sabato 29 giugno 2013

Editoriale di "Radicati nella fede", luglio 2013: "Il mio cuore sanguina".


 Da "Radicati nella fede" prendiamo e pubblichiamo 
l'editoriale dell'ultimo numero [n° 7, luglio 2013]



"Il mio cuore sanguina"


  Quando si parla di “continuità” nella Chiesa tra prima del Concilio Vaticano II e dopo il Concilio Vaticano II, non si arriva mai a spiegare nel concreto, dentro le cose, come si mostra questa continuità. Certo, si tratta sempre della Santa Madre Chiesa, sia prima che dopo il Concilio, ma in quello che nella Chiesa di oggi si dice e si fa, appare questa continuità? È proprio difficile dimostrarlo.

 Prendiamo un tema specifico, quello della “missione”: si può dire che la missione, dopo il Concilio, sia intesa e vissuta come durante i primi diciannove secoli di storia della Chiesa? Provate in una classe di scuola ad introdurre il tema con i ragazzi, che ancora frequentano il catechismo delle parrocchie, chiedendo loro cos'è la missione: vi diranno che è andare ad aiutare i poveri del terzo mondo. Da dove prendono questa risposta? Dal nuovo vissuto e dalla nuova coscienza di missione, che sono radicalmente cambiati nel Cattolicesimo: di fatto i fedeli, quando si parla di missione, non intendono più quello che la Chiesa ha inteso in tutta la sua storia.

 E anche quando qualcuno non scadrà nella banalità generale di scambiare la missione cristiana con la filantropia, con l'aiutare semplicemente i poveri, vi parlerà di cristianizzazione o di evangelizzazione, ma non in modo drammatico, dimenticando che è in gioco la salvezza delle anime!: è ormai così... prima mettiamo avanti la libertà di coscienza, quello che l'uomo vuole o decide, poi se c'è spazio parliamo anche di Nostro Signore Gesù Cristo... affrettandoci però a dire che l'importante è “credere in qualcosa” e che “tutti si salvano seguendo la loro religione o il loro agnosticismo”, che “Cristo è proposto ma non imposto”... insomma mettiamo l'uomo prima di Dio: e questa la chiamiamo continuità tra prima e dopo il Concilio? Beh, ci vuole del coraggio ad affermarlo.

 Basta leggere la vita dei santi, il loro zelo perché Cristo sia conosciuto e amato, per avvertire che qualcosa di tragicamente grave è accaduto nel Cattolicesimo.

 Ne volete un esempio? Lo prendiamo dalle lettere di un grande monaco cistercense, Dom Jean-Baptiste Chautard, abate di Sept-Fond (1858-1935), autore tra l'altro di uno dei testi fondamentali della spiritualità moderna, “L'anima di ogni apostolato”. Sentite cosa scrive durante un viaggio in Cina e Giappone, per andare a visitare i giovani monasteri cistercensi là fondati:

“Davanti ai 400 milioni di pagani cinesi e ai 60 milioni di pagani giapponesi che non conoscono Nostro Signore, il mio cuore sanguina”, e aggiunge rivolto ai suoi monaci di Francia “vorrei che anche il vostro cuore sanguinasse. E nel concreto troverete in questo dolore uno stimolo per essere più vigilanti, più uniti a Dio, più generosi nel vostro amore per Gesù e per le anime ch'Egli vuole innestare nella sua Umanità santa, a condizione che noi non ci sottraiamo dall'offrire ciò che manca alla sua Passione”.

 In un ritiro predicato nella festa del Preziosissimo Sangue, scongiura i suoi monaci a lasciarsi prendere come lui dall'amore per le anime. Al fine di sottolineare più fortemente il suo pensiero, dom Chautard fa un esempio interessante:

 “Nei paesi d'Oriente, nel corso del grande caldo, delle nuvole a volte si formano. Il cielo coperto e basso sembra promettere una pioggia benefica. Speranza vana! Le nuvole non arrivano a risolversi in pioggia, e presto il cielo riprende la sua implacabile serenità.
  Così nell'universo delle anime, sopra le terre pagane, planano delle nuvole cariche di sangue divino. Ma queste nuvole non si risolvono in pioggia benefica, perché manca qualcosa: la nostra cooperazione attraverso la preghiera e i sacrifici. Dio vuole la nostra collaborazione. Se dunque le nuvole restano in sospeso, noi ne siamo responsabili in una certa misura”.

