sabato 21 agosto 2010

Benedetto XVI ci parla di San Pio X

BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE

Cortile interno del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Mercoledì, 18 agosto 2010


 
Cari fratelli e sorelle!
oggi vorrei soffermarmi sulla figura del mio Predecessore san Pio X, di cui sabato prossimo si celebra la memoria liturgica, sottolineandone alcuni tratti che possono essere utili anche per i Pastori e i fedeli della nostra epoca.

SAN PIO X 1835-1914

Giuseppe Sarto, così il suo nome, nato a Riese (Treviso) nel 1835 da famiglia contadina, dopo gli studi nel Seminario di Padova fu ordinato sacerdote a 23 anni. Dapprima fu vice parroco a Tombolo, quindi parroco a Salzano, poi canonico della cattedrale di Treviso con l’incarico di cancelliere vescovile e direttore spirituale del Seminario diocesano. In questi anni di ricca e generosa esperienza pastorale, il futuro Pontefice mostrò quel profondo amore a Cristo e alla Chiesa, quell’umiltà e semplicità e quella grande carità verso i più bisognosi, che furono caratteristiche di tutta la sua vita. Nel 1884 fu nominato Vescovo di Mantova e nel 1893 Patriarca di Venezia. Il 4 agosto 1903, venne eletto Papa, ministero che accettò con esitazione, perché non si riteneva all’altezza di un compito così alto.

Il Pontificato di san Pio X ha lasciato un segno indelebile nella storia della Chiesa e fu caratterizzato da un notevole sforzo di riforma, sintetizzata nel motto Instaurare omnia in Christo, "Rinnovare tutte le cose in Cristo". I suoi interventi, infatti, coinvolsero i diversi ambiti ecclesiali. Fin dagli inizi si dedicò alla riorganizzazione della Curia Romana; poi diede avvio ai lavori per la redazione del Codice di Diritto Canonico, promulgato dal suo Successore Benedetto XV. Promosse, poi, la revisione degli studi e dell’"iter" di formazione dei futuri sacerdoti, fondando anche vari Seminari regionali, attrezzati con buone biblioteche e professori preparati. Un altro settore importante fu quello della formazione dottrinale del Popolo di Dio. Fin dagli anni in cui era parroco aveva redatto egli stesso un catechismo e durante l’Episcopato a Mantova aveva lavorato affinché si giungesse ad un catechismo unico, se non universale, almeno italiano. Da autentico pastore aveva compreso che la situazione dell’epoca, anche per il fenomeno dell’emigrazione, rendeva necessario un catechismo a cui ogni fedele potesse riferirsi indipendentemente dal luogo e dalle circostanze di vita. Da Pontefice approntò un testo di dottrina cristiana per la diocesi di Roma, che si diffuse poi in tutta Italia e nel mondo. Questo Catechismo chiamato "di Pio X" è stato per molti una guida sicura nell’apprendere le verità della fede per il linguaggio semplice, chiaro e preciso e per l’efficacia espositiva.

Notevole attenzione dedicò alla riforma della Liturgia, in particolare della musica sacra, per condurre i fedeli ad una più profonda vita di preghiera e ad una più piena partecipazione ai Sacramenti. Nel Motu Proprio Tra le sollecitudini (1903, primo anno del suo pontificato), egli afferma che il vero spirito cristiano ha la sua prima e ed indispensabile fonte nella partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa (cfr ASS 36[1903], 531). Per questo raccomandò di accostarsi spesso ai Sacramenti, favorendo la frequenza quotidiana alla Santa Comunione, bene preparati, e anticipando opportunamente la Prima Comunione dei bambini verso i sette anni di età, "quando il fanciullo comincia a ragionare" (cfr S. Congr. de Sacramentis, Decretum Quam singulari : AAS 2[1910], 582).

Fedele al compito di confermare i fratelli nella fede, san Pio X, di fronte ad alcune tendenze che si manifestarono in ambito teologico alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX, intervenne con decisione, condannando il "Modernismo", per difendere i fedeli da concezioni erronee e promuovere un approfondimento scientifico della Rivelazione in consonanza con la Tradizione della Chiesa. Il 7 maggio 1909, con la Lettera apostolica Vinea electa, fondò il Pontificio Istituto Biblico. Gli ultimi mesi della sua vita furono funestati dai bagliori della guerra. L’appello ai cattolici del mondo, lanciato il 2 agosto 1914 per esprimere «l’acerbo dolore» dell’ora presente, era il grido sofferente del padre che vede i figli schierarsi l’uno contro l’altro. Morì di lì a poco, il 20 agosto e la sua fama di santità iniziò a diffondersi subito presso il popolo cristiano.

Cari fratelli e sorelle, san Pio X insegna a noi tutti che alla base della nostra azione apostolica, nei vari campi in cui operiamo, ci deve essere sempre un’intima unione personale con Cristo, da coltivare e accrescere giorno dopo giorno. Questo è il nucleo di tutto il suo insegnamento, di tutto il suo impegno pastorale. Solo se siamo innamorati del Signore, saremo capaci di portare gli uomini a Dio ed aprirli al Suo amore misericordioso, e così aprire il mondo alla misericordia di Dio.

lunedì 16 agosto 2010

Le radici gianseniste della nuova lex orandi

Mentre su “Gente Veneta”, settimanale del patriarcato di Venezia, si ciancia del Sinodo di Pistoia condannato da Pio VI con la bolla Auctorem fidei, come riporta il blog di messainlatino.it, proponiamo ai nostri lettori quest'interessantissimo studio su

Le radici gianseniste della nuova lex orandi.


Pubblicato in Conoscenza Religiosa [Firenze: La Nuova Italia], 1 (gennaio - marzo-1969), 90-108; il testo qui riportato è stato sottoposto ad alcune correzioni ortografiche e stilistiche. Il sottotitolo è redazionale


Da tre anni ormai è stato introdotto nella Messa il volgare e questa immissione, se non le sue conseguenze, forma materia di storia, e si può considerare con una certa misura di distacco. Che fosse un evento della massima importanza nessuno può negare: lex orandi, lex credendi. La fede regola l'orazione e viceversa. Sarebbe inoltre di una singolare superficialità sostenere che si potessero costringere milioni di persone a rimutare di punto in bianco la millenaria atmosfera della loro vita spirituale senza che ciò significasse niente. Forse mai vi fu un così drastico sovvertimento nella forma cultuale d'una religione la quale nel contempo pretendesse di rimanere la stessa di prima.

Il cambiamento non s'è ristretto alla lingua; la posizione dell'altare, del tabernacolo, del sacerdote, i gesti del celebrante, i movimenti dei fedeli, tutto è cambiato.

