giovedì 24 ottobre 2013

Mons. Schneider: «opzione preferenziale per il Povero» per eccellenza, ovvero Gesù Sacramentato, spesse volte esposto al disprezzo e all’indifferenza nelle nostre chiese e basiliche


Sua Ecc. Mons. Schneider
alla Fondazione Lepanto
di Fabrizio Cannone
 
Il 30 settembre u.s. Sua Ecc. Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare di Astana in Kazakistan, ha tenuto una seguitissima conferenza presso la Fondazione Lepanto in cui ha presentato il contenuto della sua ultima preziosa opera, Corpus Christi. La Santa Comunione e il rinnovamento della Chiesa (Libreria Editrice Vaticana, 2013, pp. 100, euro 9).
Mons. Schneider ha colpito i numerosi presenti per il suo portamento davvero episcopale e degno di un Successore degli Apostoli, portamento in cui è facile scorgere la perfetta coerenza dell’uomo con l’insegnamento che appassionatamente ha profuso sulla retta ricezione dell’Eucaristia.
Dopo un sentito Sia lodato Gesù Cristo, il prelato ha iniziato la sua conferenza spiegando che lo spirito cristiano autentico è spirito di adorazione e di preghiera. Solo Cristo, ha detto, può adorare degnamente e perfettamente Dio e noi lo possiamo solo ad imitazione del Figlio. Tutta la Tradizione, secondo Schneider, dà una importanza capitale alle norme liturgiche le quali debbono essere rispettate da tutti senza eccezione: popolo e celebranti. Nell’Antico Testamento per esempio esistevano delle norme codificate per il culto divino e il Nuovo Testamento, benché fondato sul concetto della giusta libertà dei figli di Dio, possiede uno spirito liturgico chiaro e preciso.
Nella storia gli gnostici, gli albigesi, i calvinisti e certi protestanti hanno contrapposto le norme del culto con il suo spirito, ma si tratta di una falsa contrapposizione: le norme esterne di legge restano fondamentali e senza norme non esiste un vero spirito di adorazione legittima.
D’altra parte la Chiesa di Roma, a detta del Prelato, ha sempre rifiutato l’innovazione liturgica come tale, e ciò in nome della Tradizione Apostolica (così si espressero sia i Papi del medioevo che lo stesso Concilio di Trento). La bolla Quo Primum tempore di san Pio V è affatto contraria alle innovazioni arbitrarie e lo stesso afferma la Sacrosanctum Concilium (n. 50 del Concilio Vaticano II). Non si può negare però che dopo la svolta conciliare furono introdotte ovunque delle novità del tutto sconosciute prima come l’orientamento del celebrante verso l’assemblea, la comunione data da laici e da donne, le letture di laici all’ambone, le chierichette, le danze profane, etc.
Secondo il Vescovo è urgente ripristinare alcuni elementi liturgici che si sono persi nell’ultimo mezzo secolo come il silenzio, la genuflessione, l’incenso, il canto sacro: tutte cose che si trovano come tali nel libro dell’Apocalisse. Tutto ciò deve riportare ad un culto teocentrico e non più antropocentrico, come avviene comunemente oggi, con il celebrante che diventa il solo protagonista del rito.
In tale contesto di risacralizzazione non più procrastinabile, la santa Comunione, che è il Corpo di Cristo, deve essere ricevuta in modo degno e pio, e non come un qualunque cibo. Mons. Schneider parla di «opzione preferenziale per il Povero» per eccellenza, ovvero Gesù Sacramentato, spesse volte esposto al disprezzo e all’indifferenza nelle nostre chiese e basiliche. Davvero oggi Cristo Eucaristico è alla periferia esistenziale della Comunità. Il Presule auspica da parte della Santa Sede delle nuove norme che rimettano ordine nella liturgia, nel culto e nella preghiera cristiana.

 

mercoledì 23 ottobre 2013

Il Figlio dell'uomo troverà la fede sulla terra?

 



