domenica 22 aprile 2012

Marcia nazionale per la Vita

 



 
Domenica 13 maggio 2012 a Roma

Gli attacchi alla vita umana innocente sono sempre più numerosi e nuovi strumenti di morte minacciano la sopravvivenza stessa del genere umano: Ru486, Ellaone, pillola del giorno dopo ecc.
Da oltre trent’anni una legge dello Stato (la 194/1978) regolamenta l’uccisione deliberata dell’innocente nel grembo materno e i morti si contano a milioni.
La Marcia per la Vita è il segno dell’esistenza di un popolo che non si arrende e vuole far prevalere i diritti di chi non ha voce sulla logica dell’utilitarismo e dell’individualismo esasperato, sulla legge del più forte.
L’iniziativa vuole:
  • affermare che la vita è un dono, indisponibile, di Dio;
  • chiedere il Suo aiuto, per una società smarrita;
  • deplorare l’iniqua legge 194 che ha legalizzato l’uccisione, sino ad oggi, in Italia, di 5 milioni di innocenti;
  • ribadire che esiste una distinzione tra Bene e male, tra Vero e falso, tra Giusto ed ingiusto;
  • invitare alla mobilitazione i cattolici e gli uomini di buona volontà.
Lo straordinario successo della prima edizione della marcia per la vita di Desenzano, organizzata in breve tempo e con poche risorse a disposizione, ci spinge a moltiplicare le forze e l’impegno profusi per la buona battaglia.
La seconda edizione della marcia sarà a Roma, centro della cristianità e del potere politico. Le strade della capitale sono state attraversate, anche recentemente, da numerosi cortei indecorosi e blasfemi; il nostro corteo vuole invece affermare il valore universale del diritto alla vita e il primato del bene comune sul male e sull’egoismo.
L’iniziativa sarà una “marcia” e non una processione religiosa e come tale aperta anche ai pro life non credenti e a tutti i gruppi che potranno partecipare con i loro simboli ad esclusione di quelli politici.
E’ previsto inoltre un convegno, sempre a Roma, il 12 maggio, sulla vita a cui hanno già dato la loro adesione personalità conosciute del mondo pro life italiano.
Abbiamo però bisogno dell’aiuto di tutti!
- Con la preghiera, che smuove le montagne (1 Cor. 13,2) e vince ogni difficoltà
- Con la costituzione, in ogni città italiana, di centri locali che ci aiutino sul piano organizzativo (fotocopiando e diffondendo materiale, organizzando pullman per venire a Roma, preparando striscioni, bandiere, cartelli…)
- Con il sostegno economico che può moltiplicare le nostre possibilità. Si può versare un contributo sul conto corrente postale allegato oppure tramite bonifico bancario a:
  • Associazione Famiglia Domani:
    Banca:Intesa San Paolo,
    Iban: IT 86 N 03069 03227 100000000810
  • Mevd (Movimento Europeo Difesa Vita):
    Unicredit, Agenzia di Verona,
    Iban: IT 31 R 02008 11796 000101130378
Chiunque volesse aiutare e per qualsiasi informazione scrivere a:
info@marciaperlavita.it
, oppure telefonare a : 06-3233370
Da questa pagina è possibile consultare l’elenco delle città italiane da cui partiranno i pullman per Roma con i relativi referenti e recapiti telefonici

mercoledì 18 aprile 2012

di trionfo in trionfo


“Il Cristianesimo è stato dichiarato morto infinite volte.
Ma, alla fine, è sempre risorto, perché Dio conosce bene la strada per uscire dal sepolcro”.

Gilbert Keith Chesterton

 

Il Cristianesimo è la Religione della Resurrezione e perciò differisce per esempio dal Buddismo che è la religione della Ricorrenza o del Ritorno, il che in pratica significa poco più di ciò che gli uomini di scienza usavano definire la conservazione dell’energia e cioè con l’idea che ogni forza ed espressione di elementi ritorna sempre sotto qualche altra forma, ma la forma non ritorna. Così pensava Wells quando disse che il Buddismo s’accorda perfettamente con le nostre idee moderne. Sotto molti aspetti esso rassomiglia davvero alle nostre idee moderne, compreso quello dl non essere più un’idea moderna. La conservazione dell’energia parve il più ovvio dei principi cosmici ed i filosofi moderni hanno il gusto delle cose ovvie. Ciò che avvenne poi è superlativamente tipico dei nostri giorni: quando una decina di filosofi moderni ebbero fondate le loro moderne filosofie su questo solido fatto scientifico, gli uomini dl scienza incominciarono a scoprire che il fatto è inesistente. In quale fase sia ora la lotta fra il razionalismo moderno e la scienza ancor più moderna, la profonda verità è che un infinito numero di filosofie antiche e moderne hanno assimilato questo concetto di conservazione e di ricorrenza cosmica dall’ampia filosofia del Buddismo e da quella più limitata di Herbert Spencer. Talvolta queste filosofie accettano una forma d’immortalità, ma si tratta sempre di una forma di reintegrazione e non di Resurrezione. Più spesso fanno propria una delle obbiezioni di San Tommaso d’Aquino contro l’immortalità (una tra le tante obbiezioni che quel razionalista dal pensiero persino troppo disperatamente imparziale allinea con ogni cura contro di sé) e sostengono che un essere non potrà mai riprendere l’identità anteriore una volta abbia veramente perduto la sua forma. Nessuno, fuorché nel credo cristiano, ha mai avuto l’audacia di asserire che una certa cosa riacquisterà la sua forma anteriore. Ed ecco la ragione per cui il Vescovo anglicano di Birmingham chiama materialistica la religione cristiana. Ed ecco perché ad un altro San Tommaso, egli pure un po’ razionalista, venne offerta una prova materiale. Non si potrà capire la storia del Cristianesimo senza comprendere che essa ebbe inizio con il supremo miracolo di un uomo morto che pure viveva e non era uno spettro. Non avvenne allora soltanto il trionfo dello spirito sul corpo, ma anche il trionfo del corpo sul sepolcro.

(G. K. Chesterton, La Resurrezione di Roma, Istituto Propaganda libraria, 1950, pp. 142-143)

http://filiaecclesiae.files.wordpress.com

lunedì 16 aprile 2012

Pubblichiamo anche noi questo articolo di John R.T. Lamont, redatto per www.chiesa, ricco di interessanti considerazioni. L’autore, che è laureato in filosofia a Oxford e in teologia a Ottawa e insegna a Sydney all'Istituto Cattolico e all'Università di Notre Dame, mette in rilievo in maniera molto opportuna, come l’opposizione della Fraternità San Pio X al Concilio Vaticano II non riguarda l’insegnamento che ribadisce il magistero passato, ma le affermazioni che lo contraddicono. Tale opposizione non è frutto i opinioni personali ma è fondata proprio sul magistero tradizionale e definitivo della Chiesa.

 

Le domande di un teologo

In un comunicato del 16 marzo 2012, la Santa Sede ha annunciato che il vescovo Bernard Fellay, superiore gener le della Fraternità Sacerdotale San Pio X, FSSPX, è stato informato che la risposta della Fraternità al preambolo dottrinale presentatole dalla congregazione per la dottrina della fede è stata giudicata "non sufficiente a superare i problemi dottrinali che sono alla base della frattura tra la Santa Sede e detta Fraternità". Il comunicato non chiarisce se questo giudizio è emesso dalla CDF e approvato dal papa, o se è il giudizio dello stesso papa. Questo giudizio è l'ultimo, finora, di un processo di discussione sulle questioni di dottrina tra la CDF e la FSSPX. La natura e la serietà di questo giudizio solleva importanti interrogativi per un teologo cattolico. Il compito di questo articolo è di rispondere a tali interrogativi.

