sabato 16 ottobre 2010

A proposito delle due ermeneutiche del Vaticano II: mito o realtà?

Due ermeneutiche, una sola fregatura:
Il Concilio pastorale Vaticano II.
di Matteo D’Amico


Siamo tutti ormai abituati a sentir parlare delle “ermeneutiche del Vaticano II”, ovvero delle due interpretazioni dei testi conciliari che si sono combattute nel sofferto periodo post-conciliare, nel tentativo di imporre due letture molto diverse, se non opposte, degli stessi documenti.

L’ermeneutica della rottura.

La prima lettura sarebbe quella progressista, incarnata in Italia, in modo particolare, dalla scuola di Bologna, erede della tradizione dossettiana. È questa la prospettiva che potremmo convenzionalmente definire rivoluzionaria, quella cioè che enfatizza i tratti di rottura, anche drastica, del Vaticano II con la Chiesa preconciliare o, tout court, con la Chiesa di Pio XII: su alcuni temi chiave (Primato Petrino; poteri del vescovo; sacerdozio; libertà religiosa; ecumenismo; ruolo del popolo di Dio; matrimonio e morale sessuale; liturgia) ma in definitiva sul grande tema che li sintetizza e li riassume tutti – l’ecclesiologia- il Concilio avrebbe permesso una “nuova pentecoste”, una rifondazione radicale della Chiesa, una sua purificazione dalle tante macchie che ne deturpavano il volto e ne ostacolavano l’apostolato. La nuova Chiesa sarebbe una Chiesa più spirituale, più pneumatica, già tutta implicitamente raccolta nel celebre discorso conclusivo del Concilio di Paolo VI e nella “simpatia” per il mondo moderno e la sua cultura negatrice di Dio ivi manifestata. L’ecclesiologia sottesa all’ermeneutica della rottura ha avuto e ha come suo asse strategico quella che chiamerei la laicizzazione del clero e la clericalizzazione del laicato cattolico, alla luce di una (rovinosa, a nostro modo di vedere) utopia: il pensare che una via per una ripresa del fervore e dell’intensità nella vita di fede (l’uscita dalla sindrome del cosiddetto cinquantismo) consistesse nel confondere prima, e nell’infrangere poi del tutto i confini fra clero, consacrati e laici, fino a sovrapporre i due mondi e a farne infine un’unica indistinta realtà gerarchica, egualitartista e agnosticamente iperdemocratica. In questa prospettiva, andavano e vanno virtuosamente messi in crisi alcuni aspetti teologicamente centrali e simbolicamente decisivi della “vecchia” Chiesa: il celibato dei preti e il potere di Pietro e dei vescovi. È, però, anche evidente che in tale prima ermeneutica la nuova idea di “popolo di Dio” non avrebbe potuto imporsi se non passando anche attraverso la desacralizzazione della Santa Messa, troppo chiaramente evocante, nel Messale di San Pio V, la maestà di Dio e la Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo.

Nella prospettiva dossettiana, che stiamo evocando per sommi capi, la nuova Chiesa post-conciliare è pensata come vera nella misura in cui trova la sua norma di significato nei valori emersi con l’Illuminismo, con la Rivoluzione Francese e con le istanze politiche socialiste e democratico-liberali moderne. La salvezza non è più pensata come realtà, in ultima istanza, soprannaturale, come risultato cioè dell’operare della Grazia e del libero cooperare ad essa del libero battezzato; ma, alla luce di un processo – non importa se solo implicito – di immanentizzazione dell’éschaton cristiano, come prassi politico-sociale intramondana di redenzione dell’umanità dalla guerra, dalle ingiustizie, dalla povertà, dalle divisioni, dalla mancanza di diritti o di lavoro. La salvezza diviene così il risultato della prassi dell’uomo, della quale Gesù diviene solo il simbolo perfetto o l’archetipo umano, e la Chiesa si pensa come l’avanguardia cosciente e più illuminata di questo processo. Tale messianesimo secolarizzato rappresenta, però, non si può non notarlo, una forma violenta e insidiosissima di giudaizzazione del Cristianesimo, ed è questo che spiega la subordinazione teologica e teoretica, in particolare a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II, della Chiesa alla sinagoga, e la grottesca centralità di Auschwitz nella riflessione teologica cattolica dell’ultimo cinquantennio.

Per l’ermeneutica della rottura, o della Rivoluzione, la crisi della Chiesa nel post-concilio non è fattore preoccupante per due motivi: come ogni visione rivoluzionaria della storia essa si regge sulla convinzione che la distruzione del passato e di ogni suoi segno sia la condizione indispensabile all’istaurarsi del Mondo Nuovo, alla piena incarnazione del Bene nella storia, anzi coincida con l’avvento stesso del mondo utopico che il rivoluzionario sogna. In secondo luogo, le forme che stanno soccombendo o estinguendosi (sacerdozio ministeriale, clausura e monachesimo, liturgia e confessione, autorità dei vescovi, scuole cattoliche, etc…) erano pesantemente imperfette ed impediscono con il loro permanere il pieno sbocciare della nuova chiesa pneumatica, racchiusa esotericamente nei testi del Vaticano II. Se la Chiesa era malata, la sua attuale crisi è in realtà un segno di guarigione e di rinascita, e non è per mala fede che non bisogna lamentarsene o parlarne (si sa che c’è la crisi, ma si sceglie tatticamente di non dirlo), ma perché in realtà si pensa che non stia accadendo nulla di negativo.

Resistere nella difesa delle vecchie forme, ormai patetiche di manifestazione della fede, non è fare katéchon, cioè trattenere il dilagare dell’errore e dell’iniquità, ma impedire l’avvento chiliastico dell’Età dello Spirito Santo. Chi chiede, sulla scia del card. Martini, un Concilio Vaticano III, chiede appunto che si ratifichi essotericamente, cioè pubblicamente, la “nuova chiesa”, annunciata ancora in modo oscuro ed equivoco – dagli iniziati e per gli iniziati – nei testi del Vaticano II.

L’ermeneutica della rottura è fondata, inevitabilmente, su una teologia di ispirazione pienamente modernista, ovvero sottomessa alla filosofia, all’antropologia e alla filosofia della politica moderne e, dunque, non vede alcun problema nel parlare di rottura, di superamento, di rivoluzione, di cambiamento a livello magisteriale, teologico, dogmatico e morale: l’essenza della cultura moderna, infatti, è la negazione stessa di immutabilità ed eternità della Verità, e quindi il rifiuto, in generale, del fatto che i problemi possono essere posti in termini di verità o di falsità, ovvero di non contraddittorietà. Ma se l’essenza della modernità è, dunque, la negazione della Verità in generale, che, se è, è immutabilmente ed eternamente uguale a se stessa; allora la sua essenza è la negazione del Verbo, la negazione di Dio, l’ateismo.

Ora, è evidente sul piano teologico, che l’ermeneutica della rottura è insostenibile, perché se, per assurdo, potesse valere, ciò significherebbe che per quasi duemila anni la Chiesa ha insegnato l’errore – il che è impossibile, stante la sua santità e infallibilità – o che una verità di fede, un dogma, può mutare, il che è assurdo solo sul piano logico. La “rottura” significherebbe di fatto che la Chiesa non è un’istituzione divinamente fondata e che la fede cristiana è quindi falsa. Sostenere formalmente un’ermeneutica della rottura implica, quindi, la perdita della fede; significa de facto già essere fuori dalla Chiesa.

L’ermeneutica della continuità.

Quella che ci viene presentata come ermeneutica della continuità mira, invece, a proporre la tesi che fra la grande Tradizione, il Magistero precedente al Concilio Vaticano II, e le dottrine sostenute durante e dopo detto concilio, non vi sia alcuna frattura, alcuna discontinuità; anzi, il Vaticano II andrebbe tutto letto e interpretato alla luce della Tradizione, come sviluppo omogeneo del dogma, come aggiornamento e riproposizione delle stesse verità in un linguaggio e secondo modalità culturali adatte all’uomo moderno. Secondo questa prospettiva non c’è stato alcun salto, alcuna frattura qualitativa decisiva fra il Magistero conciliare e post-conciliare. In questa prospettiva, infatti, vi è stata solo, da parte di alcuni teologi e uomini di Chiesa, l’applicazione di una cattiva ermeneutica, che ha distorto lo spirito e la lettera del Vaticano II e che ha disorientato i fedeli, facendo appunto credere loro che ci si trovasse di fronte a una chiesa nuova, e non semplicemente rinnovata.