 Dom Chautard parlava ai monaci, ma parla ben anche a noi.

Che coscienza chiara della missione! 

 Innanzitutto è chiaro quando parla di “pagani che non conoscono Nostro Signore”! Possiamo dire che oggi, nella Chiesa, ci si esprime ancora così? E se non ci si esprime così, possiamo parlare di continuità tra la Chiesa di prima e quella di oggi?

 Proprio oggi, quando il lavoro è di dire che i pagani non esistono più?

 Proprio oggi noi perdiamo il senso della missione, mentre siamo invasi dai pagani che da terre lontane vengono a noi. Chi oserebbe ancora dire “il mio cuore sanguina” perché non conoscono Gesù Cristo e “vorrei che anche il vostro cuore sanguinasse”? E mentre non ci preoccupiamo dei pagani che arrivano, siamo castigati nel registrare il paganesimo in tante nostre case, nelle quali si vive come se Dio non ci fosse. E ricordiamoci che è in gioco la salvezza eterna!: “...chi crederà e sarà battezzato sarà salvo...” (Mc 16,16).

  Carissimi, stiamo in continuità con la Chiesa di sempre, con i cristiani di sempre, con i santi di sempre, il cui cuore sanguina perché Cristo non è conosciuto.

 Domandiamo la grazia che anche il nostro cuore sanguini, e che non si addormenti in quel cristianesimo contraffatto che ha cambiato il contenuto della parola “missione”.

 Stiamo attenti a quelli che affrettatamente vogliono convincersi che nulla è cambiato nella Chiesa e che è solo questione di sensibilità: no, sulla missione è cambiato praticamente tutto. E non solo su di essa.

 E allora preghiamo perché Nostro Signore sia conosciuto dalla massa enorme di pagani del nostro tempo, perché molti si convertano a Lui e siano salvi. Cooperiamo con la preghiera e il sacrificio, perché la nuvola del Sangue divino, sulle nostre terre e su quelle lontane, si risolva in benefica pioggia.


martedì 25 giugno 2013

intervista a Don Ariel Levi di Gualdo su i primi 100 giorni di Papa Francesco

Ascolta..si fa sera..!?