Anche se potrebbe essere illuminante, un esame particolareggiato di tutte queste mutazioni dilaterebbe di troppo questo saggio, ed esse sono inoltre, in certa misura, tutte subordinate alla stessa, unica affermazione: che nessun simbolo è significativo salvo la parola parlata e comprensibile.

Allo storico è indifferente che un mutamento sia giusto o errato; il problema è perché si sia verificato in un certo momento invece che in un diverso contesto ed in tempi diversi. Che cosa c'è di particolare nell'Avvento del 1964, che fosse assente nell'Avvento del 964? E come avviene che lo stesso vescovo oggi prescrive ciò che ieri proscriveva? E come mai un prete, ordinato nella e per la Messa latina, e che la celebro diuturnamente per anni, e la spiegò e difese ogni qual volta dovette istruire un convertito, e la predico dal pulpito, come mai egli la butta a mare oggi senza pensarci sopra e inveisce contro di essa senza arrossire. Non si può affermare che il clero vi fosse obbligato da una soverchiante esigenza popolare. È un fatto storicamente certo che nei tempi preconciliari, le varie associazioni ñ liturgiche vernacole nazionali ñ non solo erano promosse dal clero ma annoveravano fra i loro membri quasi soltanto ecclesiastici, e per lo più escludevano la Messa dal loro programma. D'altro canto il movimento Una Voce è forse oggi l'unica organizzazione spontanea e del tutto laica di azione cattolica nella Chiesa.

Poiché sarebbe assurdo asserire che tutti i vescovi e la maggioranza dei preti siano o subdoli o incapaci, bisogna pur trovare una causa sufficiente a spiegare un mutamento così subitaneo e così universalmente applaudito. Un'avversione alla Messa latina si stava dunque formando, da qualche parte in un qualche modo, del tutto inconsciamente. La enorme struttura monolitica pareva intatta, ma restava eretta, dunque, per mera forza d'abitudine. Doveva essere minata sotterraneamente se basto pigiare un bottone per farla crollare. Ma chi pigio il bottone e chi aveva scavato le gallerie per minarla?

Questi i problemi che attendono lo storico, e che sono al di fuori dell'ambito proprio al liturgista ed al teologo.

Allorché si esaminano da vicino questi cambiamenti così massicci, bisogna ricordarsi che le ragioni proclamate non sono necessariamente le vere, in parte perché il problema può essere non già che cosa la gente pensi ma perché lo pensi, in parte perché i motivi conclamati sono probabilmente razionalizzazioni post hoc di sentimenti più profondi e forse inesplicabili. Se questo vale per la Riforma protestante o per la Rivoluzione francese, varrà anche per la Riforma liturgica. Le ragioni proclamate meritano tuttavia d'essere prese in esame.

Quelle, anzitutto, del fautore del latino.

Quali ragioni adduce a pro del mantenimento d'una liturgia che in gran parte non si ode e per lo più non si capisce? Egli lamenta la perdita irreparabile d'un simbolo d'unità nel tempo e nello spazio, mostra l'assurdo d'un inglese che va a cercarsi a Roma la sua chiesa tribale; i conflitti inevitabili che nascono dal vernacolo in società plurilinguistiche; il pericolo che rappresentano per la Chiesa le lingue dei colonizzatori in paesi di emancipazione recente. Non solo le versioni sono inadeguate ma è puerile immaginare che si sia cresta una liturgia volgare soltanto col tradurre dal latino poiché ogni lingua ha una propria congeniale natura e l'equivalente inglese di un epigramma latino sarebbe un passo della magniloquente prosa di Macaulay. Comunque sia, non soltanto il silenzio è altamente significativo, ma è l'unico elemento comune fra tutte le lingue. C'è inoltre il problema insolubile della musica, e via enumerando.

Ragioni come queste sono oggettivamente veritiere, valide e ponderose, ma si può ben dubitare che siano le vere ragioni per cui il fautore del latino odia il volgare. Esse sono, fra l'altro, ragioni accidentali. S'immagini che l'inglese fosse dichiarato lingua universale della Chiesa e che la Messa, non tradotta ma riscritta in un inglese impeccabile ed armonioso, fosse celebrato dal sacerdote meno inadeguato fra tutti. Forse che il fautore del latino l'accetterebbe? Certo che no. Essa continuerebbe a stridergli nel profondo dell'anima. Continuerebbe a crudelmente soffrire.

Messo alle strette, pero, il fautore del latino avanza tutt'altro genere di ragioni, in modo spesso e variamente inadeguato; buon segno in verità, poiché le argomentazioni astratte sono sempre chiare mentre la realtà viva non è mai del tutto esprimibile.

Queste ragioni suonano più o meno così: "La Messa ha perduto il suo anonimato. Nell'antica, il sacerdote non aveva importanza, adesso ogni sua parola è intenzionalmente significativa e, poiché egli parla la sua lingua che non posso fare a meno di capire, mi urta. Pregare è impossibile, perché la mia lingua non solo mi distrae ma è in se stessa la distrazione. Peggio ancora: ho smarrito anch'io il mio anonimato. Nella antica Messa, io non contavo; adesso mi tocca esprimermi e per giunta in comune. Ero raccolto, ora debbo essere attivo, due inconciliabili. Nella vecchia Messa il cuore parlava al cuore, cor ad cor loquitur; ora che la Messa si ode tutta, è il cuore a non parlar più. Ogni traccia di devozione è svanita.

Un simile punto di vista può sembrare piuttosto soggettivo, ma ha un enorme vantaggio: il timbro della verità; probabilmente è una buona pista verso i veri motivi che cela questo atteggiamento. Fra l'altro, la direbbe lunga su un fenomeno innegabile: e cioè che coloro che meno conoscono il latino sono quelli che più ne deplorano generalmente la perdita: la lingua ieratica li aiutava a raggiungere l'anonimato; per un dotto conoscitore il latino aveva un palese significato e poteva valergli il vernacolo.

Quali, viceversa, le ragioni dichiarate del vernacolarista? Una si può eliminare d'acchito perché non regge, e cioè che la Messa offra alla Chiesa l'occasione più naturale di assolvere alla propria missione d'insegnamento. Forse che nessuno ha mai pensato di predicare durante la Messa? Che cosa s'insegna costringendo a borbottare tutto l'anno "Signore, pietà" invece di far ascoltare il Kyrie eleison Tra l'altro, è proprio vero che "Il Signore sia con voi" ha lo stesso significato di Dominus vobiscum? Produce veramente le stesse immagini mentali, conduce alle stesse associazioni?

D'altronde, a parte la teoria, il fatto che l'assemblea fosse composta esclusivamente di "periti" che non hanno nulla da imparare, impedirebbe in pratica al vernacolarista di celebrare la sua Messa in vernacolo? No di certo; al contrario.