L’ermeneutica della rottura viene qui astrattamente condannata come erronea, senza, però, - la cosa va notata con molta attenzione – che vengano presi provvedimenti disciplinari contro i suoi sostenitori da parte dell’episcopato e delle autorità romane. L’aderire all’ermeneutica della continuità è scelta comprensibile e propria tendenzialmente di persone pie e oggettivamente desiderose di fare il bene della Chiesa, anzi spesso mosse da un sincero zelo religioso e da un’intensa vita di pietà. Ma un prezzo molto alto non può non essere pagato anche da adotta questa strategia interpretativa, quando la distruzione della Chiesa passa soprattutto attraverso gli stessi uomini di Chiesa. Infatti, in questa prospettiva lentamente, giorno dopo giorno, verranno accettate anche le dottrine o le pratiche che più ripugnano a un sentire veramente cattolico: prima le si tollererà a malincuore, poi ci abituerà ad esse, quindi le si accetterà con convinzione, diminuendo l’intensità della battaglia contro le novità che distruggono la fede, cedendo interiormente sul piano delle forme culturali e delle modalità di pensiero filosofico sottese alla nuova teologia eterodossa; infine, convincendosi che davvero non vi è nulla di negativo nella dottrina modernista professata ormai universalmente da interi episcopati, da moltitudini di sacerdoti. Di fronte a vere eresie o alle posizioni più estreme non ci si scandalizzerà, rifiutando di vedere in queste posizioni il risultato del Concilio, il suo esito inevitabile, ma rifugiandosi nel mito che ne hanno distorto il significato o che ne hanno frainteso la mens.

Sono facili gli ambiti dottrinari nei quali lentamente il seguace di questa ermeneutica si allinea con convinzione alla nuova dottrina: ecumenismo, libertà religiosa e concezione liberale del rapporto Chiesa- Stato, morale matrimoniale. La carità, in tal modo, inevitabilmente si raffredda.

Se nel caso dell’ermeneutica della rottura il rischio è la perdita della fede, nel caso dell’ermeneutica della continuità il pericolo è rinunciare al principio di non contraddizione, ad ogni rigore logico, a pensare in modo corretto, perche devo, orwellianamente convincermi che siano la stessa cosa, cose poste in rapporto formale di contraddittorietà, come l’ecumenismo postconciliare e la condanna dell’ecumenismo da parte dei papi precedenti; la visione tradizionale del rapporto con l’Ebraismo e la nuova concezione eterodossa del dialogo ebraico-cristiano; la condanna delle libertà religiosa e del Liberalismo del Sillabo e la nuova concezione cattolico-liberale della politica. Si è in tal modo costretti ad un degrado del pensiero che non può, nel lungo periodo, non incidere sulla vita di fede.

Inoltre, in tale prospettiva si rinuncia, o meglio, si evita di mettere l’accento sulla vita della Chiesa; la si minimizza, non se ne parla, per l’ovvio motivo che si escluso in linea di principio, che la crisi possa essere originata dal Vaticano II. Sulle poche riviste cattoliche più “di destra”, segretamente avverse alle novità conciliari, ma legate all’ermeneutica della continuità, si troveranno articoli splendidi (e pur lodevoli e necessari) contro il comunismo o contro l’aborto, ma nessun costo si oserà parlare dei limiti del Concilio, della eterodossia di tante prese di posizione da parte della gerarchia conciliare, delle posizioni a volte palesemente eretiche o sacerdoti o teologi cattolici; mai si troverà la condanna di una presa di posizione o di una dichiarazione gravemente erronea da parte di un vescovo e di un cardinale: la crisi verrà proiettata psicoticamente sul mondo, sulla secolarizzazione, sul laicismo, sulla cultura di sinistra, dimenticando che il trionfo di queste posizioni anticristiane in paesi cattolici da quindici o sedici secoli è l’effetto, e non la causa della crisi: dimenticando che nel meccanismo ad orologeria messo appunto nelle Logge e nei circoli più esclusivi del potere, le leggi a favore del divorzio, dell’aborto, della pornografia, dell’omosessualismo e contro ogni principio d’ordine e di autorità, sono state fatte passate in paesi di antica tradizione cristiana nel decennio successivo al Vaticano II, perché per i nemici della Chiesa è stato fin troppo chiaro che con il Concilio, la Chiesa – o meglio gli uomini di chiesa che la rappresentavano in quel momento – rinunciava a combattere con il mondo e contro la sua perversità.

In questa prospettiva, per un smentire l’assurdo mito della continuità fra Tradizione e Concilio, di tutti i documenti del Concilio e successivi, si fanno esegesi mirate a valorizzare in ogni modo la coerenza fra l’insegnamento di sempre e le nuove dottrine che vengono professate, estrapolando elementi comuni, e non mettendo mai l’accento sulle sostanziali differenze, sia nella lettera, che nella spirito, che dividono e differenziano in modo irriducibile Tradizione e Vaticano II.

La crisi imbarazza, infatti è lei la vera prova che il Concilio non solo non è stato fecondo, ma ha generato un crollo senza precedenti nella vita della fede, nella pratica dei sacramenti, nelle vocazioni, negli Ordini Religiosi, nella prassi liturgica. Ammettere o sottolineare la crisi implicherebbe interrogarsi sulla presunta continuità tra il Vaticano II e il Magistero precedente. In tal modo ci si pone in un vicolo cieco: da un lato, appunto, si minimizza o si nega la crisi; dall’altro, quando la si ammette, si rinuncia a spiegarla nell’unico modo sensato, ovvero riconducendola al Concilio Vaticano II e alla sua sottile, ma pervasiva, eterodossia. Insomma, o si rinuncia alla fede, o si rinuncia alla ragione.

Perché due ermeneutiche?

Siamo pronti ad accedere ad una prima sintesi, e lo facciamo interrogandoci su quali siano le condizioni di disponibilità del permanere all’interno della Chiesa, per ben quarant’anni, di due ermeneutiche fra loro radicalmente diverse. Infatti, è cosa normale che dopo un Concilio si dia una fase attuativa in cui apposite commissioni sono investite ufficialmente del compito di risolvere i punti di più difficile interpretazione e di dare risposta ai dubbi e alle domande che una parte dell’episcopato o del clero può manifestare; e ben presto, del resto, l’esercizio del magistero, in tutti i suoi possibili gradi di autorevolezza, concorre ad imprimere una chiara – ed univoca – interpretazione ai testi conciliari: Roma locuta est, causa finita est. Il Magistero papale, come norma prossima della Rivelazione (Sacra Scrittura e Tradizione), deve svolgere proprio, e innanzitutto, questo compito: impedire che si insinuino elementi eterodossi, o erronei, o eretici nell’interpretazione teologica dei testi della Tradizione, inclusa di quella eventualmente rappresentata da un recente o dall’ultimo Concilio. Ma la stabilizzazione teologica delle interpretazioni di un Concilio non può durare quarant’anni ed essere ancora in pieno svolgimento (sembra, infatti, di trovarsi di fronte ad un’ermeneutica infinita e a un conflitto irrisolvibile tra interpretazioni opposte nel caso dell’ultimo post-concilio). Ciò che sta accadendo è chiaramente uno dei segni – e uno dei più importanti – dell’attuale crisi della Chiesa; infatti, il Magistero da norma prossima della Rivelazione, sta diventando “norma prossima della norma prossima”: sta ormai esercitandosi sterilmente su se stesso; non sta più interpretando la Rivelazione, ma la propria stessa interpretazione, sullo sfondo di un dubbio scettico circa la propria competenza a riguardo. Ma un magistero così inteso non è più Magistero: ripiegandosi trascendentalmente, dubitativamente, in modo interlocutorio, dialogico e circolare su se stesso, e non su tutta la grande Tradizione, si trasforma gradualmente in un gesto vago ed incerto, affascinante, forse, sul piano culturale, ma incapace di guidare ed orientare i fedeli. Inoltre, va osservato che, essendoci due visioni opposte del Vaticano II, che si escludono reciprocamente, almeno una delle due dovrebbero apparire all’autorità pontificia non solo diverso dall’unica ortodossa, ma, appunto, del tutto erronea e pericolosa per la fede. Ora, ad un errore non si può opporre solo l’interpretazione corretta, perché ciò non è sufficiente a sradicare l’errore stesso; se chi sbaglia rifiuta di recedere dal suo errore, dovrebbe essere necessario che venga colpito dai provvedimenti e dalle sanzioni previsti dal Codice di Diritto Canonico.

Dunque, l’innaturalità, l’anormalità per la Chiesa di “due ermeneutiche” allegramente coesistenti da quarant’anni ci costringe a fare un altro passo avanti.

Oltre il mito delle “due ermeneutiche”.

