E "adattarono" il rito delle Esequie smentendo Paolo VI.
Vien proprio voglia di dire: "mai dire mai"
Avete capito  bene il titolo: non sto parlando di Paolo IV o di san Pio V, ma di affermazioni  chiare e precise, approvate in forma specifica da Paolo VI appena nel 1963,  ribadite dall'edizione latina delle Esequie (1969) e mai mutate. Ne ho fatto un post più di due anni fa,  quando già si parlava dell'imminente uscita del nuovo "adattamento" del rito  delle Esequie, e pareva surreale quello che poi è davvero successo.
Pare che non si possa più, neanche in Italia, tradurre la liturgia Romana creata l'altro ieri. No! Bisogna adattare, neanche fossimo in Africa subsahariana. Dove pensano si siano sviluppati i riti romani delle Esequie coloro che hanno confezionato il nuovo adattamento, in Scandinavia?
Pare che non si possa più, neanche in Italia, tradurre la liturgia Romana creata l'altro ieri. No! Bisogna adattare, neanche fossimo in Africa subsahariana. Dove pensano si siano sviluppati i riti romani delle Esequie coloro che hanno confezionato il nuovo adattamento, in Scandinavia?
Non bastava il  massiccio "adattamento" del rito del Matrimonio, dove adesso si può cambiare - a  piacere della coppia - perfino la formula sacramentale del consenso.... Ora si  passa a riempire di ulteriori "oppure" il funerale, in modo da non  avere mai una celebrazione non dico uguale, ma nemmeno simile  all'altra. Un tempo si diceva che almeno la morte rende tutti uguali (e dal  Papa fino all'ultimo fedele laico tutti avevano gli stessi canti nell'ultimo  saluto terreno...)
Ma quello che  mi sconcerta di più è la quasi totale accettazione della cremazione, e si  arriva ad inventare una ritualità e una gestualità estranee al rito vigente, e  pure espressamente vietate da un testo approvato dal Papa del Concilio, Paolo  VI.
I fautori del  Concilio Vaticano Terzo ormai prevengono i concili, mica li  aspettano! Aveva approvato il buon papa Paolo queste ovvie parole (vedi qui): "i riti  della sepoltura ecclesiastica ed i susseguenti suffragi non si celebreranno  mai nel luogo ove avviene la cremazione e neppure vi si  accompagnerà il cadavere". [MAI non vuol dire MAI,  ovviamente. Infatti ora tutto questo non solo è permesso, ma anzi  incoraggiato!]
Questo era il "retrogrado" testo del 1963, che faceva comunque storia per la sua "larghezza", ora leggo con mio stupore e tristezza il seguente paragrafo nella presentazione ufficiale del nuovo Rito delle Esequie:
4. La novità  più significativa della seconda edizione del rituale è costituita sicuramente  dall’Appendice dedicata alle «Esequie in caso di cremazione». Questa parte è  articolata in tre capitoli: «Nel luogo della cremazione», «Monizioni e  preghiere per la celebrazione esequiale dopo la cremazione in presenza dell’urna  cineraria», «Preghiere per la deposizione dell’urna». Dall’esame  delle sequenze rituali proposte e delle indicazioni di carattere pastorale [E il MAI nel luogo della cremazione dove va a finire?  Tanto con i motivi pastorali si aggiusta  tutto, anche le più grosse novità senza radici passano per  motivi pastorali. Quelli che non hanno cittadinanza sono i motivi  dottrinali] possiamo dedurre alcune considerazioni [ma le considerazioni si adducono o si  deducono?].