I primi cento giorni di governo di Papa Francesco


Don Ariel S. Levi di Gualdo interpreta “l’enigma” di Papa Francesco alla luce della fiaba del “pifferaio magico”.
Don Ariel come interpreta i primi cento giorni di questo pontificato?
Per il momento vedo solo un Sommo Pontefice che ha conquistato la simpatia del popolo da un estremo all’altro della terra, inclusi molti di coloro che non conoscono neppure le prime cinque parole del Padre Nostro ma che affollano come mai accaduto prima la Piazza di San Pietro. Speriamo che questa sia l’occasione propizia per essere penetrati dalla grazia di Dio, imparando non solo le prime cinque, ma tutte le parole della preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato.
Sotto il precedente pontificato la stampa internazionale parlava ogni giorno di tutti i peggiori mali della Chiesa, veri o presunti. Poi, improvvisamente, dopo il conclave del marzo 2013, pare sia cominciata una dolce luna di miele. Tutti i maggiori problemi sembrano essere scomparsi, o almeno non se ne parla più. Dal momento che questa luna di miele non è ancora finita, sebbene siano già trascorsi i primi cento giorni, non si può fare un’analisi, perché non ne abbiamo elementi, pertanto bisogna attendere ancora.
Secondo lei, in questi primi cento giorni di pontificato, quali sono state le azioni più importanti del Santo Padre Francesco?
Abbiamo notato da subito che il Santo Padre parla spesso di povertà e di poveri. Queste due parole, nel mondo ecclesiale e nel mondo secolare, hanno però significati completamente diversi, a volte anche in contrasto tra di loro, basti pensare in che modo diametralmente opposto il concetto di povertà viene trattato dalla dottrina sociale della Chiesa e dalla ideologia marxista. Per esempio: nel corso dell’ultimo mezzo secolo, nei paesi latino-americani, alcuni teologi non hanno usato il povero o il problema della povertà per scopi sempre evangelici. Il Santo Padre è molto sensibile al problema dei poveri e della povertà. Questo è molto bello, soprattutto profondamente cristiano, perché investe le più intime essenze della nostra dottrina sociale. Per questo molti vescovi, sacerdoti e teologi sono in attesa che il Santo Padre, con un linguaggio tutto quanto teologico, ci doni al più presto una bella enciclica su questo tema a lui così caro, spiegando che cosa significano veramente il povero e la povertà secondo la teologia e la dottrina sociale della Chiesa, il tutto alla luce del suo alto magistero pontificio.
Lei pensa che la volontà del Santo Padre di riformare la curia romana è qualcosa di raggiungibile in un medio periodo? E quali sarebbero, le principali sfide?
La riforma della Curia Romana è una necessità urgente da decenni. Per fare una vera riforma è però necessario in primo luogo allontanare molte persone non idonee che in essa sopravvivono da tre pontificati, con conseguenze spesso gravi per la Chiesa. Nessuno ha il coraggio di dirlo, se però mi passate la frase lo dico io: pochi mesi fa abbiamo assistito all’evento storico e per certi versi traumatico della rinuncia di un pontefice al ministero petrino. Il Romano Pontefice se ne è andato, mentre molti fautori e diretti responsabili dell’attuale situazione ecclesiale sono sempre tutti ai loro posti. Cosa questa sulla quale meriterebbe davvero riflettere in modo grave. In ogni caso, per la riforma della curia è necessario in primo luogo pensare con una antica psicologia romana. Non a caso si chiama: curia romana. Perché Roma non è solo una città, né tanto meno una qualsiasi città del mondo, ma il centro della universalità della Chiesa. Questa universalità non può essere trasferita in altro dove e in altro contesto socio-culturale.
Il Santo Padre Francesco, in un colloquio privato reso poi pubblico dagli interlocutori ha fatto riferimento alla esistenza di una lobby gay dentro il Vaticano. Quale è la sua personale posizione su questo delicato problema?
Il suo predecessore Benedetto XVI ha parlato per anni del dramma della “sporcizia nella Chiesa”, a partire dal 2005, quando pochi giorni prima della sua elezione alla Cattedra di Pietro fece un memorabile commento alla IX stazione della Via Crucis, che nel corso dei suoi anni di pontificato ha variamente riproposto, spesso in toni allarmati e drammatici. Non occorre certo andare chissà dove in giro per il mondo, basta vedere cosa accade in certi collegi sacerdotali internazionali e case di formazione al sacerdozio che si trovano proprio nella Diocesi di Roma, nelle quali sono presenti — come peraltro più volte pubblicamente denunciato — sacerdoti e seminaristi di evidenti tendenze omosessuali che si muovono e che operano indisturbati direttamente sotto le finestre del Vescovo di Roma. Dunque adesso dobbiamo aspettarci una azione precisa per la protezione della Chiesa da questa lobby forte e pericolosa, alla quale nel 2011 ho dedicato l’intero capitolo secondo di un mio libro [N.d.R. E Satana si fece Trino, Bonanno Editore]. Non vedo l’ora di vedere l’azione e soprattutto di parteciparvi come fedele servitore della Chiesa. Quando infatti si percepisce e si individua il male, nostro compito è sconfiggerlo per la protezione della Chiesa, non certo lasciarlo lì dove si trova, semmai per equilibri di politica interna e di buona diplomazia.
Come definirebbe il Santo Padre Francesco?

