venerdì 23 settembre 2011

PELLEGRINAGGIO DELLA TRADIZIONE AL SANTUARIO DI OROPA


Sabato 24 settembre 2011

ore 10.30
Raduno in Basilica Antica
e Processione di salita alla Basilica Nuova.

ore 11.00
Santa Messa solenne in Basilica Nuova.

ore 15.00
S. Rosario
di fronte all’Immagine miracolosa
in Basilica Antica.

Si raccomanda di essere presenti per tempo, prima delle 10.30, davanti alla Basilica antica, per salire insieme, pregando, alla Basilica nuova per la santa Messa

martedì 20 settembre 2011

Pour qu’Il règne

Torna un grande testo di Jean Ousset
di Massimo Introvigne

La storica casa editrice francese Dominique Martin Morin sembrava minacciata di sparizione ma continua invece a operare, dopo il trasferimento da Bouère (Mayenne) a Poitiers. Ha così reso di nuovo disponibile nel suo catalogo Pour qu’Il règne, l’opera fondamentale di Jean Ousset (1914-1994) [nella foto], stampata l’ultima volta nel 1998 e la cui prima edizione pubblica risale al 1959. La nuova facilità di reperire un’opera che sembrava irreperibile è una buona notizia. Il libro rimane infatti l’opera maggiore prodotta dalla scuola contro-rivoluzionaria francese nel secolo XX. La scuola contro-rivoluzionaria prende nome dall’opposizione alla Rivoluzione francese ma non è affatto una scuola "nostalgica" del 1788 - sa bene che se si tornasse al 1788 dopo un anno… verrebbe il 1789 - e sviluppa al contrario una critica di un processo di allontanamento dalla verità cattolica che ha origini molto più remote e che chiama appunto "Rivoluzione". Jean Ousset e la sua associazione La Cité Catholique - poi continuata sotto altra forma - hanno proseguito questa scuola, in Francia e altrove, per gran parte del secolo scorso.
Jean OussetOpera immensa, Pour qu’Il règne può essere difficilmente riassunta. Non è però impossibile farne emergere un’architettura. Il punto di partenza del testo è la dottrina della regalità sociale di Gesù Cristo. In quanto Alfa e Omega, inizio e fine della Creazione, Cristo è re di tutto l’universo. Questa regalità non si esercita solo sui cuori, ma sulle nazioni. Ousset dedica un intero capitolo all’esegesi dell’affermazione di Gesù Cristo secondo cui «il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18, 36), spiegando che la frase significa che si tratta di un regno che non nasce da questo mondo, «non proviene da questo mondo», secondo una formula che riprende dal cardinal Louis-Edouard-François-Desiré Pie (1815-1880). Tuttavia il regno di Gesù Cristo si esercita su questo mondo, e «la formula non significa in nessun modo che Gesù rifiuti di riconoscere alla Sua Sovranità il carattere di regalità sociale».
Dal momento che quello di Gesù Cristo è il regno della verità - il Maestro lo spiega a Pilato, appunto dopo avergli detto che il suo regno «non è di questo mondo» - il liberalismo relativista, che nega l’esistenza della verità, ha il suo inizio emblematico nella successiva battuta del procuratore romano: «Che cos’è la verità?» (Gv 18, 38). Dal liberalismo deriva il laicismo, cioè la separazione fra religione e politica. Il contrario del laicismo non è la confusione fra politica e religione, ugualmente riprovata dalla Chiesa, ma la distinzione fra le due sfere, che permette la loro feconda collaborazione. In campo sociale la Chiesa enuncia princìpi morali che - benché si applichino anche alla vita della società e alla politica e non solo alla morale individuale - sono obbligatori per tutti i cattolici. Questi non devono, per esempio, soltanto rinunciare al divorzio nella loro vita personale ma debbono pure essere contrari alle leggi che ammettono e favoriscono il divorzio.