- La  denominazione di Appendice, oltre a segnalare che non esiste una sua  corrispondenza nell’edizione tipica latina [ci stanno dicendo che  si sono inventati un'intera liturgia che non esiste nell'editio typica.  Miracolo: si adatta pure quello che non c'è!],  vuole richiamare il fatto che la Chiesa, anche se non si oppone alla  cremazione dei corpi quando non viene fatta in odium fidei, [e chi ha detto che non si oppone? Ma li leggono i documenti?  La chiesa non si oppone, di più: RIFUGGE dalla cremazione; ne ha AVVERSIONE,  questo dicono i documenti, non le chiacchiere delle conferenze stampa]  continua a ritenere la sepoltura del corpo dei defunti la forma più idonea a  esprimere la fede nella risurrezione della carne  , ad alimentare la pietà dei fedeli verso coloro che sono passati da  questo mondo al Padre e a favorire il ricordo e la preghiera di suffragio da  parte di familiari e amici.[L'inumazione non è la forma  "più idonea", ma l'unica idonea ad esprimere la risurrezione. La  cremazione al massimo esprime simbolicamente e in maniera ottima, la pena  dell'inferno]
- I vari  capitoli dell’Appendice sono preceduti da un’introduzione nella quale vengono  segnalati i cambiamenti sociali in atto, ribaditi i riferimenti alla dottrina  cristiana e offerte indicazioni di carattere pastorale. 
- La  celebrazione delle esequie precede di norma la cremazione: in questo caso  va posta particolare attenzione alla scelta dei testi più adatti alla  circostanza. [Di norma? Perché ti possono portare in  Chiesa invece di un corpo, un mucchietto di ceneri che NON SONO PIU' un  cadavere? E io le dovrei incensare e benedire? A parte il Mercoledì delle  Ceneri, non se ne benedicono altre in Chiesa...]
-  Eccezionalmente i riti previsti nella cappella del cimitero o presso la  tomba si possono svolgere nella stessa sala crematoria, evitando ogni  pericolo di scandalo e l’introdursi di consuetudini estranee ai valori della  tradizione cristiana. [altro che evitando il  pericolo di scandalo, già a leggere queste cose mi vengono i brividi: i  fuochisti accendono il fuoco per bruciare la nonnina e il prete prega per il  "refrigerio eterno" della cara defunta. Ma scherziamo? Nella sala crematoria? Ma  cosa siamo nei LAGER NAZISTI?]
- Si  raccomanda l’accompagnamento del feretro al luogo della cremazione. [Questo è in aperto contrasto con le norme in vigore fino ad  oggi, che vietavano di accompagnare il feretro alla cremazione, per non far  pensare che sia un'opzione normale tra due possibilità  equivalenti!!]
-  Particolarmente importante l’affermazione che la cremazione si ritiene conclusa  con la deposizione dell’urna nel cimitero da leggersi come conseguenza di quanto  affermato al n. 165 a proposito della prassi di spargere le ceneri in natura o  di conservarle in luoghi diversi dal cimitero. Tale prassi infatti solleva  non poche perplessità sulla sua piena coerenza con la fede cristiana [solleva perplessità... sentite che soft... Si  dovrebbe dire chiaro: disperdere le ceneri è in aperto contrasto anche con il  minimo della fede cristiana, altro che "piena coerenza"], soprattutto  quando sottintende concezioni panteistiche o naturalistiche. Anche se il rituale  non prende netta posizione sul versante disciplinare [sdoganamento totale: come dire "io ti dico di non disperdere  le ceneri, perchè te lo devo dire, ma tu fai come vuoi, non ci sono sanzioni.  Esattamente il contrario di quanto si faceva fino a oggi], offre però  sufficienti elementi per una catechesi e un’azione pastorale che sappiano  sapientemente educare il popolo di Dio alla fede nella risurrezione dei morti,  alla dignità del corpo, all’importanza della memoria dei defunti, alla  testimonianza della speranza nella risurrezione. [Quest'ultima frase è il tocco finale: va catechizzato il  bruciare il corpo, invece di deporlo nella terra a mo' di seme, come prescrive  la Scrittura (san Paolo) e come ha fatto con ovvietà ogni cristiano fin dalle  origini, distanziandosi dai riti pagani, ove c'erano, di cremazione. E questo è  il ritorno alle origini della liturgia? Ma quali testi possono citare a supporto  di queste inaudite innovazioni? E che catechesi volete che rimanga? Brucia  tutto, tanto non serve più, SOLO l'anima conta... Si va verso lo spiritualismo  negatore della risurrezione. Alla faccia della nuova Evangelizzazione. Devo dire  che sono amareggiato che tale testo abbia ricevuto la  recognitio.]