Credo che per adesso il Sommo Pontefice sfugga alle definizioni. Dovendolo però in qualche modo definire, lo definirei un enigma. Mi spiego: a parte alcuni suoi pensieri ricorrenti, come i poveri e la povertà cui accennavo prima, nessuno ha ancora capito ciò che veramente pensa, di conseguenza cosa intende fare e in che modo intende farlo. Tutto questo è profondamente destabilizzante e forse tutt’altro che casuale, bensì voluto, sicuramente in vista di un supremo bene che al momento non possiamo neppure immaginare.
Per la mia formazione al sacerdozio ho avuto a che fare coi gesuiti della vecchia scuola della benemerita Compagnia di Gesù, alla quale tanto la Chiesa deve in somma gratitudine. Uomini del tutto diversi da alcuni attuali gesuiti, che sembrano sempre più somigliare alla sincretistica Compagnia delle Indie.
Una particolare caratteristica che ho riscontrato nei vecchi gesuiti formati prima degli anni Settanta o comunque miracolosamente non toccati da ciò che in quegli anni accadde anche nella Compagnia di Gesù, è che sono persone accomunate da una caratteristica: puoi vivere anche per anni a contatto con loro, parlare con loro per ore e ore, sino ad accorgerti un bel giorno di non essere mai riuscito a capire quel che pensavano veramente. Stile questo particolarmente destabilizzante, casomai fosse calato, come io tendo a pensare, nel governo di questo Pontefice. E difatti, tutto quanto, per adesso è ancora paralizzato, sia fuori sia dentro la curia romana. Carrieristi, arrivisti e sporcaccioni vari, non è che siano spariti dalla Chiesa dall’oggi al domani; non è che siano usciti di scena dopo la rinuncia di Benedetto XVI, che per sua stessa pubblica ammissione si è dichiarato non più in grado, per età e salute, di far fronte a certe situazioni di gravità a tratti inaudita. Oggi questi perniciosi soggetti non sanno che cosa fare e soprattutto non sanno come scalpitare e muoversi per arraffare tutto il possibile, perché il Sommo Pontefice Francesco è appunto enigmatico e come tale destabilizzante. Forse, il Sommo Pontefice Francesco, sta facendo il gioco del pifferaio di Hamelin. Questa celebre fiaba è nota ma vale la pena riassumerla perché sta al centro di ciò che penso al momento su questi primi cento giorni di pontificato: un uomo con un piffero si presenta nella città e promette di disinfestarla. Appena il pifferaio inizia a suonare, tutti i topi restano incantati dalla sua musica, escono allo scoperto dalle loro tane e si mettono a seguirlo. Il pifferaio li conduce fino alle acque del Weser dove i topi muoiono annegati gettandosi uno dietro l’altro in questo fiume.
Ecco, detto questo non ho altro da aggiungere. Nel frattempo rimango in fiduciosa e operosa osservazione sopra al ponte, col mio amato Pontifex Maximus, la pietra sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa.
E chi vivrà, vedrà …
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Ariel Stefano Levi di Gualdo nasce nella Maremma Toscana il 19.08.1963. È consacrato sacerdote a Roma dove risiede e dove dirige la Collana teologica Fides Quaerens Intellectum. Svolge il ministero sacerdotale principalmente come confessore, direttore spirituale e predicatore. È autore di vari saggi editi dalla Casa Editrice Bonanno e di diversi articoli pubblicati su varie riviste teologiche internazionali italiane e straniere.

lunedì 24 giugno 2013

quos Deus vult perdere prius dementat


Sant'Antonio Abate
I Befera stroncano gli imperi



Un piccolissimo imprenditore si dà fuoco davanti a una sede dell’Agenzia delle Entrate. Una cinquantina di piccoli imprenditori si sono già tolti la vita, schiacciati dalla triplice ganascia delle banche che non fanno credito, della recessione, dei clienti (o dello Stato) che non pagano, e dell’esazione fiscale.

«Contiamo di fare ancor meglio nel 2012», dichiara Attilio Befera, il capitesta di Equitalia (450 mila euro annui), nel comunicare i trionfi della sua torchia: 12,7 miliardi di euro incassati l’anno scorso, con un aumento del 15,5% rispetto all’anno prima. Sono anni che gli intriti tributari aumentano del 10-15% annuo – senza che l’economia aumenti affatto. Significa che si taglia nella carne di un Paese che la torchia immiserisce e devasta.

