Pubblichiamo la relazione magistrale che il prof. Roberto e Mattei ha tenuto il 1° maggio u. s. nella cornice della Giornata della buona stampa cattolica a Linarolo (PV) nel ricordo del grande amico, bioeticista e apologeta Mario Palmaro.
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Corona dell'Impero Austroungarico |
L’importanza della Tradizione
nell’ora presente
di Roberto de
Mattei
L’epoca della sicurezza
Cento anni fa, nel maggio del 1914, governava la Chiesa san Pio X e regnava
sul vasto Impero austroungarico l’imperatore Francesco Giuseppe.
Nelle cerimonie del venerdì santo si pregava per la Chiesa e per l’Impero:
“Oremus et pro christianissimo Imperatore
nostro ut Deus et Dominus noster subditas illi faciat omnes barbaras nationes,
ad nostram perpetuam pacem” e si aggiungeva: “Onnipotens sempiterne Deus, in cuius manu sunt omnium potestates et
omnium iura regnorum: respice ad Romanorum benignus Imperium; ut gentes, quae
in sua feritate confidunt, potentiae tuae dextera comprimantur”.
In quel mese di maggio del 1914 san Pio X e l’Imperatore Francesco Giuseppe
erano prossimi alla morte, ma soprattutto l’Europa era alla vigiia di
un’immensa tragedia: la Prima Guerra Mondiale
Il 28 giugno 1914, l’erede al trono imperiale Francesco Ferdinando fu
assassinato a Sarajevo. I colpi di rivoltella che lo uccisero furono la
scintilla che fce detonare la Prima Guerra mondiale.
La Prima Guerra mondiale, con i Trattati di Pace che ad essa seguirono, fu
uno sconvolgimento geopolitico, perché l’Europa con la scomparsa dell’Impero
asburgico perse il suo baricentro, ma fu soprattutto una Rivoluzione nella
cultura e nella mentalità dell’uomo europeo. Fu la fine di un’epoca.
Bisognerebbe rileggere le pagine con cui si aprono le memorie dello
scrittore austriaco di Stefen Zweig (1881-1942), Die Welt von Gestern, Il
mondo di ieri (1941).
Scrive Zweig in questo libro: “Se
tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la
prima guerra mondiale, il tempo in cui sono cresciuto, credo di essere il più
conciso possibile dicendo che fu l’età d’oro della sicurezza. Nella nostra
monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo
appariva il garante supremo di tale continuità.(…).La nostra moneta, la corona
austriaca, circolava in pezzi d’oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno sapeva
quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quellp che era permesso e quello che
era proibito; tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. (…) Ogni
famiglia aeva un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l’affitto
e il vitto, per le vacanze e gli obblighi sociali, e vi era sempre una piccolo
riserva per gli imprevisti, per le malattie e per il medico. Chi possedeva una
casa la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie ed aziende
passvano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in
culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il
primo obolo per il suo avvenire, una piccolo riserva per il suo cammino. Tutto
nel saldo Impeo appariva saldo e inemovibile e al posto più alto stava il
sovrano vegliardo; ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere)
che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell’ordine
prestabiilto. Nessuno credeva a guerre,
a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano
ormai impossibili nell’età della ragione. (…) era un mondo ordinato, con chiare
stratificazioni e comodi passaggi, era un mondo senza fretta. (,,,) Anche nella
mia più remota infanzia, quando mio padre non aveva ancora quarant’anni, non
posso ramentarmi di averlo mai visto correre frettoloso su e giù per una scala
o comunque fare qualcosa con visibile fretta”.
Questa atmosfera di sicurezza e di stabilità in cui era immerso non solo
l’uomo austriaco, ma l’uomo europeo, presupponeva una visione del mondo; dietro
le istituzioni stabili e apparentemente incrollabili su cui si fondava la
società, dalla famiglia alla monarchia, c’era una concezione dell’uomo e della
società fondata sull’idea di permanenza, e di stabilita; sul primato di ciò che
è, di ciò che stà, su ciò che si trasforma e muta; sul primato dell’Essere sul
divenire; sul primato, in una parola dei valori assoluti che bisogna conoscere
per poterli vivere; il primato della contemplazione sull’azione.
