sabato 24 aprile 2010

dopo tanti equilibrismi un po' di equilibrio (finalmente)

Pubblichiamo questo articolo di Rodari che fa finalmente chiarezza su una questione che sta facendo soffrire molti per lo scandalo che sta suscitando e che prima di tutto ha già provocato un funestissimo danno spirituale in molte anime a cominciare da quelle delle vittime: per questo bisogna molto pregare e come ci ha esortato il Papa fare penitenza. Nel mistero della Comunione dei Santi la penitenza anche per i peccati altrui per un cristiano è possibile e doverosa.

Siccome il diavolo non fa i coperchi, la pentola è scoperchiata. Ad aprirla è stato il cardinale Darío Castrillón Hoyos, conservatore, capo del clero sotto Giovanni Paolo II. Dopo aver subìto una dura reprimenda pubblica da parte del portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, il cardinale non si è tirato indietro e ai microfoni della Cnn ha detto quello che molti in Vaticano pensano in silenzio: la chiesa non ha niente da rimproverarsi per come ha trattato, con discrezione e riservatezza, i casi di pedofilia tra i preti. Altro che rimorso.

La tesi di Castrillón è diametralmente opposta a quella sostenuta due settimane fa dall’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn, e non collima di certo con la sostanza della lettera pastorale del Papa al clero irlandese. Per Schönborn nella curia romana ai tempi di Wojtyla c’era chi lavorava per coprire i casi riguardanti preti accusati di pedofilia, tra questi quello del suo predecessore Hans Hermann Groër. Per Castrillón nessuno insabbiava. La prassi era quella di trattare ogni caso con discrezione, il più possibile al riparo dai media.

Dice al Foglio un presule che negli ultimi anni di pontificato di Wojtyla ha avuto un ruolo di responsabilità nella curia romana: “Ha ragione Castrillón. Tutti in curia erano convinti, e secondo me lo sono ancora, che la discrezione sia l’arma migliore per affrontare casi delicati. La giustizia della chiesa si muove su un altro livello rispetto alla giustizia ordinaria. E non sempre i due livelli possono combaciare. Anzi, in certi casi, è opportuno lasciarli distinti, anche per il bene delle vittime. I giornali vorrebbero imporre una ‘totale trasparenza’. Vorrebbero obbligare la chiesa a denunciare alle pubbliche autorità ogni reato i suoi preti commettano. E’ una richiesta subdola. Perché presuppone senza provarlo che fino a oggi la chiesa abbia lavorato per occultare chissà che cosa. Ed è ingannevole perché afferma che soltanto la denuncia alle autorità civili sia la strada legittima tramite la quale la chiesa può trattare questi casi. Si dimentica che la chiesa ha verso i suoi preti una paternità spirituale che nessun tribunale può offrire. Certo, se un tribunale decide di indagare su di un prete nessuno nella chiesa lo ostacolerà. Ma obbligare la chiesa a denunciare i suoi sacerdoti ai tribunali non ha senso. E’ un diritto umano (e non ecclesiastico) che un padre decida di non consegnare un suo figlio all’autorità civile nel momento in cui una terza persona muove un’accusa contro di lui. E’ un diritto che soltanto un rozzo furore giustizialista non riesce ad accettare. La chiesa tratta questi casi con criteri diversi da quelli del mondo e sa che esistono la pietà e la misericordia. Che tra un crimine e una debolezza umana c’è un’enorme differenza. E che esistono il pentimento e il proposito di non peccare più. E che, ancora, esiste il processo canonico le cui pene, se il delitto è accertato, sono per la chiesa ben più importanti degli anni di prigione che un tribunale civile può sentenziare nei confronti di un colpevole”.

Ma Ratzinger nel 2003, all’interno delle linee applicative del Motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela” pubblicato nel 2001, nel quale avocava alla Dottrina della fede la competenza di tutti i casi di abusi su minori commessi da preti, non aveva scritto che “va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte?”. Risponde il presule: “Certo. Ma un conto è chiedere che si seguano le leggi. Un altro è obbligare i vescovi a denunciare. Questo obbligo non c’è in moltissime leggi civili. Né Benedetto XVI ne ha mai parlato”.

Darío Castrillón Hoyos non è un cardinale qualunque. Ha guidato il clero per otto anni. Per nove è stato a capo dell’Ecclesia Dei mediando con i lefebvriani per un finale rientro nella comunione con Roma. Oggi è un porporato ancora molto attivo: gira il mondo a celebrare messe col rito antico suscitando, anche nella chiesa, sentimenti opposti. Domani, ad esempio, avrebbe dovuto essere al Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione di Washington per celebrare una messa antica. Ma le recenti sue dichiarazioni sulla pedofilia nel clero hanno provocato le proteste di un gruppo di vittime di abusi sessuali da parte di preti e così ha dovuto declinare. Prima del 2001 era Castrillón che fungeva da punto di riferimento per i vescovi che nelle proprie diocesi avevano a che fare con casi di pedofilia del clero. E oggi è lui a sollevare un tema divenuto, nelle ultime settimane, tabù.

