mercoledì 23 ottobre 2013

la prima pastorale è confessare la stessa Fede

Cristo senza dottrina né verità      
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

Articolo pubblicato sul quotidiano Il Foglio di martedì 22 ottobre 2013
che fa seguito agli altri due articoli: il primo, “Questo Papa non ci piace”, che ha provocato la cacciata dei due Autori da “Radio Maria”; il secondo, “Orgoglioso lamento cattolico” quasi in risposta alla “defenestrazione”.
 Impaginazione e neretti sono curati da www.unavox.it
 
 
 
 
 
 
 
 
 





     
 
Povera bisnonna Antonia, che ha passato una vita fatta di pateravegloria, rosari, messe alle cinque di mattina, segni di croce a ogni santella, catechismo imparato a memoria e precetti morali da praticare scrupolosamente e insegnare con zelo. Povera bisnonna Antonia, e poveri i suoi ottantaquattro anni trascorsi a “dire preghiere” e a osservare “prescrizioni” nella speranza di abbracciare un giorno Gesù, a cui dava del Voi, come usavano le generazioni perbene.
Povera bisnonna Antonia e povera la sua fede che, non fosse per il candore ingenuo e inerme delle vecchine di campagna, oggi potrebbe essere presa per una cristiana ideologica, moralistica, farisaica, senza cuore. Eppure, quella donnina sempre vestita di nero che parlava solo dialetto e un latino tutto suo, aveva mostrato quanto amore per Dio e per gli uomini sgorghi da una vita passata  a “dire preghiere”.
Al marito, che in punto di morte le chiedeva perdono per quante gliene aveva fatte e lei aveva sopportato nel silenzio e nella pazienza, la povera bisnonna Antonia aveva risposto di non avere paura, “Quando sarete di là, vedrete quanto bene avranno fatto le preghiere che vostra moglie ha detto per voi”.

La durezza dell’omelia di Santa Marta in cui papa Francesco stigmatizza una fede che passa “per un alambicco e diventa ideologia” e in cui giudica le coscienze di chi, oggi, si ostina a vivere un cristianesimo come quello dei suoi vecchi, finisce per travolgere il passato che continua a vivere nel presente.
Risulta difficile ipotizzare che il bersaglio non sia quel sentire tradizionale a cui si intende impedire di diventare un movimento capace di aggregare uomini e idee. Lo ha felicemente spiegato la gioiosa macchina da guerra degli ermeneuti del giorno dopo. Ma lo aveva inequivocabilmente anticipato il papa stesso, nell’intervista a “Civiltà Cattolica”, fulminando un “uso ideologico” del rito tradizionale riportato in onore da Benedetto XVI, uno “specialista del Logos” ormai archiviato dagli ermeneuti del suo successore.
Anche se parla delle ideologie di ogni segno, è chiaro a chi miri papa Bergoglio dicendo: “quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero (…). E per questo Gesù dice loro: ‘Voi avete portato via la chiave della conoscenza. La conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni”.

Non passa omelia, non passa intervista, non passa bagno di folla in cui il Papa non scrolli le spalle davanti a una fede che si oggettiva nel rigoroso rapporto con la ragione. “Nomina nuda tenemus”, sembra questo il messaggio di Francesco, lo stesso del francescano Gugliemo di Occam di cui Umberto Eco produsse un gradevole bigino con “Il nome della rosa”.
La fede non cerca più un intelletto che ritiene inabile a conoscere veramente, produttore di oggettivazioni che rischiano di divenire un ostacolo all’incontro con Cristo. Come se ci si trovasse in una zona di rimozione forzata dei precetti permeabili all’intelligenza, un vicolo cieco nel quale non amava sostare un cristiano innamorato della ragione come Gilbert Keith Chesterton: “Per quanto un uomo può essere orgoglioso di una religione fondata sull’umiltà, io sono molto orgoglioso della mia religione. Sono particolarmente orgoglioso di quelle sue parti che sono molto comunemente chiamate superstizioni. Sono fiero di essere stato nutrito da dogmi antiquati ed essere schiavo di una fede morta, come i miei amici giornalisti ripetono con tanta insistenza, perché so benissimo che sono le eresie ad essere morte e che soltanto il dogma razionale vive abbastanza a lungo da essere chiamato antiquato”.
Ma dove non c’è ragione c’è contraddizione e risulta difficile mettere al riparo le idee, e chi le sostiene, dall’aggressione che si sostituisce all’argomentazione.