L’epoca dell’incertezza
Cento anni dopo, se dovessimo caratterizzare la nostra epoca, la dovremmo
definire come l’età dell’insicurezza e dell’instabilità.
La perdita della stabilità politica ed ideologica, il disordine economico,
sociale, intellettuale, è stato il filo
conduttore del XX secolo, il secolo delle rivoluzioni, delle guerre mondiali,
dei totalitarismi delle guerre civili e dei genocidi. Il secolo più cruento
della storia occidentale.. Un secolo che si è chiuso con il crollo parallelo
del Muro di Berlino e delle Twin Towers simboli della apparente solidità dei
due Imperi contrapposti: il russo e l’americano.
I sociologi, per definire la nostra epoca hanno parlato di “società
dell’incertezza”. Oggi, scrive Zygmunt Bauman, in un libro che ha questo titolo, “pochi individui sono così potenti da essere
sicuri che la loro casa, per quanto salda e resistente, non sia frequentata
dallo spettro di un crollo imminente: nessuna occupazione è garantita, non c’è
posizione che non possa indebolirsi, non c’è capacità o abilità la cui utilità
sia in grado di durare a lungo”. Bauman parla anche di “società liquida”, in cui si dissolve ogni forma, anche elementare, di aggregazione
sociale.
La “vita liquida” di cui scrive
Baumann è la vita precaria ed effimera dell’uomo contemporaneo: una vita, priva
di radici e di fondamenti, inevitabilmente consumistica, perché si vive solo
nel presente, immersi nella liquefazione di ogni valore e di ogni istituzione.
Tutto ciò che viene liquidato viene consumato o, potremmo dire, tutto ciò che
viene consumato, viene liquidato: dai prodotti alimentari alle vite degli
individui. La società liquida è quella in cui nulla è solido, nulla stà. Tutto è
fluido, perché tutto scorre, tutto diviene.
Un
futuro Stefan Zweig che volesse scrivere le memorie del nostro tempo, lo
definirebbe come l’età dell’insicurezza e dell’instabilità. Nell’epoca in sono
vissuto – scriverebbe il futuro storico – nulla era stabile. Le istituzioni
politiche erano screditate e vacillanti; la famiglia era frantumata; per i
giovani il possesso di una casa, la prospettiva di un lavoro, la possibilità
del risparmio, apparivano miraggi. Sposarsi, mettere al modo dei figli creare
una famiglia, costituiva un’impresa talvolta eroica. Ma soprattutto i giovani
erano privi, o meglio privati, di certezze e di ideali. Tutto veniva messo in
discussione; ogni valore era dissacrato. Nubi di incertezza e di preoccupazione
avvolgevano il futuro dell’umanità. Ovunque era confusione e squilibrio. Questo
era lo stato del mondo all’inizio del XXI secolo.
Ebbene, questo orizzonte di rovine, che è il nostro
orizzonte, non è un dato irreversibile,
come ci vogliono far credere i sociologi. Non è un processo: è un progetto. E’
il sogno deforme di un mondo all’insegna del caos, elaborato dalle società di
pensiero che vorebbero ricreare il mondo. Dietro l’instabilità sociale e prima
di tutto psicologica che caratterizza il nostro tempo c’è una concezione del
mondo opposta all’antica: la realtà è fluida, la società è liquida, perché esiste
un progetto politico e culturale di liquefazione della società, di dissoluzione
della Civiltà cristiana, di attacco alla Chiesa, che è il vero e ultimo nemico
perché rappresenta il luogo per eccellenza delle verità immutabili e delle
certezze assolute,
Le radici di questo progetto ideologico sono remote, ma
quelle prossime, nel ventesimo secolo, rimontano alla Prima Guerra mondiale e
alla Rivoluzione russa che si scatena al suo interno, ad opera dei discepoli di Marx e di Engels.