Abbiamo finora considerato in modo astratto il tema dell’ermeneutica del Concilio Vaticano II, accettando di porre il problema in termini di conflitto delle interpretazioni, di scontro fra opposte scuole di pensiero. Alcune precisazioni sono, però, doverose: in primo luogo, se da un punto di vista “accademico” è vero che ci sono due ermeneutiche, è soprattutto vero che l’ermeneutica vincente finora è risultata essere quella della rottura; infatti, a livello del sentire ecclesiale medio e vago, delle opinioni largamente maggioritarie tra il popolo dei fedeli, delle convinzioni sempre più radicate nel corpo sacerdotale, siamo ormai di fronte – è doloroso doverlo riconoscere – a una nuova chiesa, ove si è diffuso un insieme di dottrine sempre meno riconoscibili come cattoliche. L’eterodossia in ogni campo e a tutti i livelli è ormai così diffusa, da essere vissuta da tutti come stato normale, e non gravemente patologico della vita della Chiesa. Su materie decisive per la loro importanza dottrinale, come ad esempio, la teologia del matrimonio e la morale sessuale, la larga maggioranza dei fedeli (e parte del clero) dissente dall’insegnamento della Chiesa, e agisce secondo personali e eterodosse visioni, incurante di ogni autorità, convinta che sia appunto la Chiesa a “essere indietro” e a dover fatalmente modificare la propria dottrina. Ciò equivale a dire che il concetto di sacerdozio universale luterano e l’anarchismo settario protestante è ormai diventato un habitus proprio della maggioranza dei cattolici. Mentre, dunque, è sparuto e ridottissimo il numero di coloro che si gingillano accademicamente con l’ermeneutica della continuità, è di fatto materialmente trionfante, nel cuore del popolo cattolico, l’ermeneutica della rottura. Non è, dunque, la “Scuola di Bologna” che è causa della deriva dottrinale: essa si limita a cavalcarne ideologicamente la tigre e a seguire l’onda neomodernista che ha trovato, in realtà, la maggioranza degli uomini di Chiesa, vertici inclusi. Nella crisi senza precedenti che travaglia la Chiesa, non è discettando di ermeneutiche e del loro valore che si uscirà dalla crisi stessa, ma denunciando le interpretazioni eretiche o errate, escludendo gli autori di esse da ogni ruolo ecclesiale o attività d’insegnamento, abrogando i testi all’origine di tanta confusione, come la Dignitatis Humanae o la Gaudium et spes o, soprattutto, la Nostra Aetate.

L’infallibilità in materia di fede o di morale non è una prerogativa dei teologi di Tubinga, degli editorialisti de La Repubblica o di Avvenire o di qualche “storico” della Scuola di Bologna, ma del Sommo Pontefice Romano, che è Vicario di Nostro Signore Gesù Cristo sulla Terra e che, unico, ha il potere, l’autorità, i mezzi, il dovere – e l’assistenza dello Spirito Santo – per distruggere infallibilmente l’eresia e l’errore e illuminare, quale faro di luce incorrotta, il popolo di Dio, il Nuovo Israele, la Santa Chiesa Cattolica. Il fatto che, dopo quattro decenni, si stia ancora discutendo di quale sia l’ermeneutica giusta del Vaticano II è la prova che in questi quarant’anni si è avuta solo l’apparenza di un’attività magisteriale, ma non veri atti di Magistero; infatti, se è vero che vi sono due ermeneutiche in lotta fra loro, e se ammettiamo – come siamo costretti ad ammettere – che almeno una di esse è del tutto errata, non è possibile avere un atto di Magistero nemmeno autentico se lo stesso non è accompagnato, o non co-implica come a sé immanente, la condanna dell’errore che sarebbe necessario confutare. Ma gli errori – a partire, simbolicamente, dalla scandalosa mancata denuncia della tirannia comunista durante il Vaticano II – dal Concilio in poi sono stati lasciati sussistere accanto all’insegnamento di Roma: ciò è sufficiente a falsificare tale insegnamento e a rilevarne il volto interlocutorio e non autentico, incerto e privo di una vera volontà d’imporsi coercitivamente, con autorità indiscussa e universale, a tutta la Chiesa militante e ad ogni uomo.

Dunque, Pietro, che dal Concilio in poi è stato e continua ad essere Pietro, pur non agendo in quanto Pietro, da ora in poi – questo è il nostro augurio e la nostra speranza più viva – non si limiti ad essere, ma agisca da Pietro: a tal fine, in quest’ora d’incertezza e di speranza, tutti abbiamo il dovere di pregare con rinnovato fervore.

Memento:

“Supponiamo, caro amico, che il Comunismo [uno degli “errori della Russia” menzionati dal Messaggio di Fatima] fosse solo uno degli strumenti più evidenti di sovversione usati contro la Chiesa e le tradizioni della Rivelazione Divina … Sono preoccupato per il messaggio che ha dato la Beata Vergine a Lucia di Fatima. Questo insistere da parte di Maria, sui pericoli che minacciano la Chiesa è un avvertimento divino contro il suicidio di alterare la Fede, nella Sua liturgia, la Sua teologia e la Sua anima. … Sento tutto intorno a me questi innovatori che desiderano smantellare la Sacra Cappella, distruggere la fiamma universale della Chiesa, rigettare i suoi ornamenti e farla sentire in colpa per il suo passato storico. … Verrà un giorno in cui il mondo civilizzato negherà il proprio Dio, quando la Chiesa dubiterà come dubitò Pietro. Sarà allora tentata in credere che l'uomo è diventato Dio ... Nelle nostre chiese, i Cristiani cercheranno invano la lampada rossa dove Dio li aspetta. Come Maria Maddalena, in lacrime dinanzi alla tomba vuota, si chiederanno: “Dove Lo hanno portato?”

Cardinale Eugenio Pacelli

venerdì 15 ottobre 2010

possibile che la storia non insegni proprio nulla?

RIFORMATORI AL LAVORO
NEL SINODO DEI VESCOVI PER IL MEDIO ORIENTE
di Francesco Colafemmina




Tutti hanno parlato delle fortissime parole pronunciate a braccio da Papa Benedetto nell'ambito del Sinodo dei Vescovi delle Chiese Orientali. Una testimonianza in più di come il Papa spesso senta l'esigenza di uscire dall'astruso meccanismo degli scribi curiali, per donarci parole autentiche e personali.

Nessuno però ha ancora parlato di quello che i relatori - specie quelli più influenti - stanno affermando nel corso del Sinodo. Mi riferisco in particolare alle questioni riguardanti la liturgia, la catechesi e l'ecumenismo.

Partiamo dai Lineamenta del Sinodo, presentati nel dicembre dello scorso anno. Qui l'accenno alla riforma liturgica (avete capito bene!) dei riti orientali è breve e aspecifico: "60. C’è un ambito che meriterebbe una collaborazione su base regolare tra cattolici ed ortodossi: è quello della liturgia. Sarebbe auspicabile uno sforzo di rinnovamento, radicato nella tradizione e che tenga conto della sensibilità moderna e dei bisogni spirituali e pastorali attuali. Tale lavoro dovrebbe essere realizzato, per quanto possibile, congiuntamente."

Nell'Instrumentum Laboris ultimato nel giugno del 2010, invece, il riferimento diventa dettagliato. Al paragrafo 70 e seguenti, dopo un'evocazione del Vaticano II, si afferma: "in modo particolare, in tutte le Chiese orientali la divina liturgia esprime la sua centralità, tra l’altro, attraverso un’ampia e ricca varietà rituale. La ricerca dell’armonia dei riti, che il Concilio Vaticano II raccomanda vivamente, può illuminare l’attenta considerazione di questo tema così importante nell’Oriente cristiano."

Si tratterebbe quindi di "armonizzare" i riti orientali. Ma a quale scopo? Perché "non può sottovalutarsi oggi la capacità (del rito) di mantenere viva la fede dei credenti e anche di attirare l’interesse di coloro che si sono allontanati o addirittura di quelli che non credono."

Dunque è chiara l'intenzione di riformare i riti orientali per attrarre i non credenti o i cristiani non praticanti: quasi che l' "attrazione" del "pubblico" dei fedeli si basi soltanto sull'incontro fra la liturgia e le esigenze del mondo contemporaneo. Una visione che sembra voler sostituire alla viva tradizione della Chiesa e agli elementi identitari e particolari dei singoli usi liturgici delle Chiese Orientali, una omologazione liturgica che se compiutamente attuata, rischia di minare l'esistenza stessa delle suddette Chiese, aggregandole così definitivamente ed uniformando anche i loro sacramenti.

Andiamo avanti. Come dev'essere attuata questa riforma, questo "rinnovamento"? L'Instrumentum Laboris risponde: "non poche risposte auspicano uno sforzo di rinnovamento, che, pur rimanendo fermamente radicato nella tradizione, tenga conto della sensibilità moderna e dei bisogni spirituali e pastorali attuali. Altre risposte presentano qualche caso di tale rinnovamento attraverso l’istituzione di una commissione di specialisti per la riforma della liturgia."

Commissione per la riforma della liturgia! Ecco la soluzione. E cosa dovrebbe fare questa commissione? "L’aspetto più rilevante del rinnovamento liturgico finora portato avanti consiste nella traduzione in lingua vernacola, principalmente in arabo, dei testi liturgici e delle preghiere devozionali perché il popolo possa ritrovarsi nella partecipazione alla celebrazione dei misteri della fede."

Traduzioni in lingua vernacola per garantire l'actuosa partecipatio. L'Instrumentum aggiunge, quasi per spegnere sul nascere i riottosi tradizionalisti orientali: "a questo proposito è doveroso segnalare che mentre sono pochi coloro che preferiscono mantenere la lingua originale, la stragrande maggioranza è dell’idea di aggiungere alla lingua originale quella vernacola."

Ma non è finita qui. Si parla anche di "necessità d’impegnarsi, in un secondo momento, in un lavoro di adattamento dei testi liturgici che dovrebbero essere usati per le celebrazioni con giovani e bambini. In questo senso, lo scopo sarebbe quello di semplificare il vocabolario adeguandolo convenientemente al mondo e alle immagini di queste categorie di fedeli. Perciò, si tratterebbe non semplicemente di tradurre i testi antichi ma di ispirarsi ad essi per riformularli secondo una profonda conoscenza del patrimonio cultuale ricevuto, tenendo conto di un’aggiornata visione del mondo attuale. Come opportunamente viene segnalato, questo compito dovrebbe essere assolto da un gruppo interdisciplinare al quale siano convocati liturgisti, teologi, sociologi, pastori e laici impegnati nella pastorale liturgica."