Un'altra linea di pensiero, assai più interessante benché neppure questa sembri una causa sufficiente a mutamenti tanto drammatici, è nel vernacolarista la aspirazione al revival religioso, il "torniamo ai primordi" comune a ogni rivoluzione. Le società sembrano raggiungere di quando in quando uno stato tale di perfezione che la gente se ne disgusta cordialmente. Le tecniche sembrano troppo raffinate, i contenuti troppo gracili. La protesta mira non ad incrementare il contenuto bensì a spaccare il contenente: "Torniamo ai primordi!"

Nel 1520 che cosa avrebbe potuto produrre la Germania medievale dopo la Hellenkirche? Che cosa si poteva intagliare, dopo Riemenschneider? "Torniamo alla Bibbia!": prima che si edificassero chiese o si intagliassero figure.

E che cosa si poteva fare nella Francia dell'ancien régime, se non distruggerla?

"Torniamo alle virtù di Roma repubblicana!"

Non si pecca forse di scorrettezza se si dirà che in questi tempi burrascosi la Barca di Pietro appariva un po' troppo salda. Poiché le onde non riuscivano a sbalestrarla, forse ci sarebbero riusciti i marinai. Essa cavalcava i marosi con un trionfalismo esasperante: "la nostra Fede, che è il principio trionfale che trionfa del mondo" (Giovanni, 1, 5-4); eh, no, bisogna impedirlo far si che imbarchi un po' d'acqua. La ciurma era governata dalla legge imperturbabile del diritto canonico; un po' di capriccio, un tocco d'anarchia bisogna introdurli subito: "Torniamo alla Chiesa dei primordi!"

Certo, non è questo il primo revival che abbia afflitto la Chiesa. Il movimento per la riesumazione del gotico non è neanche finito, sicché lo stesso prete il quale qualche anno fa proclamava che la conversione dell'Inghilterra era questione di iconostasi goticheggianti, cortinaggi d'altare, amitti ornamentati, gregoriano e scolastica, adesso è convintissimo che l'altare rivolto al popolo, la stola più spoglia, gran letture bibliche, una messa comunitaria e l'esistenzialismo convertiranno il mondo. La cosa più curiosa è il periodo che oggi si è scelto di far rivivere.

La straordinaria somiglianza fra il declino dell'Occidente e quello della Roma imperiale, fra l'età nostra e quella di Sant'Agostino, è stata riconosciuta da parecchio tempo. Sgomenta perciò che qualcuno desideri consapevolmente ripristinare il cristianesimo quale fu dal IV al VI secolo. Eppure s'è scelto proprio quello. Come ogni revival, anche questo seleziona con gran cura, e come prima si pigliava il rapido per Edimburgo ad una stazione gotica e si mangiava con posate vittoriane su una conventina gotica, così è soltanto la socialità religiosa del culto pubblico che si vuole ridestare fra i vari caratteri dell'epoca di Sant'Agostino. Non sono pero considerati da imitare fenomeni religiosi ben più significativi dello stesso periodo, come quelli rappresentati dagli stiliti o dai monaci della Tebaide, da coloro che la socialità religiosa del loro tempo spinse nel deserto o in cima ad una colonna

Ma se queste forme estreme di individualismo religioso non sono state trascelte per l'imitazione odierna, questo non impedisce che riemergano. Un egregio autore ha scritto in una lettera privata, a proposito dei mutamenti liturgici: "Mi debbo ricordare che compito della Chiesa è trasmettere il deposito della fede attraverso i secoli, e che la sua testimonianza nei templi è soltanto una parte, e da ora in poi forse una parte decrescente, del suo destino L'unica conseguenza positiva è che forse molti di più tra noi saranno spinti nel Castello Interiore di Santa Teresa dove Dio può parlare nel suo linguaggio di silenzio". Costui è maturo per il deserto.

Ma per quanto fascinoso possa essere un revival, per rappresentativo che possa essere di un movimento, non può mai esserne la causa.

No, la giustificazione fondamentale della Messa volgare è, come proclamano gli stessi vernacolaristi, la partecipazione. Il guaio è che la parola è molto ambigua.

Partecipare a che cosa, come, con chi? Partecipare a una società a responsabilità limitata, a una conversazione, a una recita teatrale, sono atti che implicano accezioni abbastanza diverse del vocabolo. Poi ci sono piani ben separati su cui si può ritenere che una persona partecipi: l'ecclesiale (in quanto membro della Chiesa) e il personale. Tanto vale dir subito che una liturgia inintelligibile non compromette il primo. Il fantolino che non capisce niente e strilla nel suo particolare vernacolo durante tutta la Messa partecipa, sul piano ecclesiale, con la stessa pienezza del celebrante, perché è membro della Chiesa e perché la Chiesa è presente in ognuno dei suoi membri come Gesù Cristo è ugualmente presente in ogni ostia consacrata. È nel piano personale che il fantolino è come o peggio che assente. Ne consegue che la partecipazione a cui mira una liturgia comprensibile deve attuarsi sul piano personale.

Ma si partecipa con chi? Qual è la "controparte" partecipe?

Non si può sostenere che sia Dio. Anche se l'osservazione sembra una celia, è ben vero che l'unica persona ostinata nel rifiuto di partecipare ad un'udibile Messa volgare è Dio; da parte Sua Egli continua a pronunciare nulla più che il Verbo fatto Carne. Se comunque la partecipazione a Dio può dipendere in qualsiasi modo da una liturgia volgare e udibile, allora dovunque, da più di mille anni, la Chiesa ha incoraggiato e insegnato una frequentazione inadeguata dei Sacri Misteri.

E se questo è vero, in che cosa ci si fiderà mai della Chiesa, se non c'è da darle credito neanche in ciò che eminentemente la concerne: la religione stessa, la partecipazione dell'uomo a Dio?

Se non è Dio, la controparte nel rapporto di partecipazione sarà forse il sacerdote ed i compagni di culto? Sembrerebbe a prima vista di si. Il canonico J. B. O'Connell negli Opuscoli dei Redentoristi (Redemptorist Pamphlets) scrive: "il quasi incredibile che per un millennio il rapporto vitale fra il popolo dei fedeli nei banchi ed i ministri all'altare sia rimasto tagliato". Si dà qui per scontato che sia l'attività vernacola ed udibile a formare il rapporto vitale fra fedeli e ministri e non già la raccolta attenzione della assemblea, che poté certo esservi sempre. Ma le cose stanno davvero in termini così elementari?

Se è indubbio che taluni ricavano un beneficio psicologico dalla preghiera comunitaria, altrettanto lo è che molti non lo ricavano per niente. Anzi, invece di apportare un ricco sentimento di comunione, di incorporazione nell'assemblea, essa ha prodotto una frattura che prima sarebbe stata inconcepibile.