Siamo al  trionfo del linguaggio politically correct. Della correzione e  ribaltamento - a seconda del cambiamento del vento che spira nella società -   perfino della dottrina. Quello che l'altro ieri era vietato, ieri era poi  tollerato, oggi è ammesso di diritto e domani sarà l'unica forma rimasta. Un  passo dopo l'altro si cambia la liturgia e si finisce per cambiare -  invevitabilmente - la dottrina. Perché la liturgia plasma l'anima dei  fedeli.
E tutto in  nome del "sentimento", della "vicinanza pastorale". Non importa la verità del  segno (che in altri contesti invece pare un dogma di fede), è prioritario non  offendere, non dare l'impressione che la Chiesa non approvi... Non bisogna  essere fraintesi. Non bisogna apparire attaccati ai propri riti secolari,  l'importante e non allontanare. "Tanto i morti non si lamentano" (mi ha detto un  prete!!!).
Mi domando:  a quando il rito delle seconde nozze dei divorziati nell' "Appendice" del  prossimo "adattamento" del rituale del Matrimonio? E perché non pensare di  inserire nel Messale di prossima stampa un "rito straordinario" della  "celebrazione festiva" in assenza del presbitero presidente. Il rito c'è già,  basta metterlo in appendice. Non importa se non esiste il latino, suvvia, un po'  di fantasia.  E dimenticavo: la confessione per telefono? Perché non introdurla?  Era vietata prima, ma adesso chi non ha un telefonino in tasca? I tempi sono  cambiati.... Quello che si faceva ieri, anzi oggi, domani cambia.
Se pensate  che abbia esagerato, vi ristampo qui sotto le norme TUTTORA VIGENTI del 1963  approvate da Paolo VI e che aveva portato all'equilibrata soluzione che fino ad  oggi esisteva. Ecco l'istruzione sulla Cremazione dei cadaveri, nella sua parte  normativa:
La  santa madre Chiesa, attenta direttamente al bene spirituale dei fedeli, ma non  ignara delle altre necessità, decide di ascoltare benignamente queste richieste,  stabilendo quanto segue:
1. Deve essere usata ogni cura perché  sia fedelmente mantenuta la consuetudine di seppellire i cadaveri dei  fedeli; perciò gli ordinari con opportune istruzioni ed ammonimenti cureranno  che il popolo cristiano rifugga dalla cremazione dei cadaveri, e non receda,  se non in casi di vera necessità, dall'uso della inumazione, che la Chiesa  sempre ritenne e adornò di solenni riti.
2. Tuttavia, per non accrescere le  difficoltà di ogni sorta e per non moltiplicare i casi di dispensa dalle leggi  vigenti, è sembrato conveniente apportare qualche mitigazione alle disposizioni  del diritto canonico, cosí che quanto è stabilito nel can. 1203, pp. 2 (vietata  esecuzione del mandato di cremazione) e nel can. 1240, pp. 1, n. 5 (diniego di  sepoltura ecclesiastica a chi ha chiesto la cremazione) non sia piú da  osservarsi in tutti i casi ma solo quando consti che la cremazione sia voluta  come negazione dei dogmi cristiani, o con animo settario, o per odio contro la  religione cattolica e la Chiesa.
3. Ne  segue che a chi abbia chiesto la cremazione del proprio cadavere non dovranno  essere negati, per questo motivo, i sacramenti ed i pubblici suffragi, a meno  che consti avere egli fatto tale richiesta per i motivi sopra indicati, ostili  alla vita cristiana.
4. Per  non indebolire l'attaccamento del popolo cristiano alla tradizione ecclesiastica  e per  mostrare l'avversione della Chiesa alla cremazione, i riti della sepoltura  ecclesiastica ed i susseguenti suffragi non si celebreranno mai nel luogo ove  avviene la cremazione e neppure vi si accompagnerà il cadavere.