Tutto comincia pochi giorni fa. Il sito cattolico-progressista francese Golias pubblica la fotocopia di una lettera scritta l’8 settembre 2001 da Castrillón. La lettera è indirizzata al vescovo francese Pierre Pican, oggi a riposo, il quale è stato poco tempo prima condannato a tre mesi con la condizionale per aver rifiutato di denunciare alle autorità civili un suo sacerdote, René Bissey, condannato nell’ottobre del 2000 per abusi sessuali su minori compiuti tra il 1989 e il 1996. Castrillón si congratula con il vescovo francese e gli scrive: “Lei ha agito bene, mi rallegro di avere un confratello nell’episcopato che, agli occhi della storia e di tutti gli altri vescovi del mondo, ha preferito la prigione piuttosto che denunciare un prete della sua diocesi”. Castrillón ricorda che anche san Paolo fu messo in catene. E comunica che la Congregazione del clero “per incoraggiare i fratelli nell’episcopato in una materia così delicata, trasmetterà copia di questa missiva a tutti i vescovi”.

Grazie a Castrillón, Pican viene indicato come esempio per tutti. Pican, il vescovo che non denunciò alle autorità civili un prete accusato di aver abusato di minorenni, viene lodato da uno dei principali collaboratori di Wojtyla. E viene lodato tramite l’invio di una lettera a tutti i vescovi e, dunque, con il placet di Giovanni Paolo II. Il 15 aprile scorso, alla lettera inviata da Castrillón a Pican e pubblicata dal sito Golias, risponde padre Federico Lombardi. In un comunicato sconfessa l’operato di Castrillón: “Questo documento è una riprova di quanto fosse opportuna l’unificazione della trattazione dei casi di abusi sessuali di minori da parte di membri del clero sotto la competenza della Congregazione per la dottrina della fede, per garantirne una conduzione rigorosa e coerente, come avvenne infatti con i documenti approvati dal Papa nel 2001”. Ma Castrillón reagisce. E poche ore dopo ai microfoni della Cnn rivendica la giustezza del proprio agire. E insieme porta alla luce un tema che in queste settimane nessuno nella chiesa osa toccare: la trasparenza come il mondo la intende non fa parte del dna della chiesa. Questa non vuole nascondere nulla. Ma nello stesso non dimentica che l’uomo è peccatore. E che il peccato si combatte in modi diversi.

Dice Castrillón: “Se un vescovo sposta un prete responsabile di abusi su minori da una parrocchia a un’altra, non significa che lo sta coprendo ma semmai che gli sta comminando una giusta punizione”. E, pur rilevando che se il prete è colpevole di abusi occorre procedere immediatamente col processo canonico e la sospensione da ogni incarico, spiega: “Quando una persona commette un errore, che molte volte è stato un errore minimo, e questa persona viene accusata e confessa il suo delitto, il vescovo la punisce secondo quanto può fare per il diritto, la sospende o la manda in un’altra parrocchia. Questo significa punirla, non significa che la si vuole lasciare impunita. Questa non è copertura, ma è rispettare la legge, come fa la società civile, come fanno medici e avvocati, che non perdono per sempre il diritto di esercitare la propria professione”.

Benny Lai scrive di cose vaticane dai tempi di Pio XII. Dice: “I vescovi hanno sempre trattato i preti come dei loro figli. Il loro atteggiamento è sempre stato paterno, di correzione ma anche di comprensione e per questo motivo guardano ancora oggi con un certo sospetto la chiamata alla trasparenza totale fatta dai giornali e dall’intellighenzia laica del mondo. Il loro è un rapporto filiale e non giustizialista verso i sacerdoti. Se necessario puniscono i propri preti, li sospendono o nei casi più gravi tolgono loro l’abito, ma senza mai dimenticarsi di aver pietà di loro e dei loro errori. Sanno, insomma, che il peccato è di ogni uomo e diffidano di quelli che, pur criticando quotidianamente la chiesa, la vogliono immacolata esigendo che siano dei tribunali civili a certificarne il grado. Certo, se un prete ha davvero commesso abusi su minori deve essere punito dalla chiesa come anche dall’autorità civile. Ma ciò non cambia la sostanza: la trasparenza non è il modo con cui la chiesa agisce”.