Quindi abbiamo il rito ad personam. Quello per i bimbi e quello per gli adulti.
Ancora una volta le innovazioni non finiscono qui. Demolita la liturgia, bisogna passare a demolire le devozioni popolari, grande ostacolo nei Paesi meridionali non protestantizzati: "Le opinioni in favore del rinnovamento liturgico si estendono anche all’ambito della pietà popolare. Infatti, alcune risposte avvertono la convenienza di rivedere le preghiere devozionali in modo tale da arricchirle con testi teologici e biblici, sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento. In questo senso potrebbe essere di grande aiuto la ricca esperienza e lo sforzo compiuto al riguardo nella Chiesa latina."

Sarà finita qui? No, manca l'ecumenismo: "Infine, un’eventuale riforma della liturgia dovrebbe tener conto della dimensione ecumenica. In questo senso, come accennato da diverse risposte che fanno eco al testo dei Lineamenta, la liturgia potrebbe diventare un fecondo luogo di collaborazione su base regolare tra cattolici ed ortodossi. In particolare, sulla spinosa questione della communicatio in sacris, qualche risposta suggerisce la formazione di una commissione mista cattolico-ortodossa per cercare una via di soluzione."

Detto questo, vorrei sottoporvi l'analisi di alcuni importanti passaggi dei discorsi che si svolgono nell'assemblea sinodale.

Si parte dalla sintesi di Sua Beatitudine Antonios Naguib, Patriarca di Alessandria dei Copti, in apertura della Prima Congregazione Generale dell'11 ottobre. Naguib ribadisce le esigenze di una riforma e di un rinnovamento liturgico "ampiamente auspicato".

Passiamo quindi ai due "pezzi forti". L'intervento del Cardinal Sodano e quello del Cardinal Rylko.
Sodano, in qualità di Decano del Collegio Cardinalizio, si sente in dovere di rammentare che non bisogna resistere ai rinnovamenti, ma tutto va omogeneizzato in un mix fra passato e futuro. Per giustificare meglio la sua posizione estrapola un brano di un discorso di Papa Benedetto, preparato dalla Congregazione dei Vescovi e pronunciato dal Papa il 13 settembre scorso.

Sentiamo Sodano: "Talora le discussioni nelle nostre comunità nascono anche da diversi atteggiamenti pastorali, fra l'uno che preferisce privilegiare la custodia dell' eredità del passato e l'altro che richiama maggiormente alla necessità del rinnovamento. Sappiamo però che, alla fine, occorrerà sempre tener presente il criterio datoci da Gesù, il criterio del "nova et vetera" (Mt 13,52), e cioè del nuovo e del vecchio da estrarre dal tesoro della Chiesa. Lo ricordava pure recentemente il nostro amato Santo Padre Benedetto XVI, parlando ad un gruppo di Vescovi di recente nomina, dicendo loro: "Il concetto di custodire non vuole dire soltanto conservare ciò che è stato stabilito - benché tale elemento non debba mai mancare, - ma richiede nella sua essenza anche l'aspetto dinamico, cioè una concreta tendenza al perfezionamento, in piena armonia e continuo adeguamento delle esigenze nuove sorte dallo sviluppo e del progresso di quell 'organismo vivente che è la comunità"".

Il culmine lo si raggiunge però con l'intervento del Cardinale Neocatecumenale Rylko. L'intervento di Rylko mette un dito in una piaga presente in Terrasanta che si chiama Cammino Neocatecumenale. A dire il vero potremmo definirla una piaga dell'intero cattolicesimo vista la sua eccentricità teologica, liturgica, ecclesiologica e catechetica.

Dice Rylko: "Nella nostra epoca, uno dei grandi segni di speranza per la Chiesa è la “nuova stagione aggregativa dei fedeli” (Christifideles laici n. 29), che, dopo il Concilio Vaticano II, vede la nascita di tanti movimenti ecclesiali e nuove comunità. Un vero dono dello Spirito Santo! Questi nuovi carismi danno origine ad itinerari pedagogici di straordinaria efficacia per la formazione umana e cristiana dei giovani e degli adulti, e sprigionano in loro uno stupefacente slancio missionario di cui la Chiesa oggi ha particolarmente bisogno. Queste nuove comunità non sono, ovviamente, un'alternativa alla parrocchia, ma piuttosto un sostegno prezioso e indispensabile nella sua missione. In spirito di comunione ecclesiale, aiutano e stimolano le comunità cristiane a passare da una logica di mera conservazione ad una logica missionaria. Papa Benedetto XVI, in continuità con il servo di Dio Giovanni Paolo II, non si stanca di sollecitare una sempre maggiore apertura dei Pastori a queste nuove realtà ecclesiali. Nel 2006, il Papa, rivolgendosi ai vescovi in visita ad limina, ha affermato: “Vi chiedo di andare incontro ai movimenti con molto amore. Qua e là devono essere corretti, inseriti nell'insieme della parrocchia o della diocesi. Dobbiamo però rispettare lo specifico carattere dei loro carismi ed essere lieti che nascano forme di fede in cui la parola di Dio diventa vita” (L'Osservatore Romano, 19 novembre 2006). È, dunque, davvero auspicabile che le Chiese del Medio Oriente si aprano con crescente fiducia a queste nuove realtà aggregative. Non dobbiamo aver paura di quella novità di metodo e di stile di annuncio che portano: è una "provocazione" salutare che aiuta a vincere la routine pastorale che è sempre in agguato e rischia di compromettere la nostra missione (cfr. Instrumentum laboris n. 61). Il futuro della Chiesa in questa regione del mondo dipende proprio dalla nostra capacità di dare un ascolto docile a ciò che lo Spirito dice alla Chiesa oggi, anche mediante queste nuove realtà aggregative."

Il Cardinal Rylko, ricorrendo ad un linguaggio tipicamente "carismatico", fa del suo intervento una esortazione alle Chiese Orientali, perché accettino al loro interno la penetrazione di "comunità che danno origine ad itinerari pedagogici". E' evidente che Rylko si riferisce al Cammino Neocatecumenale. Esorta pertanto i Vescovi a non guardare (ai neocatecumeni) come ad "alternative alle parrocchie" (i membri del Cammino infatti sono soliti costituire gruppi a se stanti), ma a percepirli come un "sostegno prezioso" nella missione parrocchiale. Aggiunge che (i neocatecumeni) non hanno una visione "conservativa", ma "missionaria".

Si intrufolano infatti in ogni diocesi, in particolare in Terrasanta. Lì sono presenti con almeno 30 comunità. E come attestato da Kiko Arguello lo scorso maggio 2009 (nella solita adunata che organizza il giorno successivo alle partenze del Papa dai luoghi in cui si reca in visita apostolica - consiglio di guardare tutto il filmato presente nel link), il Cammino Neocatecumenale in Medio Oriente costituisce un elemento di comunione ecumenica.

Rylko conclude ribadendo - quasi fosse una minaccia - che il futuro della Chiesa in Medio Oriente dipende dall'obbedienza dei Vescovi allo Spirito Santo (ossia alla diffusione delle comunità Neocatecumenali)!

Il 12 ottobre l'intervento del Ministro Generale dei Cappuccini ha aggiunto altra carne al fuoco, con alcune proposte tra le quali spicca quella di elaborare: "un catechismo unico per tutti i cattolici del Medio Oriente." Speriamo che Padre Carballo non abbia in mente il catechismo neocatecumenale! D'altra parte come potrebbe? Di quel catechismo non v'è traccia. Giace ancora in qualche ufficio della Congregazione per la Dottrina della Fede.

E come sempre si ripropone il quesito: come può Roma auspicare riforme liturgiche nelle chiese orientali, se continua a tollerare le aberrazioni liturgiche neocatecumenali?

E come può consigliare l'adozione di nuove prassi catechetiche, se accetta un "cammino di iniziazione cristiana" il cui fondamento catechetico non è nè noto nè approvato?

Ma Carballo è andato oltre. Ha addirittura proposto l'indizione di un "anno giovanneo" analogo a quello paolino da estendere "se possibile, anche alle altre Chiese non cattoliche". A questo punto è chiaro che le preoccupazioni più insistenti di eminenti padri sinodali, riguardo alle azioni di Israele e le crescenti conflittualità esterne alle comunità cristiane del Medio Oriente che finiscono per ritorcersi proprio contro tali minoranze, sembrano passare in secondo piano rispetto all'agenda dei riformatori curiali. E probabilmente questi ultimi hanno ragione.

Senza le decime e le masse dei Neocatecumenali le Chiese Orientali del Medio Oriente rischiano di scomparire. La nuova evangelizzazione neocatecumenale passa però attraverso l'uniformità dei riti. Finora l'unico a difendere l'indipendenza liturgica delle Chiese Orientali è stato Mons. Dimitri Salachas, Esarca dei Cattolici di rito greco-bizantino.

