.
A noi sembra che un teologo veramente preoccupato della salvezza delle anime dei fedeli, prima ancora di dare lezioni di teologia, peraltro arcinota, si dovrebbe preoccupare del malessere intellettuale e spirituale che il Vaticano II ha prodotto nelle menti e nei cuori dei fedeli; altrimenti corre il rischio di apparire un professore in cattedra che sa tutto della sua materia e niente degli allievi di cui ha la cura e dell’arte dell’insegnamento… un cattivo maestro, insomma.

A Mons. Ocáriz sfugge il fatto che la colpa non è dei fedeli perché non conoscono la teologia dell’assenso, ma è del Vaticano II che produce rigetto e non permette alcun assenso. La colpa non sta nell’ignoranza dei fedeli, al contrario: è grazie alla loro conoscenza che da 50 anni essi sono obbligati a considerare il Vaticano II in rottura col Magistero precedente.

Questa adesione, egli precisa, è quella di fede teologale per tutte quelle cose che il Vaticano II ha insegnato ripetendo gli insegnamenti proposti da precedenti interventi magisteriali. Il che ci sembra ancora ovvio, tanto più che i fedeli, quelle cose non solo le conoscevano e le conoscono, ma ad esse aderivano e aderiscono interamente, tanto da rimanere perplessi di fronte alle altre cose insegnate dal Vaticano II.
Ma attenzione, dice Monsignore, «Gli altri insegnamenti dottrinali del Concilio richiedono dai fedeli il grado di adesione denominato «ossequio religioso della volontà e dell’intelletto». Un assenso «religioso», quindi non fondato su motivazioni puramente razionali. Tale adesione non si configura come un atto di fede, quanto piuttosto di obbedienza, non semplicemente disciplinare, bensì radicata nella fiducia nell’assistenza divina al magistero, e perciò “nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede”».
Qui incominciamo a confonderci, perché non vediamo la consequenzialità logica con quanto detto prima e non comprendiamo come si possa aderire con “assenso religioso” e con un “atto di fiduciosa ubbidienza” a insegnamenti che contrastano con quelli a cui si aderisce con fede teologale. Se questo fosse possibile e doveroso, come afferma Mons. Ocáriz, bisognerebbe ammettere che “l’assistenza divina del magistero” induca quest’ultimo a proporre a credere ai fedeli oggi una cosa e domani il suo contrario, e i fedeli, da parte loro, nonostante tali contraddizioni, sarebbero obbligati ad aderirvi con fiduciosa obbedienza.
Ora, per quanto possa apparire irriverente, ci permettiamo di far notare che un tale ragionamento, prima ancora di essere anticattolico, è logicamente del tutto insostenibile, a meno che non si abbia una concezione della fede cattolica pari a quella della persuasione occulta della moderna pubblicità ingannevole dei prodotti commerciali.

- Fidati, fratello, perché io sono il Vescovo!
- Ma, Eccellenza, fino ad oggi si è sempre creduto nel contrario…
- Non dubitare, fratello, quello che a te sembra contrario, in effetti non lo è… non dimenticare che la tua obbedienza non dev’essere razionale, ma radicata nella fiducia che io sono divinamente assistito.
- Ma, Eccellenza, come faccio a credere che il Signore voglia insegnare a me l’esatto opposto di quello che ha insegnato a mio padre?
- Carissimo fratello, è l’obbedienza della fede che te lo impone!
- Quindi, Eccellenza, il Signore insegna sempre cose diverse e contrastanti!
- Ma no, fratello, l’obbedienza nella fede ti impone anche di credere che quello che a te sembra contrastante in verità non lo è, se non altro perché te lo dico io… che sono il vescovo.
- Quindi, Eccellenza, gli eretici e i senza Dio sono contemporaneamente diletti fratelli in Cristo, tali che essere cattolici fedeli o anticattolici infedeli non faccia alcuna differenza.
- Caro fratello, ora sì che hai capito… nulla è impossibile alla misericordia di Dio.
- Amen.



Questo per quanto riguarda i documenti dottrinali. Quelli invece non propriamente dottrinali – dice Mons. Ocáriz – “vanno accolti con rispetto e gratitudine”. Non si capisce bene perché. Ma forse perché non si può che essere grati delle novità, soprattutto se contrarie all’insegnamento e alla pratica millenarie della Chiesa.

Nonostante tutto questo, Mons. Ocáriz concede che si possa ritenere che i documenti del Vaticano II non siano in “continuità col magistero precedente” e siano “incompatibili con la tradizione”, e ovviamente lo concede proprio perché dopo 50 anni anche i ciechi vedono che è tutto un pasticcio. Ma lo concede anche per poter meglio affermare un’altra impossibilità logica.
«Di fronte alle difficoltà che possono trovarsi per capire la continuità di alcuni insegnamenti conciliari con la tradizione, l’atteggiamento cattolico, tenuto conto dell’unità del magistero, è quello di cercare un’interpretazione unitaria, nella quale i testi del concilio Vaticano II e i documenti magisteriali precedenti s’illuminino a vicenda».
Detto in parole povere, Mons. Ocáriz afferma due cose diverse, una implicita: la limitata e difettosa capacità di comprensione dei fedeli, e una esplicita: nonostante 50 anni di contraddizioni, il cattolico serio deve cercare comunque la continuità e deve giungere ad una interpretazione unitaria.

Facciamo un esempio.
a) Gesù Cristo è il Figlio di Dio, la Seconda Persona della Santissima Trinità, Dio unico e vero.
b) Gesù Cristo è un profeta e non è mai morto in croce.
c) Gesù Cristo è un blasfemo che ha bestemmiato Dio.
La verità vera è la prima, ma le altre due proposizioni non devono essere condannate ed escluse, perché anche loro contengono elementi di verità, come insegnano i documenti del Vaticano II sull’ecumenismo.