Gli em.mi padri preposti alla difesa della fede  e dei costumi hanno riveduto questa Istruzione l'8 maggio 1963; e il Papa Paolo  VI si è degnato di approvarla nell'udienza concessa all'em.mo segretario del  Sant'Offizio il 5 luglio dello stesso anno
Testo preso da: Cantuale Antonianum
LA TEOLOGIA DELLE ESEQUIE  CRISTIANE
Uno degli errori oggi più diffusi è quello di  sottovalutare le basi teologiche e impostare dei progetti pastorali senza il  fondamento dottrinale, con esclusiva attenzione alle urgenze sociologiche. In  tal modo tutto diventa fragile e, in poco tempo, anche un progetto alquanto  elaborato viene travolto dal passare di quelle opinioni momentanee che l’hanno  generato. Questa insipienza, tipica del relativismo, porta a non dedicare  sufficiente tempo ed energie alla formazione teologica e, non considerandone  adeguatamente la sua necessità essenziale, tutta la costruzione è posta in stato  permanente di crollo. E’ ciò che avviene anche nel tessuto ecclesiale, quando  miriadi di pubblicazioni e interminabili riunioni producono frutti effimeri e  bruciano inutilmente le migliori intenzioni. Di qui lo stato diffuso di  spossatezza e di inefficacia, che debilita i pastori e i fedeli.
Anche riguardo alle esequie ecclesiastiche, una  pastorale intelligente, duratura ed efficace sul popolo di Dio, non può che  basarsi su una solida teologia, che illumini e giustifichi il senso dei riti  liturgici. Il Sommo Pontefice Benedetto XVI è maestro di questa rifondazione  teologica a tutto l’agire della Chiesa e il suo magistero, se accolto con  docilità, porterà la Chiesa a quella solidità di pensiero e di azione, che è  intrinseca alla rivelazione divina e che non ammette il dubbio sistematico e la  vaporosità di una ricerca mai conclusa e fine a se stessa. Per questa urgente  opera di rifondazione teologica il Papa esordisce indicando come prima emergenza  proprio la Liturgia, culmen et et fons’ della vita della Chiesa. Le sue omelie,  in particolare, introducono i fedeli nella celebrazione dei santi Misteri in  linea con la più classica tradizione mistagogica dei Padri, costituendo un  esempio di alto profilo per tutti i sacerdoti.
Le esequie cristiane si rapportano alle due  dimensioni costitutive dell’uomo: l’anima e il corpo. La Chiesa eleva il pio  suffragio per l’anima immortale del defunto, nella speranza della sua eterna  salvezza, e ne onora con una degna sepoltura il corpo esanime, nell’attesa della  sua risurrezione.
I riti esequiali descrivono e trasmettono  fondamentali articoli di fede, che costituiscono la ‘forma’ interiore e il senso  dei riti esteriori trasmessi dalla tradizione liturgica.
Possiamo allora individuare i principali dogmi  che vi sono sottesi.
1. L’immortalità dell’anima
Nelle esequie cristiane spira una presenza  soprannaturale, che ci fa percepire che l’anima del defunto non è estinta nel  nulla, ma è viva, perché immortale. Sta ora sul versante ultraterreno, è uscita  dal regime della fede ed è entrata nella dimensione dell’ eternità. Pur separata  dal corpo, sussiste nell’esercizio, per quanto misterioso ma reale, delle sue  facoltà spirituali. Tale certezza fa delle esequie una celebrazione di vita e di  profonda serenità, pur nell’amarezza delle lacrime per il distacco e apre i  credenti all’attesa di un rinnovato incontro con chi vive e ci aspetta lassù,  come ben si esprime una monizione del rito delle esequie: “…di nuovo infatti,  potremo godere della presenza del fratello nostro e della sua amicizia e, questa  nostra assemblea, che ora con tristezza sciogliamo, lieti un giorno nel regno di  Dio ricomporremo” (Rito delle Esequie, n. 73).
