giovedì 4 marzo 2010

Celibato Ecclesiastico


A margine del Convegno “Il celibato sacerdotale: teologia e vita” organizzato dalla Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce, in programma questi giorni a Roma, pubblichiamo un articolo di Vittorio Messori dal titolo Celibato Clericale n. 1 (Emporio cattolico, Sugarco Editore 2006, p. 126-131). l’autore sintetizza brillantemente il lavoro del Card. Alfons M. Stickler, Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 72. Il discorso sul celibato sacerdotale in questi ultimi decenni è stato condotto sbrigativamente e sommariamente: il card. Stickler pubblicando il suo libro nel 1994 contribuì non poco a diradare le nebbie modernistiche tanto che oggi non è più “teologicamente scorretto” come ricorda Messori parlare del celibato come di una tradizione di origine apostolica. Anche papa Benedetto XVI sembra andare in questa direzione quando afferma: "Il fatto che Cristo stesso, sacerdote in eterno, abbia vissuto la sua missione fino al sacrificio della croce nello stato di verginità costituisce il punto di riferimento sicuro per cogliere il senso della tradizione della Chiesa latina a questo proposito" (Sacramentum Caritatis, 24).

Celibato Clericale n. 1 . I vent’anni successivi al Vaticano II hanno registrato il più alto numero di abbandoni dell’esercizio del sacerdozio nella storia della Chiesa. La grande maggioranza di coloro che hanno preso questa decisione si sono poi sposati, che avessero o no ottenute le dispense canoniche. C’erano stati altri esodi di massa, ma con caratteristiche e motivazioni diverse: le conseguenze della Riforma protestante nel Cinquecento e della Rivoluzione francese tra Sette e Ottocento. Anche allora, comunque, il celibato legato al sacerdozio era stato contestato, in quanto giudicato non come una conseguenza fondata e legittima della prospettiva evangelica, bensì come semplice prodotto di una decisione ecclesiastica, per giunta tardiva e limitata all'Occidente.

Ma la questione dell'origine del celibato è davvero come ci è stata spesso presentata da coloro che lo contestano? Devo confessare di avere avuto molti dubbi di fronte ai toni polemici e definitivi di qualcuno. Ora, questi dubbi mi sono mutati in convinzioni precise, dopo avere letto la settantina di ense pagine stampate dalla Libreria Editrice Vaticana con il titolo Il celibato ecclesiastico e il sottotitolo La sua storia e i suoi fondamenti teologici. Ne è autore il cardinale Alfons Maria Stickler, defunto da non molto salesiano austriaco, teologo di straordinaria erudizione e che non casualmente fu bibliotecario e archivista di Santa Romana Chiesa. Lontano da ogni polemica, basandosi costantemente e pacatamente sui testi, lo studioso mostra l'infondatezza di molto di ciò che viene spesso affermato «negli stessi ambienti ecclesiastici, alti e bassi», come precisa.

Poiché, anche solo per una sintesi sommaria, lo spazio di un capitolo non è sufficiente, si parlerà in questo della disciplina del celibato nella Chiesa occidentale e, nel prossimo, nella Chiesa orientale. A giustificare lo spazio che dedichiamo al tema, c'è quanto nota il cardinale Stickler sin dalla prefazione del libro: «Per ciò che si riferisce alla storia del celibato ecclesiastico in Occidente e in Oriente si hanno oggi dei risultati importanti, maturati proprio in questi ultimi tempi, che o non sono ancora entrati nella coscienza generale o vengono taciuti se sono atti a influenzare questa coscienza in una maniera non desiderata ». Siamo alle solite: quanto non è «teologicamente corretto», cioè in linea con una prospettiva contestatrice della Tradizione, è rimosso da certa intellighenzia clericale.

Innanzitutto, va chiarito che da secoli siamo abituati a parlare di celibato, cioè di rinuncia al matrimonio da parte dei candidati al sacerdozio, soprattutto in riferimento ai seminari nati con il Concilio di Trento. In realtà, bisognerebbe usare il termine più ampio di continenza. Cioè, la continenza da osservare non solo rinunciando al matrimonio, ma anche non usando del matrimonio se già ci si è sposati. In effetti, nella Chiesa antica, la maggioranza del clero era composta di uomini maturi che, col consenso della moglie, accedevano agli Ordini sacri, lasciando la famiglia, alle cui necessità materiali provvedeva la comunità dei credenti. Questo si inquadrava nella parola con cui Gesù promette «il centuplo su questa terra e nell'aldilà la vita eterna» a coloro che, per amor suo e del Regno, «hanno abbandonato casa, genitori, fratelli, moglie, figli».