D'altra parte, un simile concetto di partecipazione non basta a spiegare tutto: perché mai i monasteri femminili sono stati particolarmente trascelti per farvi celebrare la Messa volgare? Lo stato spirituale di quasi tutte le monache è quello dell'orazione di pure presenza; la Messa volgare è probabile che provochi in loro una crudelissima sofferenza invece di rafforzarne lo Spirito di comunità; già forse hanno troppe preghiere in comune, aggiungere alla lista anche la Messa sembra un atto leggermente brutale.

O ancora, nei giorni feriali in certe chiesette minori, il semplice fatto che nessuno dei devoti apra bocca e che ci si conoscano tutti per favorevoli al latino, non impedirà ad un prete, che intenda farlo, di dire la messa volgare. Non che egli sia necessariamente un sadico, ma certo i suoi motivi per agire in tal modo debbono essere diversi dal desiderio di ripristinare "il rapporto vitale fra il popolo nella navata ed il ministro all'altare".

Se la partecipazione come causa sufficiente per la liturgia volgare non può significare aver parte con Dio e non vuol precisamente dire far parte con il sacerdote ed il vicino, forse va intesa come "assumere una parte": rappresentare, piuttosto che condividere. Cosi deve essere, poiché, per quanto una persona lo conosca bene, di norma non pensa in latino né si esprime in latino, soprattutto con se stesso: gli rimane artificiale. può conoscere il significato di Agnus Dei, ma non c'è qui una sua personale implicazione, è come se stesse parlando un altro, laddove "Agnello di Dio" ha per lui un significato reale, implica un affidarsi, un consegnare se stesso.

Anche se la assemblea rifiuta caparbiamente di rispondere, il prete, con eroica risoluzione, continuerà a dire la messa volgare, si consegnerà nella lingua in cui può mettere dell'intenzione.

Se poi l'assemblea risponde, sarà dalla somma delle personali volontà di consegnarsi che sorgerà la inebriata partecipazione con il vicino, il "rapporto vitale" di cui parla O'Connell. La Messa latina dialogata era del tutto insufficiente a questo fine particolare; gli inservienti erano semplicemente moltiplicati da due magari a duecento, ma inservienti rimanevano: non partècipi, non consegnati, impersonali, anonimi, per mera forza della lingua ieratica. Ma ora, nella loro lingua, parlano con intenzione, non sono più inservienti ma persone, non schiavi ma uomini liberi: "popolo di Dio".

Se questa breve analisi dei motivi dichiarati dei fautori del latino o del volgare si avvicina al vero, la questione risulta abbastanza chiaramente definita. Il fautore del latino cerca nella Messa la dissoluzione dell'io, l'anonimato; il vernacolarista l'impegno dell'io, l'uscita dall'anonimato. Essi sono dunque irriconciliabili.

Ma, se il punto controverso risulta chiaramente definito, rimane il problema di come sia potuto avvenire uno scontro frontale entro una religione così dogmatica e unificata come quella della vera Chiesa. Prima di esaminare le possibili soluzioni, occorre escludere una spiegazione semplice: che è questione di temperamento; i fautori del latino sono degli introversi che cercano di perdersi perfino nel culto pubblico, i vernacolaristi invece degli estroversi che vogliono imprimere la loro personalità perfino sulla Messa.

I fatti, ahimè, non lo confermano: conosciamo tutti dei vernacolaristi introversi e degli estroversi fautori del latino. È veramente molto comico pensare che certi papi rinascimentali fossero degli introversi all'ultimo stadio. E che cosa avrebbe fatto diventare tutti estroversi nel bel mezzo del XX secolo? La spiegazione non funziona.

Certo è che, a parte il suo temperamento, un uomo per pregare deve essere capace di un minimo di introversione. La quieta, piccola voce giunta a Elia non si adatta al microfono. Ma questa è un'altra questione.

Lex orandi, lex credendi. Le liturgie possono mutare soltanto per due motivi: sono cambiate le credenze, la lex credendi, o è cambiato l'atteggiamento verso la preghiera, la lex orandi. Fu perfettamente giusto che al tempo della Riforma i protestanti cambiassero la liturgia, se non l'avessero fatto sarebbero stati degli ipocriti.

C'è stato un mutamento della fede, in seno alla Chiesa, tale da compromettere la liturgia della Messa?

Non è un problema, questo, su cui gli storici possano emettere per adesso un giudizio valido. La pozione intellettuale è ancora in fermento e non la si può imbottigliare e mettervi un'etichetta. Si è tenuti alla cautela. Si dice, per esempio, che il 60% degli studenti di teologia d'un seminario maggiore austriaco non creda alla Presenza Reale sotto nessuna riconoscibile forma. Ma forse il 60% del cervello dell'intervistatore non sapeva riconoscere la forma in cui quegli studenti credevano alla Presenza Reale.

È certo, comunque, che vi sono stati dogli spostamenti d'accento. Due di questi spostamenti, uno positivo e l'altro negativo, paiono degni di menzione.

Negativamente, "transustanziazione" è diventata una parola altrettanto oscena quanto "trionfalismo" o "diritto canonico". La ragione è filosofica e può non aver niente o ben poco a vedere con la teologia. Ma il risultato è che il clero secolare, la cui fede nella Presenza Reale e schietta come l'oro, ha perduto un termine che gli era perfettamente significativo e che nessun altro ha sostituito. Di conseguenza sono rimasti senza parola dinanzi al mistero centrale della fede cristiana.

Più importante è il cambiamento positivo. Molti studiosi, con un seguito numeroso nel clero, non negherebbero certo la Presenza Reale ma credono che usarne separatamente dall'evento comunitario, dalla attiva partecipazione (recita) del Popolo di Dio alla Cena del Signore ñ la Messa ñ sia un abuso. Come la loro ripugnanza per il termine "transustanziazione", anche quest'altra idea si fonda in una filosofia esistenziale invece che ontologica.

Eppure pochi porterebbero questa concezione esistenziale alla sua estrema, ma logica conseguenza: che fuori della Messa la Presenza Reale non ha senso, né, dunque, esistenza.

Questo atteggiamento spiega parecchio di quanto è accaduto e probabilmente accadrà nelle chiese cattoliche. Il Santissimo Sacramento è stato rimosso dall'altare maggiore grazie al semplice espediente di voltare l'altare. È ancora conservato, ma il più discretamente possibile, per scongiurare gli abusi della devozione privata. Sarebbe meglio non conservarlo affatto nella Riserva ma deporre le ostie non consumate nel santuario, dal momento, poi, che il Viatico è indesiderabile, militando esso contro il giusto uso del Sacramento dell'Unzione.