Solo 3 anni fa, però, tutti i Vescovi Cattolici di Terrasanta, stufi di sopportare abusi liturgici e colonizzazioni parrocchiali, si erano rivolti così ai Neocatecumenali: "II principio al quale dobbiamo tutti insieme restare fedeli e informare la nostra azione pastorale dovrebbe essere "una parrocchia e una Eucaristia". II vostro primo dovere perciò, se volete aiutare i fedeli a crescere nella fede, è di radicarli nelle parrocchie e nelle proprie tradizioni liturgiche nelle quali sono cresciuti da generazioni. In Oriente, noi teniamo molto alla nostra liturgia e alle nostre tradizioni. E' la liturgia che ha molto contributo a conservare la fede cristiana nei nostri paesi lungo la storia. Il rito è come una carta d'identità e non solo un modo tra altri di pregare. Vi preghiamo di aver la carità di capire e rispettare l'attaccamento dei nostri fedeli alle proprie liturgie."

Parole forti che sembrano contraddire gli auspici di riforma liturgica, aggiornamento pastorale e inclusione di comunità e gruppi carismatici allogeni, che emergono prepotentemente dal Sinodo.

los mineros de la Tradicion

Los mineros de la Tradicion

C’era una volta una miniera che da quasi duemila anni produceva, senza mai esaurirsi, i più preziosi tesori. Era la cava di Santa Misa, che un grande minatore del passato, Leonardo de Portomauricios, aveva definito il tesoro nascosto.

I minatori lavoravano ininterrottamente, senza inventarsi nuovi metodi di estrazione, come avevano imparato dai loro antenati; sempre lo stesso fruttuoso sistema di lavorazione per 15 secoli.

Ma un bel giorno, un terribile disastro minerario, chiamato la reforma, si abbatté sulla miniera: il ciclone buñiño soffiava, aumentando le proporzioni della tragedia.

I buoni mineros erano rimasti intrappolati per quarant’anni nel buio della miniera: e lì, senza perdere la speranza, avevano lavorato nell’oscurità, sottoponendosi ad aspre penitenze, mai perdendo la fiducia in Dio, ed elevando continue preghiere, certi che un giorno sarebbero stati esauditi.

Nonostante fossero passati 40 anni, il ministro delle miniere Ratzeriño non si dava per vinto. Alcune Conferencias episcopales - società minerarie che non di rado facevano la fronda al ministro delle miniere - gli suggerivano: “Ormai sono tutti morti, quella miniera è ormai cosa del passato: abbiamo qui una nuova miniera che sostituisce la vecchia”.

Ma Ratzeriño - un po’ perché gli piaceva sempre la vecchia miniera, nella quale aveva lavorato in gioventù - un po’ perché la nuova miniera non produceva quasi niente, nonostante avessero inventato i più strampalati metodi di lavorazione, con danze sciamaniche e urla selvagge al limite del sopportabile – non si arrese.

E così, un giorno, appoggiando l’orecchio per terra, gli sembrò di sentire un Dominus vobiscum.

“Sono vivi, sono vivi! E sento anche delle voci giovani!”, esclamò il buon vegliardo. Per l’emozione, alcuni membri delle Conferencias furono colti da strani malori. Al pronto soccorso fu diagnosticata una indigestione di I grado.
I tecnici delle Conferencias scuotevano la testa, ma l’anziano ministro delle miniere fece ulteriori ricerche, e così, da una sonda, usci un biglietto: SIAMO TUTTI VIVI; firmato los mineros de la Tradicion.

Ratzeriño diede ordine di costruire una speciale cabina per estrarre i minatori: la chiamò Summorum Pontificum.
Le previsioni erano alquanto menagrame: «Ci vorranno molti anni prima di estrarre i minatori e far riprendere la produzione ordinaria della miniera».
«Non dico produzione ordinaria, ma straordinaria!», rispose Ratzeriño.
Ratzeriño dunque non si scoraggio, e andò avanti con i lavori. Condannò l'escavazione della rottura, dicendo che bisognava scavare nella continuità.
Finalmente venne il giorno della liberazione, il 7 luglio 2007.
Al momento di entrare nella capsula Summorum Pontificum i minatori dicevano: “Introibo ad Altare Dei”.

Milioni e milioni di fedeli erano ad attendere i minatori; c’erano i bambini, stanchi dei girotondi della pace, desiderosi dei primi elementi della dottrina cristiana; c’erano giovani che aspettavano seminari senza errori e con una intensa vita spirituale; c’erano folle che aspettavano confessori rimasti fermi ai dieci comandamenti piuttosto che alla raccolta differenziata dei rifiuti e al codice della strada, e sacerdoti adoratori che esponessero loro il SS. Sacramento.

Erano state predisposte delle cure mediche per i minatori, ma questi rinunciarono, perché non c’era tempo da perdere.

La miniera che aveva dato tesori preziosi per secoli era ormai riaperta: e, pur essendo il cielo ancora nuvolosissimo, un raggio di luce illuminava tutta la terra, confortando il cuore dei buoni fedeli.

Visto il felice esito della vicenda in Cile, ho osato tanto: vostro don Alfredo


giovedì 14 ottobre 2010

verso il III° Convegno del Summorum Pontificum

L’Associazione “Giovani e Tradizione” e il Sodalizio “Amicizia Sacerdotale Summorum Pontificum” comunicano ufficialmente la data del III Convegno sul Motu Proprio “Summorum Pontificum” di S.S. Benedetto XVI: Roma, Angelicum ,13-15 maggio 2011. Titolo: Il Summorum Pontificum, una speranza per la Chiesa. Nel pomeriggio di venerdì 13 maggio si inizierà con il pre-convegno riservato ai soli sacerdoti, religiosi e candidati al sacerdozio. Sabato 14 maggio il convegno prevede sue sessioni, una mattutina e una pomeridiana.

Il convegno si concluderà con la Santa Messa Pontificale nella Basilica di San Pietro all’Altare della Cattedra, domenica 15 maggio 2011 celebrata da Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Antonio Canizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Dopo la Santa Messa i convegnisti parteciperanno all’Angelus del Santo Padre Benedetto XVI alle ore 12,00 in Piazza San Pietro.

Ulteriori informazioni verranno date in seguito: http://www.giovanietradizione.org/

Il timone celebra il 100° anniversario della lettera di san Pio X "Notre charge apostolique"

La Rivista "Il Timone" ricorda il centenario della lettera Notre charge apostolique sul modernismo sociale

Cento anni fa la lettera di san Pio X Notre charge apostolique
di Massimo Introvigne

Il 28 agosto 2010 si celebra il centenario della lettera apostolica di Papa san Pio X (1903-1914) all’episcopato francese – non un’enciclica, ma equivalente a un’enciclica per importanza – Notre charge apostolique, del 28 agosto 1910. La lettera condanna il movimento del Sillon («Solco»), fondato in Francia nel 1902 – sulla scia di una precedente associazione, la Crypte, nata nel 1894 – da Marc Sangnier (1873-1950), che si sottometterà almeno formalmente alla condanna. Il documento mostra i riflessi politico-sociali del modernismo, e costituisce quindi un complemento indispensabile alla grande enciclica Pascendi del 1907 in cui san Pio X descrive e condanna l’eresia modernista. A san Pio X spetta infatti il merito – come affermerà, celebrando il suo santo predecessore, il venerabile Giovanni Paolo II (1978-2005) il 16 giugno 1985 – di avere denunciato le «pieghe subdole del sistema teologico del modernismo» per «salvare la Chiesa dal rischio di dottrine alienanti per l’integrità del Vangelo».



Ma ha ancora interesse per noi una lettera apostolica di cento anni fa? Per comprendere perché la risposta è sì dobbiamo rifarci al grande quadro della scristianizzazione dell’Europa e dell’Occidente, un processo le cui tappe salienti sono la Riforma protestante, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione comunista e la rivolta contro la morale che ha il suo momento vessillare nel 1968. Come ha ricordato da ultimo Benedetto XVI nel corso del suo viaggio in Portogallo del maggio 2010, ciascun momento di questo processo muove da «istanze» non sempre irragionevoli, ma quando passa dalle domande alle risposte cade in «errori e vicoli senza uscita». E ognuno di questi momenti non è sostenuto solo da nemici aperti della Chiesa e del cristianesimo ma anche, per usare ancora le parole del Papa in Portogallo, da «credenti che si vergognano e che danno una mano al secolarismo».



L’azione dei «credenti che si vergognano» non è semplicemente individuale, ma si organizza in correnti e movimenti. Così, c’è anzitutto un’importazione di principi e temi del protestantesimo all’interno della Chiesa, il giansenismo. Le teorie dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese sono fatte proprie da diverse correnti cattoliche, dal cattolicesimo liberale al modernismo. Il comunismo trova un corrispondente all’interno della Chiesa nella teologia della liberazione. Lo stesso «rapidissimo cambiamento sociale» e contestazione di ogni forma di morale iniziati negli anni 1960 hanno avuto come controparte ecclesiastica – secondo la Lettera ai cattolici dell’Irlanda che il Papa ha pubblicato il 19 marzo 2010 – «la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo», per non parlare dei cedimenti di tanti laici cattolici sui temi della vita e della famiglia.