La segretezza dei colloqui dottrinali in corso rende difficile esprimere un commento sul giudizio. La ragione di questa segretezza è difficile da afferrare, poiché gli argomenti della discussione non riguardano dettagli pratici di una sistemazione canonica – che avrebbe chiaramente beneficiato della riservatezza – ma materie di fede e di dottrina, che riguardano non solo le parti implicate ma tutti i fedeli cattolici. Tuttavia, è stato detto abbastanza in pubblico sulla posizione della FSSPX per consentire una valutazione della situazione. Ci sono due cose che necessitano di essere considerate qui: la frattura tra la Santa Sede e la FSSPX che è stata prodotta dai problemi dottrinali in discussione, e la natura di questi stessi problemi dottrinali.

In una replica a uno studio di Fernando Ocáriz sull'autorità dottrinale del Concilio Vaticano II, padre Jean-Michel Gleize della FSSPX ha elencato gli elementi di questo Concilio che la FSSPX trova inaccettabili:

"Su almeno quattro punti gli insegnamenti del Concilio Vaticano II sono talmente in contraddizione logica con i pronunciamenti del precedente magistero tradizionale, che è impossibile interpretarli nella linea degli altri insegnamenti già contenuti nei precedenti documenti del magistero della Chiesa. Il Vaticano II quindi ha rotto l'unità del magistero, nella misura in cui ha rotto con l'unità del suo oggetto.

"I quattro punti sono i seguenti.

"La dottrina della libertà religiosa, così come è espressa nel n. 2 della dichiarazione 'Dignitatis humanae', contraddice gli insegnamenti di Gregorio XVI nella 'Mirari vos' e di Pio IX nella 'Quanta cura', così come quelli di Leone XIII nella 'Immortale Dei' e quelli di Pio XI nella 'Quas primas'.

"La dottrina della Chiesa, così come è espressa nel n. 8 della costituzione 'Lumen gentium', contraddice gli insegnamenti di Pio XII nella 'Mystici corporis' e nella 'Humani generis'.

"La dottrina sull'ecumenismo, così come espressa nel n. 8 della 'Lumen gentium' e nel n. 3 del decreto 'Unitatis redintegratio', contraddice gli insegnamenti di Pio IX nelle proposizioni 16 e 17 del 'Syllabus', quelli di Leone XIII nella 'Satis cognitum' e quelli di Pio XI nella 'Mortalium animos'.

"La dottrina della collegialità, così come espressa nel n. 22 della costituzione 'Lumen gentium', incluso il n. 3 della 'Nota praevia', contraddice gli insegnamenti del Concilio Vaticano I sull'unicità del soggetto del supremo potere nella Chiesa, e la costituzione 'Pater aeternus'".

Padre Gleize ha preso parte alla discussione dottrinale tra la FSSPX e le autorità romane, così come ha fatto anche Ocáriz. Possiamo ragionevolmente assumere le affermazioni citate come una descrizione dei punti dottrinali sui quali la FSSPX non intende transigere e che sono stati presi dalla Santa Sede come inevitabile origine della frattura.

Il Vaticano II come la ragione della frattura?
Il primo interrogativo in cui si imbatte un teologo riguardo alla posizione della FSSPX concerne la questione dell'autorità del Concilio Vaticano II. L'articolo di Ocáriz al quale ha replicato padre Gleize, pubblicato sul numero del 2 dicembre 2011 de "L'Osservatore Romano", sembra sostenere che un rigetto dell'autorità del Vaticano II sia la base della frattura riscontrata dalla Santa Sede. Ma per chiunque sia al corrente sia della posizione teologica della FSSPX sia del clima dell'opinione teologica nella Chiesa cattolica, questa tesi è difficile da capire. I punti menzionati da padre Gleize sono solo quattro del voluminoso insegnamento del Vaticano II. La FSSPX non rigetta il Vaticano II nella sua interezza: al contrario, il vescovo Fellay ha affermato che la Fraternità accetta il 95 per cento dei suoi insegnamenti. Ciò significa che la FSSPX è più fedele agli insegnamenti del Vaticano II di buona parte del clero e della gerarchia della Chiesa cattolica.

Si considerino le seguenti asserzioni di questo Concilio:

"Dei Verbum" 11:

"La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte".

"Dei Verbum" 19:

"I quattro Vangeli, di cui la Chiesa afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2)".

"Lumen gentium" 3:

"Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato viene celebrato sull'altare, si rinnova l'opera della nostra redenzione".

"Lumen gentium" 8:

"La Fraternità costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino".

"Lumen gentium" 10:

"Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all'offerta dell'Eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e la carità operosa".

"Lumen gentium" 14:

"Il Concilio, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta".

"Gaudium et spes" 48:

"Per la sua stessa natura l'istituto del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento".

"Gaudium et spes" 51:

"La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; l'aborto e l'infanticidio sono delitti abominevoli".

La grande maggioranza dei teologi nelle istituzioni cattoliche in Europa, Nordamerica, Asia e Australia tende a rigettare tutti o la maggior parte di questi insegnamenti. Questi teologi sono seguiti dalla maggioranza degli ordini religiosi e da una parte consistente dei vescovi in queste aree. Sarebbe difficile, ad esempio, trovare un gesuita che insegna teologia in qualsiasi istituzione gesuita che accetti anche uno solo di essi. I testi citati sono solo una selezione degli insegnamenti del Vaticano II che sono rigettati da questi gruppi; e potrebbero essere molto aumentati di numero.

Ebbene, tali insegnamenti fanno parte proprio di quel 95 per cento del Vaticano II che la FSSPX accetta. E a differenza del 5 per cento di quel Concilio rigettato dalla FSSPX, gli insegnamenti riportati sopra sono centrali per la fede e la morale cattoliche, e includono alcuni degli insegnamenti fondamentali di Cristo stesso.

Il primo interrogativo che il comunicato della Santa Sede solleva per un teologo è quindi: perché il rigetto da parte della FSSPX di una piccola parte degli insegnamenti del Vaticano II dà origine a una frattura tra la Fraternità e la Santa Sede, mentre il rigetto di molto più numerosi e importanti insegnamenti del Vaticano II da parte di altri gruppi nella Chiesa lascia questi gruppi tranquilli al loro posto e nel possesso di una piena condizione canonica? Il rigetto dell'autorità del Vaticano II da parte della FSSPX non può essere la risposta a questo interrogativo. In realtà la FSSPX mostra maggiore rispetto per l'autorità del Vaticano II della maggior parte degli ordini religiosi nella Chiesa.

È interessante notare che i testi del Vaticano II rigettati dalla FSSPX sono accettati da quei gruppi dentro la Chiesa che rigettano altri insegnamenti di questo Concilio. Uno potrebbe quindi supporre che sono proprio questi specifici testi – sulla libertà religiosa, la Chiesa, l'ecumenismo, la collegialità – che fanno problema. La frattura tra la Santa Sede e la FSSPX nasce poiché la Fraternità rigetta questi particolari elementi del Vaticano II, non per una intenzione della Santa Sede di difendere il Vaticano II in blocco. Mentre la frattura non sorge con i gruppi al di fuori della Fraternità che rigettano molto di più del Vaticano II poiché questi gruppi accettano questi particolari elementi. Ma se questo è il caso, il primo interrogativo semplicemente si ripropone con maggior forza.