Il Signore nel Vangelo secondo Luca (18,1-8) di questa domenica  ci pone una domanda che ci sorprende: è un monito e anche un enigma: «Quando il Figlio dell’uomo verrà troverà la fede sulla terra?». Perché il Signore lo chiede a noi? Forse lui non lo sa? E’ una domanda che particolarmente oggi ci interroga profondamente: abbiamo la fede e potremo conservarla? 
Le insidie soggettiviste del momento attuale sono una minaccia alla fede. Sembra che credere in Dio fermamente e senza dubbi non sia più possibile. Data la nostra debolezza, Dio dovrebbe rassegnarsi ad un uomo ammalato e incapace, e così dovrebbe salvarlo con i suoi dubbi, con il suo ateismo di fondo. 
Questa è la minaccia del relativismo che pretende di trasformare dal di dentro la fede; la minaccia dell’uomo che pretende di adattare Dio alle sue debolezze e non vuole più aprire il cuore e la ragione al mistero infinito e all’amore di Dio. 
L’uomo rassegnato, che dice di non poter credere, è in verità un uomo che vuole fare Dio a sua immagine. Come fare per credere e credere nella verità? Dobbiamo pregare, pregare senza mai stancarci. 
La preghiera però esige le formule di preghiera, le preghiere basilari (Pater, Ave Maria, Angelus, S. Rosario, ecc.), coma la professione della fede esige le formule della fede, il Simbolo. Come non è possibile credere ignorando o cambiando le formule dogmatiche, quantunque strumentali all'atto di fede, così non è possibile pregare rettamente trascurando le preghiere e pensando di ridurre tutto al "cuore" o di poter pregare in modo sufficiente con una sola preghiera "fatta bene", come si suol dire. Tanti cattolici diventano sempre più buddisti: pregano se stessi, contemplano se stessi.
Credo per pregare e prego per credere fermamente fino alla fine. Fino alla venuta del Figlio dell'uomo. 

la prima pastorale è confessare la stessa Fede

Cristo senza dottrina né verità      
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

Articolo pubblicato sul quotidiano Il Foglio di martedì 22 ottobre 2013
che fa seguito agli altri due articoli: il primo, “Questo Papa non ci piace”, che ha provocato la cacciata dei due Autori da “Radio Maria”; il secondo, “Orgoglioso lamento cattolico” quasi in risposta alla “defenestrazione”.
 Impaginazione e neretti sono curati da www.unavox.it
 
 
 
 
 
 
 
 
 





     
 
Povera bisnonna Antonia, che ha passato una vita fatta di pateravegloria, rosari, messe alle cinque di mattina, segni di croce a ogni santella, catechismo imparato a memoria e precetti morali da praticare scrupolosamente e insegnare con zelo. Povera bisnonna Antonia, e poveri i suoi ottantaquattro anni trascorsi a “dire preghiere” e a osservare “prescrizioni” nella speranza di abbracciare un giorno Gesù, a cui dava del Voi, come usavano le generazioni perbene.
Povera bisnonna Antonia e povera la sua fede che, non fosse per il candore ingenuo e inerme delle vecchine di campagna, oggi potrebbe essere presa per una cristiana ideologica, moralistica, farisaica, senza cuore. Eppure, quella donnina sempre vestita di nero che parlava solo dialetto e un latino tutto suo, aveva mostrato quanto amore per Dio e per gli uomini sgorghi da una vita passata  a “dire preghiere”.
Al marito, che in punto di morte le chiedeva perdono per quante gliene aveva fatte e lei aveva sopportato nel silenzio e nella pazienza, la povera bisnonna Antonia aveva risposto di non avere paura, “Quando sarete di là, vedrete quanto bene avranno fatto le preghiere che vostra moglie ha detto per voi”.

La durezza dell’omelia di Santa Marta in cui papa Francesco stigmatizza una fede che passa “per un alambicco e diventa ideologia” e in cui giudica le coscienze di chi, oggi, si ostina a vivere un cristianesimo come quello dei suoi vecchi, finisce per travolgere il passato che continua a vivere nel presente.
Risulta difficile ipotizzare che il bersaglio non sia quel sentire tradizionale a cui si intende impedire di diventare un movimento capace di aggregare uomini e idee. Lo ha felicemente spiegato la gioiosa macchina da guerra degli ermeneuti del giorno dopo. Ma lo aveva inequivocabilmente anticipato il papa stesso, nell’intervista a “Civiltà Cattolica”, fulminando un “uso ideologico” del rito tradizionale riportato in onore da Benedetto XVI, uno “specialista del Logos” ormai archiviato dagli ermeneuti del suo successore.
Anche se parla delle ideologie di ogni segno, è chiaro a chi miri papa Bergoglio dicendo: “quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero (…). E per questo Gesù dice loro: ‘Voi avete portato via la chiave della conoscenza. La conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni”.

Non passa omelia, non passa intervista, non passa bagno di folla in cui il Papa non scrolli le spalle davanti a una fede che si oggettiva nel rigoroso rapporto con la ragione. “Nomina nuda tenemus”, sembra questo il messaggio di Francesco, lo stesso del francescano Gugliemo di Occam di cui Umberto Eco produsse un gradevole bigino con “Il nome della rosa”.
La fede non cerca più un intelletto che ritiene inabile a conoscere veramente, produttore di oggettivazioni che rischiano di divenire un ostacolo all’incontro con Cristo. Come se ci si trovasse in una zona di rimozione forzata dei precetti permeabili all’intelligenza, un vicolo cieco nel quale non amava sostare un cristiano innamorato della ragione come Gilbert Keith Chesterton: “Per quanto un uomo può essere orgoglioso di una religione fondata sull’umiltà, io sono molto orgoglioso della mia religione. Sono particolarmente orgoglioso di quelle sue parti che sono molto comunemente chiamate superstizioni. Sono fiero di essere stato nutrito da dogmi antiquati ed essere schiavo di una fede morta, come i miei amici giornalisti ripetono con tanta insistenza, perché so benissimo che sono le eresie ad essere morte e che soltanto il dogma razionale vive abbastanza a lungo da essere chiamato antiquato”.
Ma dove non c’è ragione c’è contraddizione e risulta difficile mettere al riparo le idee, e chi le sostiene, dall’aggressione che si sostituisce all’argomentazione.