Ciò che caratterizza la filosofia tradizionale della
storia, il pensiero classico e poi quello cristiano che lo perfeziona, è la
ricerca della verità come fondamento del reale. Secondo la filosofia
tradizionale esiste un ordine oggettivo di verità e di valori morali anteriore
alla nostra ragione ed è compito della ragione conoscerlo, per poi conformare a
quest’ordine il comportamento. Per Marx e per i suoi discepoli non esiste
invece una verità assoluta che possa essere oggetto di conoscenza, neppure la
materia, a cui i marxisti riducono tutta la realtà. Il cuore del marxismo, più
ancora del materialismo, è la filosofia hegeliana del divenire, capovolta di
segno in materialismo dialettico. L’universo è materia in evoluzione e il
compito degli intellettuali è quello di partecipare a questa trasformazione del
mondo, accelerandola. Comprendere non solo il divenire del mondo, ma il mondo
come divenire.
Nella seconda tesi su Feuerbach (1845), Karl Marx afferma
che l’uomo deve trovare la verità del suo pensiero nella prassi e
nell’undicesima tesi sostiene che il compito dei filosofi non è quello di
interpretare il mondo, ma di trasformarlo. La verità è nella prassi. Il filosofo è sostituito dal rivoluzionario e
il rivoluzionario deve dimostrare nell’azione, la potenza e l’efficacia del suo
pensiero. Sotto questo aspetto Lenin fu il rivoluzionario-filosofo che nel 1917
attuò nella prassi la teoria comunista. Con Lenin la filosofia si fece mondo. La
filosofia della prassi non è pragmatismo, attivismo, vitalismo, irrazionalismo.
E’ il tentativo di portare alla sua radicale coerenza il processo di
secolarizzazione iniziato dall’umanesimo e dal protestantesimo; un processo che ha il suo evento fondatore nella Rivoluzione
francese: madre di tutte le tragedie che si sviluppano nei secoli successivi, a
cominciare dal comunismo e dal nazionalsocialismo.
“Filosofia della prassi”è il nome che Antonio
Gramsci dà a questo processo storico.“La
filosofia della prassi - scrive nei suoi Quaderni dal carcere - presuppone la rinascita e la Riforma, la
filosofia tedesca e la Rivoluzione francese, il calvinismo e l’economia
classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta
la concezione moderna della vita. La filosofia della praxis è il coronamento di
tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale; (...) essa
corrisponde al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese”. Noi diamo il nome
di Rivoluzione a questo processo e non conosco autore che lo abbia meglio
descritto di Plinio Correa de Oliveira.
L’essenza di
questo processo rivoluzionario non è in ciò che crea, ma in ciò che distrugge e
nega. Engels riassume queste negazioni nel suo volumetto su L’origine della famiglia, della proprietà
privata e dello Stato. La famiglia, la proprietà privata e lo Stato sono negate in radice perché
non esistono istituzioni sociali radicate nella natura: tutto è prodotto della
storia. L’uomo stesso è privo di una sua natura: è materia amorfa, malleabile a
piacere. La teoria del gender è in nuce nel marxleninismo e si inserisce in
quella visione evolutiva, per la quale l’uomo non ha un’essenza propria: proviene
dalle bestie e si divinizza nella materia eterna, da cui tutto viene e a cui
tutto ritorna.