Problemi con la dottrina cattolica?
Se la frattura tra la Santa Sede e la FSSPX non nasce dal rigetto dell'autorità del Concilio Vaticano II da parte della Fraternità, potrebbe essere il caso che la frattura sorga dalla posizione dottrinale della FSSPX stessa. Dopo tutto ci sono due facce della posizione della FSSPX sul Vaticano II. La prima faccia è la tesi secondo cui alcune affermazioni del Vaticano II sono false e non debbono essere accettate; questa è la faccia che rifiuta l'autorità del Concilio. L'altra faccia è la positiva descrizione della dottrina che dovrebbe essere accettata al posto delle presunte false affermazioni. Questa seconda faccia è l'aspetto più importante della discussione tra la FSSPX e le autorità romane. Dopo tutto, la finalità dell'esistenza di insegnamenti magisteriali è di comunicare la vera dottrina ai cattolici, e la loro autorità sui cattolici deriva da questa finalità. Questa faccia della posizione della FSSPX consiste in affermazioni sulle dottrine che i cattolici dovrebbero credere, affermazioni che in se stesse non dicono nulla sui contenuti o l'autorità del Vaticano II. Dobbiamo quindi considerare se queste affermazioni possono dare origine a una frattura tra la Santa Sede e la FSSPX.

Nel giudicare la posizione dottrinale della FSSPX deve essere tenuto presente che c'è una differenza essenziale tra la posizione della FSSPX sul Vaticano II e la posizione di quei settori dentro la Chiesa che rigettano gli insegnamenti sopra citati della "Dei Verbum", della "Lumen gentium" e della "Gaudium et spes". Questi settori semplicemente sostengono che certe dottrine della Chiesa cattolica non sono vere. Essi rigettano l'insegnamento cattolico, punto. Invece la FSSPX non sostiene che l'insegnamento della Chiesa cattolica è falso. Essa sostiene che alcune delle affermazioni del Vaticano II contraddicono altri insegnamenti magisteriali che hanno più grande autorità, e quindi accettare le dottrine della Chiesa cattolica richiede di accettare questi insegnamenti più autorevoli e di respingere la piccola porzione di errori presenti nel Vaticano II. Essa sostiene che il reale insegnamento della Chiesa cattolica deve essere trovato in precedenti e più autorevoli affermazioni.

In positivo, quindi, la posizione dottrinale della FSSPX consiste nel sostenere gli insegnamenti di una parte dei pronunciamenti magisteriali. I più importanti dei pronunciamenti in questione sono elencati da padre Glaize: l'enciclica di Gregorio XVI "Mirari vos", l'enciclica di Pio IX "Quanta cura" con il relativo "Syllabus", le encicliche di Leone XIII "Immortale Dei" e "Satis cognitum", le encicliche di Pio XI "Quas primas" e "Mortalium animos", le encicliche di Pio XII "Mystici corporis" e "Humani generis", e la costituzione del Concilio Vaticano I "Pastor aeternus". Questi sono tutti pronunciamenti magisteriali di grande autorità, e in qualche caso includono definizioni dogmatiche infallibili, cosa che non accade con il Concilio Vaticano II.

Ciò fa nascere il secondo interrogativo riguardo alla posizione della Santa Sede sulla FSSPX, che induce un teologo a chiedersi: come ci possono essere obiezioni alla FSSPX quando essa sostiene la verità di pronunciamenti magisteriali di grande autorità?

Se la posizione della FSSPX sulla dottrina può essere giudicata obiettabile, deve essere sostenuto che questa sua posizione non coincide con ciò che quei pronunciamenti magisteriali realmente insegnano, e quindi che la FSSPX falsifica il significato di tali pronunciamenti. Questa tesi non è facile da sostenere, poiché quando quei precedenti pronunciamenti furono promulgati, essi diedero origine a un considerevole corpo di studi teologici finalizzati alla loro interpretazione. Il significato che la FSSPX assegna ad essi è derivato da questo insieme di studi, e corrisponde a come quei pronunciamenti erano compresi nel tempo in cui furono prodotti.

Ciò rende ancor più puntuale e urgente il terzo interrogativo che sorge in un teologo: che cosa quei pronunciamenti insegnano davvero, se non è ciò che la FSSPX dice che essi insegnano?

La risposta che molti daranno è che i significati effettivi di quei pronunciamenti sono dati da, o almeno sono in armonia con, i testi del Concilio Vaticano II che la FSSPX rigetta. Possiamo ammettere questa risposta come vera, ma ciò non ci aiuterà nel rispondere alla domanda. I testi del Vaticano II non offrono molte spiegazioni del significato di quei precedenti pronunciamenti. Ad esempio, la "Dignitatis humanae" dice semplicemente che il suo insegnamento "lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo". Con ciò non offre alcuna spiegazione del contenuto di questa dottrina.

L'inadeguatezza di questa risposta conduce al quarto interrogativo, che è il seguente: qual è l'insegnamento autorevole della Chiesa cattolica sui punti che sono disputati tra la FSSPX e la Santa Sede?

Nessun dubbio che le discussioni dottrinali tra le due parti abbiano implicato un esame della questione, ma la segretezza di tali discussioni lascia il resto della Chiesa al buio su questa materia. Senza una risposta al quarto interrogativo, non c'è possibilità di risposta a questa quinta domanda: perché le posizioni dottrinali della FSSPX danno origine a una frattura tra la Fraternità e la Santa Sede?

Ma questa quinta domanda, pur significativa, non ha l'importanza della quarta. La natura dell'insegnamento della Chiesa cattolica sulla libertà religiosa, l'ecumenismo, la Chiesa e la collegialità è di grande importanza per tutti i cattolici. Le domande sollevate dalle discussioni tra la Santa Sede e la FSSPX riguardano la Chiesa tutta, non soltanto le parti impegnate a discutere.

domenica 15 aprile 2012

ore decisive: preghiamo!

Lefebvriani-Santa Sede, l’accordo è vicino

Arriva la risposta di Fellay. Per la Fraternità San Pio X si profila la «prelatura personale» direttamente dipendente dal Papa

Mons. Marcel Lefebvre
L’accordo tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X fondata da monsignor Marcel Lefebvre potrebbe essere questione di giorni, forse anche di ore. Il superiore della Fraternità, il vescovo Bernard Fellay, avrebbe sottoscritto una nuova versione del preambolo dottrinale consegnatogli lo scorso settembre dal cardinale William Levada, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e presidente della pontificia commissione Ecclesia Dei.

Ufficialmente in Vaticano si sta ancora attendendo l’arrivo della risposta di Fellay, al quale lo scorso 16 marzo era stata richiesta una decisione definitiva. Ma secondo le informazioni raccolte dal vaticanista di Le Figaro, Jean-Marie Guenois, molto si è mosso a livello «ufficioso», e l’accordo sarebbe ormai vicino.


Nel settembre 2011, al termine di un percorso di colloqui dottrinali – voluti dalla Fraternità San Pio X – la Santa Sede aveva presentato un breve documento chiedendo ai lefebvriani di sottoscriverlo. Il testo, suscettibile di piccole modifiche, conteneva sostanzialmente tre punti, e la richiesta di sottoscrivere la «professione di fede» richiesta a chiunque assuma un ufficio ecclesiastico. E dunque ad assicurare un «religioso ossequio della volontà e dell’intelletto» agli insegnamenti che il Papa e il collegio dei vescovi «propongono quando esercitano il loro magistero autentico», anche se non sono proclamati in modo dogmatico, come nel caso della maggior parte dei documenti del magistero.