Ma, dice Befera, «LAgenzia è complessivamente cresciuta in tutti i settori... Un risultato raggiunto grazie alla professionalità dei nostri dipendenti e alle strategie adottate che hanno puntato sempre più ad una maggiore efficacia ed efficienza».

L’efficienza di cui si vanta Befera è quella che ha fatto crollare l’impero romano. Lo illustrò l’oratore ed apologista Lattanzio (240–320 dopo Cristo), africano. L’imperatore Diocleziano, che regnò dal 284 al 305, spiega Lattanzio, aveva messo in atto una riforma fiscale così efficiente, riorganizzando gli uffici in modo così perfetto, che le tasse venivano prelevate molto meglio di prima. Tanto bene, che i contadini, per la «enormitas indictionum», ossia per il «peso enorme delle tasse», fuggivano di casa per non farsi trovare dagli esattori, «e i campi tornavano a inselvatichirsi».

Nella sua provincia, l’Africa (che comprendeva il territorio di Tunisia e Algeria), Lattanzio aveva visto strade, villaggi e campagne resi insicuri dall’infuriare dei circumcelliones, lavoratori stagionali – precarii, si direbbe oggi – rovinati dalle tasse e dalla crisi. Abituati a muoversi in gruppi organizzati, percorrevano la provincia prima mendicando e poi taglieggiando, strappando i ricchi dalle loro carrozze e trucidandoli nelle loro ville, ammazzando preti e bruciando chiese (erano donatisti, piissimi, ammazzavano al grido «Deo laudes»).

Sant’Agostino, vescovo di Ippona, africano, li definisce banditi e pazzi furiosi «perditorum hominum dementissimi greges» che «vagano per la campagna senza partecipare al lavoro dei campi e disturbano il sonno degli innocenti» che «per mangiare si aggirano attorno ai granai». Da ciò – spiega Agostino – il nome di circumcelliones. Ma loro si definivano Agonisticis, lottatori di Cristo e per la giustizia sociale.

Lattanzio, giunto a Treviri come istitutore del figlio dell’imperatore Costantino, poté constatare che la Gallia era ridotta al disastro da un simile fenomeno sociale: qui erano i «bagaudi» (qualcosa che nel dialetto celtico significava «ribelli autonomisti»), bande ben organizzate di disertori e contadini-evasori fiscali per necessità, che funestavano le campagne spinti dalla fame e dalla disperazione, ma anche da sete di giustizia sociale. Dovunque poterono costituire centri autonomi, eliminarono il latifondo e la schiavitù.

In Egitto – granaio di Roma e proprietà dell’imperatore, quindi più tartassato di tutte le altre provincie – la spoliazione messa in atto dalla macchina fiscale è ben llustrata dal caso di Sant’Antonio del deserto, il copto Abba Antonio. Antonio ereditò dai genitori 300 arurae di fertili di campi (circa 80 ettari), contro le 40 arurae medie di un fellah egiziano di allora. Era dunque un fellah benestante. O lo sarebbe stato, senza l’efficienza spietata del fisco. Per il pagamento delle tasse, (in sacchi di granaglie), era stato inventato il «sostituto d’imposta»: nel senso che dopo aver fissato una quantità di grano per ogni villaggio egiziano, i funzionari imperiali sceglievano due o tre dei più ricchi del Paese, e li rendevano responsabili del pagamento della tassa da parte della intera comunità: ne rispondevano con il loro patrimonio privato. In tal modo, i designati, per non ridursi essi stessi all’insolvenza, si dovevano fare aguzzini dei loro vicini di casa, estraendo l’ultimo sacco di grano ai contadini più poveri, che già vivevano ai limiti della sussistenza.