La dottrina sociale della Chiesa ha anche fissato dei princìpi generali così spesso ripetuti che un cattolico non potrebbe allontanarsene senza grave rischio per la sua fedeltà ai Pontefici e al Magistero. Ma «il dettaglio pratico, la cura giornaliera degli affari pubblici, l’adattamento dei princìpi eterni della saggezza politica alle diverse condizioni di tempo e di luogo» sono invece lasciati dal Magistero stesso alla responsabilità dei laici cattolici. Dei laici, e non dei sacerdoti: «il laico, in un certo senso, è più direttamente interessato allo sviluppo della regalità sociale di Nostro Signore Gesù Cristo e questo nella misura stessa in cui si trova, più che il sacerdote, impegnato nell’ordine temporale, nell’ordine civile, nell’ordine secolare, più impegnato nelle cose sociali, più direttamente interessato in materia politica…». Ricordando che i sacerdoti insegnano la morale sociale ma lasciano ai laici la scelta del modo di applicarla nelle situazioni politiche contingenti si evitano insieme gli scogli del laicismo e del clericalismo. Va notato come queste idee siano espresse da Ousset prima della Apostolicam actuositatem del Concilio Ecumenico Vaticano II, di cui anticipano un tema essenziale.
Se questa è la "tesi", per Ousset nella storia concreta degli uomini occorre avere a che fare con l'"ipotesi", cioè con le condizioni concrete che talora impediscono di realizzare la tesi nella sua integralità. Non è sempre illecito accontentarsi di una realizzazione parziale: purché, anche in questo caso, la tesi della regalità sociale sia costantemente ribadita nella sua integralità.
Il regime dell’ipotesi è determinato in Occidente dalla presenza dominante del naturalismo, che si presenta secondo Ousset in tre gradi o categorie. Il naturalismo della prima categoria «nega perfino l’esistenza del soprannaturale, […] lo esclude apertamente considerandolo una follia, un’assurdità o almeno qualche cosa che, se esiste, è inconoscibile». Quello della seconda categoria «a rigore non nega l’esistenza del soprannaturale, ma rifiuta di riconoscerne il primato»: il soprannaturale esiste, ma l’uomo colto, superiore e «filosofo» è in grado di farne a meno, o almeno può non legarsi al soprannaturale com’è presentato da una determinata religione dal momento che i suoi strumenti filosofici - o «l’esoterismo» - gli permettono di cogliere il fondo comune di tutte. Infine, il naturalismo della terza categoria ammette l’esistenza e in tesi anche il primato del soprannaturale, ma pensa che si tratti di una «materia opzionale» di cui nel contesto della società moderna, tanto più in campo politico e sociale, si può legittimamente non tenere conto, così evitando divisioni e polemiche che sarebbero sostanzialmente dannose.
Il naturalismo in azione per Ousset si chiama Rivoluzione, un termine che - secondo appunto l’insegnamento della scuola contro-rivoluzionaria - non si riferisce a un singolo avvenimento ma a un processo plurisecolare. «La Rivoluzione è satanica», sia nel senso che il non serviam degli angeli ribelli è il tipo di ogni Rivoluzione - così che «il riferimento a Lucifero è indispensabile» - sia nel senso che Satana, «primo rivoluzionario», continua la sua azione nella storia attraverso una «contro-Chiesa». Non si tratta di Messe nere né di fenomeni straordinari, ma dell’«azione molto ordinaria e, per così dire, continua dell’Inferno in mezzo a noi. Satanismo autentico, ma senza odore di zolfo o apparizioni di diavoli cornuti».
Al naturalismo della prima categoria corrispondono le «truppe regolari» della Rivoluzione: conventicole che si propongono esplicitamente la sovversione dell’ordine naturale e cristiano. Né si tratta solo della massoneria, di cui pure Pour qu’Il règne si occupa ampiamente. L’ampio quadro descritto da Ousset parte dai movimenti gnostici contro cui dovettero lottare i Padri della Chiesa e già gli apostoli; prosegue con i manichei, i catari, gli albigesi; accenna agl’influssi della qabbalah ebraica nella formazione di conventicole eterodosse che nel secolo XVII sventolano la bandiera dei Rosacroce; indaga i legami fra il movimento che prende il nome dal mito dei Rosacroce e la nascita della massoneria.