Sottoscrivere il preambolo, hanno ripetuto le autorità vaticane, non avrebbe significato porre fine «alla legittima discussione, lo studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II». Com’è noto, la Fraternità San Pio X si era detta disposta ad accettare la gran parte dei testi conciliari, ma non la dottrina della libertà religiosa, così come è espressa nel secondo paragrafo della dichiarazione Dignitatis humanae, come pure la dottrina della Chiesa espressa nel n. 8 della costituzione Lumen gentium; la dottrina sull’ecumenismo, nel n. 3 del decreto Unitatis redintegratio, e infine la dottrina della collegialità, come espressa nel n. 22 della Lumen gentium.


Sembra che alla fine si sia arrivati a un testo condiviso. Del resto, lo stesso Fellay durante l’incontro del settembre 2011 aveva detto ai suoi interlocutori romani che non c’erano problemi ad accettare il primo e il secondo punto dei preambolo, mentre più problematica era l’accettazione del terzo. Ma nella risposta inviata in due riprese tra dicembre e gennaio, e quindi in più di una dichiarazione pubblica, il superiore della San Pio X aveva dichiarato inaccettabile il testo dottrinale proposto dal Vaticano.


Lo scorso 16 marzo, l’incontro decisivo e la richiesta della Santa Sede a Fellay affinché rispondesse entro un mese. È noto che Benedetto XVI tenga particolarmente a chiudere la ferita che egli vide aprirsi da Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede nel 1988, quando Lefebvre, dopo aver praticamente raggiunto un accordo con il Vaticano, decise di non firmarlo e consacrando quattro nuovi vescovi senza mandato del Papa compì un’azione scismatica. Papa Ratzinger ha liberalizzato la messa antica e tolto le scomuniche ai quattro vescovi lefebvriani, e ha acconsentito anche alla terza richiesta della Fraternità, quella di intavolare un confronto dottrinale con le autorità romane, incentrato soprattutto sull’interpretazione dei testi conciliari.


L’inquadramento canonico per la Fraternità San Pio X dovrebbe essere quello della «prelatura personale», figura giuridica innovativa inserita nel Codice di diritto canonico del 1983 e fino ad oggi utilizzata soltanto per l’Opus Dei.

In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas

Roma e la Verità
Rottura o conciliazione?
di Marco Bongi





Nei discorsi, negli articoli, nei dibattiti in rete di queste ultime settimane, man mano che i tempi del confronto fra autorità romane e FSSPX si fanno più serrati, emerge, spesso fra le righe, ma anche a volte apertamente, un dualismo di posizioni che sembra sostanzialmente irriducibile e insuperabile.

Eccone, in estrema sintesi, i punti cardine.
C'è chi, pur con tutti i distinguo e le precisazioni del caso, gradirebbe, in fin dei conti, un sacrificio, parziale e contingente finchè si vuole, della Verità in ossequio della Romanità e del principio di Autorità del Sommo Pontefice.
Altri, al contrario, sarebbero disposti a sacrificare, sempre comunque per fattori contingenti, questi ultimi valori teologici, pur di non transigere sulle Verità di Fede.
Intorno a questo nodo si stanno versando fiumi di inchiostro e chilometri di pagine WEB, senza contare i commenti ai post, sempre più schierati ed irriducibili.

Esiste però, mi chiedo, un'assoluta inconciliabilità fra tali due posizioni?
Essere, in altre parole, intransigenti sulle Verità di Fede, significa inevitabilmente non amare il Papa e ciò che Egli rappresenta?
E... al contrario: riconoscere e rispettare Benedetto XVI, deve voler dire, forzatamente, chiudere un occhio sulle evidenti contraddizioni del Magistero conciliare rispetto alla Tradizione Cattolica di sempre?

Francamente non lo credo. Penso anzi che la legge della Carità imponga ad ogni cattolico, guidato dalla retta ragione, di usare, verso il Pontefice come nei confronti dell'ultimo dei fratelli, sempre la Carità nella Verità e la Verità nella Carità.
Se, per ipotesi, si dovesse giungere ad una rottura fra Roma e la FSSPX, i responsabili della Fraternità dovrebbero comunque sempre rispettare la figura e la persona del Papa, rivolgersi a Roma, andare a Roma, invocare Roma, supplicare Roma affinchè siano riconosciuti e corretti gli errori e le ambiguità dottrinali di questo tempo tribolato.
Se, al contrario, si dovesse giungere ad una riconciliazione, ciò non significherebbe automaticamente la fine delle critiche e delle richieste di chiarificazione che, in ogni caso, concernono punti estremamente importanti della Fede e della teologia.

In ogni caso, come sta del resto facendo comunque sempre mons. Fellay, andrebbero bandite assolutamente espressioni irrispettose, maliziose ed offensive nei confronti del Pontefice.
Anche le obiezioni più motivate e gravi, come ad esempio in relazione al raduno di Assisi, dovrebbero, a mio parere, essere espresse in forma di supplica od appello.
Prese di posizione acide e saccenti finiscono, in fin dei conti, per apparire, e spesso essere, null'altro che espressioni di quello "zelo amaro" che non porta mai frutti positivi nè soluzione ai problemi.

Restiamo dunque in orante attesa ed uniamoci all'auspicio espresso dall'ultimo comunicato della Casa Generalizia FSSPX affinchè sempre "fiat voluntas Tua".

sabato 14 aprile 2012

Crsto è risorto ~ Christos Anesti ~ Christ is Risen ~ Χριστός Ανέστη

Proprio questa sera si ripete uno dei più eccezionali miracoli che continuano fino al nostro tempo: è la discesa del Fuoco Santo sulla Tomba del Signore a Gerusalemme nel corso del Vespro che il Grande Sabato apre la Domenica della Resurrezione. Questo miracolo è conosciuto in corso dei molti secoli dall'antichità.Nella vigilia di Pasqua, durante il Vespro della sera del Grande e Santo Sabato, il Patriarca Ortodosso di Gerusalemme entra nel Sepolcro con le candele spente, dopo aver tolto tutti i paramenti eccetto lo sticario ed essere stato accuratamente perquisito dalle autorità civili, prima turche ora israeliane, senza mitra e prega davanti alla Tomba. Anche l'edicola del Sepolcro è stata perquisita e fermata con sigilli su cui tutte le Comunità comproprietarie della basilica, nonché le autorità civili appongono l'impronta del loro timbro. Subito o dopo qualche ora di preghiera, sul marmo che ora ricopre la lastra del Sepolcro Glorioso appaiono scintille come perline o gocce luminose. Il patriarca raccoglie queste gocce di Fuoco con l'ovatta e accende le candele. In un istante il Fuoco si propaga nella chiesa. Meraviglioso è che il Fuoco non brucia per circa 33 minuti, né abiti, né capelli. Molti pellegrini raccontano che hanno provato ad infuocare la propria barba senza riuscirci. Chiunque può andare a Gerusalemme e constatare di persona.

Utinam!

Le Figaro: Roma e Ecône
sul punto di raggiungere un accordo
La firma di un documento che stabilisce le relazioni tra la Santa Sede e i discepoli di Mons. Lefebvre è una questione di giorni.

Ufficialmente, il Vaticano attende la risposta di Mons. Bernard Fellay, il superiore dei lefebvriani. Appena ricevuta a Roma - «è una questione di giorni, e non più di settimane», - si indica in Vaticano, essa sarà «immediatamente» esaminata. Se è conforme alle aspettative, la Santa Sede annuncerà molto presto un accordo storico con questo gruppo di fedeli, conosciuto sotto il nome di «integralisti».

Ma ufficiosamente, e con la massima discrezione, i designati hanno lavorato, da entrambe le parti, a «raggiungere un accordo». Nelle ultime settimane, sono stati conclusi i punti finali tra Roma e Ecône, al fine di rispondere meglio alle richieste di «chiarimenti» sollecitati dal Vaticano lo scorso 16 marzo.

