A parte il titolo come non condividere quanto scritto dai due giornalisti cattolici?  Un richiamo alla prudenza: la "Pietra" è importante che ci sia, ma si agiti il meno possibile e solo quando strettamente necessario, perché poi altrimenti l'edificio traballa; vabbè che nostro Signore ha promesso che non crollerà ma non approfittiamocene! Il card. Grech ha fatto bene a mettere in guardia e Collegio e futuro eletto dalla pericolosità della situazione potenzialmente esplosiva prodottasi con le dimissioni di papa Benedetto: se un Papa deve essere sempre prudente, in questa situazione deve essere doppiamente prudente, altrimenti non arrivano solo articoli come quello sotto, ma scismi e non solo minori.
Questo Papa non ci piace    
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

Quanto sia costata l’imponente esibizione di povertà di cui Papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad Assisi non è dato sapere.
Certo che, in tempi in cui va così di moda la  semplificazione, viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben  poco di francescano. Una partitura ben scritta e ben interpretata, se si  vuole, ma priva del quid che ha reso unico lo spirito di Francesco, il  santo: la sorpresa che spiazza il mondo. Francesco, il Papa, che  abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa la battuta, che  parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a pranzo  con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più  scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto. 
Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica a  esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché,  questa volta, il Papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella  laica a dire che, adesso sì, la chiesa si mette al passo con i tempi.  Tutta roba buona per il titolista di medio calibro che vuole chiudere in  fretta il giornale e domani si vedrà.
Non c’è stata neanche la sorpresa del gesto clamoroso. Ma, anche questa, sarebbe stata ben povera cosa, visto quanto Papa  Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di pontificato culminato  negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista a Civiltà  Cattolica.
Gli unici a trovarsi spiazzati, in questo caso, sarebbero stati i  “normalisti”, quei cattolici intenti pateticamente a convincere il  prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è  cambiato. E’ tutto normale e, come al solito, è colpa dei giornali che  travisano a bella posta il Papa, il quale direbbe solo in modo diverso  le stesse verità insegnate dai predecessori.
Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del mondo,  riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità”, chiede per  esempio Scalfari nella sua intervista, “esiste una visione del Bene  unica? E chi la stabilisce?”. “Ciascuno di noi”, risponde il Papa, “ha  una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a  procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. “Lei, Santità”,  incalza gesuiticamente Eugenio, al quale non pare vero, “l’aveva già  scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva  detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello  sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo  ripeto”, ribadisce il Papa, al quale non pare vero neanche a lui.  “Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di  seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe  questo per migliorare il mondo”.
A Vaticano II già concluso e a postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della “Veritatis splendor”, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del pensiero  moderno”, che  “si sono attribuite alla coscienza individuale le  prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide  categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è  giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio  morale”. Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile  conciliare il Bergoglio 2013 con il Wojtyla 1993.
Al cospetto di tale inversione di rotta, i giornali fanno il loro  onesto e scontato lavoro. Riprendono le frasi di Papa Francesco in  evidente contrasto con ciò che i papi e la chiesa hanno sempre insegnato  e le trasformano in titoli da prima pagina. E allora il “normalista”,  che dice sempre e ovunque quello che pensa l’Osservatore Romano, tira in  ballo il contesto. Le frasi estrapolate dal benedetto contesto non  rispecchierebbero la mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è la storia  della chiesa che lo insegna, certe frasi di senso compiuto hanno senso e  vanno giudicate a prescindere. Se in una lunga intervista qualcuno  sostiene che “Hitler è stato un benefattore dell’umanità”, difficilmente  potrà cavarsela davanti al mondo invocando il contesto. Se un Papa dice  in un’intervista “io credo in Dio, non in un Dio cattolico” la frittata  è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la chiesa giudica le  affermazioni dottrinali isolandole dal contesto. Nel 1713, Clemente XI  pubblica la costituzione “Unigenitus Dei Filius” in cui condanna 101  proposizioni del teologo Pasquier Quesnel. Nel 1864, Pio IX pubblica nel  “Sillabo” un elenco di proposizioni erronee. Nel 1907, San Pio X allega  alla “Pascendi dominici gregis” 65 frasi incompatibili con il  cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire che l’errore, quando  c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al “Denzinger” non  farebbe male.