Non è difficile trovare chiese chiuse allorché non vi si officia, benché in esse non ci sia niente da rubare o da sconsacrare. Un numero sorprendente di preti già esita, specie nei giorni di festa a dire la messa privata, che probabilmente non sopravviverà a lungo. Le polemiche correnti contro le elemosine per la Messa si possono considerare un mezzo per divezzare il clero dall'interesse investito nel preservare tali messe.

La concelebrazione a onor del vero non fu troppo diffusa, finché non si concesse a tutti i concelebranti di accettare l'elemosina. In pratica la Benedizione è stata abolita con l'introduzione della Messa vespertina, accoppiata al recente decreto che ne vietava la celebrazione prima o dopo la Messa. Le processioni del Corpus Domini stanno segnando il passo e le Quaranta Ore saranno quietamente abbandonate. Salvo forse qualche specie di "servizi per gruppi di studio" rimarrà soltanto la Messa, ma la Presenza Reale, invece che il centro della devozione cristiana, dovrà diventare un "avvenimento" impegnativo. Questa la tesi benissimo enunciata in una pastorale recente da uno dei nostri vescovi inglesi: "Finora la maggioranza fra noi ha trascorso l'intervallo di silenzio fra il Sanctus ed il Pater aspettando la venuta di Nostro Signore... per adorarlo veracemente presente nel Santissimo Sacramento... La Chiesa ci sta togliendo questo silenzio... non perché non creda valida e necessaria questo genere di preghiera, ma perché non pensa che il momento del Canone sia il più adatto ad essa": vale a dire il più adatto all'adorazione del Signore nel Santissimo Sacramento! Inevitabilmente, poiché il vescovo in questione è uomo d'onore e devoto, prosegue raccomandando la fuga nel deserto: "Nostro Signore in persona ci offre in merito l'insegnamento opportuno, e l'esempio. Disse: Ma quando pregate, andate nella vostra camera...".

Si, proprio così, non si può, anzi non si deve, pregare in chiesa. Non c'è da sorprendersi se le chiese si svuotino

Che questo spostamento di accento nella lex credendi abbia fornito l'energia propulsiva all'introduzione delle liturgie volgari pare innegabile. Tuttavia non spiega tutta la gamma dei fatti. La concezione esistenzialista e attivistica del Santissimo Sacramento è di una minoranza esigua del clero secolare, benché possa essere più diffusa fra gl'intellettuali del clero regolare.

La stragrande maggioranza conserva una visione del tutto tradizionale della Messa e della Presenza Reale. Se, dunque, hanno accolto volentieri il vernacolo, non è certo perché sottoscrivano a un qualsiasi spostamento di accento nella fede. Sarebbero probabilmente sconvolti se pensassero che possa esservi una qualunque relazione tra le due cose. Se dunque è così, allora la vera ragione per i drammatici mutamenti di cui siamo testimoni va cercava altrove. ciò non significa che lo Zeitgeist, così mirabilmente illustrato dagli spostamenti d'accento nella lex credendi, non sia importante; significa pero che deve aver trovato il terreno stranamente ben preparato perché potesse esservi seminato, crescere, fiorire e fruttificare, come un qualche raro fiore del deserto, nello spazio di una notte.

Vi è stato dunque un mutamento nella lex orandi, nella teoria e nella pratica della preghiera? Indubbiamente si, e un mutamento così sottile, esteso su tante centinaia d'anni, da passare quasi inosservato.

La concezione tradizionale, universalmente accettata fino alla Riforma, e nella Chiesa cattolica sino ad oggi, è che la preghiera cristiana sia un atto di abituale grazia santificante. Vale a dire che la preghiera di un cristiano differisce dall'atto equivalente di uno Stoico o di un Buddista non soltanto nel contenuto o nell'oggetto ma nell'essenza. Mentre lo Stoico o il Buddista sta compiendo un atto naturale, favorito dalla grazia attuale, il Cristiano sta favorendo un atto soprannaturale compiuto dallo Spirito Santo. I due processi sono chiaramente contrari; il primo è un atto umano santificato, il secondo un atto divino umanizzato.

Poiché lo Spirito Santo è l'operatore e l'essere umano soltanto il cooperatore nell'orazione cristiana, ne consegue infallibilmente che questa è l'atto, tra tutti, che può esser compiuto solo in istato di grazia. Un uomo può ricevere sacrilegamente la Santa Comunione, ma non può sacrilegamente pregare. Dunque, o dovrà sforzarsi, almeno in certa misura, di essere in istato di grazia, o se, dopo peccato grave, è consapevole di trovarsi in istato di preghiera, allora dovrà aver compiuto qualche atto equivalente alla contrizione perfetta, poiché, per pregare, deve trovarsi in istato di grazia. In pratica, la concezione tradizionale preferisce la prima alternativa: un certo sforzo deve essere compiuto per trovarsi in istato di grazia. Donde l'importanza di ciò che gli antichi chiamavano "temperanza", gli scrittori più tardi "mortificazione" e i moderni "ascetica", vale a dire la pratica delle virtù e delle pie meditazioni. Ma la pratica dell'ascetismo non è in se stessa formalmente preghiera. Si limita a provvedere le circostanze nelle quali la preghiera è normalmente possibile. È vero che la meditazione può essere preghiera, ma lo sarà non in virtù della cosa meditata ma dell'intenzione, poiché la cooperazione umana con lo Spirito Santo non è un atto dell'intelligenza ma un atto della volontà.

Cosi, i pensieri che un sacerdote esprime nell'omelia, o un professore di teologia nella lezione, non sono preghiere; rimangono esattamente ciò che vogliono essere: veritieri, belli e pii pensieri. Un predicatore potrà indubbiamente essere indotto a pregare dalla sua stessa predicazione, ma non appena lo farà dovrà cessare di predicare, a meno che, come il Curato d'Ars, non sia in uno stato abituale di preghiera. L'attività dell'essere umano in preghiera è qualcosa di assai diverso: è aderenza alla grazia e meno esso interferisce con lo Spirito Santo, meglio è. Questo egli non lo compie con pii pensieri e buone risoluzioni che rimarrebbero i "suoi" pensieri e le "sue" risoluzioni ñ forme, tutte, di egocentrismo ñ ma con l'immediato cancellarsi, con l'abbandono di tutto ciò che è "suo" per divenire teocentrico quanto lo consente la grazia. Dovrebbe raccogliersi e svuotarsi, così da lasciare spazio per la divina operazione dello Spirito Santo. Sebbene petizione, propiziazione e resa di grazie abbiano il loro posto nella preghiera, la nota finale è l'adorazione, l'amour pur della controversia Fénélon-Boussuet, proprio quella cosa che, secondo il discorso episcopale testé citato, è oggi considerato un'attività sconveniente durante il Canone della Messa.