Se il dettaglio storiografico può talora apparire, oltre cinquant’anni dopo la prima edizione di Pour qu’Il règne, superato da studi successivi, il quadro d’insieme non manca di conservare una sua coerenza. Né Ousset indulge ad atteggiamenti "complottisti" o immagina un’unica grande mano dietro l’intero processo rivoluzionario: «Occorre evitare tuttavia - scrive - di farsi un’idea troppo semplice, che alla fine andrebbe a vantaggio delle sette, di un’inesistente unità della loro intesa e della loro azione. Se la contro-Chiesa è una, essa è pure multipla e terribilmente divisa».
L’azione della contro-Chiesa nella storia dell’Occidente mira a distruggere quella imperfetta ma non immaginaria realizzazione della regalità sociale di Gesù Cristo che era stata la civiltà cristiana del Medioevo attraverso tre tappe essenziali: la Riforma, la Rivoluzione francese e il laicismo del secolo XIX, che comprende il socialismo e prepara il comunismo. La ricostruzione di queste tappe da parte di Ousset segue - e sistematizza - un patrimonio comune di lettura della storia che si era da tempo affermato nella scuola contro-rivoluzionaria. Uno dei punti di riferimento di Ousset - insieme a mons. Henri Delassus (1836-1921) - è qui mons. Jean-Joseph Gaume (1802-1879), utilizzato anche per ricordare, ogni volta che l’autore lo giudica necessario, che mentre si esaminano gli infiniti passaggi del processo rivoluzionario occorre non perdere mai di vista la sua unità.
Pour qu’Il règne riprende da mons. Gaume questo brano eloquente sulla Rivoluzione: «Se, strappando la sua maschera, le domandate: Chi sei?, vi dirà: “Non sono quello che si crede. Molti parlano di me ma ben pochi mi conoscono. Non sono né il carbonarismo che cospira nell’ombra né il moto che tuona per le strade, né il cambiamento dalla monarchia alla repubblica né la sostituzione di una dinastia a un’altra, né la turbativa momentanea dell’ordine pubblico. Non sono né le urla dei Giacobini né il furore della Montagna [cioè della corrente di sinistra nella Convenzione Nazionale del 1792 durante la Rivoluzione francese], né il combattimento delle barricate, né il saccheggio, né l’incendio, né la riforma agraria, né la ghigliottina né le noyade [cioè gli assassini per annegamento di preti caricati, sempre durante la Rivoluzione francese, su barche che poi erano affondate]. Non sono né [Jean-Paul] Marat [1743-1793] né [Maximilien] Robespierre [1758-1794], né [Gracchus] Babeuf [1760-1797], né [Giuseppe] Mazzini [1805-1872], né [Lajos] Kossuth [1802-1894]. Questi uomini sono i miei figli, non sono me. Queste cose sono le mie opere, non sono me. Questi uomini e queste cose sono fatti passeggeri: ma io sono uno stato permanente. Io sono l’odio di ogni ordine religioso e sociale che l’uomo non ha stabilito lui e nel quale non è re e Dio insieme. Io sono la proclamazione dei diritti dell’uomo contro i diritti di Dio. Io sono la fondazione di uno stato religioso e sociale sulla volontà dell’uomo al posto della volontà di Dio. Io sono Dio detronizzato e l’uomo al suo posto. Ecco perché mi chiamo Rivoluzione, che significa rovesciamento”».
Al naturalismo della seconda categoria corrisponde quella che Ousset chiama la «quinta colonna» della Rivoluzione, cioè il progressismo all’interno della Chiesa. A ogni fase della Rivoluzione corrisponde una fase specifica del progressismo: alla Riforma, il giansenismo e il gallicanismo; alla Rivoluzione francese, il cattolicesimo liberale; al processo che va dal laicismo ottocentesco fino al socialismo e al comunismo, il modernismo - con la sua specifica declinazione sociale, il movimento politico cattolico-democratico e modernista detto Sillon - e i cedimenti dottrinali e operativi di teologi e uomini di Chiesa di fronte alle forze socialiste e comuniste.