 Antonio si trovò sicuramente, data la sua ragguardevole proprietà nella condizione di esattore-sostituto, o «curiale», come erano ufficialmente definiti questi malcapitati, che si facevano odiare dai membri del villaggio. Così non è strano che – lui analfabeta – ascoltò da un predicatore cristiano la frase di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi quello che possiedi e dallo ai poveri», ebbe l’lluminazione: fuggire al fisco diventava possibile! Bastava non aver più reddito alcuno. E allontanarsi, per prudenza, dove la macchina esattoriale aveva difficoltà a reperire i contribuenti: nel deserto. Il suo biografo (Sant’Atanasio vescovo) attesta che Antonio immediatamente «regalò il suo terreno ai vicini». Il particolare è di cruciale importanza: Antonio non potè «vendere» la sua terra per dare il ricavato ai poveri, dovette «regalarla», perché nessuno la voleva essendo legato a quella proprietà il dubbio privilegio di farsi torchiare a sangue, e diventare aguzzino dei compaesani. Oppure, perché i vicini non gli avrebbero consentito di andarsene nel deserto, se prima non dava loro il cespite e i raccolti con cui placare i funzionari romani.

Fatto sta che, una volta constatato che nel deserto (ossia probabilmente dietro casa, essendo in Egitto) Antonio riusciva a sopravvivere, attesta Attanasio, «molti uomini facoltosi seguirono Antonio nella fuga (e nell’evasione) del deserto, «per scaricarvi i pesi di questa vita». Nacque così il monachesimo. Gli anacoreti diventarono sempre più numerosi attorno alla caverna di Antonio Abate (Abba, in copto), fino quasi a formare una città di anacoreti. Vivendo in estrema frugalità (due pani di segale al giorno, qualche volta fave e lattuga) ma – Atanasio lo sottolinea espolicitamente – «lì nessuno veniva tormentato dall’esattore delle tasse».

Il monachesimo fu un successo travogente. Migliaia di egiziani, non solo contadini ma soldati (per lo più giovani copti arruolati a forza in retate e gettati a combattere barbari biondi nel gelidi Nord) avevano trovato il modo migliore per salvarsi dal demonio e dai Befera del tempo: salvarsi l’anima rinunciando a consumare e praticando l’ascesi, e cessando di produrre ricchezza; niente produzione, niente tassazione. All’impero che aveva voluto (dovuto) tassare troppo, cominciarono a mancare i contribuenti e anche i soldati, che dopo che il cristianesimo era stato riconosciuto dallo Stato (l’editto di Costantino) avevano un modo legale di sottrarsi alla leva, facendosi monaci. Si arrivò al punto che l’imperatore Valente, nel 375, mandò i suoi legionari nel deserto di Nitria a rastrellare sistematicamente gli eremiti nei loro affollatissimi romitaggi. Furono presi e portati in carcere, oppure «stanati dai loro nascondigli» e obbligati a tornare a casa «perché adempissero il loro dovere nella comunità d’origine», narra San Gerolamo: ossia la funzione di sostituti d’imposta. Molti si rifiutarono di tornare a casa, e furono uccisi a bastonate. Valente, nel suo gergo militaresco, li aveva bollati come «ignaviae sectatores», che significa «banda di lavativi», ma anche «volontariamente inattivi, improduttivi». Oppure renitenti alla leva e al fisco «sub specie religionis», con la scusa della religione.

Ma ormai l’efficiente fiscalità romana aveva raggiunto il punto, in cui non valeva più la pena affannarsi a produrre nulla. Questo punto è stato raggiunto in Italia. Che faccia nascere santi eremiti come Antonio del Deserto, pare improbabile data la mentalità corrente. Ma almeno, circumcelliones e bagaudi, sarebbe ora.

(30 marzo 2012)
 
Tratto da: 

domenica 23 giugno 2013

“Vidi che molti pastori si erano fatti coinvolgere in idee che erano pericolose per la chiesa. Stavano costruendo una chiesa grande, strana, e stravagante” (Beata Anna Katharina Emmerick)