Per altro, nel caso delle interviste di Bergoglio, l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose. Quando, per esempio, Papa Francesco dice a Scalfari che “il  proselitismo è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega  che si sta parlando del proselitismo aggressivo delle sette  sudamericane. Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari:  “Non voglio convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione autentica,  quando si definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si intende  il lavoro fatto dalla chiesa  per convertire le anime al cattolicesimo.
Sarebbe difficile interpretare il concetto altrimenti, alla luce  delle nozze tra Vangelo e mondo, che Francesco ha benedetto  nell’intervista alla Civiltà Cattolica. “Il Vaticano II”, spiega il  Papa, “è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura  contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che  semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta  ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un  servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una  situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di  continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica  di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del  Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo  messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce  del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà  avvenire, a ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in  mora la rilettura precedente: nient’altro che il concilio permanente  teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini. 
Su questa scia, si sta alzando sull’orizzonte l’idea di una  nuova chiesa, “l’ospedale da campo” evocato nell’intervista a Civiltà  Cattolica dove pare che i medici fino a ora non abbiano fatto bene il  loro mestiere. “Penso anche alla situazione di una donna che ha  avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito”,  dice sempre il Papa. “Poi questa donna si è risposata e adesso è serena  con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente  pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il  confessore?”. Un discorso costruito sapientemente per essere concluso da  una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento, quasi a  sottolineare l’inabilità della chiesa di rispondere. Un passaggio  sconcertante se si pensa che la chiesa soddisfa da duemila anni tale  quesito con una regola che permette l’assoluzione del peccatore, a patto  che sia pentito e si impegni a non rimanere nel peccato. Eppure,  soggiogate dalla straripante personalità di Papa Bergoglio, legioni di  cattolici si sono bevute la favola di un problema che in realtà non è  mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per duemila anni di  presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a ringraziare il  vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto un problema  non c’era, ma per averlo inventato.
L’aspetto inquietante del pensiero sotteso a tali  affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale  e misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra. Ma la  chiesa, da sempre, insegna e vive esattamente il contrario. Sono la  percezione del peccato e il pentimento di averlo commesso, insieme al  proposito di evitarlo in futuro, che rendono possibile il perdono di  Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la assolve, ma la congeda  dicendo: “Va, e non peccare più”. Non le dice: “Va, e sta tranquilla che  la mia chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale nella tua vita  personale”.
Visto il consenso praticamente unanime nel popolo cattolico e  l’innamoramento del mondo, contro il quale però il Vangelo dovrebbe  mettere in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi di Papa Francesco  hanno cambiato un’epoca. In realtà, si assiste al fenomeno di un leader  che dice alla folla proprio quello che la folla vuole sentirsi dire. Ma è  innegabile che questo viene fatto con grande talento e grande mestiere.  La comunicazione con il popolo, che è diventato popolo di Dio dove di  fatto non c’è più distinzione tra credenti e non credenti, è solo in  piccolissima parte diretta e spontanea. 
Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla Giornata mondiale della gioventù, a  Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai mezzi di comunicazione che si  incaricano di fornire gli avvenimenti unitamente alla loro  interpretazione.
Il fenomeno Francesco non si sottrae alla regola fondamentale del  gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve quasi a diventarne connaturale.  Il meccanismo fu definito con grande efficacia all’inizio degli anni  Ottanta da Mario Alighiero Manacorda in un godibile libretto dal  godibilissimo titolo “Il linguaggio televisivo. O la folle anadiplosi”.  L’anadiplosi è una figura retorica che, come avviene in questa riga, fa  iniziare una frase con il termine principale contenuto nella frase  precedente. Tale artificio retorico, secondo Manacorda, è divenuto  l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi modi puramente formali,  superflui, inutili e incomprensibili quanto alla sostanza” diceva  “inducono l’ascoltatore a seguire la parte formale, cioè la figura  retorica, e a dimenticare la parte sostanziale”.
