sabato 22 dicembre 2012

il grande digiunatore

"Una bestia feroce che non ha più scampo è sempre pericolosa. E Saruman possiede poteri che immagini memmeno. Attento alla sua voce!" Gandalf a Pipino (J. R. R. Tolkien. Il Signore degli Anelli, I edizione Bompiani, p. 633)

IL GRANDE DIGIUNATORE

Estratto del volume autobiografico del Cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna, dal titolo: "Memorie e digressioni di un italiano cardinale" (Edizioni Cantagalli, Siena, 2007, pp. 640, Euro 23,90).

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XIX digressione
PICCOLA CONTESTAZIONE AL GRANDE DIGIUNATORE

Chi è?

Nessuno mi chieda nome e cognome del Grande Digiunatore: non è un singolo personaggio, sono in parecchi e tutti, a diverso titolo e con diversa pertinenza, entrano a dare figura concreta e situazione storica a un tipo umano generale e astratto. Il primo e più onorato tra essi è senza dubbio il Mahatma Gandhi: mahatma in sanscrito significa “grande anima”; ma poi, nell’arte del digiuno annunciato e ostentato, sono seguite “anime” di tutte le misure. Il Grande Digiunatore non si accontenta di non mangiare per suo estro, nel segreto della sua casa o addirittura in località deserta (come Gesù Cristo): egli fa del suo digiuno un manifesto di propaganda. Non si astiene dal cibo per ragioni sue, ascetiche o sanitarie o di estetica personale: mette la sua rinuncia al servizio di qualche importante causa umanitaria.

Una spontanea antipatia

Sarà perché non ho avuto il dono di un’estrazione borghese (e sono stato abituato a rispettare e a temere la fame) o perché sono incline a non fidarmi facilmente degli eroismi gratuiti, ma il Grande Digiunatore non ha mai riscosso le mie simpatie. È qualcosa di istintivo, e non è detto che gli istinti diano sempre suggerimenti encomiabili. Perciò ho cercato dentro di me quali siano i motivi razionalmente enunziabili di questo stato d’animo di ripulsa: in chi è illuminato dalla fede è normale l’abitudine di verificare se ci sia – e quale sia – la ragione oggettiva dei suoi atti e dei suoi comportamenti. Noi credenti siamo abituati a ragionare.

Le ragioni della contestazione

La prima e meno elevata causa del mio malanimo è che il Grande Digiunatore, quando decide di privarsi del suo pranzo, un poco guasta anche il mio. Su questo argomento la mia sensibilità è acuta: il solo pensiero che una creatura umana, un figlio di Dio, un mio fratello (sia pure un po’ alla lontana) si astenga a lungo da cibi che pure sono di sua facile disponibilità (e perciò istante dopo istante interpellano naturalmente la sua crescente voracità) mi sconvolge. Una volta appresa la notizia della sciagurata iniziativa, anche l’onesto piatto di tagliatelle, che stava aspettandomi con l’abituale amicizia, perde la sua bonarietà bolognese, mi guarda male, sembra colpevolizzarmi. Ma che c’entro io, nella mia pochezza, con le grandi battaglie dei superuomini? Ma c’è qualcosa di più grave. Le iniziative tipiche del Grande Digiunatore sono in fondo di natura ricattatoria: si tenta con esse di estorcere, attraverso una forma specifica di violenza psicologica e morale, un consenso, una complicità, un adeguamento comportamentale; in certi casi addirittura un provvedimento legislativo e di governo. E questo non è accettabile. L’eventuale valore della tesi, che così si vuole imporre, non attenua affatto l’odiosità del procedimento. Né il convincimento soggettivo maturato in buona fede può costituire una scusante.

Nel mondo contemporaneo il ricatto è un uso abbastanza diffuso, con una fenomenologia molteplice e disparata. Sul ricatto vive l’industria dei rapimenti e delle devastazioni minacciate; di prospettive ricattatorie si serve talvolta l’adolescente che ha deciso di farsi regalare il motorino dai genitori riluttanti; ricatta anche l’uomo politico che preannuncia un’inutile o dannosa crisi parlamentare se non vede soddisfatta una sua pretesa. E così via.

Poco o tanto, sono sempre azioni abominevoli, perché insidiano la libertà di decisione dell’uomo, che si vede se non costretto almeno sospinto a pensare, a parlare, ad agire, contro il suo parere e la sua volontà; e soprattutto contro la ragione. La terza rimostranza è ancora più intrigante. Il Grande Digiunatore non si abbassa mai a spiegare ai “piccoli”, che rapporto ci sia tra la sua “laica” penitenza e la bontà della causa che egli intende promuovere. Egli si sacrifica nobilmente a favore di qualche mèta che gli sta a cuore, ma ritiene superfluo chiarire l’intrinseca relazione tra il suo digiuno e il traguardo che intende conseguire.

La sua è dunque una richiesta di assenso e di condivisione, sollecitata non con la forza di argomentazioni ineccepibili, ma con un metodo che esula da qualsivoglia razionalità. Anzi, la pressione per convincere, esercitata sugli animi, tende a debilitare le menti attraverso la nebbia delle emozioni e della pietà. Dal Grande Digiunatore io mi sento dunque attaccato e offeso nella mia logica sostanziale. E ciò che programmaticamente va contro il dono divino della ragione non può essere tollerato.

La cosa è tanto più abnorme in quanto spesso (non sempre) il Grande Digiunatore è un devoto della conoscenza puramente naturale (e non ammette per principio che si dia altra luce); e quindi del razionalismo più rigoroso. Ma forse qui è il caso di ricordare l’osservazione di Chesterton: «Coloro che usano la ragione non la venerano, la conoscono troppo bene; coloro che la venerano non la usano».