2. Il purgatorio
La Chiesa sa bene che ogni uomo è peccatore e,  nonostante il lavacro battesimale, a causa della concupiscenza, la vita della  Grazia è fragile e l’itinerario terreno faticoso e incerto. Al di là del perdono  sacramentale, elargito ordinariamente mediante il sacramento della Penitenza, la  Giustizia divina esige una adeguata riparazione, prima che l’anima possa  accedere alla gloria: è il dogma del purgatorio. La Chiesa, dunque, non presume  mai nei suoi figli quello stato perfetto di santità, che solo Dio può  riconoscere e, umilmente, invoca misericordia, eleva il suffragio e si mantiene  sotto il giogo della penitenza. Per questo lo stile della liturgia esequiale è  penitenziale: nel colore (viola o nero), nell’addobbo (assenza di fiori), nel  tenore delle orazioni e nei canti. La Chiesa non ‘canonizza’ il defunto, ma lo  affida a Dio con il cuore contrito ed umiliato e aspetta solo da Lui la lode. In  qualche modo, nelle esequie, la Chiesa, secondo la parabola evangelica del  banchetto nuziale (Lc 14, 7ss.), pone il defunto all’ultimo posto, steso a terra  ai piedi della ‘santa mensa’, e attende che Dio stesso, e solo Lui, sorga e dica  “Amico, passa più avanti” (Lc 14, 10).
3. La comunione dei Santi
La Chiesa sa di poter comunicare  misteriosamente con i Defunti, di poterli affidare realmente alla misericordia  di Dio, di avere con loro una misteriosa solidarietà soprannaturale e ricevere  il beneficio di una invisibile e valida intercessione. Per questo educa i suoi  figli, ancora peregrini qui in terra, a mantenere una continua comunione con  coloro che ci hanno preceduti nel segno della fede e dormono il sonno della  pace. Le persone amate e tutti quelli che ci hanno fatto del bene ci seguono, ci  amano con carità soprannaturale e intercedono per noi secondo i disegni di Dio.  Essi ci attendono là dove ogni lacrima sarà asciugata e si vedrà il volto di  Dio. S. Cipriano afferma tutto ciò con squisita dolcezza: “Là ci attende un gran  numero di nostri cari, ci desiderano i nostri genitori, i fratelli, i figli in  festosa e gioconda compagnia, sicuri ormai della propria felicità, ma ancora  trepidanti per la nostra salvezza” (Lit. Ore, Uff. lett. venerdì 34° sett.  ord.).
Soffermiamoci a questo punto a considerare gli  effetti che la secolarizzazione sta oggi producendo, entrando violentemente  nella liturgia esequiale della Chiesa. Il cuneo che ne consente l’ingresso è  costituito da un concetto di ‘pastorale’ intesa ormai solo come accondiscendenza  sociologica all’ambiente, senza più riferimento al Mistero della fede.
La mentalità secolarizzata dominante cancella  totalmente i dogmi della fede sopra esposti e svuota di conseguenza lo spirito e  la lettera dei riti liturgici stabiliti dalla Chiesa, che vengono devitalizzati,  alterati e, infine, omessi e reinventati.
Mentre le esequie ecclesiastiche sono  celebrazioni vive nel presente e rivolte al futuro, aperte alla speranza  teologale e alla luce mirabile di ciò che ancora non vediamo, le esequie  secolarizzate sono irreversibilmente rivolte al passato, travolte dal flusso  inesorabile del tempo e fragili come la memoria psicologica. Infatti, se il  defunto è nel nulla e di lui non rimane niente come persona viva, se insomma  l’immortalità dell’anima è negata, resta solo il triste ricordo, totalmente sul  versante del passato e inesorabilmente sempre più flebile, fino alla sua  graduale dissoluzione. Per questo la secolarizzazione accentra la celebrazione  sulla commemorazione del defunto. Essa, infatti, è il perno rituale nelle  esequie profane. Ma la commemorazione è sguardo al passato. La persona  commemorata né vive, né più ritornerà. Di essa rimangono solo le sue idee, il  suo esempio e le sue opere: tutte realtà compiute dalla persona estinta, ma  prive del soggetto vivo che le ha prodotte e quindi affidate alla  interpretazione positiva o negativa dei posteri, come anche alla loro totale  obliterazione.