Cosa fare dunque?

Il cattolico serio, innanzi tutto crederà che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, poi, cercando la continuità, si convincerà che la Chiesa in duemila anni ha commesso tanti errori, e farà mea culpa, quindi, per giungere ad una interpretazione unitaria, da oggi crederà che Gesù Cristo è Dio, ma che essendo anche uomo non può escludersi che abbia bestemmiato, mentre la sua morte in croce, pur essendo una cosa possibile, è probabile che sia stata enfatizzata dai primi cristiani che, come si sa, non avevano ancora letto i documenti del Vaticano II.

Cosa c’entra questa inutile battuta ironica?
C’entra… eccome!

Mons. Ocáriz, infatti, precisa che «Non soltanto il Vaticano II va interpretato alla luce di precedenti documenti magisteriali, ma anche alcuni di questi vengono meglio capiti alla luce del Vaticano II».

Dobbiamo confessare i nostri limiti di laici un po’ sanguigni: nel leggere questa frase ci è subito venuta in mente una sala del palazzo del Sant’Uffizio, con Mons. Ocáriz che espone questo suo convincimento ai teologi della Fraternità San Pio X e costoro che , invece di alzarsi e di andarsene via subito, continuano a dialogare per due anni; e non abbiamo potuto fare a meno di considerare che questi sacerdoti della Fraternità devono davvero essere dei santi uomini, con una pazienza e una capacità di sopportazione che ha del soprannaturale.
Ma poi abbiamo riflettuto e abbiamo anche pensato che probabilmente Mons. Ocáriz non si è mai permesso di fare una battuta simile in quella occasione, riservandosela per quest’articolo pubblicato in risposta alle cautele e alle riserve di Mons. Fellay. Quasi come dire: Sia chiaro una volta per tutte che se noi accettiamo che il Vaticano II venga letto e interpretato alla luce della Tradizione, voi dovete accettare che la Tradizione venga riletta e reinterpretata alla luce del Vaticano II.

50 anni di diatribe, di condanne e di esclusioni, 6 anni di ermeneutica della continuità, due anni di colloqui dottrinali, ed ecco finalmente svelato il mistero: per essere dei buoni cattolici è indispensabile che si leggano i documenti magisteriali di duemila anni di storia della Chiesa alla luce del Vaticano II.

Perché «la Chiesa lungo i secoli progredisce nella conoscenza, nell’approfondimento e nel conseguente insegnamento magisteriale della fede e della morale cattolica», come afferma Mons. Ocáriz.

Cosa significa questa lezione di progressismo dottrinale?
Significa che, da oggi in poi, ogni volta che si terrà un sinodo di vescovi, massimamente ecumenico, si dovranno prendere in mano i documenti da esso elaborati e alla luce di questi si dovranno riscrivere la storia della Chiesa, la dottrina della Chiesa, la liturgia della Chiesa e la pastorale della Chiesa; e se qualcuno avrà l’ardire di avanzare delle riserve sulla coerenza dottrinale del dopo col prima, sappia che tutte le novità insegnate devono essere interpretate avendo in vista l’ermeneutica della riforma nella continuità, come disse Benedetto XVI, cioè devono essere interpretate non cogliendo a posteriori la continuità che dovrebbe essere inevitabilmente implicita in tutto il Magistero della Chiesa, ma fissando a priori il presupposto che si dovrà sempre cogliere tale continuità anche laddove essa è palesemente inesistente, tanto più a priori per quanto tale continuità si riveli di fatto una clamorosa rottura con la Tradizione.

Se poi i fedeli avessero ancora delle perplessità, sappiano, dice Mons. Ocáriz, che «Un’interpretazione autentica dei testi conciliari può essere fatta soltanto dallo stesso magistero della Chiesa. Perciò nel lavoro teologico d’interpretazione dei passi che nei testi conciliari suscitino interrogativi o sembrino presentare difficoltà, è innanzitutto doveroso tener conto del senso in cui i successivi interventi magisteriali hanno inteso tali passi».
Il che significa che tutto si risolve con l’ubbidienza nella fede, la quale «non costituisce un limite posto alla libertà, ma al contrario, è fonte di libertà», perché, come fa dire Mons. Ocáriz a Nostro Signore, ascoltare un vescovo che afferma che Gesù non è certo che sia presente nell’Eucarestia, significa ascoltare Cristo stesso.
È quello che è accaduto con la libertà religiosa insegnata dal Vaticano II, unico argomento esplicitamente citato da Mons. Ocáriz, sul quale gli ultimi due papi sono stati chiarissimi: «La libertà religiosa… è talmente inviolabile da esigere che alla persona sia riconosciuta la libertà persino di cambiare religione, se la sua coscienza lo domanda» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace per l’anno 1999). Concetto ribadito e rafforzato da Benedetto XVI (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace per l’anno 2011): «ogni persona … Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna».
Il che significa che occorre esercitare l’ubbidienza della fede e convincersi che un cattolico può legittimamente e meritevolmente apostatare la fede in Cristo, trovandosi con questo in perfetta adesione al moderno insegnamento papale e per ciò stesso in perfetta continuità con l’insegnamento millenario della Chiesa.