Ebbene, capita spesso di leggere, anche in autori seri, che l'obbligo di questo abbandono della consorte, e sovente dei figli, con susseguente impegno alla continenza perfetta, sarebbe stato deciso soltanto verso l'anno 300 al Concilio, o meglio Sinodo, ispanico di Elvira, presso Granada. Un canone di quel Concilio, il 33, dice in effetti: «Si è d'accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici impegnati nel servizio dell'altare, che devono astenersi dalle loro moglie non generare figli. Chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale».

Osserva il cardinale Stickler: «Non è possibile vedere in questo canone una disposizione nuova. Essa appare invece chiaramente quale reazione contro l'inosservanza di un obbligo tradizionale ben noto, al quale si annette ora anche la sanzione: o osservanza dell'impegno assunto della rinuncia alla famiglia o rinuncia all'ufficio clericale. Una novità in materia, con per giunta una retroattività della sanzione contro diritti già acquisiti, avrebbe causato una tempesta di proteste centro un'evidente violazione del diritto in un mondo,come quello romano, tutt'altro che digiuno di leggi. Ciò ha percepito chiaramente Pio XI quando, nella sua enciclica sul sacerdozio, ha affermato che questa legge scritta suppone una prassi precedente». In realtà, ad Elvira non si fece che ribadire quanto già da tempo immemorabile si praticava, seguendo la Tradizione.

C'è, infatti, un equivoco in cui cascano storici dilettanti o, talvolta, anche professionisti, qualora vogliano dimostrare a ogni costo tesi prefissate che stiano loro a cuore. Si identifica, cioè, lo jus, il diritto - il sistema giuridico di un popolo o di un gruppo, sistema basato anche su norme orali e su consuetudini - ,con la lex, la legge data per iscritto e promulgata in forma legittima. In realtà, il diritto, lo jus, solo lentamente, magari dopo secoli, diventa un sistema scritto di leges. È dunque abusivo dire - come capita spesso di ascoltare - che solo all'inizio del 300, e per giunta in un Sinodo minore, regionale, in una cittadina remota, la Chiesa avrebbe imposto la continenza ai suoi chierici. Una novità di tale peso, tra l'altro, sarebbe stata sancita come en passant, tra molte altre disposizioni minori tra le quali, ad esempio, il divieto di accendere lumi sulle tombe dei parenti?

Che non si trattasse affatto di innovazione lo dimostrano gli atti di molti altri Sinodi o Concili, come quello africano, tenuto a Cartagine nel 390, in piena comunione con tutte le altre Chiese locali, e dove si approvò all'unanimità la seguente dichiarazione: «Conviene che tutti coloro che servono ai divini sacramenti (vescovi, sacerdoti, diaconi) siano continenti in tutto, affinché custodiscano ciò che hanno insegnato gli apostoli e ciò che tutto il passato ha conservato». Dunque, ci si riferisce esplicitamente a una Tradizione indiscussa, che viene semplicemente confermata e che si fa risalire addirittura all'epoca degli apostoli e, dopo di essi, a una prassi ininterrotta. In effetti, non solo non risultano opposizioni al decreto, ma Stickler riporta molte testimonianze di conferma e di approvazione da parte della Chiesa di Roma, dalla quale dipendeva - in uno scambio continuo - la Chiesa africana.

Per scegliere quasi a caso, papa Siricio, nel 385, afferma solennemente che «i sacerdoti e i diaconi che anche dopo l'ordinazione praticano le loro mogli, agiscono contro una legge irrinunciabile che lega i chierici maggiori sin dall'inizio della Chiesa». E a coloro che obiettano che, stando all'Antico Testamento, i sacerdoti e i leviti potevano usare del loro matrimonio al di fuori dei turni del servizio nel Tempio, il papa ricorda che i sacerdoti del Nuovo Testamento devono prestare il loro servizio ogni giorno e, pertanto, dal momento della loro ordinazione sacra devono vivere in una continua e perfetta continenza.