Una trattativa molto delicata
È così che la risposta finale di Mons. Fellay, estremamente ponderata e ben preparata, dovrebbe risolvere - questa volta, davvero - una trattativa molto delicata rilanciata da Benedetto XVI dopo la sua elezione, nel 2005.

La commissione «Ecclesia Dei», collocata all'interno della Congregazione per la Dottrina della Fede, il ministero più importante in Vaticano, è responsabile di questo dossier. Ma esso è anche, a questo punto, seguito personalmente da Benedetto XVI. Ed egli vuole un accordo.

Il che lascia pensare le persone ben informate che un risultato positivo sta davvero per realizzarsi. Anche a costo della permanenza di divergenze profonde riguardanti il ​​Concilio Vaticano II.

Divergenze completamente ammesse, del resto, dal Papa. Egli ha posto il suo pontificato nell'ambito di tale linea di reinterpretazione del Concilio Vaticano II. Secondo due linee: eliminare lo spirito di «rottura» del '68 ed evitare di opporre la più alta tradizione della Chiesa alla sua modernità.

Cinquanta anni di opposizione
Lunedì, Benedetto XVI compirà 85 anni. Egli è stanco. I suoi collaboratori non lo non nascondono. Questa settimana si è dovuto riposare a Castel Gandolfo dal suo viaggio estenuante in Messico e Cuba, poi dalle lunghe celebrazioni della Settimana Santa. Dovrebbe tornare in Vaticano Venerdì sera. Priorità sulla sua agenda: questa decisione sulla vicenda lefebvriana. Sarà una delle più pesanti del pontificato.

Da cinquanta anni, i Lefebvriani sono in opposizione con la Santa Sede sul Vaticano II. E in rottura giuridica formale, dal giugno 1988, quando Mons. Marcel Lefebvre ha ordinato quattro vescovi, nonostante il divieto del papa.

Joseph Ratzinger fu incaricato a suo tempo da Giovanni Paolo II delle trattative con il vescovo ribelle. Egli non ha mai accettato questo fallimento. Né, una volta diventato Papa, la prospettiva di uno scisma duraturo nella Chiesa.

Benedetto XVI spinge la Chiesa a riconciliarsi con se stessa
Uno dopo l'altro, Benedetto XVI ha demolito, con tutta la sua autorità papale, gli ostacoli che hanno impedito una completa riconciliazione con i discepoli di Mons. Marcel Lefebvre. E, se un accordo definitivo è annunciato nei prossimi giorni, la parte essenziale del lavoro è stata già messo in atto da questo papa:
  • Il ripristino nel 2007 - come rito «straordinario» nella Chiesa cattolica - della Messa detta in latino, cioè, secondo il Messale di Giovanni XXIII in vigore prima del Concilio Vaticano II.
  • La rimozione, nel 2009, delle scomuniche che colpivano i quattro vescovi ordinati da Mons. Lefebvre.
  • L'avvio, in quello stesso anno, delle discussioni dottrinali tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X sul Concilio Vaticano II.
L'apparente fallimento di queste ultime, un anno fa, aveva dato l'impressione di un completo fallimento della trattativa.

Il dissenso dottrinale tra i lefebvriani e Roma per quanto riguarda il Concilio Vaticano II è effettivamente abissale. Ma si era dimenticato che l'oggetto di quelle conversazioni non è stato trovare un accordo, ma stabilire l'elenco delle divergenze e delle loro ragioni.

È quindi in piena consapevolezza e, dunque senza alcuna ambiguità, che Roma intende suggellare questa unità ritrovata con Ecône, roccaforte dei lefebvriani in Svizzera. Essa probabilmente comporterà la creazione di uno statuto speciale - una «prelatura personale» - già sperimentato dall'Opus Dei. Questa struttura garantisce una vera autonomia di azione e nello stesso tempo la condivisione della fede cattolica. Il suo superiore risponde direttamente al papa, e non ai vescovi.

Ma la vera «rivoluzione» che Benedetto XVI cerca di lasciare agli occhi della storia della Chiesa cattolica è altrove. Essa non tocca aspetti periferici della Chiesa cattolica. Questi d'altronde fanno già sobbalzare i gruppi contrari a questa riconciliazione. I cosiddetti «progressisti» della Chiesa conciliare che vedono le «conquiste» del Concilio Vaticano II rimesse in discussione. I cosiddetti «ultras» dei ranghi lefebvriani che vedono in questo un tradimento e un compromesso con la Roma modernista.

Questa rivoluzione mira ad una visione allargata della Chiesa cattolica. Benedetto XVI, il teologo, non ha mai ammesso che nel 1962 la bimillenaria Chiesa cattolica si discostasse dalla cultura e dalla forza del suo passato. Più che una riconciliazione con i lefebvriani, egli si ripropone, con questo gesto, una riconciliazione della Chiesa cattolica con se stessa