Dopo aver letto questo saggio di chiarificazione sull’ermeneutica della continuità, occorre riflettere attentamente sulle reali intenzioni dei teologi che la sostengono, a qualunque livello si trovino, perché occorre fugare inequivocabilmente il dubbio che si tratti di una sorta di grimaldello atto ad aprire il cuore fiducioso dei fedeli per introdurvi più o meno nascostamente ogni sorta di contraddizione dottrinale, tale che alla fine essere cattolici o non esserlo non sarebbe più una cosa essenziale per la salvezza dell’anima di questi stessi fedeli, perché basta essere degli uomini aperti a ogni novità e ad ogni evenienza, basta essere amanti della libertà e della pace, con cuore sincero e con l’animo pieno di fiducia nelle elaborazioni evolutive del moderno magistero della Chiesa conciliare.
Occorre anche riflettere attentamente sul reale significato di 45 anni di resistenza in difesa della Tradizione cattolica, perché occorre fugare inequivocabilmente il dubbio se sia giunto il momento di abbandonare o anche solo di affievolire la buona battaglia o se questa debba essere combattuta ancora più aspramente.

Noi, che siamo solo nessuno, abbiamo il sospetto che da oggi la battaglia sarà ancora più cruenta e più sanguinosa, per così dire, tale che bisognerà prepararsi ad ogni sorta di condanna e di vessazione.

tratto da Una vox

giovedì 8 dicembre 2011

Tota pulchra es Maria et macula originalis non est in Te

8 DICEMBRE

IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA


Questa verità non è più incerta e disputabile, essa fa parte dei dogmi della nostra fede e fu solennemente definita da Pio IX il giorno 8 dicembre 1854 con la Bolla Ineffabilis, ove si proclama: "Il Dio ineffabile sin dal principio e innanzi ai secoli, elesse e dispose all'Unigenito suo Figlio una Madre, da cui fatto uomo, avesse egli a nascere nella felice pienezza dei tempi, e fra tutte le creature di tanto amore predilesse, lei, da compiacersi in lei sola con propensissimo affetto. Per il che, assai più che tutti i santi, la ricolmò dell'abbondanza di tutte le grazie celesti, tolte dal tesoro della divinità, in un modo così meraviglioso, che sempre affatto immune da ogni macchia, di peccato, e tutta bella e perfetta, ebbe in sé quella pienezza d'innocenza e di santità, di cui maggiore non può concepirsi al di sotto di Dio, e cui nessuno fuor che Dio stesso può raggiungere col pensiero. E per verità era del tutto conveniente, che sempre rifulgesse ornata degli splendori di pefettissima santità, ed affatto immune dalla stessa macchia della colpa originale, riportasse amplissimo trionfo dell'antico serpente, una sì venerabile Madre.
"Dopoché mai non cessammo nell'umiltà e nel digiuno, di offrire a Dio Padre, per mezzo del Figliuol suo, le private nostre preghiere e quelle pubblicate della Chiesa, affinché si degnasse di dirigere e confortare la nostra mente colla virtù dello Spirito Santo, implorato il soccorso di tutta la corte celeste, ed invocato con gemiti lo Spirito Paraclito, il medesimo così ispirandoci, ad onore della santa ed individua Trinità, a decoro ed ornamento della vergine madre di Dio, ad esaltazione della fede cattolica e ad incremento della cristiana religione, coll'autorità del Signor Nostro Gesù Cristo, dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, e Nostra, dichiariamo, pronunziamo e definiamo, che la dottrina la quale ritiene che la Beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore dell'uman genere, fu preservata immune da ogni macchia di colpa originale, è da Dio rivelata e quindi da credersi fermamente e costantemente da tutti i fedeli.
Per la qual cosa, se alcuni presumessero, il che Iddio tenga lontano, di sentire in cuor loro diversamente da quanto fu da noi definito, conoscano e sappiano per fermo, che condannati dal proprio giudizio, hanno fatto naufragio nella fede".


 



mercoledì 7 dicembre 2011

il padrone del mondo?

 

La dittatura giacobina dei poteri “forti”.
Ci sarà una nuova “Vandea”? di Roberto de Mattei

Le vicende italiane ed estere dell’anno che si conclude rendono sempre più evidente la presenza di “poteri forti”, come oggi si usa dire, che operano dietro le quinte della scena internazionale. Un tempo questi poteri venivano chiamati “forze occulte”. Oggi essi non hanno bisogno di nascondersi: mostrano il loro volto, e dialogano e interferiscono con le istituzioni politiche.

Uno dei principali centri di potere è la Banca Centrale Europea (BCE), con sede a Francoforte, un organismo di carattere privato, con propria personalità giuridica, incaricato dell’attuazione della politica monetaria per i diciassette paesi dell’Unione europea che aderiscono all’ “area dell’euro”. La BCE, ideata dal Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 e istituita il 1º giugno 1998, ha assunto, di fatto, la guida della politica non solo monetaria, ma economica e sociale europea, espropriando progressivamente gli Stati nazionali della loro sovranità in questo campo.

In una lettera inviata al presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi il 5 agosto 2011, Mario Draghi e Jean Louis Trichet, a nome del Consiglio direttivo della BCE, hanno dettato una precisa agenda al governo italiano. Essi non si sono limitati a suggerimenti e raccomandazioni di carattere generale, ma hanno fissato, punto per punto, la politica economica e sociale del nostro Paese, indicando come “misure essenziali”: 1) privatizzazioni su larga scala; 2) la riforma del sistema di contrattazione salariale; 3) la revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti; 4) la modifica del sistema pensionistico; 5) il taglio dei costi del pubblico impiego, fino alla riduzione degli stipendi dei dipendenti statali. Hanno infine chiesto che tali regole fossero prese per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare, auspicando una riforma costituzionale che le rendesse più cogenti.