In questo schema, un passaggio decisivo è l’affermarsi della scuola cattolico-democratica. Un «cattolico democratico» non è semplicemente un cattolico che esprime la sua preferenza, fra le varie forme politiche, per la democrazia. Questo è ovviamente lecito. Ma il cattolico democratico commette due errori. Il primo è quello di considerare la democrazia un metodo di per sé infallibile e una fonte di verità, così che una scelta avallata dal metodo democratico non potrebbe mai essere intrinsecamente cattiva o ingiusta. Se il cinquanta per cento più uno dei cittadini di un Paese in un referendum, o il cinquanta per cento più uno dei parlamentari legittimamente eletti, si pronunciano per l’aborto o per l’eutanasia il cattolico democratico dirà che si sente ancora privatamente vincolato dalla morale cattolica ma dal punto di vista pubblico e politico deve «accettare la scelta democratica». Il secondo errore è quello di non distinguere fra diverse forme di democrazia, e di prendere per buona specificamente quella forma democratica che è nata dalla Rivoluzione francese, la quale – proprio perché afferma l’infallibilità politica e morale del metodo democratico – rischia sempre una deriva verso il totalitarismo.



La prima caratteristica del cattolicesimo democratico che san Pio X prende in esame attiene al metodo: si tratta della «pretesa di sfuggire alle direttive dell’autorità ecclesiastica» con il pretesto che il terreno su cui ci si muove «non è quello della Chiesa». Potrebbe sembrare che il Sillon si opponga giustamente al clericalismo affermando l’autonomia dei laici nella vita politica. Ma si tratta, secondo san Pio X, di distinguere. Dal punto di vista delle tecniche politiche i laici del Sillon godono certamente di autonomia. Non possono avere, invece, alcuna autonomia dal punto di vista dottrinale. La rivendicazione di un’autonomia rispetto ai principi è sbagliata, e «anche se le loro dottrine fossero esenti da errore sarebbe già stata una gravissima mancanza alla disciplina cattolica». Ma «il male è più profondo»: sbagliando metodo, il Sillon «è scivolato nell’errore».



Il Sillon parte da un giudizio nuovo sulla storia dell’Europa, diverso da quello tradizionalmente enunciato nel Magistero. Il Sillon sogna una società del tutto nuova e disprezza il passato europeo, dimenticando che nel passato – pur con i limiti e le imperfezioni di ogni realizzazione umana – una civiltà cristiana è già esistita. Rivolgendosi ai vescovi francesi san Pio X esclama: «No, venerabili fratelli, occorre ricordarlo energicamente in questi tempi di anarchia sociale e intellettuale, in cui ciascuno si pone quale dottore e legislatore; non si edificherà la società diversamente da come Dio l’ha edificata; non si edificherà la società se la Chiesa non ne pone le basi e non ne dirige i lavori; non si deve inventare la civiltà, né si deve costruire la nuova società tra le nuvole. Essa è esistita ed esiste; è la civiltà cristiana, è la società cattolica. Non si tratta che di instaurarla, ristabilirla incessantemente sulle sue naturali e divine fondamenta contro i rinascenti attacchi della malsana utopia, della rivolta e della empietà: Omnia instaurare in Christo».



San Pio X mostra poi che l’errore fondamentale del Sillon è la proclamazione del principio secondo cui l’autorità risiede nel popolo e solo temporaneamente è delegata con le elezioni ai governanti. Non è illecito che sia il popolo a designare i detentori dell’autorità tramite le elezioni: purché sia chiaro che con le elezioni non s’«inventa» o si crea l’autorità, ma si stabilisce semplicemente da chi deve essere esercitata. Potrebbe sembrare che si tratti semplicemente di una questione filosofica, senza grandi conseguenze pratiche. Una volta ammessa la liceità del sistema democratico potrebbe apparire non poi così importante stabilire se le elezioni creino l’autorità o semplicemente stabiliscano chi deve esercitarla.



Ma in realtà non è così, e la questione ha conseguenze pratiche molto importanti. Chi, come i cattolici democratici, pone la radice ultima dell’autorità nel popolo e non in Dio finisce per non riconoscere che ci sono principi – che oggi Benedetto XVI chiama «non negoziabili», particolarmente in tema di vita e di famiglia – che vengono da Dio e dal diritto naturale e che nessun «popolo» o maggioranza può mettere in discussione. La stessa religione di chi ragiona così non è più la religione cattolica: è piuttosto la «religione dell’umanità» laicista, preparata dalle «oscure officine» massoniche che noi, scrive san Pio X, «conosciamo anche troppo bene». Alla fine, ieri come oggi, il cattolicesimo democratico si riduce a «misero affluente» della Rivoluzione, cioè di quel «grande movimento di apostasia organizzato in ogni paese per stabilire ovunque una Chiesa universale che non avrà né dogmi, né gerarchia, né regole per lo spirito, né freni per le passioni e che, sotto pretesto di libertà e di dignità umana, ricondurrà nel mondo, se questo trionfo fosse possibile, il regno legale dell’inganno e della forza, l’oppressione dei deboli, di coloro che soffrono e che lavorano».

mercoledì 13 ottobre 2010

timeo Dominum transeuntem

Quando bisogna rispondere alla vocazione del Signore?

Chi sente la vocazione alla vita religiosa, deve rispondere il più presto possibile, come insegnano i santi. Il nemico del genere umano (cioè il diavolo) quando si accorge che una persona è attratta dalla vita consacrata, cerca di fargli cambiare idea in ogni modo. Tra le tentazioni principali che attua, vi è quella di convincere il giovane “chiamato” a ritardare l'entrata in monastero, e nel frattempo tentarlo senza tregue per farlo cadere in peccato (soprattutto nei peccati turpi), fino a quando il tizio non avrà perso la vocazione.

Se un giovane con la vocazione ha un serio impedimento (ad esempio deve accudire i genitori malati), in questo caso è giustificato dal ritardare l'entrata in convento. Ma se non ha una vera giustificazione, per quale motivo continuare a restare nel mondo? Celebri Dottori della Chiesa come San Tommaso d'Aquino o Sant'Alfonso Maria de Liguori, affermano che bisogna rispondere con prontezza alla vocazione divina, poiché altrimenti il Signore potrebbe ritirare la chiamata del giovane che indugia. Guai se uno perde la vocazione! Santa Teresa di Lisieux preferì rinunciare a un viaggio in Terra Santa pur di non rimandare di poche settimane l'entrata nel monastero di clausura. Chissà, non possiamo escludere che se avesse fatto quel viaggio forse avrebbe perso la vocazione e si sarebbe miseramente dannata. Quanti giovani hanno perso la vocazione per aver rimandato l'entrata in convento, e hanno vissuto in maniera scellerata il resto della loro vita!

Se un ragazzo o una ragazza sente attrazione per la vita consacrata, deve scrivere o contattare in altro modo qualche monastero di stretta osservanza per poter fare un ritiro spirituale al fine di accertare la vocazione. Una volta accertata la chiamata del Signore, non deve indugiare, ma gli è appena possibile deve adempiere la vocazione. Perché mettersi nei guai inutilmente indugiando senza giustificato motivo? Nel mondo ci sono tanti pericoli per l'anima, sarebbe insensato voler restare nel secolo pur avendo la vocazione. Chissà se questo non è l'ultimo appello per qualcuno che indugia da troppo tempo.
 

martedì 12 ottobre 2010

l’idea di messa di padre Pio

Padre Pio e la messa
di Francesco Agnoli

Chi oggi visita san Giovanni Rotondo fa un po’ di fatica a ritrovare lo spirito del santo, padre Pio, che vi visse lasciando una impronta fortissima sulla gente e sul territorio. Perché è anzitutto sopraffatto da una mastodontica costruzione pagana, la chiesa nuova, progettata dalla star Renzo Piano, senza un benché minimo afflato religioso (ma con notevole spesa). Eppure i segni del passaggio del santo si trovano.

All’entrata del paese vi è infatti un ospedale immenso, gigantesco, certamente sproporzionato per il paese in cui sorge: è la “Casa sollievo della sofferenza”, che fu voluta proprio da padre Pio, e che è oggi all’avanguardia in molti campi della ricerca, in Italia e non solo. Attualmente il direttore scientifico è quell’Angelo Vescovi, insigne scienziato italiano noto nel mondo per le sue ricerche sulla cellule staminali, che ha più volte proclamato di essere un non credente, ma di condividere, da biologo, la posizione della Chiesa sugli embrioni umani. Il visitatore che arriva a san Giovanni Rotondo, alla destra del grande ospedale citato, trova subito, prima della nuova, la vecchia chiesa, ed in essa un confessionale di legno in cui il santo passava gran parte del suo tempo, pregando e incontrando anime assetate, affrante, disperate o felicemente pentite, in cerca di una direzione spirituale…

Quello che manca è un bel colpo d’occhio dell’altare, su cui padre Pio celebrava la sua celebre messa. Eppure Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, nel loro recente volume, “L’ultima messa di padre Pio. L’anima segreta del santo delle stigmate” (Piemme), mettono in luce come proprio la Messa fosse il cuore della spiritualità del santo pugliese. Era lì, in quelle celebrazioni a volte lunghissime, in cui si perdeva in estasi divine, che padre Pio trovava la forza per confessare, per sostenere le tribolazione altrui e quelle della sua vita, causate anche dagli stessi confratelli o dall’accanimento, contro di lui, di alcuni membri della gerarchia (cui egli rimase però sempre obbediente e devoto).