Le profezie della mistica Emmerick e la rovina della chiesa con due papi

di Mattia Rossi

Chissà se Giovanni Paolo II, nel 2004, avrebbe mai immaginato che un giorno neanche troppo lontano la monaca tedesca che si accingeva a beatificare sarebbe divenuta di grande attualità? Sono passati solamente 9 anni da quel 3 ottobre del 2004 quando, il grande Papa polacco, il più grande “canonizzatore” della storia della chiesa, elevò agli onori degli altari Anna Katharina Emmerick, monaca agostiniana tedesca vissuta tra il 1774 e il 1824, proclamandola beata. La Emmerick, nata da una famiglia di origini contadine, viene venerata dalla chiesa universale per le sue doti mistiche e di veggente. Grazie alle sue visioni tramandateci è stata dissotterrata, vicino a Efeso, la casa che, secondo gli archeologi, avrebbe ospitato Maria e Giovanni in seguito alla morte di Gesù. I diari “La dolorosa Passione del Nostro Signore Gesù Cristo” rivelano alcuni particolari inediti relativi alla morte di Gesù.
Ma tra le visioni della monaca tedesca hanno spazio anche alcune profezie apocalittiche sul destino della chiesa. Innanzitutto, Katharina Emmerick fu, credo, la prima ad aver previsto alcuni aspetti della futura riforma liturgica: “La Messa era breve. Il Vangelo di san Giovanni non veniva letto alla fine”. Ma ciò che salta immediatamente all’occhio, è la sua previsione di un tempo futuro di coesistenza di due papi: “Vidi anche il rapporto tra i due papi… Vidi quanto sarebbero state nefaste le conseguenze di questa falsa chiesa. L’ho veduta aumentare di dimensioni; eretici di ogni tipo venivano nella città (di Roma). Il clero locale diventava tiepido, e vidi una grande oscurità” (13 maggio 1820).
Su questo passo, il mondo cattolico più tradizionalista e critico verso i mutamenti del magistero di Papa Francesco va a nozze. La chiesa che va formandosi, nella profezia emmerickiana, è una chiesa “falsa”, dalla dottrina corrotta (più avanti dirà protestantizzata) e dall’infestazione di un clero “tiepido”. Ma tutto questo non impedì alla chiesa di “aumentare di dimensioni” (il riferimento, per molti, è al cosiddetto “effetto Bergoglio”, un’ondata di consensi, di chiese piene e code ai confessionali).
Anche il cambio di dimora e la clausura di quello che oggi è il Papa emerito sarebbero stati preannunciati: “Vedo il Santo Padre in grande angoscia. Egli vive in un palazzo diverso da quello di prima e vi ammette solo un numero limitato di amici a lui vicini. Temo che il Santo Padre soffrirà molte altre prove prima di morire. Vedo che la falsa chiesa delle tenebre sta facendo progressi, e vedo la tremenda influenza che essa ha sulla gente” (10 agosto 1820). Anche qui, ancora una volta, è la popolarità e l’influenza della nuova chiesa a preoccupare la beata.
Ecco, poi, la profezia sulla protestantizzazione della chiesa cattolica: “Poi vidi che tutto ciò che riguardava il protestantesimo stava prendendo gradualmente il sopravvento e la religione cattolica stava precipitando in una completa decadenza. La maggior parte dei sacerdoti erano attratti dalle dottrine seducenti ma false di giovani insegnanti, e tutti loro contribuivano all’opera di distruzione. In quei giorni, la Fede cadrà molto in basso, e sarà preservata solo in alcuni posti, in poche case e in poche famiglie che Dio ha protetto dai disastri e dalle guerre” (1820). E ancora, sempre sulla “chiesa grande”: “Vidi che molti pastori si erano fatti coinvolgere in idee che erano pericolose per la chiesa. Stavano costruendo una chiesa grande, strana, e stravagante”. Ma questa profezia non si ferma qui, preannuncia anche la dottrina che, dagli anni postconciliari, guida gran parte della pastorale ecclesiastica, quella dell’ecumenismo e della libertà religiosa: “Tutti dovevano essere ammessi in essa per essere uniti e avere uguali diritti: evangelici, cattolici e sette di ogni denominazione. Così doveva essere la nuova chiesa… Ma Dio aveva altri progetti” (22 aprile 1823).
“Ma Dio aveva altri progetti”. Progetti dei quali, naturalmente, ognuno di noi è all’oscuro: nessuno, infatti, è in grado di dire se, come e quanto le profezie della beata Emmerick siano attuali o, addirittura, si stiano avverando. Di certo, però, stupisce la consonanza con molti aspetti, più o meno oscuri, della chiesa di oggi.
 


FOGLIO QUOTIDIANO