Si può pensare ciò che si vuole di queste misure economiche e sociali. E’ certo però che per la prima volta un gruppo di eurocrati, indipendenti dal potere politico, interviene in maniera così diretta e imperativa nella vita pubblica del nostro Paese. Che cosa accade se un governo nazionale resiste all’imposizione di questi dettami? Lo abbiamo visto proprio in Italia. La BCE è oggi l’unica istituzione europea che può esercitare una prerogativa tipica dello Stato sovrano, quale è l’emissione di moneta. La forza di una moneta dovrebbe corrispondere alla ricchezza di uno Stato. In realtà la Banca Centrale, non essendo uno Stato, emette moneta e stampa banconote senza produrre ricchezza. Essa però impone agli Stati nazionali, a cui è interdetto battere moneta, le regole per produrre la propria ricchezza. Se gli Stati in difficoltà si allineano, la Banca Centrale li aiuta comprando i loro titoli di Stato e diminuendone in questo modo l’indebitamento. Se essi non obbediscono alle indicazioni ricevute, la BCE cessa di sostenerli finanziariamente riducendo l’acquisto degli stessi titoli di Stato. Ciò comporta un aumento del cosiddetto “spread”, che è la differenza tra il rendimento dei titoli di Stato tedeschi (Bund), considerati i più affidabili, e quelli italiani (BTp), percepiti come “a rischio” dagli investitori. Se lo spread aumenta, lo Stato italiano è costretto a garantire ai propri titoli rendite più alte, aumentando così il suo deficit, a tutto vantaggio della speculazione dei potentati finanziari. E’ difficile che in una situazione di questo genere un governo regga. Né la Spagna, né la Grecia, né l’Italia hanno resistito a questa formidabile pressione. La BCE, in una parola, “pilota”, e qualche volta provoca, le crisi politiche degli Stati nazionali.

Naturalmente la BCE non agisce isolata, ma di concerto con altri attori: il Fondo Monetario Internazionale, le agenzie di rating, che valutano la solidità finanziaria di stati e governi nazionali, l’Eurogruppo, che riunisce i ministri dell’Economia e delle finanze degli Stati membri che hanno adottato l’Euro. Queste iniziative sono concordate in luoghi discreti, ma ormai a tutti noti, come gli incontri periodici del Council on Foreign Relations (CFR), della Commissione Trilaterale, del Gruppo Bilderberg. Sarebbe riduttivo immaginare che dietro queste manovre siano Stati nazionali come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Germania o la Francia. L’obiettivo non dichiarato della BCE è proprio la liquidazione degli Stati nazionali.

L’Unione europea, presentata come una necessità economica, è stata infatti una precisa scelta ideologica. Essa non prevede la nascita di un forte Stato europeo, ma piuttosto di un non-Stato policentrico e caotico, caratterizzato dalla moltiplicazione di centri di decisione con compiti complessi e contrastanti. Ci troviamo di fronte a trasferimenti di potere che avvengono non verso una sola istituzione ma verso una pluralità d’istituzioni internazionali, le cui competenze rimangono volontariamente oscure. Ciò che caratterizza questa situazione è la grande confusione di poteri e la loro conflittualità latente o manifesta: in una parola un’assenza di sovranità tale da esigere il costituirsi di una suprema Autorità mondiale. L’ex presidente della BCE Trichet in un discorso tenuto a New York il 26 aprile 2010, presso il CFR ha esplicitamente evocato la necessità e l’urgenza di un super governo mondiale, che fissi regole economiche e finanziarie per affrontare lugubri scenari di depressione economica.

Questa visione viene da lontano e vuole imporre all’umanità una “Repubblica universale” direttamente antitetica alla Civiltà cristiana nella quale si amalgamerebbero tutti i Paesi della terra, attuando cosi il sogno ugualitario di fondere tutte le razze, tutti i popoli e tutti gli Stati. Il romanzo profetico di Robert Hugh Benson Il Padrone del mondo (Fede e Cultura, Verona 2011, con prefazione di S.E. Mons. Luigi Negri) mostra come questa utopia tecnocratica possa sposarsi con l’utopia religiosa del sincretismo. In nome di questo superecumenismo tutto viene accettato fuorché la Chiesa cattolica di cui si programma l’eliminazione, dopo quella degli Stati nazionali.


L’eliminazione della sovranità nazionale comporta, come logica conseguenza, quella della rappresentanza politica. L’ultima parola è ai tecnocrati, che non rispondono alle istituzioni rappresentative, Parlamento e governi, ma a club, logge, gruppi di potere i cui interessi sono spesso in antitesi con quelli nazionali.

I tecnocrati aspirano a guidare governi di emergenza, con leggi di emergenza, che spianano la strada alla dittatura giacobina, come accadde nella Rivoluzione francese. Al giacobinismo si contrapposero però allora, in Francia e in Europa, con successi e insuccessi, le insorgenze contro-rivoluzionarie. Ci sarà oggi una nuova Vandea nel Vecchio continente devastato dagli eurocrati?

tratto da:
http://www.fattisentire.org/modules.php?name=News&file=article&sid=3624

martedì 6 dicembre 2011

il liberalismo cattolico e i suoi perniciosi errori




Padre Julio Meinvielle - Liberalismo e Cattolicesimo-Liberale da Lamennais a Maritain e De Gasperi