Palmaro e Gnocchi, che hanno avuto occasione di accedere, oltre che al materiale già noto, anche ad archivi sino ad ora inesplorati e preziosi, portano il lettore a penetrare nella spiritualità del santo che portò nel suo corpo, per ben cinquant’anni, le stigmate. Cioè i segni della passione di Cristo. Proprio la sua sofferenza, il suo essere anche fisicamente un altro Cristo, il suo sacrificarsi ogni giorno per la salvezza dell’umanità, hanno fatto di padre Pio il santo che da una parte volle a tutti i costi lenire i dolori di tanti malati, facendo costruire la “Casa del sollievo della sofferenza”, dall’altra il sacerdote che forse più di ogni altro ha penetrato in profondità il senso della messa, intesa non come semplice memoriale, né come mera mensa, ma anche come rinnovazione incruenta del sacrificio della croce.

Mentre celebrava l’Eucaristia, padre Pio saliva veramente, in modo miracoloso, sul Calvario, partecipando nella sua carne ai patimenti di Cristo, e offrendoli per l’umanità. Egli era solito sostenere che “il mondo può stare anche senza il sole, ma non senza la santa messa”, per ricordare ai fedeli che solo il sangue di Cristo lava le nostre colpe, e che prendendo ogni giorno la sua croce, con fiducia, il cristiano diviene veramente seguace del suo maestro. Chi osservi oggi qualche fotografia di padre Pio mentre celebrava, noterà senz’altro lo sguardo dolce e concentrato, serenamente estatico e pieno di tenerezza, con cui il santo guardava l’ostia e il calice. Oggi, sostengono Palmaro e Gnocchi, l’idea di messa di padre Pio è andata in gran parte perduta: alla vita intima dello spirito, alla liturgia divina, all’idea che è Cristo che salva l’uomo salendo sulla croce, molta teologia e molta prassi degli ultimi decenni hanno contrapposto la concezione secondo cui il sacerdote altro non è che un presidente d’assemblea, un organizzatore, un uomo che, come i pastori protestanti, guida la comunità nel ricordo dell’ultima cena, attraverso le letture sacre.

Questo, ovviamente, ha portato ad uno scadimento della liturgia, ad una desacralizzazione della messa, che ha perso spesso la sua capacità di manifestare il divino. I due autori notano inoltre che la morte del santo si colloca nel 1968, epoca di grande crisi della fede e della società. Padre Pio può allora essere visto dal credente come un crocifisso che carica su di sé il male del mondo, come una barriera che si oppone al dilagare del male con la forza della sua santità. Alla sua morte, però, la catastrofe travolge l’Occidente: droga, immoralità, piombo ed odio uccideranno anime e corpi e all’umanità assetata verranno proposti nuovi idoli, mentre verrà tolto un segno divino che aveva parlato a milioni di persone e che con la sua storia continua a ricordare ai credenti che per i nostri tempi Dio aveva scelto un santo sofferente, confessante, orante.

da il "Il Foglio" del 7/10/2010

lunedì 11 ottobre 2010

Mons. Fellay intervistato da "La Porte Latine"




Mons. Bernard Fellay, Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X dal 1994, ha voluto concederci un’intervista esclusiva in occasione dei 40 anni dalla fondazione dell’opera di restaurazione iniziata da Mons. Marcel Lefebvre.
Come sua abitudine, Monsignore ha risposto alle nostre domande con formulazioni brevi e precise, ove ogni parola ha la sua importanza.
Voglia egli ricevere l’espressione dei nostri calorosi e rispettosi ringraziamenti per questa intervista e per il maggior lavoro che essa gli ha procurato.


La Porte Latine – Quarant’anni fa, il 1 novembre 1970, Mons. Lefebvre faceva riconoscere dal vescovo di Friburgo la Fraternità Sacerdotale San Pio X. Come considera questi quattro decenni?

Mons. Fellay – Questi quarant’anni rimarranno nella storia della Chiesa come un periodo doloroso di decadenza, di perdita di influenza sul mondo contemporaneo e sulle nazioni. Indubbiamente è difficile fare un bilancio del tempo in cui si vive, ma non vedo come si possa fare a meno di esprimere un giudizio negativo. In questo contesto, la nostra piccola opera appare come un raggio di luce in mezzo alle tenebre, un'oasi nel deserto, una piccola zattera in pieno naufragio. Per noi, sono tempi indimenticabili e assai fantastici, certo cosparsi di lacrime e di prove, ma in cui domina la gioia.

La Porte Latine – A metà strada di questi quarant’anni, si sono verificati due grandi avvenimenti nella storia della Fraternità: le consacrazioni episcopali nel 1988 e la sparizione di Mons. Lefebvre nel 1991. Vi è quindi stato un prima e un dopo. Si tratta di due periodi da opporre?

Mons. Fellay – Io non vi vedo due periodi, ma una continuità. La nostra cura a rimanere fedeli alle linee forniteci dal nostro venerato fondatore ha svolto probabilmente un qualche ruolo. Del pari, il fatto che le circostanze esteriori siano rimaste, anch’esse, quasi le stesse, ha contribuito enormemente a questa continuità. Nulla ci obbliga o ci spinge ad agire in maniera diversa: al contrario, i giudizi di Mons. Lefebvre erano così profondi che rimangono perfettamente validi. E questo è del tutto rimarchevole!

La Porte Latine – La Fraternità è un’opera che si stabilizza oppure vi sono dei nuovi apostolati che continuano ad aprirsi attraverso il mondo?

Mons. Fellay – Lo sviluppo non è folgorante, per mancanza di sacerdoti. Ma è notevole per alcuni passi avanti, soprattutto nei paesi di missione. Attualmente, l’Africa ci chiama da posti diversi e noi abbiamo della difficoltà a rispondere, poiché non abbiamo tanti operai per la messe. È anche certo che se avessimo più sacerdoti a disposizione potremmo conoscere degli ampliamenti prodigiosi in Asia. Ma peraltro, occorre sottolineare lo sviluppo interno delle opere già esistenti, che è molto costante.

La Porte Latine – Tutti questi anni costituiscono anche un tempo di carità spirituale, vissuta con delle comunità religiose che hanno accompagnato l’ideale di restaurazione della Fraternità. Come accoglie tale sostegno?

Mons. Fellay – Lo riceviamo e lo diamo. Questo mutuo sostegno delle opere tradizionali è molto confortante. In una situazione di quasi persecuzione come la nostra, questa intesa tra noi è vitale.

La Porte Latine – Al tempo stesso, questi quarant’anni sono stati cosparsi da difficoltà note a tutti. Certi sacerdoti, talvolta figure importanti, certi religiosi o fedeli, alcuni con uno strappo, altri per stanchezza, hanno smesso di sostenere la Fraternità. Come bisogna valutare queste separazioni?

Mons. Fellay – Una delle immagini migliori per illustrare la sua domanda sarebbe quella della guerra, o di un assalto durante il quale gli uomini cadono sotto il fuoco a destra e a manca, eppure non c’è altra scelta che continuare nell’assalto. Vi è un aspetto estremamente duro nella guerra, la nostra epoca è senza misericordia per chi cade. La sofferenza è grande tanto per quelli che ci lasciano quanto per noi che li vediamo partire senza modo di trattenerli.

La Porte Latine – Esistono nel contempo dei sacerdoti e delle comunità religiose che, comprendendo il ruolo della Fraternità per la Chiesa, si mettono in contatto con voi?

Mons. Fellay - Sì, abbiamo anche questa consolazione. Non passa un mese senza che alla nostra porta bussi, qui un seminarista, là un sacerdote o un religioso. Qualche volta si tratta di un semplice contatto, altre volte si tratta di un passo decisivo verso di noi. Vi sono anche, ma è più raro, dei vescovi e delle intere congregazioni che ci manifestano la loro simpatia o anche più.

La Porte Latine – Viaggiando in tutti i continenti, Lei sentirà parlare della Fraternità e di Mons. Lefebvre nei modi più diversi. Il fondatore e la sua opera sono sempre oggetto di un certo sospetto o le cose sono cambiate dal 1970?

Mons. Fellay – Non v’è stata una vera evoluzione, a parte alcune eccezioni. Mi sembra che sia sorprendente constatare che, nel mondo intero, la Fraternità viene ricevuta quasi alla stessa maniera, e cioè vilipesa dalla grande maggioranza dei vescovi e apprezzata da un piccolo gregge di anime che vogliono rimanere fedeli. Io credo che si tratti di una buona illustrazione dell’estensione della crisi e della sua profonda unità di natura.

La Porte Latine – Percepisce anche dei cambiamenti a Roma? L’attività dell’opera di Mons. Lefebvre ha avuto un effetto sugli alti organi della Chiesa?