Chi critica errori dottrinali, confusioni, silenzi sui grandi temi della teologia e della morale, viene marchiato come un derelitto senza fede, un fariseo che non prega, un ipocrita che non crede in Cristo e lo usa per alimentare un’ideologia.
E’ la “nuova Chiesa della misericordia”, bellezza.
E’ la chiesa che proclama di accogliere tutti e di non volere giudicare nessuno, ma che si mostra senza pietà per i suoi figli innamorati e insieme perplessi. Adotta schemi politici cari al Novecento, secondo cui il positivismo giuridico si mangia la verità e la legge naturale. Se fra l’intuizione di Dio e la vita quotidiana viene tolto di mezzo l’apparato razionale che contraddistingue l’uomo, il potere finisce per autolegittimarsi a prescindere da ciò che dice e che fa. Jean Bodin e Niccolò Macchiavelli lo avevano ben spiegato.

La strumentalizzazione del Nazareno per altri scopi, va detto, è un problema antico. Il cardinale Giacomo Biffi ha denunciato tempo fa che “Gesù è diventato un pretesto che i cristiani usano per parlare d’altro”. Ma è da decenni che questo “altro” è rappresentato da ecologismo, promozione della legalità, ecumenismo mediatico, lotta alle narcomafie, protezione della foresta amazzonica e altre amenità. A tutto discapito della dottrina morale, della bioetica, del rigore liturgico e dottrinale. Con il rischio di trovarsi al cospetto di un Cristo senza dottrina e senza verità, un personaggio buono per tutte le stagioni, un contenitore da riempire con quanto desideri ogni consumatore della religione fai da te.

Un simile fenomeno non è giustificabile in nome della cosiddetta pastoralità. Perché non può esistere pastorale che non sia preceduta dalla dottrina, a meno che non se la sia divorata e non sia divenuta dottrina essa stessa finendo per mortificare il robusto rapporto con la ragione e la legge naturale. Per duemila anni la Chiesa ha difeso la vera fede dall’eresia: a spada tratta, con impegno assoluto e a prezzo del sangue. Papi e cardinali, teologi e religiosi sapevano bene come una tesi eterodossa fosse la peggior malattia che potesse minacciare il Corpo Mistico. “La Chiesa e le eresie”, dice il magnifico duellante cattolico inventato da Chesterton nel romanzo “La sfera e la croce”, “hanno sempre combattuto sulle parole perché sono le uniche cose per le quali valga la pena di battersi”.
Da ciò si ricava quanto sia sorprendente e irrazionale, perché estraneo alla storia della Chiesa, che oggi chi solleva domande e obiezioni dottrinali sia tacciato di essere rigido, moralista, eticista, senza bontà. Un’accusa che, a ben guardare, potrebbe essere trasferita su papi del recente passato. Paolo VI, nel 1968, scrive l’enciclica “Humanae vitae” per ribadire la condanna morale della contraccezione: un rigido eticista senza bontà. Giovanni Paolo II redige nel 1995 una summa della bioetica nella “Evangelium Vitae”: ma così facendo dimostra di insistere su tesi dure e difficili, che allontanano invece che avvicinare gli uomini alla Chiesa. Benedetto XVI spiega al Bundestag, in un memorabile discorso, che quando le leggi civili contraddicono la legge naturale, non sono più leggi ma solo simulacri cui si deve disobbedienza: un intollerante che chiude la porta della Chiesa in faccia allo stato laico e se ne va con la chiave in tasca.