La questione democristiana.
Gramsci scriveva che la Democrazia Cristiana è necessaria al Comunismo per ottenere il consenso e poi il governo in Europa, specialmente nei Paesi cattolici. Ma perché? Don Dario Composta risponde: «Il modello ideale DC si potrebbe definire… come politica progressista e aconfessionale»1. Essa è «un partito di centro che guarda a sinistra», come diceva De Gasperi.
Don Composta distingue tre tipi di cattolici:
  1. a) I cristiano-sociali, che respinsero i princìpi della rivoluzione francese per rimanere fedeli alla dottrina sociale e politica del Magistero ecclesiastico.
  2. b) I cristiano-liberali, che si collocarono a mezza strada tra le idee della rivoluzione e l’insegnamento della Chiesa cattolica.
  3. c) I democristiani, che, pur accogliendo un certo indirizzo o ispirazione vagamente cristiana, si mantennero laicisti e si orientarono verso teorie affini a quelle della rivoluzione francese; essi ebbero come capiscuola Lamennais e Maritain in Francia e in Italia Murri-Sturzo-De Gasperi.
I democristiani – continua don Composta – «erano convinti che il pensiero sociale cattolico in qualche modo avrebbe dovuto riconciliarsi con la situazione di fatto… ed abbandonare l’intransigenza»2. La DC pensava che la rivoluzione francese fosse un fenomeno divino e positivo, e che ogni forma di governo non democratica fosse inaccettabile e anticristiana. La DC rappresenta l’aspetto sociale del modernismo. Don Romolo Murri, fondatore della Lega Democratica Nazionale, fu condannato assieme alla sua Lega, e scomunicato come modernista il 28 luglio 1906. Don Sturzo fu più abile: non volle invischiarsi, in modo aperto, con il modernismo, anche se era di idee progressiste o modernizzanti; egli fondò il PPI (Partito Popolare Italiano), che fu severamente criticato da padre Agostino Gemelli, monsignor Olgiati e dal cardinal Pio Boggiani O.P., arcivescovo di Genova. Questi il 5 agosto 1920 pubblicò una «Lettera pastorale» ove metteva in luce i gravi errori del PPI:
a) emancipazione dalla gerarchia ecclesiastica;
b) esaltazione della libertà come valore assoluto in collusione coi liberali;
c) derivazione della sua teoria politica dai princìpi della rivoluzione francese.
Tali errori si ritrovano puntualmente nella DC. De Gasperi, in un discorso tenuto a Bruxelles il 20 novembre 1954, affermò che la DC si fonda sulla triade: libertà, fraternità, democrazia, che sono l’eredità della rivoluzione francese. Pio XII ne fu talmente irritato che da quel momento non lo volle mai più ricevere in udienza.
I fondamenti della DC sono – secondo don Composta – due:
1) il progressismo politico nella linea dell’azione;
2) l’aconfessionalità nella linea dei princìpi.
Il progressismo è una teoria ottimista circa la natura umana, che in campo socio-politico si manifesta come fiducia illimitata in uno sviluppo economico civile e morale continuo ed inarrestabile.
L’aconfessionalità della DC l’aveva già professata don Sturzo il 19 marzo 1919 in un discorso a Verona, in cui asseriva: «Il PPI è nato come partito non cattolico, aconfessionale,… a forte contenuto democratico, e che si ispira alla idealità cristiana, ma che non prende la religione come mezzo di differenziazione politica». Ecco perché Gramsci vedeva nella DC un alleato indispensabile del comunismo per poter egemonizzare la società civile e prendere stabilmente, poi, il governo politico3.
Morto Pio XII, la DC non ha più «chi la trattenga…»: apre a sinistra e porta i socialisti al governo. Aldo Moro ha preso il posto di De Gasperi ed è convinto che il socialismo sia la carta vincente, per cui è necessario stringere un patto con esso; nel 1961, con Giovanni XXIII, cade l’ ostilità al centro-sinistra da parte del Vaticano e nel 1963 Moro presiede il primo governo di centro-sinistra. I frutti saranno: la legge sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978). Né si deve dimenticare che tra il 1976 e il 1978 la DC cercherà di far entrare i comunisti al governo, rispondendo positivamente alla «mano tesa» (il compromesso storico) offerta da Berlinguer sin dal 1973, dopo l’esperienza cilena. Il 16 marzo 1978, però, le BR sequestrano e poi uccidono Moro, mettendo – temporaneamente – a tacere la questione.
Jacques Maritain maitre à penser della DC
Ricordiamo che Maritain ha attraversato varie tappe nel suo cammino filosofico: la prima è quella bergsoniana, la seconda è quella tomista e la terza, purtroppo, è quella cattolico-liberale, in cui cerca di sposare San Tommaso con il pensiero moderno. Qui ci occupiamo della terza tappa di Maritain, conosciuta come quella de «L’Umanesimo integrale» (1936).
Maritain nel 1946 scriveva: «Se si stabilisce come postulato che l’umanità marcia sempre in avanti e verso il meglio, tutto lo svolgersi della storia deve essere interpretato come necessariamente buono; non bisogna contrariarlo in nulla, ma anzi stimolarlo»4. Dunque, Maritain come De Gasperi era convinto del continuo inarrestabile progresso terrestre dell’umanità.
Ora il fatto di stabilire come postulato il progresso all’infinito dell’umanità presuppone una filosofia fondata sulla dialettica della filosofia moderna, figlia della rivoluzione e dell’immanentismo. Nel caso si accetti tale filosofia, opporsi alla rivoluzione è un male, favorirla è un bene. Infatti don Julio Meinvielle, il più lucido critico di Maritain, scrive: «In tal caso bisognerebbe ammettere la bontà della Riforma protestante, mentre la Chiesa le ha opposto la Controriforma; bisognerebbe ammettere il liberalismo della rivoluzione francese, e tuttavia la Chiesa lo ha condannato e stracondannato; e infine bisognerebbe ammettere, oggi, il comunismo e tuttavia Pio XII lo ha scomunicato....»5.