Al naturalismo della terza categoria corrispondono i «nostri stessi abbandoni e complicità»: la fede timida, il linguaggio equivoco, il compromesso che si traveste da prudenza, le collaborazioni ambigue. Qui Ousset affronta il tema molto delicato della collaborazione con non credenti che si dichiarano rispettosi della causa della Chiesa. Una certa collaborazione, afferma, è possibile. Ousset riprende una metafora dal gesuita Pedro Descoqs (1877-1946): «Supponiamo che due gruppi di uomini, uno di credenti e uno di non credenti, si accordino per portare i pesanti elementi di un’impalcatura sul sagrato di Notre Dame. Il primo gruppo ha intenzione di costruire l’impalcatura per restaurare la facciata. Il secondo vuole costruire l’impalcatura ma servirsene per dare fuoco alla chiesa. I due gruppi sembrerebbero d’accordo sul risultato immediato: portare gli elementi di legno sul sagrato della cattedrale. Ma le intenzioni e gli scopi degli uni e degli altri sono in contraddizione tra loro. Il loro connubium è dunque semplicemente immorale e va condannato senza riserve. Ma supponiamo invece che questi due gruppi s’intendano per trasportare gli elementi dell’impalcatura e che tutti e due se ne vogliano servire per restaurare la facciata della chiesa. Il primo, è vero, per spirito di fede e per rendere omaggio a Dio mentre il secondo vuole semplicemente salvaguardare una meraviglia artistica e un’eredità della vecchia Francia. Per quanto sia meno elevata, questa seconda intenzione non è ad alcun titolo immorale. Non si vede quindi dove starebbe l’ingiustizia e l’immoralità nei cattolici che collaborassero con questo secondo gruppo in vista dello stesso risultato concreto da ottenere, il trasporto degli elementi fino alla piazza di Notre Dame, perché gli uni e gli altri si propongono di cooperare alla stessa opera buona».
Chi ha orecchie per intendere intenda, ma Ousset non si ferma qui. Aggiunge che «un cattolico non potrà mai accettare che la Chiesa sia presentata SOLTANTO come uno strumento al servizio del bene sociale o nazionale» (p. 380). Ed esprime ampi dubbi sulla reale possibilità di unire i nemici della Rivoluzione intorno alla nazione e al bene comune naturale, senza riconoscere nella Chiesa la custode plurisecolare di questo bene.
Si dirà - e ci saranno critici per farlo notare - che tutto l’immenso affresco della Rivoluzione presuppone che quanto il processo rivoluzionario ha distrutto, cioè la cristianità medioevale, meritasse di essere conservato, mentre è proprio questo che i progressisti negano facendo rilevare che anche il Medioevo era pieno di peccatori e d’ingiustizie. Sì, risponde Ousset, ma - «coloro che per scusare i disordini del nostro tempo - ha detto perentoriamente [Louis] de Bonald [1754-1840] - cercano esempi di disordine nel passato dimenticano che allora il disordine era nei costumi e nell’amministrazione, mentre oggi è nelle leggi, e che non c’è disordine veramente durevole se non quello che è consacrato dalla legislazione» (p. 407).
La terza parte di Pour qu’Il règne mira a rispondere a un’altra obiezione: ormai la Rivoluzione ha vinto, e non c’è più nulla da fare. Si tratta di una serie di meditazioni di profonda spiritualità che contemplano, rispettivamente, la Croce, Gesù Cristo come uomo dei dolori, il mistero della Chiesa e le beatitudini evangeliche. Attraverso queste meditazioni - che sono parte integrante del volume - Ousset intende convincere il lettore che non si ha né il dovere né il diritto di disperare. L’enorme macchina messa in campo dalla Rivoluzione non è riuscita a distruggere la Chiesa, perché questa è divina. Il testo combatte anche la tentazione spiritualista di affidarsi all’intervento miracoloso del Cielo o di ricorrere soltanto alla preghiera. Ousset ricorda la parola di santa Giovanna d’Arco (1412-1431): «Gli uomini d’armi combatteranno, e Dio darà la vittoria».
- Jean Ousset et la Cité catholique. Cinquante ans après "Pour qu’Il règne", par M. Introvigne, traduction française de Philippe Baillet