Se l’anima non vive più, diventa del tutto  inutile la preghiera di suffragio per l’eventuale purificazione ultraterrena.  Col dogma dell’immortalità dell’anima cade pure quello sul purgatorio e quello  della comunione dei Santi. Così in linea con la secolarizzazione si farà ampio  uso dell’elogio.
Non resta, infatti, che celebrare con enfasi  quei ‘fasti’, che ora sono retaggio della memoria di chi ha conosciuto il  defunto. La compiacenza verso i parenti o verso le istituzioni a cui apparteneva  esige che un grande elogio funebre consoli chi resta e giustifichi l’ideologia o  l’istituzione a cui il defunto aderiva. Ebbene la commemorazione e l’elogio  stanno inquinando in modo esteso le esequie cristiane, sia in certe omelie, come  soprattutto in interventi disseminati nel tessuto del rito esequiale e proposti  in momenti rituali e luoghi sacri del tutto impropri. La ‘canonizzazione’ del  defunto si manifesta anche nei riti: l’uso facile di paramenti bianchi e canti  di superficiale sentimentalismo stanno corrompendo la liturgia esequiale  cristiana, che da molte parti non esiste più nella sua vera identità. Gli  applausi sono i prodotti secolaristici delle acclamazioni liturgiche e un  buonismo livellante sta cancellando ogni annunzio rigoroso del dogma della fede.  Quella sobrietà e delicata circospezione che la Chiesa raccomanda, sia nel  ricordare il defunto, come nel proporlo ad eventuale esempio ai fedeli, sta  cedendo di fronte all’irruzione del costume dominante, che ormai costringe e  assedia con modelli imposti violentemente dall’opinione.
Le esequie si rapportano anche al corpo del  defunto, che sta per ricevere degna sepoltura. Ed anche verso di esso i riti  della Chiesa rivelano e comunicano importanti dogmi di fede, che completano  quelli già sopra descritti.
4. Il peccato originale
Il corpo quando è vitale sta in posizione  eretta, ma, appena la vita lo abbandona, cade a terra e rimane disteso. Tutti  gli uomini non possono che constatare questo fatto fisico. E’ quindi questa la  posizione più naturale del corpo esanime nelle esequie. La Chiesa però non si  ferma a questo dato e annunzia un mistero più profondo: l’uomo muore a causa del  peccato originale, secondo le stesse parole del Signore Dio “…polvere tu sei e  in polvere tornerai!” (Gen 3, 19). Deponendo il corpo dei suoi defunti, la  Chiesa proclama la realtà del peccato originale, di cui la morte corporale è  frutto e immagine. Essa non è secondo il piano di Dio, infatti: Dio non ha  creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, ma la morte è entrata nel  mondo per invidia del diavolo (Sap 1, 13.2, 24). In tal senso il Miserere (Sl  50) è parte tradizionale delle esequie cristiane: ‘nel peccato mi ha concepito  mia madre’. Il corpo disteso a terra, quasi a contatto con essa, proclama in  modo visivo il nostro essere peccatori, pagandone il prezzo con la perdita  dell’immortalità e portando nella nostra carne fino alle ultime conseguenze il  castigo divino, pronunziato fin dalle origini: “…tornerai alla terra, perché da  essa sei stato tratto…” (Gen 3, 19).
5. L’ultima penitenza
La morte corporale è l’ultimo atto della  necessaria penitenza dovuta al peccato. Tutti, per quanto eminenti in santità,  devono passare per questo estrema prostrazione penitenziale. Il Signore stesso,  senza peccato, ha voluto subire nella sua morte e sepoltura, quella abissale  umiliazione penitenziale che ci ha redenti. Ed ecco che il corpo senza vita del  defunto, deposto davanti all’altare, in qualche modo celebra il suo ultimo atto  penitenziale: il giacere esanime sulla terra. Lo aveva ben compreso S. Francesco  di Assisi, che in prossimità della morte, volle farsi deporre dai suoi  confratelli sulla nuda terra e così esalare l’ultimo respiro. Lo comprese il  Papa Paolo VI, che volle il suo feretro a contatto con la terra e in tal modo  ispirò la forma più eloquente del rito cristiano delle esequie. Ma il defunto  non giace da solo, la tradizione pone sulla bara la Croce. Egli giace in  misteriosa solidarietà col mistero della sepoltura del Signore e lo Spirito  custodisce la sua carne in attesa del risveglio.