Nella concezione tradizionale è appassionatamente negato che la sua teocentricità sia in qualsiasi modo anti-sociale. Al contrario. Tutte le nostre pie esortazioni a noi stessi e risoluzioni di amare il prossimo nostro possono aiutarci ad essere con lui ragionevolmente cortesi e ad esercitare un'ipocrisia bene intenzionata, ma non possono farcelo amare perché rimangono meri atti umani. Ma la preghiera vera, nella quale la persona dimentica il proprio prossimo come se stessa per aderire a Dio solo, lo perfeziona in modo tale che, con sua stessa sorpresa, potrà accadergli di scoprire in quel prossimo ragioni di amarlo mai prima immaginate. Questa è l'operazione della grazia.

Né si deve immaginare che simile concezione della preghiera si debba riferire ai grandi contemplativi nella via unitiva ma non si possa applicare al semplice fedele. Non è così. Tutte le forme di orazione peculiari alla Chiesa e da essa incoraggiate implicano e richiedono uno stato di raccoglimento e di adesione, e non di intenzionale dedizione e attività. Il Rosario, le Litanie, le Stazioni della Via Crucis, le Lodi Divine, le giaculatorie indulgenziate, chi ha mai pensato alla parola parlata e persino al particolare mistero? Quale mai significato possono avere simili reiterazioni? Il loro uso serve a ridurre l'attività della mente umana ad un minimo così da liberare l'anima e disporla all'adesione a Dio nell'orazione.

Concessa questa filosofia dell'orazione, la posizione del latinista si mostra perfettamente razionale. Egli assisterà alla Messa con in mano un Rosario, una Filotea, un'Imitazione di Cristo, un Messale o nulla assolutamente: con qualsiasi strumento l'esperienza gli indichi come più utile a tenerlo raccolto in se stesso attento all'adorabile Presenza. Questo desiderio di anonimato, di raccoglimento, onde adorare Gesù Cristo realmente presente nel Santissimo Sacramento, non è preferenza personale nata dall'abitudine, è parte integrante della più intima fede. Il vernacolarista non ha bisogno di sostenere che dai Padri del Deserto in giù fino al benedettino John Chapman tutti i cattolici di tutto il mondo si sono mostrati inspiegabilmente ottusi: possono avere avuto un'errata filosofia dell'orazione, ma, qualunque essa fosse, la loro liturgia la esemplificava perfettamente.

Che la filosofia tradizionale dell'orazione fosse inaccettabile per i riformatori protestanti, specie per Calvino, è abbastanza ovvio; tutto il sistema cattolico dell'orazione dové sparire insieme alla Messa, poiché i riformatori propugnavano un diverso sistema della grazia, e sarebbe assai interessante in proposito un'analisi delle numerose liturgie protestanti.

Ma quando fu che si cambio atteggiamento fra i cattolici?

Henri Brémond attribuì il mutamento agli Esercizi di sant'Ignazio. Quale fosse la natura della orazione di Sant'Ignazio stesso, la ripetizione costante dogli Esercizi, specie com'era raccomandata nella Perfezione del Rodriguez, non poteva non dare l'impressione che la preghiera fosse essenzialmente un atto umano che dipendeva, al pari d'ogni altro, dalla grazia attuale e non già un atto soprannaturale dipendente dallo Spirito Santo attraverso l'abituale grazia santificante.

Per pregare si doveva scegliere un tema di meditazione, immaginare composizioni di tempo e luogo, trarre conclusioni, eccitare affetti, prendere risoluzioni; inoltre l'obiettivo dell'esercizio era antropocentrico: la propria perfezione, e non teocentrico: l'adorazione di Dio. Il risultato, secondo Brémond era l'opposto dell'orazione: invece di un'operazione della volontà volta allo svuotamento di sé, invece d'un raccoglimento e un'adesione volti all'adorazione di Dio, si ebbe il massimo di attività intellettuale e fantastica volta alla propria perfezione. Fu una sostituzione dell'ascetica all'orazione, del mezzo al fine. Un professore di teologia del tipo lirico dovrebbe pregare in tal modo meglio di chiunque e resterebbe un mistero insondabile come persone così stupide come Santa Teresina o Bernadette Soubirous potessero mai pregare.

Il principio unificante della vasta produzione letteraria di Brémond è l'illustrazione di questa tesi e, fra diecimila altre, egli tira fuori questa citazione, così formidabile che nessuno, per poco che sia interessato alla questione, potrebbe tralasciarla. Nel 1923 un certo Padre Vincent pubblico un'opera intitolata François de Sales Directeur d'âmes et éducateur de la volonté (1). Eccone alcuni passi essenziali.

"Se vediamo Dio come lo videro gli Ebrei, nella sua conturbante maestà, non saremo forse portati a prostrarci dinanzi a Lui, subordinando quindi tutti i nostri doveri religiosi a quello della adorazione e della lode? Se l'uomo concepisce Dio alla maniera giudaica, tenderà a dimenticarsi, a perdersi di vista per vedere in certo qual modo soltanto il suo Signore onnipotente.

Se d'altro canto Dio è pensato come un padre o un tutore indulgente, desideroso di ornare le nostre anime, infallibilmente concentreremo le nostre preoccupazioni su noi stessi".

Padre Vincent procede quindi a dimostrare che se la tradizione adoratrice duro un millennio e mezzo, lo si dovette al fatto che gli antichi Padri erano impregnati di giudaismo e che i loro atteggiamenti furono perpetuati dai monaci benedettini. Questa aggiunta era ben vera allorquando abate di Downside era Dom John Chapman, ma il vescovo Butler (suo successore) forse la troverebbe un po' dura nei propri confronti. "L'ascetismo liturgico", prosegue Padre Vincent, designando con questa buffa locuzione la concezione tradizionale della preghiera, "che ebbe origine, avanti il Vangelo, nella vecchia legge mosaica, e che è basato sul timore riverenziale della divinità, rimane la norma fino al secolo XVI". Ma finalmente arrivano i gesuiti con il loro "concetto più alto della religione". Loro capirono che Dio "è assetato del nostro progresso spirituale più che della nostra lode". Alla fine "identificarono la Cristianità con il progresso morale". La loro preoccupazione invariabile e primaria "fu di onorare Dio premièrement par la culture de soi, secondement par la culture des autres". La lode di Dio certo è cosa eccellente "ma soltanto nella misura in cui contribuisce alla nostra crescita morale. In se stessa non è niente, se non la riduciamo alla sua funzione strumentale, se non ne facciamo un mezzo di (auto)perfezione e uno strumento d'amore (per il prossimo)".