La natura dice san Tommaso, è “l’essenza
della cosa in quanto ordinata al proprio fine” (essentiam rei secundum quod habet ordinem ad propriam operationem). La natura è ciò che costituisce un essere e che gli permette di agire
secondo il suo fine. La natura contiene in sé un limite: è impossibile ad un
essere diventare altri da ciò che esso è. Nella misura in cui l’uomo intende
superare o negare i limiti del proprio essere e della propria natura, egli
abbandona la capacità di realizzare il fine che gli è proprio. Quando l’uomo
perde di vista il proprio fine, tende a diventare ciò che non è: tende verso il
vuoto, è risucchiato dal nulla. Il nichilismo è l’esito inevitabile della
negazione della legge naturale.
Il nichilismo non è una mèta dichiarata è un esito, un risultato. E’ la
conseguenza teorica e pratica non della negazione dell’essere, ma della
negazione del fine, che è anche la negazione della causa, perché il fine è il
principio, la causa da cui tutto proviene e a cui tutto è ordinato. Il nucleo
teoretico ed esistenziale del nichilismo secondo il padre Cornelio Fabro è la mancanza di uno scopo, di un fine: manca la risposta alla domanda del
“perché”.
Nella mente del bambino in cui si dischiude la
ragione, affiorano le prime domande, espresse dalla parola perché. C’è una
profonda umiltà in questo domandarsi il perché di ogni cosa: questa domanda esprime in maniera spontanea e irriflessa la constatazione che il mondo
non è una costruzione del nostro io, ma una realtà oggettiva a cui
l’intelligenza deve sottomettersi. Nel bambino una innocenza quasi angelica
convive con una logica implacabile. Il suo perché proclama che “tutto ciò che esiste ha un fine, ha una causa, ha un significato. Tutto ciò
che esiste ha un significato: in questa formula si racchiude il
segreto dell’universo. Tutto ciò che esiste ha un senso, ha una ragione
d’essere, ha un significato, in una
parola, è ordinato: l’universo è armonia, ordine non incrinato neppure dalla
presenza del male, dall’azione del demonio.
Il bene dell’uomo, della società e della storia
consiste nel sottomettersi e ordinarsi alla propria causa e al proprio fine,
cioè nel riconoscere Dio come Creatore e come legislatore supremo, nel tendere
verso di lui, nel lottare per affermare la sua sovranità nella storia e nella
società. Il primo nome di Dio è l’Essere perché solo Lui è
l’Essere per essenza, l’Atto di Essere allo stato puro, colui che non ha limiti nel tempo né confini nello spazio:
l’infinito, l’eterno, l’immenso. Tutto ciò che esiste, esiste perché ha un
grado di essere. Ogni perfezione della realtà si riduce ad un grado di essere,
che rimanda ad un Essere assoluto, senza limiti e senza condizioni.
L’unica alternativa alla Rivoluzione nichilista che ci aggredisce è il
ritrovamento della pienezza dell’Essere, in tutte le sue forme, che è anche il
ritrovamento della stabilità e dell’equilibrio interiore e dell’ordine politico
e sociale. Alla concezione liquida del mondo, fondata sul primato del divenire,
dobbiamo contrapporre una visione assiologica dell’universo, fondata sul
primato dell’Essere.
L’assiologia è la scienza dei valori. Il valore è propriamente “ciò per cui
una cosa vale”. Il valore è dunque ciò che dà significato alla cosa è, in certo
senso, il suo significato. In questo senso il valore scaturisce dall’essere
stesso della cosa, è il significato più profondo della realtà, il fine che le è
proprio, la perfezione della realtà. I valori sono principi che radicano la
propria perfezione nel principio supremo di tutto il reale. Al di sopra di
tutti i princìpi c’è un principio universale, centro e sorgente di tutte le
leggi, senza alcuna eccezione. E’ Dio, il principio primo, la legge eterna,
senza principio, senza mutamento, senza fine, su cui si fondano i princìpi
ultimi, i valori assoluti, le verità universali.