venerdì 13 aprile 2012

Passio Christi, Passio Ecclesiae



riportiamo da "Riscossa Cristiana", quest'intervento del Prof. Vassallo



PASSIO CHRISTI, PASSIO ECCLESIAE
 di Piero Vassallo

Dalla lettura dell'opera di Romano Amerio, monsignor Brunero Gherardini deduce l'evidenza dell'unicità della passione di Cristo e della Chiesa, "unico essendo il martirio che, nella corsa del tempo, s'accanisce sul Cristo mistico con quella medesima virulenza con cui a suo tempo s'accanì contro le carni immacolate del Cristo fisico" (Cfr.: Aa. Vv. Passione della Chiesa. Amerio e altre vigili sentinelle, Il Cerchio, Rimini 2011, pag. 21).
Causa della passio Ecclesiae, che si rinnova dopo il Concilio Vaticano II, è l'illusione di poter trovare un'intesa con il pensiero dei moderni apostati. Tale infondata speranza, si è impadronita di una parte della gerarchia, trascinandola nel gorgo del più disarmante ottimismo-buonismo.
Sostiene Gherardini: "Qualcosa di più sottile e di più diabolico [della persecuzione cruenta, che, peraltro il mondo moderno non fa mancare ai fedeli] stringe la Chiesa in una strozza mortale, nell'intento di soffocare il rapporto della mistica Sposa con lo Sposo celeste, d'aprirla all'amplesso neomodernistico e soffocante della cultura contemporanea pacificandola con essa e con il mondo totus in maligno positus (1Gv 5,9)".
L'idea della pace con il mondo è penetrato nel candido e incolpevole ottimismo del Beato Giovanni XXII. Nell’Allocuzione inaugurale del Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia, papa Roncalli, forse consigliato da teologi avventurosi, suggerì due opposti indirizzi: un Concilio finalizzato alla risoluta, intransigente conferma dei dogmi, “il Concilio deve condurre ad un sempre più intenso rafforzamento della fede”,e un Concilio orientato ad evitare la condanna degli errori moderni, visto che “ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.
Il cardinale Giuseppe Siri comprese l'assoluta infondatezza dell'ottimismo in circolazione nell'aula conciliare ed avvertì tempestivamente che dell'ideologia comunista (e dell'intera filosofia moderna) si stava impossessando la scolastica francofortese, impegnata a trasformare l'ateismo scientifico di Marx in una religione perfettamente capovolta e perciò irriducibile al dialogo con la verità cattolica. Il grande arcivescovo fondò la rivista Renovatio, per indicare la via d'uscita dallo stato d'animo conformista e dai suoi tortuosi percorsi: la comprensione dell'arretramento del pensiero laico alla superstizione nichilista.
Al fine di rinnovare l'ideologia comunista i francofortesi, infatti, avevano trovato sostegno nell’esperienza gnostica del mondo e perciò rammentavano che nel linguaggio dell’eresia, cosmo vuol dire anche ordine e legge, “ma il segno che questi vocaboli possiedono in greco viene invertito. L’ordine diventa l’ordinamento rigido e ostile, la legge diventa la legislazione tirannica e malvagia. ... Il limite che nello schema cosmologico antico era garante dell’ordine armonico, nell’esperienza gnostica diventa la barriera esteriore che bisogna superare”.
Di qui il rovesciamento della dottrina della salvezza nell'assoluta empietà:“Il concetto di Aldilà nel linguaggio gnostico possiede un significato evidente. L’Aldilà è il luogo del Dio oltremondano, che è concepito come un contro-principio rispetto al mondo. I predicati gnostici di Dio – inconoscibile, innominabile, indicibile, illimitato, non esistente ecc. – sono predicati negativi. Devono essere intesi come negazione del mondo e determinano polemicamente l’opposizione del Dio oltremondano nei confronti del mondo”.
Alla luce della novità rappresentata dal nichilismo francofortese, la ricerca del dialogo si riduceva all'affannoso inseguimento di una chimera.
Le c. d. avanguardie cattoliche si sono estenuate nel tentativo di evangelizzare un sistema filosofico in rovinosa fuga da se stesso.
Animata da un giudizio irrealistico e ingannevole, la rincorsa del marxismo mutante ha suggerito l'abbandono della filosofia tomista, ha impoverito la liturgia e ha alterato la teologia.
Matteo D'Amico al proposito rammenta le conseguenze esiziali della rinuncia alla dottrina di San Tommaso e dimostra che la passio Ecclesiae ha origine dal cedimento a una concezione dell'essere, dell'Assoluto e della verità di tipo hegeliano, immanentistico, dialettico, storicistico, segnata dal primato del divenire e del negativo.
Quando si riflette sulle omelie del cardinale Siri e sui saggi di Julio Meinvielle, Gianni Baget Bozzo, Ennio Innocenti e Massimo Borghesi, che dimostrano il decisivo influsso dello gnosticismo nella filosofia di Hegel, diventa facile valutare la potenza dell'abbaglio che ha dominato il dialogo dei teologi progressisti con il mondo moderno.
Opportunamente padre Cavalcoli rammenta il rovesciamento della dialettica del peccato e della redenzione attuato da Karl Rahner e il suo disastroso effetto nella coscienza dei fedeli aperti alla novità: "Il peccato esiste, dice Rahner, ma si annulla da sé, perché comunque la tendenza verso Dio è necessaria ed invincibile perché caratterizza l'essenza stessa dell'uomo. Il sì prevale sempre sul no. Da qui la convinzione di Rahner che tutti si salvano. ... Ci si può domandare: se il peccato già elimina se stesso a causa di questa dialettica fra il sì e il no a Dio, che bisogno c'è allora della redenzione di Cristo?"
La libera circolazione di errori devastanti è una delle cause del dramma cattolico in atto dopo il Vaticano II. E una causa che può essere rimossa, quando (al seguito del suggerimento del vescovo di San Marino, Luigi Negri) si riconosca apertamente che "E' giusto guardare al Concilio, interpretarlo e quindi affrontare anche coraggiosamente quei punti per cui è necessario un ulteriore approfondimento, ma certamente senza cedere alla tentazione ideologica".
Il nodo da sciogliere è appunto l'ostinata presenza di cascami ideologici come tematiche nelle culture dei fedeli. Di qui infatti discende una divisione incline a scadere nel settarismo e nel cannibalismo. L'estinzione delle ideologie, la loro discesa nel sottosuolo del nichilismo ha chiuso le falle ecumeniche aperte dall'ottimismo galoppante negli anni del Vaticano II.
I fantasmi del comunismo e dell'illuminismo liberale, purtroppo, si aggirano ancora in associazioni autistiche consacrate alla contrapposizione feroce o all'intesa incauta con figure della modernità sorpassate dalle nuove e più velenose tematiche.
Nelle scolastiche intitolate alla lite nel vuoto, la scarsa informazione, l'impettita autostima e la smania esibizionistica generano lo zoccolo duro della dissidenza e della rivalità fine a se stessa.
Lanciato da fronti opposti, il recente, esemplare attacco cattolico al professor Roberto De Mattei è l'emblema di una teologia indirizzata all'umiliante guerra contro l'amico.
Il rimedio all'errore infantile degli apprendisti settari è magistralmente indicato da Luigi Negri: "è la Chiesa che dobbiamo amare come il luogo dove il Signore torna continuamente presente. E' un evento unico, assolutamente irriducibile a qualsiasi altro evento della vita e della storia."
La coscienza di appartenere a Cristo nella Chiesa, sollecita i fedeli ad affrontare efficacemente il nodo della discordia: "Se si devono indicare linee di fatica e sacrificio, di dialogo e confronto anche duro, ciò deve essere fatto, ma nel tentativo di cercare di mettere il Concilio dentro il flusso della vita della Chiesa che vuole rendere possibile oggi l'incontro fra Cristo e il cuore dell'uomo".

giovedì 12 aprile 2012

miti che si infrangono

APPUNTI SUL “MAGISTERO”
DEL PRIORE DI BOSE

di Pietro De Marco



Due cose colpiscono nella querelle sorta attorno alle critiche mosse da Antonio Livi a Enzo Bianchi, occasionate da un articolo di Bianchi, su “La Stampa” dell’11 marzo, sulla nuova edizione di “Essere cristiani” di Hans Küng.

La prima è la difficoltà di Enzo Bianchi a valutare autocriticamente la portata dei suoi interventi, sia che cadano su un terreno ricettivo (dove attecchiscono senza che lui per primo ne possa controllare i frutti) sia che arrivino a menti e ad ambienti critici nei suoi confronti, ove vengono di regola, ma legittimamente, valutati con allarme se non con ostilità. Su questo punto tornerò.

La seconda è la preziosa occasione di riflessione e mediazione che “Avvenire” poteva mettere a frutto, ma ha mancato. Marco Tarquinio, il direttore del quotidiano della conferenza episcopale italiana, ha perso (e in modo irragionato e scomposto: da vecchio collaboratore del giornale me ne dolgo) l’opportunità di offrire finalmente uno spazio al severo, duro, dibattito che percorre la Chiesa cattolica da alcuni anni su questioni della massima importanza: in primo luogo la quotidiana diluizione della “fides quae” (cioé dei contenuti della dottrina della fede) che avviene per molte vie e, non secondariamente, attraverso la manipolazione militante o abitudinaria del Vaticano II.

L’”Avvenire” di Tarquinio preferisce invece incrementare nei cattolici italiani una koinè magmatica di “sociale” e “spirituale”, senza domandarsi se il bagno nell’emozionale attivistico e nei fasti dell’ecclesialese che – con eccezioni – vi dominano, non si accodi alla perdita di rigore dell’intelletto cattolico di questi anni, e non stenda una patina opaca anche sulla forza e determinatezza dell’insegnamento papale.

Può darsi che la valutazione che Livi ha dato della “predicazione” di Bianchi (in effetti inarrestabile, senza tregua, per cento canali) abbia ecceduto in durezza. Livi recentemente ha pubblicato un importante volume sulla teologia come scienza della fede (contro le derive di quella “filosofia religiosa” venduta per teologia che infesta le facoltà cattoliche e molta produzione teologica), libro di cui “Avvenire” non ha finora parlato e che le librerie cattoliche si guardano bene dal mettere in evidenza. Da un’intelligenza esercitata al rigore come quella di Livi non sorprende che sia arrivata una reazione dura, nell’attimo in cui il fenomeno deprecato gli è sembrato superare ogni soglia di tollerabilità.