Chi critica errori dottrinali, confusioni, silenzi sui grandi temi della teologia e della morale, viene marchiato come un derelitto senza fede, un fariseo che non prega, un ipocrita che non crede in Cristo e lo usa per alimentare un’ideologia.
E’ la “nuova Chiesa della misericordia”, bellezza.
E’ la chiesa che proclama di accogliere tutti e di non volere giudicare nessuno, ma che si mostra senza pietà per i suoi figli innamorati e insieme perplessi. Adotta schemi politici cari al Novecento, secondo cui il positivismo giuridico si mangia la verità e la legge naturale. Se fra l’intuizione di Dio e la vita quotidiana viene tolto di mezzo l’apparato razionale che contraddistingue l’uomo, il potere finisce per autolegittimarsi a prescindere da ciò che dice e che fa. Jean Bodin e Niccolò Macchiavelli lo avevano ben spiegato.

La strumentalizzazione del Nazareno per altri scopi, va detto, è un problema antico. Il cardinale Giacomo Biffi ha denunciato tempo fa che “Gesù è diventato un pretesto che i cristiani usano per parlare d’altro”. Ma è da decenni che questo “altro” è rappresentato da ecologismo, promozione della legalità, ecumenismo mediatico, lotta alle narcomafie, protezione della foresta amazzonica e altre amenità. A tutto discapito della dottrina morale, della bioetica, del rigore liturgico e dottrinale. Con il rischio di trovarsi al cospetto di un Cristo senza dottrina e senza verità, un personaggio buono per tutte le stagioni, un contenitore da riempire con quanto desideri ogni consumatore della religione fai da te.

Un simile fenomeno non è giustificabile in nome della cosiddetta pastoralità. Perché non può esistere pastorale che non sia preceduta dalla dottrina, a meno che non se la sia divorata e non sia divenuta dottrina essa stessa finendo per mortificare il robusto rapporto con la ragione e la legge naturale. Per duemila anni la Chiesa ha difeso la vera fede dall’eresia: a spada tratta, con impegno assoluto e a prezzo del sangue. Papi e cardinali, teologi e religiosi sapevano bene come una tesi eterodossa fosse la peggior malattia che potesse minacciare il Corpo Mistico. “La Chiesa e le eresie”, dice il magnifico duellante cattolico inventato da Chesterton nel romanzo “La sfera e la croce”, “hanno sempre combattuto sulle parole perché sono le uniche cose per le quali valga la pena di battersi”.
Da ciò si ricava quanto sia sorprendente e irrazionale, perché estraneo alla storia della Chiesa, che oggi chi solleva domande e obiezioni dottrinali sia tacciato di essere rigido, moralista, eticista, senza bontà. Un’accusa che, a ben guardare, potrebbe essere trasferita su papi del recente passato. Paolo VI, nel 1968, scrive l’enciclica “Humanae vitae” per ribadire la condanna morale della contraccezione: un rigido eticista senza bontà. Giovanni Paolo II redige nel 1995 una summa della bioetica nella “Evangelium Vitae”: ma così facendo dimostra di insistere su tesi dure e difficili, che allontanano invece che avvicinare gli uomini alla Chiesa. Benedetto XVI spiega al Bundestag, in un memorabile discorso, che quando le leggi civili contraddicono la legge naturale, non sono più leggi ma solo simulacri cui si deve disobbedienza: un intollerante che chiude la porta della Chiesa in faccia allo stato laico e se ne va con la chiave in tasca.

Ma l’artificio dialettico che trasforma quanti vogliono difendere la dottrina cattolica in farisei spietati, privi di un cuore che palpita per il Cristo ferito e crocifisso, è debole. Gesù non invita i farisei ad andarsene perché professano una fede sbagliata, ma a essere i primi a osservare la legge. Mentre qui pare proprio che l’obiettivo finale, oltre il giudizio temerario sull’intimità della coscienza, sia il principio stesso, ritenuto un ostacolo al dialogo col mondo. Invece, fede e ragione, legge e carità possono solo stare insieme o si dissolvono entrambe: nell’irrazionalità di un fideismo luteraneggiante o nel gelo di un razionalismo volterriano, che oggi vanno volentieri a braccetto verso il nulla.
Portato nel perimetro della Chiesa, tutto questo produce un cattolicesimo senza dottrina, emotivo, empatico, pneumatico. Si sarebbe tentati di dire alla Enzo Bianchi, se persino lui non fosse stato oscurato dalla stella mediatica di papa Bergoglio. Parafrasando Zygmunt Bauman, ciò segna la nascita di un cattolicesimo liquido, che diguazza nelle zone grigie evocate da Carlo Maria Martini. Una religione che, nell’incapacità di dare risposte, impone con prepotenza dubbi e domande e partorisce un cattolicesimo che “sa di non sapere”, di gusto prearistotelico. Qui dentro si trovano le coordinate dell’incontro con il mondo moderno da cui escono plotoni di cattolici che non credono nel Credo perché non lo conoscono, ma accorrono festanti in piazza San Pietro o a Copacabana.