Bisogna anche, secondo Maritain, che lo Stato rinunci alla sua confessionalità e che tutte le confessioni religiose siano riconosciute, di diritto, nella «nuova cristianità». Per Maritain, infatti, vi sono anche due cristianesimi: il cristianesimo come credo religioso, che conduce alla vita eterna, e il cristianesimo come fermento della vita sociale e politica, che procura la felicità temporale dell’uomo. Meinvielle obietta che si può ammettere l’esistenza di un’azione politica cristiana «liberata» dall’autorità della Chiesa, ma non si può ammettere la sua bontà morale; infatti nella misura in cui è indipendente dalla Chiesa, l’azione politica non è più cristiana, ma anticristiana o «demi-cristiana». Eppure è questa la nuova cristianità di Maritain, la quale consiste nell’accordo tra rivoluzione e Chiesa. Idee che abbiamo visto tutte esposte da De Gasperi e dalla DC italiana nella loro professione di fede nell’Umanità, nel Progresso, nella Libertà, nella Fraternità e nella Democrazia.
«Maritain – scrive don Meinvielle – ha la triste missione di cooperare, dall’interno della Chiesa, all’opera social-comunista… Secondo lui vi sono nel comunismo degli elementi cristiani(‘Humanisme Intégral’, pagina 48)… La famosa cristianità di Maritain è una città supercomunista, una sintesi della città libertaria americana e della città comunista russa»6. Maritain esclude l’influsso dell’Ordine Soprannaturale sulla vita politica-sociale e materializza il soprannaturale, scivolando così verso l’ anticristianesimo radicale. Meinvielle conclude: «La nuova cristianità di Maritain e la vera cristianità sono le due città di cui parla Sant’Agostino (la città di Dio e la città di satana), «le quali ora sono mescolate, ma alla fine saranno separate e già lo sono quanto al cuore e per sempre»7.
Anche padre Antonio Messineo S.J., per esplicito ordine di Pio XII, criticò su La Civiltà Cattolica l’umanesimo integrale di Maritain; il Papa apprezzò l’articolo, ma lo reputò troppo moderato. Secondo il padre gesuita si scorgono nell’opera del pensatore francese «gli influssi della filosofia diBergson sull’evoluzione creatrice… Per Maritain, infatti, la storia consiste essenzialmente in un processo evolutivo incessante, che si svolge, senza mai sottostare a ritorni o a cicli involutivi, per successive tappe, in ciascuna delle quali l’umanità consegue nuove conquiste, anche se apparentemente alla superficie possa sembrare che attraversi un periodo di decadimento… o punto morto, dal quale muoverebbe il processo evolutivo… (punto morto) sarebbe il medioevo, epoca in cui l’uomo avrebbe obliato compiutamente se stesso (…) perché sarebbe stato assorbito in Dio… Ma la storia non si arresta. Con le sue scosse costringe l’uomo a risvegliarsi e a prendere coscienza di sé. La prima scossa(…) è la riforma protestante, la quale ebbe il merito… di fargli comprendere il valore dell’iniziativa umana (…) e di averlo così orientato verso la ricerca della prosperità materiale (…) Poi grazie al pensiero agnostico contemporaneo (…) è bastato abbattere il frontone della grazia, per raggiungere un umanesimo totale (…). L’umanesimo totale sarebbe stato conseguito soltanto nel tempo moderno, quando il pensiero, avendo abbattuto il frontone della grazia, si è del tutto sganciato dal trascendente. (…). Affermata l’essenza puramente umana della civiltà, non si può evitare di inferirne la separazione dalla religione e dalla rivelazione, per cui comincia a vacillare il concetto tradizionale di civiltà cristiana (…). La religione dunque sarebbe fuori della storia e fuori del tempo.(Maritain ci presenta) un cristianesimo e un vangelo svuotati del loro contenuto soprannaturale e naturalizzati, temporalizzati. Solo sotto questa forma l’uno e l’altro possono diventare elemento di civiltà ed entrare come componenti dell’umanesimo integrale. (…). Segue che l’umanesimo integrale non è un umanesimo intrinsecamente cristiano (…) è un umanesimo soltanto estrinsecamente cristiano; ad esso possono infatti aderire persino l’agnostico e l’ateo (…). Nella sua sostanza l’umanesimo integrale è, dunque, un naturalismo integrale»8.
Falso concetto di persona umana in Maritain
Don Julio Meinvielle criticò anche il falso concetto filosofico di persona umana che sta alla base de «L’Umanesimo integrale» di Maritain; infatti da un errore filosofico sull’individuo segue necessariamente un errore sulla Società, che è un insieme di individui. Se la persona umana ha una dignità assoluta, che non perde mai, anche se aderisce all’errore e fa il male, la Società di conseguenza dovrà essere pluralista, relativista e indifferentista. Non c’è più spazio per la Cristianità medievale, che deve essere rimpiazzata dalla Nuova (demo)-Cristianità de L’Umanesimo integrale9.
Liberalismo e cattolicesimo- liberale
A) Il liberalismo
Le origini della D.C. maritainiana e degasperiana vanno ricercate nel Liberalismo e in quella sua forma specifica che fu il «Cattolicesimo-liberale».
Secondo il cardinal Louis Billot S.J. («De Ecclesia Christi», tomus secundus, «De habitudine Ecclesiae ad civilem societatem», edizione 3ª, Roma, Gregoriana, 1929, che è un compendio di quanto ha scritto, ancor meglio, padre Matteo Liberatore S.J., «Lo Stato e la Chiesa», Napoli, Giannini, 1872, pagine 7- 47), il Liberalismo, sia individuale che sociale, è un errore nella fede, poiché vuole emancipare l’uomo e la Società da Dio, come se quest’ultimo non esistesse, fondandosi sul postulato della libertà umana come valore infinito e assoluto10. Ma – prosegue il cardinale – il principio fondamentale del Liberalismo è assurdo e contraddittorio. Infatti la libertà assoluta non può essere, come dicono i liberali, un fine ultimo, poiché essa è una facoltà o potenza di agire in vista di un fine. Quindi la libertà è mezzo per raggiungere il fine (ea quae sunt ad finem). Essa, inoltre, deve avere dei limiti, e non può essere assoluta o illimitata, come insegna la scuola liberale. In effetti, non esiste crimine o delitto in cui la libertà non precipiti se usata male; quindi essa deve essere ritenuta da freni potenti ed efficaci perché non si getti in un burrone. Ma, se si ammette il principio fondamentale del Liberalismo e si nega questa conclusione, allora si cadrà necessariamente in una delle due assurdità: o si pretenderà che la libertà sia infallibile e non possa cadere in nessun difetto, oppure si ammetterà che la libertà può fallire, ma che ciò è un bene, e l’uso della libertà deficiente deve essere comunque rispettato, e questa è pura demenza11.