Sapere se le valutazioni storiche di Padre Vincent a proposito di ebrei e gesuiti siano vere o false esula dai nostri fini, ne tratteremo comunque più avanti. i! certo che la sua filosofia dell'orazione è una rivoluzione integrale e giustifica del tutto la diagnosi di Brémond. È anche innegabile che sia questa filosofia della orazione a giustificare la liturgia volgare. Se la preghiera equivale al "progresso morale", se è un atto umano, che dipende come qualunque altro dalla grazia attuale e che è diretto al perfezionamento di sé, certo ci dovrà essere una liturgia comprensibile vernacola, didattica che il fedele possa "rappresentare", capire, con cui possa esprimersi, impegnarsi e consegnarsi. Forse il vernacolarista ha una errata filosofia dell'orazione, ma la sua liturgia sicuramente la esemplifica alla perfezione.

Di là da ogni ragionevole dubbio, questa è la causa sufficiente del cambiamento liturgico di così vasta portata di cui siamo stati testimoni. Forse gli spostamenti di accento nella lex credendi hanno provocato la deflagrazione, ma il gran monumento della Messa latina era stato prima minato da un mutare lento e silenzioso della lex orandi, della dottrina della grazia come incide sulla preghiera.

Resta a vedere come questo mutamento lento e silenzioso si produsse. Tanto Brémond che Vincent l'attribuiscono ai gesuiti, l'uno a loro dannazione, l'altro a loro gloria. Ma per plausibile che la tesi appaia, non combacia coi fatti.

Gli Esercizi, quale ne sia l'interpretazione tarda, nei secoli XVI e XVII si ritennero solo Esercizi, una forma di allenamento di alta ascetica, e non un manuale di preghiera. Come pregasse Sant'Ignazio stesso si può inferire dal fatto che dovette ottenere la dispensa dalla recita dell'Ufficio "perché quasi tutta la sua giornata se ne andava nel dirlo, tanto abbondanti erano le visitazioni divine che gliene scaturivano (S. Sophia, III, 1, C. VII, § 28). In tali condizioni non sarebbe giunto molto in là con gli esercizi, come metodo di orazione. Il confessore di Santa Teresa Padre Baldassarre Alvarez abbandono decisamente gli Esercizi; alcuni intriganti lo denunciarono al Generale, ma sta di fatto che egli si difese benissimo e più tardi gli furono affidate le massime cariche nella Compagnia. più strano è il caso della Perfezione del Rodriguez, poiché mostra con quale diverso spirito si leggano i libri in tempi diversi. Per Brémond nel XX secolo essa è la causa d'ogni male, eppure figura nella lista dei libri raccomandati dal benedettino Dom Augustine Baker, il campione della spiritualità tradizionale agli inizi del secolo XVII. Si potrebbe continuare a lungo.

L'atteggiamento fondamentale della Compagnia di Gesù in queste materie, avanti la soppressione, si può giudicare da come parteggio nella controversia fra Fénélon e Bossuet: la difesa di Fénélon fu organizzata da Padre Dez della Chiesa del Gesù. L'origine della nuova spiritualità va cercata dunque altrove. L'onore o l'infamia non spettano alla Compagnia.

È chiaro come il sole che una nuova filosofia dell'orazione può solo nascere come conseguenza d'una nuova teoria della grazia e questa fu fornita non dai gesuiti, ma dai giansenisti. Anche loro promossero una riviviscenza del IV e del VI secolo, ma andarono ben al di là dei moderni, risuscitando la Tebaide: un deserto per intellettuali a Port Royal des Champs. Ma, quel che più importa, la loro teoria della "grazia sufficiente" spezzava in due la concezione tradizionale della orazione perché negava l'esistenza della grazia santificante su cui quella concezione riposa. La "grazia sufficiente" riguarda sempre gli atti, mentre la grazia santificante riguarda uno stato. Sotto molti aspetti i giansenisti furono esistenzialisti avanti lettera.

Come conseguenza naturale di questa teoria, se mai qualcuno "identifico il cristianesimo con il progresso morale" questi furono i giansenisti e non i gesuiti (con il loro "lassismo morale"). Non è per mera coincidenza che i giansenisti in Olanda avevano una liturgia volgare prima della fine del secolo XVII e che il giansenista Noailles la frequentava a Parigi nel 1709.

La nuova spiritualità fu iniettata nella Chiesa nientemeno che da Bossuet. Anche se egli non era giansenista, lo era certamente il suo teologo, Nicole. Benché non aderisse alla teoria della "grazia sufficiente" dovette sentire una naturale attrazione verso il loro atteggiamento in materia di preghiera. Bossuet era appunto un teologo di tipo lirico che probabilmente pregava facendo a Dio lezioni di teologia così come i suoi scritti teologici sono sublimati da un'unico fluire di lirismo. Quali che fossero le vere origini della controversia sul quietismo (e forse resteranno per sempre avvolte nelle tenebre), non c'è dubbio che i giansenisti, grazie a Nicole, si servirono di Bossuet per attaccare la spiritualità tradizionale attraverso a Mme Guyon. Il bersaglio non era tanto quella pia, intelligente dama che scribacchiava troppo, ma l'amour pur, l'amore disinteressato, l'adorazione pura: ciò che precisamente adesso è dichiarato inadatto al Canone della Messa.

Fénélon sorse a difendere la spiritualità tradizionale ed il risultato furono gli Articoli di Issy, la capitolazione completa di Bossuet. Ma non era ancora finita, Fénélon, comprensibilmente ma forse poco saggiamente, buttò fuori un libretto perfettamente anodino ma di non grande qualità Maximes des saints. L'aquila di Meaux, con occhio d'aquila appunto, riuscì a vedervi errori tali "da scuotere le fondamenta stesse della Cristianità". Il resto è noto. Dopo le 132 sessioni d'una commissione romana, durate due anni, 23 proposizioni del tutto secondarie furono condannate da Innocenzo XII, ma non la dottrina dell'amour pur; come rilevo il cardinale de Bausset, Fénélon trionfo nella propria condanna.

Eppure i potenti, Bossuet ed i giansenisti, non avrebbero permesso che la cosa apparisse così. Fénélon è stato condannato, dunque tutto il suo sistema, la spiritualità tradizionale che egli difendeva, devono essere errati. Le conseguenze si palesarono subito: se il XVII secolo fu il più ricco di autori spirituali, il XVIII è sicuramente il più povero. Nessuno osava pregare, figuriamoci poi scrivere sulla preghiera.

Fénélon fu condannato il 12 marzo 1699. Immediatamente si apre l'età della ragione e dell'irreligione. In meno d'un secolo ci saranno vescovi come Loménie de Brienne e Talleyrand, sarà proclamata la costituzione civile del clero, abrogato il celibato ecclesiastico e introdotta la Messa volgare in più di ottanta delle centotrentacinque diocesi francesi.