Ma l’artificio dialettico che trasforma quanti vogliono difendere la dottrina cattolica in farisei spietati, privi di un cuore che palpita per il Cristo ferito e crocifisso, è debole. Gesù non invita i farisei ad andarsene perché professano una fede sbagliata, ma a essere i primi a osservare la legge. Mentre qui pare proprio che l’obiettivo finale, oltre il giudizio temerario sull’intimità della coscienza, sia il principio stesso, ritenuto un ostacolo al dialogo col mondo. Invece, fede e ragione, legge e carità possono solo stare insieme o si dissolvono entrambe: nell’irrazionalità di un fideismo luteraneggiante o nel gelo di un razionalismo volterriano, che oggi vanno volentieri a braccetto verso il nulla.
Portato nel perimetro della Chiesa, tutto questo produce un cattolicesimo senza dottrina, emotivo, empatico, pneumatico. Si sarebbe tentati di dire alla Enzo Bianchi, se persino lui non fosse stato oscurato dalla stella mediatica di papa Bergoglio. Parafrasando Zygmunt Bauman, ciò segna la nascita di un cattolicesimo liquido, che diguazza nelle zone grigie evocate da Carlo Maria Martini. Una religione che, nell’incapacità di dare risposte, impone con prepotenza dubbi e domande e partorisce un cattolicesimo che “sa di non sapere”, di gusto prearistotelico. Qui dentro si trovano le coordinate dell’incontro con il mondo moderno da cui escono plotoni di cattolici che non credono nel Credo perché non lo conoscono, ma accorrono festanti in piazza San Pietro o a Copacabana.

Scriveva il cardinale Ratzinger che la fede in Cristo e il mettersi alla sua sequela dentro una visione morale rigorosa, esigente e seria, sono la stessa cosa: non si oppongono, ma l’una non è possibile senza l’altra e, proprio per questo richiedono rigore, fatica, ascesi. Al contrario, una volta varato il cattolicesimo liquido, la vita diventa più facile per tutti, dal confessore al penitente: un assessore e un commercialista, un ginecologo e un politico possono discettare di tangenti, di aborto e di tasse concludendo con l’unica consolante morale di non fare i moralisti.
Così, finisce la significanza del cattolicesimo come fatto anche civile, politico, pubblico. Il diritto, che nel Novecento ha galoppato tenuto per le briglie da Hans Kelsen e dal suo positivismo, si affranca definitivamente da qualsiasi influsso razionale del cattolicesimo. Se a Cristo si giunge senza preambula fidei, senza argomentazioni apologetiche, senza le cinque vie di San Tommaso, fra mondo moderno e Chiesa l’incomunicabilità è totale.
Si dissolve l’idea di regalità sociale di Cristo, che il calendario liturgico riformato si è affrettato a relegare nel dimenticatoio dell’ultima domenica del tempo ordinario, mentre in quello precedente era collocata nel mese dedicato alle missioni. Evapora persino la più modesta prospettiva di uno stato pluralista ma rispettoso della legge naturale, nel quale tutte le religioni sono tollerate, ma uccidere l’innocente non nato o ammalato è delitto per tutti.

Eppure, è questo il panorama evocato quando un papa duetta con la stampa volterriana convenendo che “Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. E poi, richiesto di precisare la sua lezione sull’autonomia della coscienza precisa: “E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”. Ma la coscienza non può essere una guida arbitraria e bizzosa, senza alcun riferimento alla verità. Non si può parlare di verità come relazione invece che come assoluto, quando la legge naturale si fonda proprio su degli assoluti morali, cioè l’esistenza di atti che sono sempre e comunque intrinsecamente malvagi.
La verità per il cattolico è Cristo stesso: via, verità, e vita.
Vladimir Solov’ev chiude i suoi “Fondamenti spirituali della vita” con un capitolo sull’immagine di Cristo come verifica della coscienza in cui spiega che “Il compito finale della morale individuale e sociale consiste nel fatto che Cristo sia formato in tutti e in tutto. (…) Si può non uccidere mai, non rubare, non infrangere nessuna legge criminale ed essere tuttavia disperatamente lontani dal regno di Dio”.
La coscienza non è uno strumento infallibile, può sbagliare. E quando è erronea, il soggetto agente è normalmente colpevole poiché, di solito, non ha fatto tutto il possibile per formarsi correttamente e riconoscere l’errore. La coscienza erronea diventa argomento di esclusione della colpa del soggetto solo quando l’errore è invincibile: questa condizione può, forse, riguardare un indigeno della Papuasia, ma difficilmente si può riferire a uomini nati cresciuti e vissuti a contatto con la Chiesa, con l’annuncio del Vangelo, con la sua dottrina, come è il caso dell’intervistatore volterriano cresciuto dai gesuiti. Secondo la dottrina cattolica è dovere dei pastori formare le coscienze, insegnando a chiunque la verità tutta intera. Se invece la nascondono per “giustificare con l’ignoranza” il singolo che pecca, si assumono una grave responsabilità: lo spiegava con forza lo “specialista del Logos” Joseph Ratzinger in un libro del 1997, “Cielo e Terra”.