Inoltre, secondo l’illustre teologo gesuita, il Liberalismo conduce al caos e all’anarchia, ancor prima del Comunismo; infatti il Liberalismo volendo l’applicazione dell’individualismo puro in ogni campo (religioso, morale, politico, economico) porta immancabilmente alla dissoluzione degli organi sociali e dello Stato, e questa è anarchia. Oppure, volendo evitare questo eccesso, cade in un altro difetto: lo Stato leviatano che, per non crollare, si fa rispettare schiacciando ogni individuo o corpo intermedio che gli si ponga innanzi, come si addice ad uno Stato di polizia; ma questa è la sconfitta implicita e intrinseca del Liberalismo12.
Il principio del liberalismo, continua il Billot, è essenzialmente anti-religioso, esso se la prende direttamente con Dio, volendo sopprimere nella società il culto al vero Dio e cancellare ogni influsso della Religione da Lui istituita sugli individui e sugli organismi sociali. Perciò, contro il «Credo» definitivo e contro l’autorità religiosa esterna, il Liberalismo rivendica l’autonomia del pensiero umano e della «coscienza» individuale; contro il Regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo, vuole lo Stato «neutro» cioè aconfessionale, largo di «diritti» a tutte le credenze religiose, vere e false che siano (vedi Leone XIII «Libertas»). In ciò il Liberalismo è tributario dei princìpi della rivoluzione francese «satanica nella sua essenza».
L’empietà del Liberalismo ha qualcosa di nuovo e di più grave. Nell’antichità l’empietà esiste, anzi inizia ad esistere già con il primo uomo, ma non ancora è organizzata e acrimoniosa. Quando Gesù predica il Vangelo, è già più intensa e meglio organizzata, ma solo in un piccolo angolo della terra. Però col XVIII secolo essa diventa universale, furiosa, rabbiosa, forsennata, infiammata; si passa dall’odio alla Religione all’odio esplicito di ex-cristiani contro Gesù Cristo: è l’apostasia, più o meno aperta; perché il Liberalismo sa nascondersi, quando è il momento, e presentarsi sotto sembianze di angelo di luce, mentre è un angelo decaduto13.
B) Il cattolicesimo-liberale
Nel secondo articolo, Billot, tratta delle diverse forme di Liberalismo, e – come il padre Liberatore – ne distingue tre:
1) il Liberalismo assoluto o radicale in cui lo Stato domina la Chiesa.
2) Il Liberalismo moderato in cui vale il principio «Libera Chiesa in libero Stato».
3) Il Cattolicesimo-liberale che, separando la dottrina dalla prassi, ritiene che la separazione tra Stato e Chiesa è il miglior modo di vivere, non de jure (la loro cooperazione rimane l’ideale, la «tesi», buona da insegnare nei seminari), ma de facto (l’ipotesi, buona da applicare in pratica, senza curarsi di tendere all’instaurazione della tesi)14.
Secondo Billot il Liberalismo assoluto coincide con il materialismo e l’ateismo perché nega l’immortalità dell’anima, come ogni materialismo, e nega che Dio sia fine ultimo dell’uomo, come ogni ateismo. Onde l’essere più nobile dell’universo è l’uomo, che è principio e fine di se stesso15: è l’antropocentrismo opposto al teocentrismo, non più Dio ma l’uomo come il centro dell’universo.
Il Liberalismo moderato, invece, è riconducibile al manicheismo: per lui Chiesa e Stato sono due princìpi irriducibili, come il «dio» cattivo e il «dio» buono di Mani, il primo dei quali crea la materia (cattiva) e il secondo lo spirito (buono). Soltanto che il Liberalismo, in questo punto, rovescia la teoria di Mani e la peggiora: le cose temporali (Stato) sono buone, mentre quelle spirituali (Chiesa) sono cattive; «l’una contro l’altra armate», mai potranno trovare un accordo. Il Liberalismo moderato separa l’uomo pubblico dal privato, il politico dal fedele; ma ciò sarebbe concepibile solo se in un unico uomo ci fossero due anime, due mentalità, due coscienze, due personalità, realmente distinte tra loro (come nello schizofrenico), di cui una è atea, l’altra religiosa; una incredula, l’altra fedele; una del tutto materiale, l’altra assolutamente spirituale16.
Infine il Cattolicesimo-liberale è l’incoerenza stessa sussistente. Infatti il Cristianesimo professa che l’uomo ha per fine il Cielo, che la vita presente è tutta relativa alla vita eterna e che le cose temporali devono essere subordinate a quelle spirituali; mentre il Liberalismo insegna tutto il contrario, ossia i princìpi del 1789: l’uomo è assolutamente libero (Liberté) e non è per nulla ordinato a Dio o al Cielo; vita presente e vita eterna sono la stessa cosa ossia la vita eterna è ridotta a questa presente (Egalité); e tra Stato e Chiesa vige l’assoluta fratellanza o meglio lo Stato ingloba e fagocita la Chiesa (Fraternité) (Paragrafo 3°, Quod Liberalismus «catholicorum» – liberalium est perfecta incohaerentia, pagine 51- 59).
Il nostro lettore è ora in grado di valutare l’apertura del Vaticano II al modernismo anche sociale ovvero a quel «cattolicesimo liberale» che da tempo premeva per conciliare, contro il costante Magistero pontificio, la Chiesa con i pretesi «valori» del liberalismo. Sull’apertura alla «concezione liberale dello Stato» nei testi del Concilio, in particolare nella Gaudium et Spes, nella Dignitatis Humanae e in Nostra Aetate, rimandiamo alla testimonianza inoppugnabile dell’allora cardinale Ratzinger ne «Les principes de la Théologie Catholique» (edizioni Tequi, Parigi, pagine 423 e seguenti).
U.T.T.
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(pubblicato anche su «SìSì-NoNo», periodico cattolico, Anno XXXV, numero 6, 31 marzo 2009)