Mons. Fellay – A Roma, un certo cambiamento nei nostri confronti lo si nota, benché non abbia ancora un grande effetto. Mi sembra che il nostro lavoro sia apprezzato da certuni, mentre è detestato da altri. Le reazioni nei nostri confronti sono molto contrastanti. Si vede bene che vi sono due ambiti, uno favorevole e l’altro ostile, cosa che rende le relazioni molto difficili, poiché ci si chiede sempre chi avrà l’ultima parola. Tuttavia, resta il fatto che coloro che vogliono essere fedeli al Papa ci considerano con rispetto e si aspettano molto da noi per la Chiesa. Ma da qui a vedere degli effetti concreti, bisognerà pazientare ancora!

La Porte Latine – Quarant’anni sono, ad un tempo, molto pochi, eppure molto lunghi per un gran numero di fedeli che non hanno alcun ricordo del Vaticano II. Non si rischia, via via che ci si allontana dal Concilio, di vivere su un certo adagiarsi, tra sacerdoti o fedeli che si accontentano della nostra situazione?

Mons. Fellay – Indubbiamente, esiste il pericolo di appartarsi in una certa autonomia pratica. Una gran parte di questa attitudine dev’essere attribuita alla situazione in cui ci troviamo, quella di una Tradizione rigettata. È per questo che cerchiamo di allargare la visuale e l’attenzione dei fedeli parlando loro della Chiesa e di Roma. È molto importante conservare uno spirito romano. Il nostro attaccamento a Roma non dev’essere simbolico, ma molto concreto. Questa situazione è anche una prova per la nostra fede nella Chiesa.

La Porte Latine – Un anno fa sono iniziati i colloqui dottrinali tra gli esperti della Santa Sede e della Fraternità. Sappiamo bene che una grande discrezione circonda queste relazioni e che molti fedeli pregano per una riuscita felice. Senza parlare dell’argomento di fondo, ci si deve attendere prossimamente uno scacco ineluttabile o, al contrario, una incontestabile restaurazione?

Mons. Fellay - Visto l’andamento di questi colloqui, io non penso che sfoceranno in una brusca rottura o in una repentina soluzione. Si scontrano due mentalità, ma la volontà di stabilire una discussione – a livello teologico – è molto reale. È per questo che, seppure lo sviluppo rischia di essere lungo, i frutti potrebbero essere quanto meno promettenti.

La Porte Latine – Da questi colloqui, bisogna attendersi una ferma condanna del Concilio da parte di Roma oppure bisognerà infine accettare il Concilio senza recalcitrare? Come immaginare l’uscita da una tale crisi magisteriale?

Mons. Fellay – Mi sembra che se un giorno arriverà una condanna del Concilio, non sarà domani. Si delinea molto chiaramente una volontà di correzione dell’attuale situazione. Sullo stato presente della Chiesa, particolarmente grave, i nostri giudizi si incontrano in diversi punti, tanto sulla dottrina quanto sulla morale e la disciplina. Tuttavia la tendenza dominante a Roma consiste sempre nell’esonerare il Concilio: non si vuole risalire fino al Concilio, si cercano altre cause, ma soprattutto si esclude il Concilio! Vista la psicologia corrente, sembra che sarebbe più facile superarlo ricordando molto semplicemente l’insegnamento irrefutabile della Chiesa, lasciando a più tardi la condanna diretta. Io credo che nell’attuale contesto una condanna sarebbe semplicemente incompresa.

La Porte Latine – In una recente opera, Concilio ecumenico Vaticano II, un discorso da fare, un teologo romano, Mons. Gherardini, ha delineato un quadro assai allarmante della Chiesa. Egli lascia intendere che una lettura del Concilio nella continuità con la Tradizione non è cosa chiaramente scontata e lancia un appello solenne al Papa perché si effettui un grande lavoro di chiarificazione magisteriale. Come si deve accogliere questo scritto?

Mons. Fellay – Non bisogna considerarlo uno scritto che viene da noi o che sarebbe destinato a noi. No, esso è diretto ai cattolici in genere e alla Gerarchia in carica. Considerata in questa prospettiva, quest’opera riveste una grande importanza, poiché introduce una messa in questione del Concilio così com’è stato ricevuto. Si tocca un tabù. Quando lo facciamo noi, scateniamo nei nostri interlocutori un moto di difesa che blocca ogni discussione. Ma quando il colpo parte dall’interno, esso mette in questione molte cose. Ne ricavo che questo libro è oggettivamente importante e che potrebbe essere una delle scintille suscettibili di scatenare un grande incendio.

La Porte Latine – Vi è un messaggio preciso che vorrebbe indirizzare ai sacerdoti e ai fedeli della Fraternità in Francia?

Mons. Fellay – In occasione dei nostri quarant’anni, la fedeltà! Fedeltà, garanzia del futuro. Fedeltà nelle piccole cose, garanzia di fedeltà nelle grandi. E soprattutto non scoraggiarsi se la battaglia dovrà ancora continuare per molto tempo, che è quello che tutto lascia presagire; al contrario, occorre rincorarsi per avanzare nell’opera di restaurazione della Chiesa.

+ Mons. Bernard Fellay
Menzingen, 7 ottobre 2010
Festa di Maria Santissima del Santo Rosario


"I segreti di Fatima" su Rai Storia

Segnaliamo il bel documentario su "I segreti di Fatima" andato in onda su Rai Storia martedì scorso 5 ottobre:

Il racconto dei segreti di Fatima. La storia, l’origine e le vicende di un mistero della Fede e non solo. Fra gli intervistati Cardinale Tarcisio Bertone Segretario di Stato Vaticano, Padre Jose Dos Santos Valinho nipote di Suor Lucia e Giancarlo Zizola giornalista e scrittore. Un percorso che conduce ad una sola domanda: quello rivelato è davvero il testo del terzo segreto di Fatima? Un segreto che ha attraversato 8 pontificati e quasi un secolo di storia. Un enigma che racchiude tragedie passate e future e che non finisce di creare tensioni, misteri e inquietudini. Ma per tentare di capire questa incredibile storia facciamo un passo indietro per ricostruire cosa accadde in quel 13 maggio del 1917 in uno sperduto villaggio portoghese di nome Fatima. Tre bambini, tre pastorelli portoghesi analfabeti: Lucia di 10 anni e i suoi cugini, Francesco di 9 e Giacinta di appena 7 anni. Sono loro i depositari del segreto dei segreti, i custodi della profezia forse più importante della storia della Chiesa. È il 13 maggio 1917 quando la loro vita cambia per sempre

giornata della tradizione a Verbania

domenica 10 ottobre 2010

ritorna la tiara


Abbiamo visto tutti, dalle riprese TV dell’Angelus di oggi domenica 10 ottobre 2010 , come lo “stratum” di velluto della finestra papale del Palazzo Apostolico reca , da oggi, il nuovo artistico stemma del Papa ( la cui immagine è riprodotta)  donato da un fedele  in occasione del 5° anniversario dell’elezione di Benedetto XVI . Qui di seguito pubblichiamo il Comunicato Stampa dell’azienda Ars Regia che lo ha realizzato:

COMUNICATO STAMPA
Il nuovo stemma papale di Benedetto XVI

Ferrara, 10 Ottobre 2010 – Nel corso della recita dell’Angelus di oggi, domenica 10 Ottobre, si è potuto ammirare per la prima volta il nuovo stemma papale del Santo Padre Benedetto XVI, ornato della tiara secondo l’antico uso.
Questo stemma, interamente ricamato a mano, è stato realizzato dall’atelier ferrarese di paramenti sacri Ars Regia e ripropone lo scudo con gli emblemi del Pontefice e il Pallio ornato di croci rosse.  La parte esterna dello scudo è invece ispirata allo stemma di papa Barberini che si può vedere sui pilastri del Baldacchino berniniano nella Basilica Vaticana.
La differenza rispetto al modello precedente – che alcuni attribuiscono al Cardinal Montezemolo – è che questo stemma reca nuovamente il triregno – la triplice corona del Sommo Pontefice – anziché la mitria, ripristinando l’antico uso, cui non aveva rinunciato nemmeno Giovanni Paolo II. L’innovazione della mitria a tre fasce, che aveva creato qualche perplessità negli esperti d’araldica, si affianca alla foggia tradizionale.
Pietro Siffi, titolare di Ars Regia, commenta: «Altri stemmi con la tiara erano stati da noi realizzati per alcuni paramenti indossati da Benedetto XVI sin dall’Avvento del 2007. Anche il parato pontificale che fu usato per l’inaugurazione dell’Anno Paolino ha tutte le vesti liturgiche con lo stemma papale ornato di tiara».
A quanti attribuiscono a questo nuovo stemma una valenza ideologica, Pietro Siffi replica: «Gli stemmi degli Abati, dei Protonotari, dei Vescovi, degli Arcivescovi e dei Cardinali che si vedono sui portali delle Cattedrali e delle Curie di tutto il mondo recano il galèro, un antico copricapo con fiocchi che ora è caduto in disuso; ma nessuno ha mai tolto il galèro dallo stemma dei Prelati, così come nessuno ha tolto l’elmo o la corona dallo stemma dei nobili e dei sovrani. Anche il Papa non usa la tiara, ma essa rimane nel suo stemma».

http://www.rinascimentosacro.org/