La vita e la morte dei valori non è legata alla loro accettazione o al loro
rifiuto da parte dell’uomo. Essi non sono mai in crisi; vivono anche nella
coscienza di chi li rifiuta. I valori autentici sono metastorici, perché non
sono un prodotto della coscienza e della storia, si situano al di fuori della
storia, la giudicano e non sono giudicati da essa; sono
trascendenti e non immanenti il mondo; sono permanenti, perché non mutano; sono
universali, perchè sono validi per ogni uomo, in ogni epoca dell’umanità.
O esistono dei valori, dei princìpi,
delle verità che trascendono la storia e la giudicano, oppure questi valori non
sono assoluti, ma relativi, prodotti dal divenire storico che è parte della più
ampia evoluzione del cosmo. Alla visione assiologica si contrappone ua visione
evolutiva che oggi è penetrata all’interno del mondo ecclesiastico. Il
cardinale Martini l’ha espresso quando ha affermato che la Chiesa è duecento
anni indietro alla storia. La Chiesa dunque non giudicherebbe la storia e il mondo, ma riceverebbe
da esso e non da Gesù Cristo la sua verità, il suo criterio di giudizio.
La Chiesa è stata fondata da Gesù Cristo per annunciare la sua verità al
mondo e convertirlo. Essa ha una dottrina e una legge, assoluta e immutabile,
riflesso della legge eterna, che è Dio. Questa dottrina e questa legge sono
contenute nella Sacra Scrittura e nella Tradizione e il Magistero ha la
missione di custodirla e di trasmetterla. Neppure uno iota di questi princìpi
può essere mutato. Nel corso della storia è capitato che i cristiani nella loro
vita personale si allontanassero dalle verità e dai precetti della Chiesa. Sono
le epoche di decadenza, che esigono una profonda riforma, overo un ritorno
all’osservanza dei princìpi abbandonati. Se così non accade, c’è la tentazione
di trasformare i comportamenti immorali
in principi opposti alle verità cristiane- Questa tentazione è penetrata nella
Chiesa e ci viene proposta attraverso la formula della prassi pastorale. La
dottrina della Chiesa – ci viene detto – non cambia: cambia il modo con cui
questa dottrina ci vene comunicata; cambia la prassi pastorale. La dottrina della Chiesa - lQuesta tentazione è penetrata oggi nellaQuesta tesi è implicita nella Gaudium et spes ed è in nuce nel discorso Gaudet mater Ecclesiae, con cui l’11
ottobre 1962 Giovanni XXIII inaugurò il Concilio Vaticano II. In quel solenne
discorso Giovanni XXIII attribuì al Concilio che si apriva una nota specifica:
la sua pastoralità. Nel Vaticano II la pastoralità non fu solo la naturale
esplicazione del contenuto dogmatico del Concilio e la applicazione dei suoi
decreti, come era sempre stato. La “pastoralità” fu invece elevata a principio
alternativo alla “dogmaticità. La specificità del concilio Vaticano II è stato il primato della pastorale,
sulla dottrina, l’assorbimento della dottrina nella pastorale, la
trasformazione della pastorale in ideologia. Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro hanno
descritto questo processo in La Bella
addormentata ed Enrico Maria Radaelli in Il domani del dogma.
C’è una verità indiscutibile: le idee hanno
conseguenze. Le idee non vivono in un olimpo celeste, ma hanno un
rapporto stretto e diretto con la realtà. Le idee generano fatti. I grandi
eventi storici sono conseguenze di idee. Non si può spiegare la Rivoluzione
francese senza l’Illuminismo o la Rivoluzione russa senza le opere teoriche di
Marx e di Lenin. Tuttavia, se è vero che le idee hanno conseguenze sul piano
dei fatti, è vero anche il contrario. I fatti producono conseguenze sul piano
delle idee. La Rivoluzione francese è un fatto storico che discende
dall’illuminismo, ma è a sua volta causa di nuove idee e di nuovi fatti. Il
mondo si cambia con le idee e con i fatti e, come ha intuito Plinio Correa de
Oliveira, dietro le idee e i fatti ci sono le tendenze profonde dell’animo
umano, i sentimenti e le passioni.