Onore vada a chi lo merita. Nel crollo religioso del secolo XVIII, un Ordine si distinse nel tener fede alla spiritualità tradizionale, non i benedettini, parce Padre Vincent, ma i gesuiti, che s'inabissarono a vessilli spiegati. Caussade e Grou non sono soltanto i più alti autori spirituali del secolo, ma il secondo forse il più alto di quanti la Compagnia di Gesù ne ha prodotto.

La Compagnia di Gesù fu soppressa nel 1773. Rinacque quarant'un anni dopo. È molto, è più di una generazione. Qui Brémond e Vincent possono aver ragione: la Compagnia restaurata sembra aver avuto sulla preghiera una concezione leggermente diversa dall'antica. È, naturalmente, molto difficile resuscitare lo spirito, più facile resuscitare la lettera ñ ma "è lo spirito che vivifica". Nessuno nega che nella Compagnia vi siano stati, negli ultimi 156 anni, grandi maestri di spiritualità: tutti ne abbiamo conosciuto personalmente qualcuno. Ma è anche difficile negare due proposizioni: 1. che molti singoli Gesuiti sono oggi in prima linea nell'introdurre proprio quella forma di orazione che l'antica compagnia combatté fino all'ultimo sangue; 2. che la nuova spiritualità è stata diffusa in parte da un uso improprio degli Esercizi nei ritiri per il clero. Quest'ultima asserzione, se vera, la direbbe lunga sul perché il clero, e non il laicato, è particolarmente prono alle nuove tendenze.

Questo saggio avrà adempiuto al suo compito se avrà mostrato che i fautori del latino ed i vernacolaristi non si ostinano intorno ad una questione superficiale di forma liturgica o di pratica pastorale. È l'intero fondamento dell'orazione, della Chiesa in actu che ne va di mezzo. Dunque è di somma importanza che si chiariscano alcuni quesiti.

Prima di tutto: nella Lex credendi, si esige una qualche autoritativa asserzione tanto sul Divino Sacrificio della Messa come sulla Presenza Reale. Gesù nel Santissimo Sacramento è soltanto la Via, o anche la Verità e la Vita? È ovvio che il peggior momento possibile per riformare una liturgia è quando vi sia il pur minimo elemento di dubbio su ciò che essa intende significare.

E poi: nella lex orandi, è di suprema importanza che sia dato insegnamento preciso su due punti: che cosa costituisce l'elemento della preghiera, l'azione dello Spirito Santo o quella dell'uomo? e qual è l'oggetto finale della preghiera: il perfezionamento di sé dell'uomo o la pura adorazione di Dio?

Fin quando non si saranno definiti questi punti, sulla vera e propria liturgia della Messa, dall'Offertorio alla Comunione compresa, non dovrebbe esser alzata la mano. In realtà sarebbe commendevole restaurare l'antico rito, per lo meno facoltativamente, onde non pregiudicare le deliberazioni dei Padri del Vaticano III.

Bryan Houghton

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BRYAN HOUGHTON, nato nel 1911, studiò a Friburgo e a Oxford. Si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo nel 1934 e fu ordinato sacerdote nel 1940.

Assolse il suo ministero prima a Slough, in una parrocchia operaia, quindi, dal 1954, a Bury St. Edmund's occupandosi soprattutto di problemi scolastici in distretti industriali, fondando scuole elementari nelle due parrocchie successivamente amministrate. È membro del Consiglio dell'Università dell'East Anglia.

1) Cfr. H. BRÉMOND, Introduction à la philosophie de la Prière, Paris: Blond & Gay, 1929.
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domenica 15 agosto 2010

Card. Giuseppe Siri: una splendida analisi dei mali sempre attuali per evitare una sorte ingloriosa.

IL PROGRESSISMO
del Cardinal Giuseppe Siri


«Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole! […] Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. […] Si ha vergogna di Dio».

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Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole.
Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati.
Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa.
Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo».
Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito.
Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.

1. Essere indipendenti dalla logica teologica

Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi.
Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»?
Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.
Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.
La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contraddittorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.
La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.
Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico!
Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia… purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato.
Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia.
Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultmann, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.
Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si fa quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica.
Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.
Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!
Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.
In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.
Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre e con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».

2. Il «sociologismo»

Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia.
Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo.
La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.
Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perché il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.
Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole!
Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi!
Ma si sa dove vanno i tempi?
Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?

3. La nuova storiografia

Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui!
Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.
La parte maggiore della produzione – ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni – pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:
— la società ecclesiastica è la prima causa dei guai che hanno colpito i popoli;
— la Chiesa – detta per l’occasione postcostantiniana – avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;
— le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione;
— tutta la storia ecclesiastica fino al 1962 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione – tutti lo vedono – costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;
— le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;
— il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate.
Si potrebbe continuare.
Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini… qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!

Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse.

È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!

4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti

Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno.
Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo.
Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune. Eccone i punti.
— La filologia, l’archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.

Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.
— Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.
— La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero.
Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio.
Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!
Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».

5. Le allegre «teologie»

Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione… Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.
Queste sono vere «teologie», anzitutto?
È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio.
In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.
— Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente.
— Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, derivando da un principio messo dal “cristianissimo” e “devoto” Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori.
Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere – con altre cose – una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti.
Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante.
C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.

E questo è grave. Infatti.
La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.
Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi principî del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.
Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo.
Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».
La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire al numero seguente.

6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie

Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina.
Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più.
Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, sì da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica.
Guardiamo bene in faccia questa faccenda.
— Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade nel nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti.
— Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.
La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia!
Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.

7. Il rifiuto della apologetica

Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.
Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo… Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova.

Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.
Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo – come gli altri – ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva.
Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere.
Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.
Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?

8. La riabilitazione degli eretici

Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.
Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.
Ma, è normale tutto questo?
I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».

Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto.

Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici. e infatti essi non si sono minimamente schiodati dalle loro posizioni

Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.

Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori!

Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause.

Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.

9. L’antigiuridicismo

Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.
Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge è l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.
La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone perbene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.
Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.
Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Sì, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale.
Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base».
Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza.
Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni».
La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza.
Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?
E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?
Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi.
La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!

10. La crociata antitrionfalistica

Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.
Vediamo questo fascio.
L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo.
La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.
Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre!
Se si porta rispetto al Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta.
Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.
Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti.
Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservano — non le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.

11. La indisciplina endemica

Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo.
Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente.
In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione!
In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.
A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli.
Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Cielo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie.
Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo.
Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pari passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!

12. La bassa quota

Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.
Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco.
Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso. Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo.
Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.
Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo.
Animare gruppi detti magari «di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tamquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.
Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito.
Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso.
Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio.
Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.

Conclusione

Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori.

Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno

Card. Giuseppe Siri



da «Rivista Diocesana Genovese» – gennaio 1975 (a cura di don Curzio Nitoglia)