6. La risurrezione della carne
Il feretro è vigilato dal Cero pasquale, che  dal suo candelabro illumina le tenebre della morte: è Cristo risuscitato dai  morti, primizia di coloro che sono morti (1 Cor 15, 20). Se la croce sulla bara  annunzia la solidarietà con la morte del Signore, il Cero pasquale annunzia la  futura risurrezione di questa medesima carne, che ora sta esanime e immota. Poi  quel corpo sarà deposto nel cimitero, ossia nel dormitorio, termine cristiano  per affermare il misterioso ma vero risveglio nell’ultimo giorno. Tutto quindi  parla di vita, anche per la carne e non solo per l’anima; e questa è la novità  più tipica dell’escatologia cristiana, che annunzia una salvezza integrale della  totalità della persona, anima e corpo.
Ed ecco, che, appena la secolarizzazione invade  il rito cristiano delle esequie, pure questi altri dogmi della nostra fede  vengono letteralmente cancellati e alla loro rimozione segue, inevitabile, una  liturgia di sostituzione, che interpreta la nuova visione. Se cade il dogma del  peccato originale, cade quello della penitenza quale necessità per il peccato e,  se già l’anima è estinta nel nulla, ancor più il corpo è ormai inteso come  materiale inerte, senza la profondità propria del mistero di Dio, che lo  risusciterà. Anche riguardo al corpo nelle esequie secolarizzate lo sguardo è  irrimediabilmente rivolto al passato: non c’è l’orizzonte luminoso sul Dio dei  viventi e l’attesa dell’opera meravigliosa, che Egli compirà nel giorno della  risurrezione. I riti allora dovranno interpretare la visione dell’uomo terreno,  ormai privo del trascendente. Il corpo subisce la fatua celebrazione di ciò che  fu nel passato mediante il tumolo, monumento celebrativo che vuole interpretare  la personalità dell’estinto. Si metterà in luce il suo ruolo, la sua autorità,  il suo genio, la sua opera, ma al contempo si creerà una graduazione di classi  in base al censo, o al ruolo sociale. Comunque sarà oscurata sia la fondamentale  realtà della morte che tutti accomuna, sia dell’umile penitenza che è intrinseca  allo stato del corpo morto. Il tumolo potrà avere diverse tipologie, che da  quelle storiche arrivano a quell’ingombro di oggetti, cari al defunto, che oggi  coprono, talvolta banalmente la bara, ma rappresenta sempre il segno eloquente  di quella commemorazione rivolta irrimediabilmente al passato e ormai priva di  vita, che sarà tanto più accentuata quanto più si eclisserà il senso della  trascendenza e il compimento ultimo nel futuro di Dio. Non si intende qui  considerare le diverse forme storiche, assunte anche dalla liturgia della  Chiesa, ma assicurare che in ogni forma antica o nuova non venga mai compromesso  il carattere cristiano e i diversi aspetti del dogma della fede che vi sono  connessi e che nelle modalità rituali devono essere ben visibili. E’ altresì  evidente che nella celebrazione profana delle funerali il tumolo col cadavere  elevato e onorato diventa l’icona centrale, il punto ottico di attrazione, ma  nella celebrazione esequiale cristiana, invece, nessuno dovrà mai attentare alla  centralità, al primato e alla sacralità dell’altare. Anche il corpo esanime del  defunto è orientato all’altare, davanti ad esso sta prostrato e da esso, sul  quale si compie il Sacrificio incruento della Croce, scaturisce la sorgente viva  della salvezza eterna dell’anima e il soffio vitale che risusciterà la carne  nell’ultimo giorno. A nessuno, dunque, è lecito attentare alla maestà  dell’altare!
