Le oscillanti tesi sulla Tradizione
nei documenti del Concilio Vaticano II
 Per la fede illuminata, per la benigna profondità 
del pensiero, per la stupefacente erudizione e per l’obbedienza al sommo 
Pontefice, monsignor Brunero Gherardini è ritenuto universalmente legittimo 
erede e continuatore della prestigiosa scuola teologica romana e sicura guida 
alla corretta lettura dei non sempre univoci documenti del Vaticano 
II.
 Per la fede illuminata, per la benigna profondità 
del pensiero, per la stupefacente erudizione e per l’obbedienza al sommo 
Pontefice, monsignor Brunero Gherardini è ritenuto universalmente legittimo 
erede e continuatore della prestigiosa scuola teologica romana e sicura guida 
alla corretta lettura dei non sempre univoci documenti del Vaticano 
II.
Nel numero 3/2012 dell’autorevole rivista 
Divinitas, monsignor Gherardini pubblica un saggio di ermeneutica della 
continuità, un testo magistrale, che finalmente dirada le nebbie, fatte scendere 
dall’immotivata euforia degli scolarchi modernizzanti sull’antica, indeclinabile 
dottrina, che contempla le due fonti della Verità cattolica, la Tradizione e la 
Sacra Scrittura.
La finalità dello scritto inteso a far 
chiarezza, dopo tanti fraintendimenti, sul concetto di Tradizione, è ristabilire 
l’unità cattolica, oggi insidiata dalle aspre dispute intorno all’ermeneutica 
della continuità o all’ermeneutica della rottura.
Afferma monsignor Gherardini:
«C’è un valore di fondo, cui di necessità si richiama l’ermeneutica della continuità, sistematicamente infranto, però, da quella della rottura: la Tradizione. Se si riesce ad impostarne correttamente l’argomento, i lamentati litigi fra le due ermeneutiche non avranno più motivo né occasione d’insorgere, anzi, non potranno più esserci due ermeneutiche. Dal canto loro pastori, teologi, studiosi e lettori del Vaticano II troveranno, in questo stesso valore, la chiave di volta per un’obiettiva e corretta interpretazione conciliare».
Correttamente l’Autore avvia il suo 
ragionamento stabilendo l’esatto significato della parola Tradizione:
«La spiegazione etimologica di tradizione descrive un arco linguistico che, con radici nel lontano ebraico/aramaico, risale attraverso il greco e il latino e si riproduce come un calco dell’espressione latina nella lingua italiana, così come in altre lingue e sempre con lo stesso significato di trasmissione-consegna».
Stabilito che la comunicazione orale è lo 
strumento della Tradizione e che la Tradizione emerge come fonte della Fede e 
della Verità rivelata, l’Autore rammenta che gli Apostoli hanno derivato il loro 
concetto di Tradizione molto più dal mondo giudaico che da quello 
ellenistico:
«Stando al pensiero di J. Raft, si tratta sempre e comunque d’una tecnica di trasmissione e comunicazione orale della verità rivelata, della qual cosa fa fede lo stesso Paolo, il quale trasmette, secondo il modello della scuola rabbinica cui appartiene, quanto ha egli pure ricevuto. Con lui ne fanno fede le comunità cristiane che accolgono il messaggio degliA come quello stesso di Cristo».
In tal modo è dimostrato che la Tradizione «è 
la vita stessa della Chiesa, oltre che la sua Fede e la sua prassi, solo se è 
apostolica». La Tradizione ovviamente non la Sacra Scrittura, che «trova anzi in 
questa la sua fondazione. È essa stessa evangelo o lieta notizia come lo è la 
scrittura, pur non essendo unum et idem né qualitativamente né 
quantitativamente, con essa».
Il riconoscimento delle due fonti della Fede 
cattolica – «la teoria delle due fonti, una indipendente dall’altra ma ambedue 
collegate insieme dal Magistero ecclesiastico nell’unità di un’unica e medesima 
Fede» – allontana la tentazione di menomare alcune verità di Fede, ad esempio i 
dogmi mariani, dedotti dalla Tradizione e non dalla Sacra Scrittura. Una 
tendenza rovinosa, che si è impadronita del pensiero degli ermeneuti della 
discontinuità, suggestionati e infatuati dall’errore intorno alla sola scriptura 
dettato dalla rabbia antiromana a Martin Lutero.
Opportunamente l’Autore cita l’insegnamento 
solenne del Concilio Tridentino e del Vaticano I, che conferma la dottrina sulle 
due fonti della Fede. E ai teologi che insistono sul fatto che il Tridentino non 
cita espressamente le due fonti replica umoristicamente:
«Se il Tridentino non parla di due fonti, è solo perché confida nella capacità dei suoi destinatari d’arrivare a due sommando uno-più-uno e d’ammettere come incontestabile la decisione infallibile del Concilio circa l’esistenza di tradizioni non scritte, distinte in quanto tali dalla tradizione biblica».
Rassicurato e sostenuto infine da 
incontestabili argomenti, l’Autore può ignorare la temeraria opinione dei 
teologi che giudicano ereticale la qualunque flebile obiezione ai testi del 
Vaticano II  e affrontare la delicata e tormentata questione della continuità 
della Costituzione dogmatica Dei Verbum con la Tradizione cattolica e, in 
special modo, con il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I. 
Al proposito è citato il paragrafo 7 della 
Dei Verbum, in cui il messaggio cristiano 
«vien subito allacciato a due distinti tipi di comunicazione: quello orale della predicazione stessa e quello scritto in cui la predicazione si travasa come annuncio della salvezza».
È dunque stabilito che alcuni punti della 
Dei Verbum sono in linea con l’insegnamento del Tridentino. L’Autore 
elenca la predicazione apostolica come contenuto della Tradizione, la sua durata 
fino alla fine dei tempi, il suo progresso relativo mediante un’ulteriore 
comprensione e spiegazione più profonda della rivelazione, la sua aperta 
professione di fede nell’azione dello Spirito Santo, la sua distinzione dal 
testo scritto.
Di seguito l’Autore rammenta che in Dei 
Verbum la fedeltà al Tridentino e al Vaticano I è indebolita e 
diluita:
«Circa il rapporto fra Tradizione e Sacra Scrittura le congiunge entrambe in base alla medesima sorgente divina dalla quale scaturiscono e le congiunge a tal punto da farne in certo qual modo una cosa sola». [vedi articolo Chiesa e post Concilio]
È evidente che una tale variazione esige un 
chiarimento. Si manifesta infatti l’ineludibile necessità di stabilire «se il 
Vaticano II debba considerarsi l’ultima effervescenza sul tronco sempre vivo 
della Tradizione oppure - come sostengono i bolognesi – l’inizio di un 
Cristianesimo nuovo e di una nuova coscienza della Chiesa».
L’Autore propone di orientare l’ermeneutica 
della continuità alla puntuale, solenne verifica della continuità e della 
rottura nei singoli documenti del Vaticano II e dei suoi 
pronunciamenti. Ultimamente la richiesta ha per oggetto
«un voltafaccia nei confronti di un postconcilio che ha fatto della tautologia l’unico criterio della sua presunta analisi critica: ha spiegato ripetendo alla lettera tutto quello che intendeva spiegare».
Benedetto XVI ha iniziato l’opera  del voltafaccia (eretico secondo l’opinione del 
cabaret teologizzante) dimostrando che nella Gaudium et Spes si propone 
il dialogo con il mondo moderno ma non si formula una credibile definizione di 
esso. Il tabù del Concilio bolognese è infranto. La via indicata da monsignor 
Gherardini è finalmente percorribile.
Piero Vassallo
[Fonte]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