Scriveva il cardinale Ratzinger che la fede in Cristo e il mettersi alla sua sequela dentro una visione morale rigorosa, esigente e seria, sono la stessa cosa: non si oppongono, ma l’una non è possibile senza l’altra e, proprio per questo richiedono rigore, fatica, ascesi. Al contrario, una volta varato il cattolicesimo liquido, la vita diventa più facile per tutti, dal confessore al penitente: un assessore e un commercialista, un ginecologo e un politico possono discettare di tangenti, di aborto e di tasse concludendo con l’unica consolante morale di non fare i moralisti.
Così, finisce la significanza del cattolicesimo come fatto anche civile, politico, pubblico. Il diritto, che nel Novecento ha galoppato tenuto per le briglie da Hans Kelsen e dal suo positivismo, si affranca definitivamente da qualsiasi influsso razionale del cattolicesimo. Se a Cristo si giunge senza preambula fidei, senza argomentazioni apologetiche, senza le cinque vie di San Tommaso, fra mondo moderno e Chiesa l’incomunicabilità è totale.
Si dissolve l’idea di regalità sociale di Cristo, che il calendario liturgico riformato si è affrettato a relegare nel dimenticatoio dell’ultima domenica del tempo ordinario, mentre in quello precedente era collocata nel mese dedicato alle missioni. Evapora persino la più modesta prospettiva di uno stato pluralista ma rispettoso della legge naturale, nel quale tutte le religioni sono tollerate, ma uccidere l’innocente non nato o ammalato è delitto per tutti.

Eppure, è questo il panorama evocato quando un papa duetta con la stampa volterriana convenendo che “Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. E poi, richiesto di precisare la sua lezione sull’autonomia della coscienza precisa: “E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”. Ma la coscienza non può essere una guida arbitraria e bizzosa, senza alcun riferimento alla verità. Non si può parlare di verità come relazione invece che come assoluto, quando la legge naturale si fonda proprio su degli assoluti morali, cioè l’esistenza di atti che sono sempre e comunque intrinsecamente malvagi.
La verità per il cattolico è Cristo stesso: via, verità, e vita.
Vladimir Solov’ev chiude i suoi “Fondamenti spirituali della vita” con un capitolo sull’immagine di Cristo come verifica della coscienza in cui spiega che “Il compito finale della morale individuale e sociale consiste nel fatto che Cristo sia formato in tutti e in tutto. (…) Si può non uccidere mai, non rubare, non infrangere nessuna legge criminale ed essere tuttavia disperatamente lontani dal regno di Dio”.
La coscienza non è uno strumento infallibile, può sbagliare. E quando è erronea, il soggetto agente è normalmente colpevole poiché, di solito, non ha fatto tutto il possibile per formarsi correttamente e riconoscere l’errore. La coscienza erronea diventa argomento di esclusione della colpa del soggetto solo quando l’errore è invincibile: questa condizione può, forse, riguardare un indigeno della Papuasia, ma difficilmente si può riferire a uomini nati cresciuti e vissuti a contatto con la Chiesa, con l’annuncio del Vangelo, con la sua dottrina, come è il caso dell’intervistatore volterriano cresciuto dai gesuiti. Secondo la dottrina cattolica è dovere dei pastori formare le coscienze, insegnando a chiunque la verità tutta intera. Se invece la nascondono per “giustificare con l’ignoranza” il singolo che pecca, si assumono una grave responsabilità: lo spiegava con forza lo “specialista del Logos” Joseph Ratzinger in un libro del 1997, “Cielo e Terra”.