Un ultimo dogma della fede sta a fondamento del  carattere proprio delle esequie cristiane:
7. Il giudizio particolare da parte  dell’unico giudice costituito da Dio, il Signore Gesù Cristo.
Occorre non dimenticare ciò che afferma  l’Apostolo: Io neppure giudico me stesso… Il mio giudice è il Signore (1 Cor 4,  4). La Chiesa, ispirando a sobrietà la commemorazione del defunto ed evitando un  superficiale elogio, sa bene che solo Dio è il giudice e solo Cristo sa quello  che c’ è nel cuore dell’uomo (Gv 2, 25). Quello che di una persona apparve in  vita potrebbe essere una ingannevole maschera, infatti l’uomo guarda  all’apparenza, ma Dio guarda al cuore (1 Sam 16, 7). S. Agostino afferma: “Quale  uomo infatti è in grado di giudicare un altro uomo? Il mondo è pieno di giudizi  avventati. Colui del quale dovremmo disperare, ecco che all’improvviso si  converte e diviene ottimo. Colui dal quale ci saremmo aspettati molto, ad un  tratto si allontana dal bene e diventa pessimo…. Che cosa sia oggi ciascun uomo,  a stento lo sa lo stesso uomo. Tuttavia fino a un certo punto egli sa cosa è  oggi, ma non già quello che sarà domani…” (dal ‘Discorso sui pastori’). Per  questo la Chiesa si discosta dal giudizio e lo affida a Dio, restando in  profonda adorazione del Suo giusto verdetto. Ciò non succede nelle esequie  secolari, che impostano inevitabilmente la loro celebrazione sul mero tessuto  dell’apparenza umana dell’estinto e si pronunziano solo sulla corteccia  superficiale delle sue opere esteriori. Lo sguardo umano non può, infatti,  andare oltre a ciò che appare e il mistero della persona rimane velato. Solo Dio  penetra quel velo, scruta le facoltà interiori e pronunzia un giudizio vero,  inappellabile e definitivo. Anzi, mediante l’elogio, tale apparenza tende ad  essere potenziata e, omessa ogni scoria e debolezza, viene idealizzata, perché  non resta altro che ciò che appare. Non raramente poi la verità oggettiva in  ordine al bene e al male viene oscurata da una commemorazione riduttiva, posta a  servizio delle tante umane convenienze di coloro che rimangono. Certo non si  intende delegittimare la giusta commemorazione e il dovuto elogio, se il defunto  veramente lo merita. Infatti le esequie del Giusto dovrebbero essere il suo  ultimo atto di evangelizzazione e la consegna alla Chiesa, che lo ha generato,  della sua estrema testimonianza di fedeltà e di vita in Cristo. Tuttavia sono  diversi i toni, sobri gli accenni, umili i ricordi, contenuti i tempi e mai  dovrà essere incrinato o in qualche modo oscurato il primato di Cristo e del suo  Mistero. Egli è il Protagonista e con Lui la Chiesa, non dissociabile da Lui  Sposa. In realtà ogni intervento indebito sul rito liturgico delle esequie  espone il defunto ad un protagonismo che non deve avere e strumentalizza la fede  e la liturgia al servizio del piccolo orizzonte di ciò che noi percepiamo.
Se non si interviene con urgenza e  determinazione nella liturgia esequiale, come in molti altri campi della vita  della Chiesa attuale, si arriverà, in un futuro molto prossimo, ad essere posti  al servizio delle opinioni e del costume dominante e si potrebbe seriamente  rischiare che l’eresia sia attribuita all’ortodossia, resa minoritaria, e a  coloro che con tutte le forze cercano di mantenersi fedeli al dogma della fede e  alla disciplina della Chiesa.
Che una solida teologia sia a fondamento di una  nobile liturgia e l’intelligente obbedienza alle prescrizioni della Chiesa offra  al popolo di Dio una edificante e degna celebrazione delle esequie dei figli di  Dio.
Testo preso da: Una sintesi della teologia delle esequie cristiane http://www.cantualeantonianum.com/2010/10/una-sintesi-della-teologia-delle.html#ixzz1oLqnRiPy
http://www.cantualeantonianum.com
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