Con il tempo, la comunicazione di massa ha finito per sostituire  definitivamente l’aspetto formale a quello sostanziale, l’apparenza alla  verità. E lo ha fatto, in particolare, grazie alle figure retoriche  della sineddoche e della metonimia, con le quali si rappresenta una  parte per tutto. La velocità sempre più vertiginosa dell’informazione  impone di trascurare l’insieme e porta a concentrarsi su alcuni  particolari scelti con perizia per dare una lettura del fenomeno  complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv, siti internet, riassumono i  grandi eventi in un dettaglio.
Da questo punto di vista, sembra che Papa Francesco sia stato  fatto per i mass media e che i mass media siano stati fatti per Papa  Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo vestito di  bianco che scende la scaletta dell’aereo portando una sdrucita borsa di  cuoio nera: perfetto uso di sineddoche e metonimia insieme. La figura  del Papa viene assorbita da quella borsa nera che ne annulla l’immagine  sacrale tramandata nei secoli per restituirne una completamente nuova e  mondana: il Papa, il nuovo Papa, è tutto in quel particolare che ne  esalta la povertà, l’umiltà, la dedizione, il lavoro, la  contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a quanto di più terreno  si possa immaginare.
L’effetto finale di tale processo porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di Papato e la contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al Papato.
L’effetto finale di tale processo porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di Papato e la contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al Papato.
Per effetto di sineddoche e metonimia, il passo successivo  consiste nell’identificare la persona del Papa con il Papato: una parte  per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo fenomeno fa  sì che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore privato,  trasformi di fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola in un atto  di magistero. Se poi si pensa che persino la maggior parte dei  cattolici è convinta che quanto dice il Papa sia solo e sempre  infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si possa protestare che una  lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano persino meno di  un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto che  produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi  pronunciamento solenne. Anzi, più il gesto o il discorso saranno  formalmente piccoli e insignificanti, tanto più avranno effetto e  saranno considerati come inattaccabili e incriticabili.
Non a caso la simbologia che sorregge questo fenomeno è fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata in mano sull’aereo è un esempio di scuola. Ma  anche quando si parla della croce pettorale, dell’anello, dell’altare,  delle suppellettili sacre o dei paramenti, si parla del materiale con  cui sono fatte e non più di ciò che rappresentano: la materia informe ha  avuto il sopravvento sulla forma. Di fatto, Gesù non si trova più sulla  croce che il Papa porta al collo perché la gente viene indotta a  contemplare il ferro in cui l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta  la parte si mangia il Tutto, che qui va scritto con la “T” maiuscola. E  la “carne di Cristo” viene cercata altrove e ciascuno finisce per  individuare dove vuole l’olocausto che più gli si confà. In questi  giorni a Lampedusa, domani chissà.
E’ l’esito della saggezza del mondo, che san Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole fac simile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.
E’ l’esito della saggezza del mondo, che san Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole fac simile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.
Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare dal grande sonno massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà.  E bisognerà anche imparare l’umiltà vera, che consiste nel  sottomettersi a Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso  leggi immutabili persino dal Vicario di Cristo. E bisognerà ritrovare il  coraggio di dire che un cattolico può solo sentirsi smarrito davanti a  un dialogo in cui ognuno, in omaggio alla pretesa autonomia della  coscienza, venga incitato a proseguire verso una sua personale visione  del bene e del male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le  tante. Almeno per il suo vicario.
Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
(Giornalista e studioso di letteratura il primo, canonista e  docente di  Bioetica il secondo, gli autori sono espressione autorevole  del mondo  tradizionalista cattolico)
Fonte > Il Foglio.it
Fonte > Il Foglio.it
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