Questo traboccare, lo sappiamo, può essere provocato anche solo da una goccia. Anch’io avevo messo da parte l’articolo di Bianchi su Küng: un episodio, non così minore, di mancanza di responsabilità non solo nei confronti dei tanti che bevono le sue parole ma della sua stessa intelligenza. Chiedo: si può scrivere di Hans Küng su un giornale (che prevede una quota di lettori occasionali e non sistematici di ciò che si scrive) senza prendere esplicitamente da lui le distanze, e non tanto per opportunità ma per l’obiettiva pericolosità di un autore che ha prodotto danni enormi alla Chiesa? Non è legittimare, anzi incentivare presso il lettore (magari un “sincero cercatore di Dio”) la lettura di qualsiasi altra cosa di Küng, dai pamphlet più insidiosi e in odore di eresia alle piatte eppure maliziose compilazioni storico-religiose, dalle costanti e insolenti aggressioni a Roma ai velleitari progetti di “etica mondiale”? Non prevale in Bianchi, in questi casi, una presunzione di “magistero” divenuta talmente automatica da mettere, come Livi ha denunciato, sullo stesso piano Küng e Roma, giocando cioè a una sorta di superiore terzietà? Una goccia, magari, nel mare degli interventi del priore di Bose, eppure un brutto sintomo.

A suo tempo avevo lasciate “pro bono pacis” nel mio cassetto delle annotazioni sulle pagine iniziali de “La differenza cristiana”, un lettissimo volumetto di Bianchi pubblicato da Einaudi nel 2006. Ora è forse il momento di usarle. Nessun processo all’autore; ma una conferma di quell’enunciare incoerente o equivoco che, a più modesti livelli, sta corrompendo il laicato colto e settori del clero delle generazioni di mezzo, anzitutto.

Si possono sottolineare già le coordinate offerte dall’indice del libro: 1. “Una laicità del rispetto”, ove si indulge in formule problematiche come “laicità, una garanzia per la religione”, o “chi minaccia il cristianesimo” fino a “l’etica, un dono dell’esperienza”; poi: 2. “La differenza cristiana” in cui, dopo aver ricordato che “la fede non si impone”, si insiste sul dato che “i cristiani non sono perseguitati” e si proclama: “Siate profeti, ma non entrate in politica”; per finire con: 3. “Dialogare e accogliere l’altro”, ove colpisce la formula “un solo Dio, molti modi per dirlo” e altre del tipo “sei diverso da me, quindi ti accetto”. Verrebbe da dire sorridendo che siamo nel cuore del cattolicesimo politicamente corretto. Ma non è più l’ora di sottovalutare il peso di alcune di queste formule che, per usare un’immagine, non stanno a galla ma trascinano sul fondo coloro che vi si aggrappano.

Sottolineo subito la piega anti-apologetica di Bianchi. La tensione e l’assuefazione anti-apologetica non vanno considerate una virtù. Come è enorme la ricchezza che l’apologetica ha donato alla Chiesa (dai primi Padri ad Agostino, nei secoli, fino agli intelletti che guidarono le grandi conversioni nella cultura europea tra Otto e Novecento), così il suo mancato esercizio ha snervato, reso incolto e intimistico l’intelletto cristiano comune. Per Bianchi invece, nella da lui temutissima sfida laici-cattolici, la Chiesa rischierebbe di sentirsi “costretta ad esprimersi” (!) in modo apologetico, e con ciò a non essere più capace di sostenere in termini di pacifico confronto la sua collocazione nella “compagnia degli uomini” (pp. 3-4).

Naturalmente, per Bianchi, molto della conflittualità è da imputare alla Chiesa, a un suo “presenzialismo” che privilegia “tematiche e linguaggi di scontro”, una opzione – si suggerisce – gratuita e irresponsabile. Proseguendo su questa strada “ne patirebbe la stessa evangelizzazione” (p. 4). Da ciò il lettore ricava che il parlare a voce alta dei due recenti pontificati e di alcune conferenze episcopali non ha ragion d’essere nel merito ed è contrario all’autentica pastorale.

Sintomatico esordio per tutto il volumetto: assenza di diagnosi dell’attualità storica – che la Chiesa dovrebbe leggere meramente come un’astorica “compagnia” – e una concezione della differenza cristiana esonerata, forse perché immunizzata, dalla dimensione critica, se non quella indotta dall’intelligencija e molto praticata da Bianchi: libertà civili, democrazia, pacifismo, declamazione giustizialista, pauperista e simili.

Certo, Bianchi condanna l’eccesso libertario (”reificazione della libertà”), poichè i cristiani credono che in ogni essere umano vi sia una legge, un ethos non rivelato, non scritto, non codificato, eppure “presente ed eloquente”. In questo consisterebbe l’universalità stessa dell’umano. La Chiesa è di conseguenza “presidio di autentico umanesimo”. Ma come? Egli dice: come spazio di dialogo e di recupero di principi condivisi, luogo di confronto tra etiche e atteggiamenti individuali. In Bianchi, la concessione alla Chiesa d’essere presidio di umanesimo e l’accettazione di una sua funzione pubblica (“patrimonio di sapienza non destinato a restare negli spazi del culto privato”) prendono subito la strada vetero-habermasiana dell’agire comunicativo. Non si capisce come possa un “presidio” coincidere a priori con un’arena o una funzione di confronto di etiche e atteggiamenti individuali: arena ove la materia da presidiare non può che essere questa stessa funzione dialogica, in sé protettiva di qualsiasi contenuto e atteggiamento messo correttamente in campo. Neppure Habermas è più convinto che la Verità sia mero “Diskurs”.

D’altronde un “presidio”, se il termine non è solo retorico, suppone un pericolo e un’azione di prevenzione e difesa; che è altro dall’apertura di spazi dialogici fini a se stessi. Sfugge a Bianchi che solo l’agire recente, anche conflittuale, della Chiesa è la negazione di quel confinamento al culto privato che egli teme, e che la dimensione di “setta per quanto influente” è proprio ciò che la recente politicità della Chiesa cattolica nega. Ma chi legga attentamente Bianchi sa di non potersi attendere molta consequenzialità argomentativa in un quadro ideologico pur coerente.

Per Bianchi, naturalmente, non v’è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e attaccamento all’istanza di laicità. Il priore critica la laicità alla francese, ma la “giusta laicità” sarebbe di “grande giovamento alla Chiesa”. I cristiani vi troverebbero protezione contro l’utilizzo della fede come “religione civile”, termine con cui egli designa del tutto erroneamente l’uso strumentale della religione da parte di quanti “misconoscono nuovamente la distinzione tra Dio e Cesare”. Sullo sfondo del conflitto attuale egli evoca ancora gli eccessi del cesaropapismo e della teocrazia latina medievale. Vi sarebbero, secondo Bianchi, forze che vogliono un ruolo dominante della Chiesa, cioè che non vogliono che la Chiesa mantenga viva la forza profetica, la memoria eversiva del Vangelo. Le istituzioni religiose verrebbero piegate alla “mediazione”, con una vicendevole “strumentalizzazione” di poteri religiosi, politici e sociali (pp. 14-15). Tutto ciò sarebbe contrario alla parola, profezia liberante, che chiede la rinuncia agli idoli societari.