Per quanto siano estemporanee le omelie di papa Francesco, si sbaglierebbe a non riconoscere una coerenza del pensiero che esprimono. C’è un solido legame tra l’esaltazione della coscienza, l’enfasi su un cristianesimo a scarso tasso dottrinale e quanto dice sulla preghiera.La chiave che apre la porta alla fede è la preghiera” ha spiegato nell’omelia dedicata ai cristiani ideologici. “Quando un cristiano non prega, succede questo. E la sua testimonianza è una testimonianza superba… è un superbo, è un orgoglioso, è un sicuro di se stesso. Non è umile. Cerca la propria promozione… Quando un cristiano prega, non si allontana dalla fede, parla con Gesù… Dico pregare, non dico dire preghiere, perché questi dottori della legge dicevano tante preghiere… Una cosa è pregare e un’altra cosa è dire preghiere… Questi non pregano, abbandonano la fede e la trasformano in ideologia moralistica, casuistica, senza Gesù”.
Una fede ipodottrinale, risolta in un semplice incontro, finisce per vedere nell’aspetto formale della Chiesa un ostacolo al proprio manifestarsi. E sarebbe difficile dimostrare che papa Bergoglio, fin dalla sera della sua elezione, non abbia mostrato con le parole e i fatti la sua avversione alla forma e alla formalità. Da qui scende la contrapposizione tra il “dire preghiere” e il “pregare”, che è ben più di un calembour perché mette in discussione l’armonia tra lex orandi e lex credendi. “Dire preghiere” è sempre stato un pregare con la Chiesa, tanto per la vecchina con il rosario in mano, quanto per il cardinale Newmann o un monaco di clausura. Ognuno per la sua parte e la sua competenza, ma tutti insieme, membri dello stesso Corpo Mistico, come in coro, senza sapere l’uno dell’altro ma sicuri di essere lì insieme, nello stesso momento, a pregare nello stesso modo come vuole la lex orandi e a confessare la stessa fede, come vuole la lex credendi.
Ma serve disciplina, serve l’ascesi che l’attuale pontefice salta a pie’ pari volgendosi subito alla mistica. “Colui che smette di pregare con regolarità” scrive il cardinale Newman in un sermone sulla preghiera del 1829 “perde il mezzo principale per ricordarsi che la vita spirituale è obbedienza al Legislatore, non un semplice sentimento o gusto”. E poi ancora, nel 1835, dice che chi “desidera portare nel suo cuore la presenza di Cristo deve solo ‘lodare Dio’ e far sì che le parole del santo salterio di Davide le siano familiari, un servizio quotidiano, sempre ripetute e tuttavia sempre nuove e sempre sacre. Preghi e soprattutto permetta l’intercessione. Non dubiti del fatto che la forza della fede e della preghiera agisce su tutte le cose con Dio”.
Suona impietoso il giudizio di chi disprezza il “dire preghiere” senza immaginare che, in fondo a quelle formule di cui nessuno può mutare uno iota, c’è chi vede le piaghe di Cristo e magari arriva a toccarle e baciarle. In quelle parole considerate pietre d’inciampo a una fede autentica, è invece racchiusa una sapienza che apre al senso più profondo degli attimi terribili che ogni creatura dovrà vivere fin sulla soglia dell’ultimo respiro. Sono ritmi celesti che incantano l’anima e la strappano al mondo e la nutrono con quell’anticipo di vita soprannaturale che è la cerimonia.
Penso di poter parlare a nome di molti altri convertiti” scriveva Chesterton “quando dico che l’unica cosa che può suscitare in qualche modo nostalgia o rimpianto romantico, un vago sentore di mancanza per la propria casa in uno che la casa l’ha trovata veramente, è il ritmo della prosa di Cranmer”. Il “Libro delle Preghiere comuni” anglicano del XVI secolo aveva ancora una musicalità tale da essere una sirena. “La ragione” continuava il convertito inglese “può essere riportata in una frase: ha stile, tradizione, religiosità; venne redatto da cattolici rinnegati. E’ efficace, ma non in quanto primo libro protestante, bensì in quanto ultimo libro cattolico”.
I cattolici della Cornovaglia e del Devon si fecero massacrare, pur di non accettare il “Book of Common prayer”. Mette i brividi il solo pensare come li possa giudicare il pensiero dominante della Chiesa di oggi, dove viene celebrata la Messa su un Messale che somiglia da vicino a quello di Cranmer. Forse “cultori di format ideologici in versione cristiana”, come quei bigotti mendicanti di tradizione ridotti a clandestini dal cattolicesimo della tenerezza, come i sans papiers de l’Église.