Note:
1 D. Composta, «Questione cattolica e questione democristiana», CEDAM, Padova, 1987, pagina 25; confronta N. Arbol, «I democristiani nel mondo», edizioni Paoline, Milano, 1990; E. Corti, «Breve storia della democrazia cristiana con particolare riguardo ai suoi errori», in «Il Fumo nel Tempio», Ares, Milano, 1997, pagine 154-184; H. Delassus, «La Democratie Chretienne», Lille, Desclée, 1911.
2 D. Composta, opera citata, pagina 36.
3 Confronta A. Del Noce, «L’Eurocomunismo e l’Italia», Editrice Europa Informazioni, Roma, 1976; A. Del Noce, «Il suicidio della
rivoluzione»,
Rusconi, Milano, 1978; A. Del Noce, «Il cattocomunista», Rusconi, Milano, 1981; A. Caruso S.J., «Da Lenin a Berlinguer», Idea Centro Editoriale, Roma, 1976; Cardinale L. Billot S.J., «De Ecclesia Christi», Tomus secundus, «De habitudine Ecclesiae ad civilem societatem», 3ª edizione, Roma, Università Gregoriana, 1929, Q. XVII «De errore liberalismi et variis ejus formis», traduzione francese della Q. XVII: «Les principes de 89 et leurs conséquences», Tequi, Paris, 1989.
4 J. Maritain, «Les droits de l’homme et la loi naturelle», Hartmann, 1946, pagina 37.
5 Vedi anche J. Meinvielle, «De Lamennais a Maritain», La Cité Catholique, Paris, 1956, pagine 9-10. Esiste una recente traduzione
italiana del libro succitato, che s’intitola: «Il cedimento dei cattolici al liberalismo», a cura di don Ennio Innocenti, Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, 1991; J. Meinvielle, «Critica de la conception de Maritain sobre la persona humana», Ediciones Nuestro Tiempo, 1948, Buenos Aires.
6 J. Meinvielle, opera citata, pagine 235-236.
7 Ibidem, pagina 300
8 A. Messineo, «L’umanesimo integrale», ne «La Civiltà Cattolica», volume III, quad. 2549, 25 agosto 1956, pagine 449-462; confronta anche A. Roussel, «Libéralisme et Catholicisme», Semaine Catholique, 1926, Rennes ; F. Sardà y Salvany, «Il liberalismo è peccato», rist. Forni editore, Bologna, (1888) 1972; J. Morel, «Somme contre le catholicisme libéral», 2 volumi, Paris-Bruxelles, Palmé-Lebrocquy, 1876; E. Barbier, «Histoire du catholicisme libéral et du catholicisme social en France», 5 volumi, 1923, sine ed. et loco; D. Castellano, «L’aristotelismo cristiano di Marcel De Corte», Pucci Cipriani editore, Firenze, 1975; L. Gedda, «18 aprile 1948», Mondadori, Milano, 1998.
9 J. Meinvielle, «Critique de la conception de Maritain sur la personne humaine», (1948), traduzione francese, sine loco, et editore, 1993.
10 Q. XVII, «De errore Liberalismi et variis ejus formis», pagina 17.11Art. I, «De fundamentali principio Liberalismi», pagine 19-20.Paragr. 1°, «Quod principium fundamentale Liberalismi est in se
absurdum et chimericum»,
pagine 20-28.
12 Paragrafo 2°, «Quod principium Liberalismi in applicationibus ad res humanas, secum fert dissolutionem omnium socialium organorum», pagine 28-34.
13 Paragrafo 3°, «Quod principium Liberalismi est essentialiter antireligiosum», pagine 34-40.
14 Art. II, «De variis formis Liberalismi in re religiosa», pagina 41
15 Paragrafo 1°, «Quod prima forma Liberalismi convertitur cum materialismo et atheismo», pagine 41-45.
16 Paragrafo 2°, «Quod Liberalismus moderatus ad manicheismus reducitur», pagine 45-51.