Questi luoghi comuni non rappresentano solo una confusione estrema – come qualsiasi studioso coglie – tra teocratismo, disciplinamento religioso della società, religione civile, come tra mediazione politica e “strumentalizzazione” delle parti. In tutto il corso del libretto si invocano, come formule di rito, dialogo, ethos e spazio sociale condiviso; e naturalmente “integrazione”, nelle scontatissime pagine sui rapporti interetnici. Paradossalmente, questo corpo retorico che si sviluppa attorno all’espressione “presidio” è affine, senza che Bianchi lo sospetti, al vero quadro ideologico della moderna religione civile: “religione” subordinata alla “volonté générale” di una comunità roussoviana senza conflitto.

Dunque la Chiesa sarebbe “presidio di autentico umanesimo” da esercitare nello spazio pubblico; ma presidio vacuo, poiché ogni sua azione autorevole, se in contrasto con la “volonté générale”, sarebbe in sé, per Bianchi, “spegnimento di profezia” e “sacrificio agli idoli societari”. Nell’idea che “la profezia della Chiesa” si dia nella conformità alla “volonté générale” hanno creduto, a lungo, tutte le subculture cristiane subalterne dell’intelligencija rivoluzionaria. Oggi è tutto dimenticato, ma la religione civile che pretende il dominio è sempre quella dell’intelligencija (dei diritti emancipatori, oggi), mentre è difficile per la Chiesa esercitare il proprio “presidio” pubblico. Né sarà possibile che lo eserciti mai se seguirà il canone di Bianchi: “I pastori chiedono di essere ascoltati, consigliano, mettono in guardia ma non pretendono che la legge evangelica [ma non era il diritto naturale, "ethos non rivelato, non scritto, eppure eloquente" universalmente? - p.d.m.] sia tradotta in legge vincolante per tutti”.

“Evangelizzazione e dialogo, dunque!”. Ma come e su che cosa, se la preoccupazione maggiore è che “la definizione della verità [per Bianchi “prodotta e definita dalla Chiesa stessa” (p. 92)] rischia di sostituirsi alla Verità vivente, Gesù Cristo risorto”? La sudditanza ai “valori” dell’azione politica dell’intelligencija unita alla de-dogmatizzazione sono una pericolosa miscela, che non sarà Bose a trattenere sull’orlo del precipizio fideistico. Nel suo più recente libro “Per un’etica condivisa”, pubblicato nel 2009, il priore di Bose mostra, infatti, che anche in lui la scivolata prosegue. A p. 46 generosamente sostiene che è ancora possibile “raggiungere al cuore del loro vissuto ordinario” gli uomini di oggi: “È ancora possibile rendere conto di un legame vitale con una presenza invisibile che i credenti chiamano Dio. Certo, per fare questo appare oramai infruttuosa se non addirittura impraticabile la via dell’esposizione della dottrina e della dimostrazione dei dogmi”. Ovviamente la strada è, invece, quella del restare “attaccati” a “un Dio soprattutto raccontato, spiegato da Gesù Cristo”.

Che poi il Dio “raccontato, spiegato” da Gesù sia, anche nelle omelie dei parroci poco provveduti, il Dio del “forse Gesù non ha detto questo”, del “probabilmente non è avvenuto quello che l’evangelista racconta”, cioè della critica biblica orecchiata, diffusamente maneggiata senza criteri ermeneutici e senza teologia, insomma il Dio di un Gesù ricostruito arbitrariamente, a Bianchi non interessa. Né gli interessa, sul terreno dei fondamentali, che il Concilio Vaticano II non abbia annullato il rapporto necessario tra Scrittura e Tradizione, che solo può garantire la vera “doxa” sul “Dio spiegato da Gesù Cristo”. Purtroppo, su questo terreno, l’impietosa lettura di Livi tocca difetti e pericoli reali.

Sarebbe stato meglio per Bianchi non arroccarsi nel: “Io? quando mai?”. I “maestri” devono adattarsi, ormai, a un altro regime comunicativo e a maggiore autocontrollo; meglio se anche a una maggiore riflessione.

Scrivo questo con dinanzi agli occhi anche l’ultima sortita pubblica di Bianchi, su “La Stampa” della domenica di Pasqua. L’articolo-omelia è per gran parte opinabile nei limiti della legittima diversità tra tutti noi. Personalmente, né da un giornale né da un pulpito vorrei sentirmi dire che nella Pasqua i cristiani “innanzitutto leggono una storia di passione e di morte”. Ritengo evidente che nella Pasqua i cristiani anzitutto rivivono la resurrezione e “leggono” ciò che in apertura della veglia pasquale recita l’Exultet, quando invoca uno squillante, regale annuncio “pro tanti Regis victoria”. Sarà la diversità delle nostre sensibilità comunicative, o qualcos’altro, che il finale dell’articolo di Bianchi rivela?

In effetti il priore di Bose poteva arrestarsi sulla battuta “politica” contro il Crocifisso come “simbolo culturale”, un tema complicato del genere “religione civile”, per affrontare il quale si richiederebbero categorie giuste. Pazienza. Ma egli si avventa sul terreno della testimonianza cristiana del Risorto: i cristiani ricordano e si dicono – scrive – “semplicemente questo: l’amore vissuto da Gesù ha vinto la morte… Gesù era umanissimo e ciò che aveva di eccezionale non era di ordine religioso [che significa? è un escamotage per evitare di dire che non era di ordine soprannaturale? - p.d.m.] ma umano. È con la sua umanità che egli, il Figlio di Dio e la Parola diventata uomo come noi, ci ha portato a Dio”. Per un cristiano augurare la buona Pasqua sarebbe, quindi, affermare: “Vorrei dirti che l’amore vince la morte”.

La protezione che l’inciso “il Figlio di Dio e la Parola ecc.” esercita sulle 14 righe finali dell’articolo è minima. Restano la romanticheria dell’enunciato: “l’amore vince la morte”, tutto minuscolo, pura enfasi adatta a tutti gli approdi, aperta a tutte le concezioni, da quella delle lettere giovannee al clima del romanzo rosa e della canzonetta. Quale “amore”? E quale “morte”? Abbiamo riflettuto e battagliato su morte e antropologia cristiana per anni, perche i “maestri” arrivino a dirci queste miserie? Qui non c’è neppure il buon senso (o il coraggio, su un quotidiano laico) di introdurre le maiuscole come a suggerire che, comunque, si intendono la vetta incarnata dell’Agape e la visione della Morte propria, poniamo, della teologia paolina della redenzione: “Ubi est mors aculeus tuuus, ubi est mors victoria tua?”.

L’affermazione, poi, che “ciò che Gesù ebbe di eccezionale fu di ordine umano” è follemente equivoca. È la ripetizione di un topos del protestantesimo liberale. È per questo che Bianchi non dice che Gesù ha vinto la morte, ma che “l’amore vissuto da Gesù” lo ha fatto, cioè che a salvarci è stata semplicemente l’esperienza amorevole dell’umanissimo Gesù. Davvero i “teologi” del Gesù solo amore – questi neopietisti postmoderni – pensano che per vincere la Morte non sia stato necessario il Signore della Storia?

Il tutto è irresponsabilmente ai margini, se non fuori, della cristologia dei grandi Concili, di quei fondamenti trinitari e cristologici irrinunciabili la cui alterazione, frequente, conduce sempre a una predicazione dimezzata e infantile, a un cristianesimo informe, alla corruttela “teologica” dei best seller di un Vito Mancuso. Così, a cascata. Solo l’intervento di Pietro, temo, solo il “confirma fratres tuos” potrà fermare questa incosciente, gaia e stolida, caduta collettiva.

Firenze, 9 aprile 2012