Gabriella Sartori, storica, biblista, già vicepresidente del Movimento per la Vita del Friuli Venezia Giulia, sorride quando le si parla delle richieste di maggiore trasparenza fatte in questi giorni alla chiesa. Dice: “Sento in continuazione personalità del mondo laico chiedere alla chiesa di fare pulizia, di essere più trasparente. Non credo che la chiesa possa prendere lezioni da questa gente che mentre non fa nulla per tutelare i minori decide di stracciarsi le vesti contro la chiesa”. Tonino Cantelmi è presidente dell’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici (Aippc) e insegna psicopatologia presso la Pontificia università gregoriana. Racconta: “Quando si chiede più trasparenza si chiede una cosa giusta, sebbene nessuno nella chiesa intenda nascondere nulla. Però occorre sapere bene di cosa si parla. I casi di pedofilia nel clero sono pochissimi. La maggior parte degli abusi sono casi di efebofilia e cioè riguardano minori post puberali. La pedofilia è l’attrazione verso bambini pre puberali. Questa si divide in due tipologie. Quella segnata da profondi sensi di colpa. In questi casi il soggetto rivolge le sue attenzioni, spesso soltanto a livello di fantasia, verso gli adolescenti e una corretta terapia può portare dei risultati nel tempo. L’altra è la pedofilia antisociale, priva di sensi di colpa, caratterizzata da un narcisismo maligno. Questo secondo tipo di pedofilia ritengo non possa essere curato. Per questo secondo tipo di patologia occorre puntare al contenimento sociale. E così la chiesa ha sempre cercato di agire. Tra l’altro, in tutta Italia ci sono centri dove queste persone, se davvero hanno problemi, vengono curate”.

Una cosa è la malattia. Un’altra è il peccato. Quest’ultimo la chiesa l’ha “gestito” sempre in forma comunionale. Coi suoi metodi e i suoi mezzi. Perché ogni situazione è diversa dall’altra. E anche perché, per lei, il peccato è una cosa seria. Dice Giorgio Carbone, domenicano, docente di Bioetica e teologia morale presso la facoltà di Teologia di Bologna: “Esiste il sacramento della riconciliazione, volgarmente chiamato confessione. Il sacramento prende il nome dall’azione che Dio compie. Il penitente si confessa e si pente. Dio, invece, riconcilia. Ovvero risana, guarisce. E’ una ‘terapia’ che nessun tribunale civile può dare”. Una terapia sulla quale la chiesa ha sempre imposto il segreto. Perché? “Confessarsi è già di per sé una penitenza. E’ un sacrificio. Il segreto è stato imposto per non rendere ulteriormente odioso questo sacramento. Il confessore non può dire nulla, assolutamente nulla, di quanto viene a sapere nel confessionale. Nemmeno può svelare particolari irrilevanti e che nulla hanno a che fare con i peccati confessati se questi particolari vengono esposti durante il sacramento. E nessun giornale, nessun giudice, potrà esigere la violazione di questo segreto. La pena, del resto, è terribile: per il confessore scatta la scomunica latae sententiae. Nella chiesa Dio agisce. E il mondo non accetta, o probabilmente non capisce, questa azione”.

In fin dei conti questo sembra volere il mondo quando esige una chiesa luogo dell’assoluta trasparenza: il tribunale civile al posto del confessionale. La sentenza al posto della remissione dei peccati. La condanna al posto della penitenza e del perdono. Fu Joseph Ratzinger a scrivere in proposito una pagina memorabile nel 1990. Tenne una conferenza intitolata “Una chiesa sempre riformanda”. Un capitolo lo dedicò alla morale, al perdono e all’espiazione: categorie spesso non comprese dal mondo, non accettate. Categorie che invece Ratzinger ha indicate come l’unico vero centro di effettiva riforma della chiesa: la chiesa che si rigenera grazie alla misericordia e al perdono concessi a chi sbaglia. Nessuna trasparenza. Nessuna democraticità. Solo l’azione di Dio che dall’alto rifà la sua chiesa rigenerandola quando questa si riconosce peccatrice.

“Penitenza”, non a caso, è una parola spesso ripetuta da Benedetto XVI in questi giorni difficili. Disse Ratzinger nel 1990: “Là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi. A grandi linee si può dire che l’odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa, facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. Viene in mente la mordace frase di Pascal: ‘Ecce patres, qui tollunt peccata mundi!’. Ecco i padri, che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi ‘moralisti’, non c’è semplicemente più alcuna colpa. Naturalmente, tuttavia, questa maniera di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro, gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato c’è, che essi stessi sono peccatori e che deve pur esserci una maniera effettiva di superare il peccato. Anche Gesù stesso non chiama infatti coloro che si sono già liberati da sé e che perciò, come essi ritengono, non hanno bisogno di lui, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di lui. La morale conserva la sua serietà solamente se c’è il perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c’è solo se c’è il ‘prezzo d’acquisto’, l’‘equivalente nello scambio’, se la colpa è stata espiata, se esiste l’espiazione. La circolarità che esiste tra ‘morale – perdono – espiazione’ non può essere spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il resto”. Morale, perdono, espiazione: tre fasi per rinascere davanti a Dio e lontano dagli occhi del mondo. E’ questa la giustizia della chiesa.

di Paolo Rodari

pubblicato sul Foglio di venerdì 23 aprile 2010