Per quanto siano estemporanee le omelie di papa Francesco, si sbaglierebbe a non riconoscere una coerenza del pensiero che esprimono. C’è un solido legame tra l’esaltazione della coscienza, l’enfasi su un cristianesimo a scarso tasso dottrinale e quanto dice sulla preghiera.La chiave che apre la porta alla fede è la preghiera” ha spiegato nell’omelia dedicata ai cristiani ideologici. “Quando un cristiano non prega, succede questo. E la sua testimonianza è una testimonianza superba… è un superbo, è un orgoglioso, è un sicuro di se stesso. Non è umile. Cerca la propria promozione… Quando un cristiano prega, non si allontana dalla fede, parla con Gesù… Dico pregare, non dico dire preghiere, perché questi dottori della legge dicevano tante preghiere… Una cosa è pregare e un’altra cosa è dire preghiere… Questi non pregano, abbandonano la fede e la trasformano in ideologia moralistica, casuistica, senza Gesù”.
Una fede ipodottrinale, risolta in un semplice incontro, finisce per vedere nell’aspetto formale della Chiesa un ostacolo al proprio manifestarsi. E sarebbe difficile dimostrare che papa Bergoglio, fin dalla sera della sua elezione, non abbia mostrato con le parole e i fatti la sua avversione alla forma e alla formalità. Da qui scende la contrapposizione tra il “dire preghiere” e il “pregare”, che è ben più di un calembour perché mette in discussione l’armonia tra lex orandi e lex credendi. “Dire preghiere” è sempre stato un pregare con la Chiesa, tanto per la vecchina con il rosario in mano, quanto per il cardinale Newmann o un monaco di clausura. Ognuno per la sua parte e la sua competenza, ma tutti insieme, membri dello stesso Corpo Mistico, come in coro, senza sapere l’uno dell’altro ma sicuri di essere lì insieme, nello stesso momento, a pregare nello stesso modo come vuole la lex orandi e a confessare la stessa fede, come vuole la lex credendi.
Ma serve disciplina, serve l’ascesi che l’attuale pontefice salta a pie’ pari volgendosi subito alla mistica. “Colui che smette di pregare con regolarità” scrive il cardinale Newman in un sermone sulla preghiera del 1829 “perde il mezzo principale per ricordarsi che la vita spirituale è obbedienza al Legislatore, non un semplice sentimento o gusto”. E poi ancora, nel 1835, dice che chi “desidera portare nel suo cuore la presenza di Cristo deve solo ‘lodare Dio’ e far sì che le parole del santo salterio di Davide le siano familiari, un servizio quotidiano, sempre ripetute e tuttavia sempre nuove e sempre sacre. Preghi e soprattutto permetta l’intercessione. Non dubiti del fatto che la forza della fede e della preghiera agisce su tutte le cose con Dio”.
Suona impietoso il giudizio di chi disprezza il “dire preghiere” senza immaginare che, in fondo a quelle formule di cui nessuno può mutare uno iota, c’è chi vede le piaghe di Cristo e magari arriva a toccarle e baciarle. In quelle parole considerate pietre d’inciampo a una fede autentica, è invece racchiusa una sapienza che apre al senso più profondo degli attimi terribili che ogni creatura dovrà vivere fin sulla soglia dell’ultimo respiro. Sono ritmi celesti che incantano l’anima e la strappano al mondo e la nutrono con quell’anticipo di vita soprannaturale che è la cerimonia.
Penso di poter parlare a nome di molti altri convertiti” scriveva Chesterton “quando dico che l’unica cosa che può suscitare in qualche modo nostalgia o rimpianto romantico, un vago sentore di mancanza per la propria casa in uno che la casa l’ha trovata veramente, è il ritmo della prosa di Cranmer”. Il “Libro delle Preghiere comuni” anglicano del XVI secolo aveva ancora una musicalità tale da essere una sirena. “La ragione” continuava il convertito inglese “può essere riportata in una frase: ha stile, tradizione, religiosità; venne redatto da cattolici rinnegati. E’ efficace, ma non in quanto primo libro protestante, bensì in quanto ultimo libro cattolico”.
I cattolici della Cornovaglia e del Devon si fecero massacrare, pur di non accettare il “Book of Common prayer”. Mette i brividi il solo pensare come li possa giudicare il pensiero dominante della Chiesa di oggi, dove viene celebrata la Messa su un Messale che somiglia da vicino a quello di Cranmer. Forse “cultori di format ideologici in versione cristiana”, come quei bigotti mendicanti di tradizione ridotti a clandestini dal cattolicesimo della tenerezza, come i sans papiers de l’Église.

martedì 22 ottobre 2013

misericordia e odio (intervista di don Pierpaolo Maria Petrucci, Superiore del Distretto Italiano della Fraternità Sacerdotale San Pio X).


"Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei più servo di Cristo”
 
 
Rev. don Pierpaolo,
a distanza di qualche giorno dalla "bufera" mediatica relativa ai funerali dell’ex comandante Erikh Priebke, tra gli autori della terribile strage delle Fosse Ardeatine le chiediamo, allo scopo di fugare definitivamente le polemiche e le strumentalizzazioni, qualche considerazione conclusiva. Non sono mancate infatti, in quei giorni caldi, informazioni superficiali ed approssimative. Cerchiamo dunque di fare chiarezza.
 D.   -  Quando e da chi vi è stato chiesto di celebrare le esequie del defunto?
R. Lunedì mattina l’avvocato incaricato dalla famiglia di occuparsi del funerale ci ha telefonato per chiedere la nostra disponibilità alle esequie fissate a martedì 15 ottobre, con tutte le autorizzazioni necessarie delle autorità civili. La cerimonia doveva celebrarsi in privato ed essere un atto puramente religioso, senza alcuna enfasi o strumentalizzazione mediatica ed ideologica. Per questo occorreva la massima discrezione che noi abbiamo scrupolosamente osservato.
 D.  - Per quale motivo, di fronte al divieto imposto dal Vicariato di Roma, Lei ha consentito alla celebrazione?
R. Il rifiuto del vicariato di accordare il funerale ad un battezzato che ha ricevuto i sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia, qualunque siano state le sue colpe ed i suoi peccati, non è conforme alla legge della Chiesa e alla dottrina cattolica. Dopo aver appreso che Priebke era stato battezzato e riceveva i sacramenti, questo atto ci è parso subito una grave ingiustizia nei confronti del defunto e della famiglia. Il nostro ha voluto essere anche un gesto di riparazione nei confronti di una simile leggerezza.
 D.   -  Quasi tutti gli organi di informazione hanno riferito che Erik Priebke non si sarebbe mai pentito dei suoi comportamenti tenuti durante la II Guerra Mondiale. Nel comunicato stampa della Fraternità si parla invece di un cattolico morto dopo essersi riconciliato con Dio. Ci può spiegare come stanno realmente le cose?
R.  Sembra che vi sia una volontà di coltivare l’odio da parte di certa stampa che si attribuisce il diritto di stabilire chi può essere perdonato e chi no, dettando leggi alla Chiesa per imporre i suoi criteri su chi ha il diritto al funerale religioso ed esponendo al linciaggio mediatico coloro che non vogliono piegarsi.
Erich Priebke, battezzato protestante, nel dopoguerra si convertì al cattolicesimo con la moglie e fece battezzare i suoi figli.[1] Nella sua vita sarà seguito da diversi sacerdoti. Durante la prigionia agli arresti domiciliari chiede ed ottiene nel 2002 la possibilità di recarsi ad ascoltare la S. Messa. Fino alla fine della sua vita riceverà regolarmente i sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia.
Al suo ritorno in Italia, in occasione della pubblica udienza di fronte al Tribunale Militare di Roma
tenutasi in data 3 aprile del 1996 egli legge una lettera davanti alle famiglie delle vittime in cui manifesta il suo cordoglio deplorando l’orribile atto di obbedienza che aveva dovuto compiere in quelle circostanze:[2] “Sento dal profondo del cuore il bisogno di esprimere le mie condoglianze per il dolore dei parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine …. Come credente non ho mai dimenticato questo tragico fatto, per me l’ordine di partecipare all’azione fu una grande tragedia intima… io penso ai morti con venerazione e mi sento unito ai vivi nel loro dolore”
Nella sua ultima intervista, rilasciata nel luglio scorso, in mezzo a considerazioni storiche certamente discutibili, vi sono considerazioni morali di massima importanza. Sono quelle che interessano un sacerdote. Alla domanda del giornalista che gli chiede se giustifica l’antisemitismo, Priebke risponde: “ No (…) ripeto antisemitismo significa odio indiscriminato (…) da vecchio privato della libertà, ho sempre rifiutato l’odio. Non ho neppure voluto odiare chi mi ha odiato. Parlo solo di diritto di criticare e ne spiego i motivi”. Egli rigetta il culto della razza come “una causa di errori senza ritorno”. Parlando dello sterminio di massa afferma: “La mia posizione è di condanna tassativa per fatti del genere. Tutti gli atti di violenza indiscriminata contro le comunità, senza che si tenga conto delle effettive responsabilità individuali, sono inaccettabili, assolutamente da condannare”. Non vedo il motivo di mettere in dubbio la sincerità di tali propositi.
D.  - Alla luce di quanto sopra esposto Lei ritiene il comandante Priebke un "pubblico  peccatore" a cui dovrebbero essere negati i funerali pubblici?
Secondo il Codice di Diritto Canonico attuale il funerale ecclesiastico si può negare soltanto a coloro che “prima della morte non diedero alcun segno di pentimento”.[3] Non vedo quindi come Erich Priebke potesse essere considerato indegno delle esequie.
Mai nella Chiesa come oggi si parla della carità, dell’amore del prossimo, soprattutto sotto questo pontificato. Quando poi si tratta di mettere in pratica queste virtù per coerenza al Vangelo, anche quando non è politicamente corretto e occorre sfidare le opinioni comuni ed i media, allora le cose cambiano…
La Chiesa però non può piegarsi al mondo se non vuole meritare il rimprovero di ipocrisia che Gesù ha indirizzato ai farisei nel Vangelo.
La misericordia di Dio va al di là delle appartenenze politiche, anche quelle più condannabili come dei peccati anche più gravi, purché vi sia il pentimento, unica condizione fondamentale. La Chiesa si basa sugli atti esterni. Un cattolico che manifesta pentimento per i suoi peccati ha diritto alle cerimonie funebri. L’intima coscienza dell’uomo nessuno di noi può giudicarla ma solo Dio a cui spetta l’ultima sentenza. La religione cattolica è quella della misericordia e del perdono e non quella dell’odio e della vendetta.
D. - Abbiamo visto comunque qualche personalità ecclesiastica di rilievo riconoscere il diritto di Priebke al funerale ecclesiastico.