lunedì 19 settembre 2011

San Gennaro, pensaci tu!



FESTE PATRONALI DEGRADATE A GIORNO FERIALE: DOVE SONO FINITI QUEI CATTOLICI CHE TANTO SI SONO BATTUTI PER L'ACQUA PUBBLICA?
MUTI COME PESCI!
Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: ''I cristiani devono adoperarsi per far riconoscere dalle leggi le domeniche ed i giorni di festa della Chiesa come giorni festivi''
di Mauro Faverzani
 
Di mezzo c'è una questione di coscienza. Niente di meno. Cancellare con un colpo di spugna le feste patronali non è solo faccenda sindacale, né tanto meno ragionieristica. È un provvedimento, che incide direttamente sulle anime. Per difendere le quali i cattolici son chiamati a raccolta e ad usare, se necessario, le armi della dialettica politica e del buon senso, a tutela dei diritti dello spirito.
A recitarlo a chiare lettere è un testo autorevolissimo e vincolante per un credente quale il Catechismo della Chiesa cattolica, che al n. 2188 recita: «Nel rispetto della libertà religiosa e del bene comune di tutti, i cristiani devono adoperarsi per far riconoscere dalle leggi le domeniche ed i giorni di festa della Chiesa come giorni festivi», difendendo anzi «le tradizioni come un prezioso contributo alla vita spirituale della società umana». Poiché le ricorrenze patronali rientrano evidentemente a pieno titolo in tale categoria, va da sé come non vi sia manovra governativa o manovra bis che tenga: l'abolizione non s'ha da fare, né ora né mai.
Del resto, lo stesso Catechismo non adduce ragioni superficiali o velleitarie, tutt'altro: punta in alto e parla direttamente di valori assoluti, universali ed intangibili quali appunto la "libertà religiosa" ed il "bene comune", molto più alti delle beghe partitiche e degli interessi di bottega. Tali, insomma, da costituire una pesante discriminazione ai limiti della cristianofobia, se inapplicati o violati, nei confronti dei milioni di credenti (che sono anche contribuenti, giova ricordarlo...) presenti in Italia, chiamati dagli stessi Comandamenti al rispetto del riposo durante la domenica tanto quanto durante tutte le feste di precetto, come prevede, oltre al citato Catechismo (n. 2193), anche il Codice di Diritto Canonico (n. 1247).
Il quotidiano della Cei, "Avvenire", ha lanciato l'allarme, ricordando come le feste patronali rappresentino la "memoria della comunità", riprendendo così un concetto che già 9 anni fa il prof. Ulderico Bernardi, docente di Sociologia degli Eventi Culturali presso l'Università di Ca' Foscari, a Venezia, ebbe ad esprimere, spiegando come «i riti collettivi» siano «il segno dell'appartenenza ad una comunità e del radicamento della fede dei semplici». Il che sarà anche sociologicamente vero, ma il punto non è principalmente questo. Non siamo di fronte ad un retaggio del passato, bensì a pratiche attuali di una fede viva nell'oggi.
Certamente, l'emendamento, che intende cancellare le ricorrenze patronali, è stato accolto dal relatore della manovra ed approvato dalla Commissione Bilancio del Senato, quindi coi crismi dell'istituzione. Ma ha un autore ben preciso, il Pd, ed un "fiancheggiatore" altrettanto noto, l'Uaar, l'Unione Atei e Agnostici Razionalisti, che ha subito plaudito al provvedimento. Spuntando anche una vittoria nella vittoria ovvero l'aver "salvato" con questa mossa le feste cosiddette "laiche" ovvero il primo maggio, il 25 aprile ed il 2 giugno, queste sì divenute spesso così asfittiche e lontane dal sentire popolare, da rappresentare una sorta di vuota e nostalgica ritualità, di cui pochi capiscono ancora il senso originario.
Vien da chiedersi dove siano tutte quelle associazioni cattoliche dei lavoratori, tanto mute e sorde in tali frangenti quanto pronte in altri a berciare su faccende loro estranee, dall'acqua pubblica al nucleare. Ora, che in Italia ci si debba affidare ai Santi Patroni per sperare di risollevare le sorti di un Paese economicamente e politicamente provato, è un dato di fatto. Ma che si pretenda anche di far pagare loro il conto, questo è veramente troppo...
Fonte: Corrispondenza Romana, 10/09/2011