In un'altra lettera, lo stesso pontefice precisa che questa ed altre disposizioni in materia non sono novità, bensì punti della fede e della disciplina che non devono essere trascurati. Già nel 386, un Sinodo romano, che radunava 80 vescovi, rispondeva a un'obiezione che - tra l'altro - viene ancora oggi continuamente riproposta e che voleva provare la continuazione, alle origini, dell'uso del matrimonio con le parole di Paolo, nella lettera a Timoteo e a Tito, parole secondo le quali deve essere stato sposato una volta sola chi è candidato agli ordini sacri. Si replicava che questo era stato stabilito «a causa della continenza futura del chierico». Chi, cioè, restato vedovo, non aveva saputo vivere da solo e si era risposato, faceva sorgere seri dubbi sulla capacità di assoggettarsi alla castità richiesta a chi servisse all'altare. Così, questa norma paolina, anziché una prova contro la continenza clericale, diventava una prova a suo favore, per di più richiesta da un apostolo con l'autorità indiscussa di Paolo.

A queste e a molte altre testimonianze di una prassi di continenza sessuale indiscussa sin dalle origini e semplicemente riproposta dalla Chiesa riunita in Concili e Sinodi, il cardinale aggiunge la voce dei maggiori Padri dell'Occidente, da Ambrogio a Girolamo, da Agostino a Gregorio Magno. Se ne deduce senz'ombra di dubbio che «dalla prassi occidentale accertata dai testi consegue che la continenza per i tre ultimi gradi del ministero clericale (vescovi, sacerdoti, diaconi) si manifesta quale obbligo che risale agli inizi della Chiesa e che è stato accolto e trasmesso come patrimonio della Tradizione orale. Dopo il tempo delle persecuzioni, e a causa delle conversioni sempre più numerose che esigevano molte ordinazioni,avvengono anche trasgressioni dell'obbligo, contro le quali però i Concili e i romani pontefici procedono per mezzo di disposizioni scritte ».

Verso l'epoca costantiniana, dunque, lo jus diventa lex, ma quest'ultima non sancisce cose nuove, bensì mette per iscritto una Tradizione che - stando a tutti i documenti - è indiscussa e ininterrotta sin dai tempi del Nuovo Testamento. Mai, sin da quando ne appare menzione scritta, la continentia clericorum è presentata come un'innovazione. Ne conclude Stickler: «Chi volesse affermare il contrario, non solo peccherebbe contro un metodo storico cogente ma taccerebbe di bugiardi tutti i testi unanimi che abbiamo ascoltato, poiché di ignoranza della Tradizione non li si potrebbero accusare ».

Per finire con questa sintesi (assai ristretta per ragioni di spazio) della questione nella Chiesa occidentale e prima di passare, nel prossimo capitolo, alla Tradizione orientale: come dicevamo molti, che mettono in discussione l'obbligo del celibato, affermano che questo spunta soltanto ad Elvira e soltanto come disposizione di una Chiesa locale. Ma altri, addirittura, affermano che di continenza clericale,estesa chiaramente alla Chiesa universale, si può parlare soltanto dal 1139 con una disposizione del secondo Concilio Lateranense.

In realtà, le cose non stanno affatto così: quel Concilio stabilì che i matrimoni contratti da vescovi, sacerdoti, diaconi, come anche quelli di coloro che avevano emesso voti per la vita religiosa, non erano solamente illeciti ma anche invalidi. Il cardinale Stickler non ha così difficoltà a concludere: «Questa disposizione conciliare ha causato un fraintendimento ancor oggi molto diffuso: e, cioè, che il celibato ecclesiastico sarebbe stato introdotto soltanto allora, nel XII secolo. In realtà si è reso invalido ciò che già da sempre era illecito. Dunque, questa sanzione è piuttosto una nuova conferma di un obbligo esistente da molti secoli».

D'altro canto, la coscienza profonda della Chiesa è stata sempre consapevole della indispensabile connessione tra Ordini sacri e continenza, tanto da non recedere neanche davanti a crisi drammatiche. Nel XVI secolo, Roma resistette anche alle fortissime pressioni di imperatori e di re per recuperare molti preti passati alla Riforma, conservando loro le mogli. Una commissione romana studiò la questione e giunse alla conclusione del non possumus: tutta la Tradizione lo impediva, chi voleva essere reintegrato doveva rinunciare alla famiglia e praticare la continenza. Non solo: il Concilio di Trento rinnovò l'appello alla fedeltà al celibato, creò i seminari per favorirlo e rifiutò di considerarlo una legge puramente ecclesiastica, tacendo così intendere che la sua origine stava nel Nuovo Testamento stesso.

È significativo che i Valdesi, preoccupati soprattutto di restare fedeli alla Chiesa delle origini, abbiano stabilito il celibato peri loro pastori, i barba (gli zii, come li chiamavano), e vi abbiano rinunciato a malincuore e tra polemiche solo nel XVI secolo, per aderire alla Riforma.