R. Si, abbiamo sentito qualche voce nel deserto e questo fa loro onore. Mi ha fatto molto piacere leggere le dichiarazioni del Card. Cottier così come l’intervista del card. Montezemolo, nipote del colonnello ucciso alle Fosse Ardeatine. Mi ha commosso poi la testimonianza di alcuni parenti delle vittime che mostrano solidarietà, dopo il perdono accordato da tempo e si uniscono alla preghiera per il defunto. Questa sola è l’attitudine cristiana.
D.   -  Priebke era un fedele della FSSPX o almeno ne frequentava saltuariamente le cappelle?
R. No, non lo avevo mai incontrato né ha mai frequentato la Fraternità San Pio X, avevo letto che era stato battezzato, e che aveva ricevuto il permesso di lasciare gli arresti domiciliari per andare a Messa. Sapevo poi che era seguito regolarmente da un sacerdote.
 D.   -  Molti giornali hanno altresì riferito che le esequie non sarebbero state realmente celebrate o comunque che sarebbero state sospese. Come sono andate realmente le cose in quelle ore convulse?
R. La salma è arrivata verso le 17,30 ma i famigliari e gli amici invitati alla cerimonia non sono riusciti ad entrare a causa dei manifestanti. Dopo vari tentativi effettuati l’avvocato ha deciso di sospendere il funerale poiché in quelle condizioni stimava non poter adempiere l’incarico che la famiglia gli aveva affidato.
Verso le 19.20, alla presenza di una ventina di persone ho allora celebrato la messa per il defunto in assenza del corpo.
Nel frattempo la bara era stata posta in una stanza al pian terreno dove era stata allestita una camera ardente. In tarda serata, per compiere il mio dovere sacerdotale, ho proposto all’avvocato di benedire la salma con la cerimonia delle esequie che la Chiesa accorda alla fine della Messa. Alla sua presenza e con poche altre persone si è svolta quindi questa cerimonia. Di questo ho avuto modo di parlare anche in una recente intervista concessa ad Andrea Tornielli della Stampa.
D.   - Fra le reazioni più negative alla Sua decisione, troviamo soprattutto quelle provenienti da alcuni settori del mondo cattolico. In special modo ci ha stupito il tono poco caritatevole espresso dal direttore di Radio Maria, emittente, che più di ogni altra dovrebbe insegnare cosa sia la misericordia. Anche il Vescovo di Albano Laziale ha rilasciato dichiarazioni molto dure contro la Fraternità San Pio X giungendo a sostenere che essa non fa parte della Chiesa Cattolica. Cosa ci può dire in proposito?
R.  L’appartenenza alla Chiesa non è soltanto qualcosa di puramente giuridico. San Tommaso d’Aquino spiega che la prima condizione per far parte del Corpo Mistico di Cristo è la fede. Purtroppo, dopo il concilio Vaticano II, nuove dottrine sono state insegnate dalle autorità ecclesiastiche in contraddizione con l’insegnamento costante della Chiesa. La nostra Fraternità, regolarmente riconosciuta dalla Chiesa il 1 novembre 1970, è stata poi ingiustamente combattuta per la sua opposizione a questi cambiamenti. Cambiamenti che danno poi origine a comportamenti contrari alla dottrina cattolica, come il negare il funerale ad un battezzato che muore riconciliato con Dio, per conformarsi al politicamente corretto
Pur nel rispetto dell’autorità, la Fraternità San Pio X si è sempre opposta a questi errori, convinta che il più grande servizio che si possa rendere alla Chiesa non è il servilismo ma la proclamazione integrale dell’insegnamento cattolico e la denuncia di tutto ciò che gli si oppone, anche se proclamato da una parte della gerarchia.
Affermare che non siamo cattolici, soprattutto da parte di sacerdoti che dovrebbero conoscere la dottrina della Chiesa, è una pura menzogna che forse richiederebbe una pubblica riparazione.
D’altro canto mi accorgo che molti cattolici e anche molti vescovi ci giudicano senza conoscerci, partendo spesso da pregiudizi e luoghi comuni. Il Vescovo di Albano, che ogni sacerdote del nostro Priorato cita tutti i giorni nel canone della Messa in quanto vescovo del luogo, è sempre benvenuto tra noi e potrà verificare se davvero non facciamo parte della Chiesa come forse imprudentemente ha affermato.
D.    -  Altri commentatori, evidentemente poco informati, hanno accostato la Sua decisione alle posizioni di  mons. Richard Williamson o di don Floriano Abrahamowicz. Cosa può dirci in proposito?
R. Come superiore di Distretto della Fraternità San Pio X in Italia tengo a precisare che, sia Mons. Williamson che don Floriano Abrahamowicz sono stati espulsi dalla nostra Fraternità proprio per via di alcune loro posizioni incompatibili con la vocazione della Fraternità. Le loro affermazioni non rappresentano in alcun modo il pensiero ufficiale della Fraternità San Pio X. Ogni accostamento è quindi puramente gratuito. Ci tengo inoltre a precisare che alcuni propositi scambiati sui giornali per mie dichiarazioni sono altrettanto non rappresentative del nostro pensiero. La misericordia di Dio non esclude nessuno quando c’è vero pentimento.
D. - Come avete vissuto quel pomeriggio nella comunità?
R.  Il giorno del funerale abbiamo assistito purtroppo a manifestazioni di odio gratuito, come la presa d'assalto di un carro funebre con sputi e calci sotto gli occhi di un sindaco in fascia tricolore! Sono rimasto stupefatto di fronte ad uno striscione che alcuni manifestanti esibivano con la scritta “Il Padre Eterno ti ha forse perdonato ma noi no”. Questo funerale è stata l’occasione di uno scontro aperto fra dottrine opposte: l’insegnamento di Gesù Cristo e della Chiesa centrato sulla misericordia ed il perdono da una parte e ideologie che non sanno e non vogliono perdonare dall’altra. La legge immutabile dell'Amore e della Carità e quella dell'odio, della vendetta, dell' "occhio per occhio, dente per dente".
La legge di Cristo è quella che ci proponiamo indegnamente di seguire, ben lontani da ogni polemica ideologica.
D.  -  Non sono mancati infine giornali che hanno cercato di accreditare l'immagine di una comunità San Pio X di Albano poco integrata con la popolazione locale che non gradirebbe la presenza del Priorato sul territorio. E' davvero così?
 
R.  La nostra Fraternità è presente qui ad Albano dal 1974. Ha formato diverse generazioni di bambini alla prima comunione ed alla cresima e svolge opere di misericordia nei confronti dei malati e dei poveri a cui distribuisce regolarmente viveri e vestiti. Abbiamo quindi molti amici nella popolazione che ci hanno espresso anche la loro solidariètà in questa vicenda. Rifiuto di credere che la folla inferocita che martedì scorso si è abbandonata all’odio fazioso davanti alla bara di un morto possa essere rappresentativa degli abitanti di Albano.
Per concludere vorrei citare una frase di San Paolo che scrive nella sua epistola ai Galati :“Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei più servo di Cristo”. Penso che questo debba essere il programma e l’ideale di un uomo di Chiesa: agire sempre in conformità all’insegnamento di Cristo, senza mai cercare compromessi con lo spirito del mondo.
 


[1] Erich Priebke Autobiografia, Associazione uomo e libertà, Roma 2003, p. 150, 160,  161, 170
[2]  Intervista esclusiva rilasciata a Francesco Giorgino, dopo la condanna di Priebke all’ergastolo. Vae victis http://www.youtube.com/watch?v=oRu_eeHHe0A&hd=1 al minuto 1,50.
[3] Can. 1185

lunedì 21 ottobre 2013

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domenica 20 ottobre 2013

non abbiate paura ...un mondo nuovo ha inizio

"Dinanzi agli sconvolgimenti che scuotono qui e là i diversi Continenti, dinanzi al ritmo incalzante del sovvertimento di cose e di valori che insidiano le certezze e persino la vita delle nazioni, faccio mia la speranza di S. Agostino, dinanzi all'assalto dei Vandali alla città di Ippona, quando un gruppo allarmato di cristiani della sua chiesa lo cercò: "Non abbiate paura, cari figli! - li rassicurò il santo Vescovo - questo non è un mondo vecchio che si conclude, è un mondo nuovo che ha inizio". Una nuova aurora sembra sorgere nel cielo della storia, invitando i cristiani ad essere luce e sale di un mondo che ha enorme bisogno di Cristo, Redentore dell'uomo." (B. Giovanni Paolo II, Lisbona 10 maggio 1991 - Osservatore Romano 12  maggio 1991)