La filosofia tradizionale, a partire da
Aristotele, ha sempre affermato il primato delle idee sui fatti, della
contemplazione sull’azione, della teoria sulla prassi. Ma la filosofia
tradizionale, mentre affermava il principio secondo cui agere sequitur esse, non ha ignorato l’influenza dell’agire
sull’essere, della prassi sulla teoria.
La frase con cui Paul Bourget
conclude il suo romanzo Le démon
du midi lo esprime bene: “Bisogna
vivere come si pensa se non si vuole finire di pensare come si vive”. Bourget afferma il primato della conoscenza, perché bisogna conformare la
vita alle idee; ma nello stesso tempo sottolinea la capacità che ha la vita di
influenzare e perfino di capovolgere le idee. Se la vita contraddice il
pensiero, lo trasformerà profondamente.
Ciò vale nella vita degli uomini, ma anche nella vita dei popoli e nella
stessa vita della Chiesa. Possiamo citare un esempio illuminante.
Nei primi cinque secoli, la Chiesa di Occidente e quella di Oriente
professarono l’indissolubilità del matrimonio, senza eccezioni. Ma nel VI
secolo, mentre la Chiesa di Roma contrappone la sua dottrina matrimoniale alle
pratiche dei popoli barbarici che invadevano l’Occidente, il Patriarchi di
Costantinopoli assumono un atteggiamento remissivo nei confronti di Giustiniano
e dei suoi successori, che introducono il divorzio nelle leggi civili
dell’Impero. In una prima fase storica la Chiesa d’Oriente continuò a
professare l’indissolubilità, ma cessò di applicare i canoni disciplinari
contro chi la trasgrediva. La Chiesa di Costantinopoli tollera nei fatti ciò
che condanna sul piano dei princìpi. La
prassi pastorale iniziò a divenire una regola, finché, dopo lo scisma
d’Oriente del 1054, il patriarca Alessio e i suoi successori elevarono questa
prassi a principio, legittimando ufficialmente il divorzio.
In quegli anni il divorzio è prassi anche in Occidente, in seguito alla
grave crisi morale in cui è immersa la Chiesa. Ma mentre in Oriente la Chiesa
asseconda la decadenza morale, in Occidente parte da Cluny una profonda riforma
morale che avrà il suo campione in san Gregorio VII. San Gregorio VII, san Pier Damiani e i monaci
di Cluny reagiscono con vigore contro il divorzio, la simonia, il concubinati
dei preti, avviando una profonda rinascita morale della società.
La Chiesa d’Oriente, nel corso dei secoli, ha adeguato i suoi principi alla
prassi, la Chiesa romana ha conformato la prassi ai princìpi.
Che cosa accade quando si propone di mutare la prassi pastorale senza
toccare i princìpi? Accade che la prassi contraddice di fatto la dottrina e
questa contraddizione tra la vita e la verità porta inesorabilmente alla
alterazione della verità, alla trasformazione della dottrina non per via
dogmatica, dall’alto, ma per via fattuale, dal basso. E’ quanto ha proposto il
card. Kasper a tutta la Chiesa, nel suo rapporto introduttivo al Concistoro
straordinario sulla famiglia del 20 febbraio.
Con il suo testo Kasper ha proposto al Sinodo dei vescovi e al Papa di
legittimare sul piano canonico e dottrinale la prassi diffusa dell’amministrazione
della comunione ai divorziati risposati, con la logica conseguenza del
riconoscimento delle loro seconde o terze nozze. Tutto il suo discorso è
costruito sull'assunto secondo cui “tra la dottrina della Chiesa sul
matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è
creato un abisso”.
Da una parte la dottrina della chiesa che proclama l’indissolubilità del
matrimonio, dall’altra non il comportamento, si badi, ma le convinzioni
vissute; convinzioni, cioè idee, che però nascono da una pratica che
contraddice la dottrina della Chiesa: La vita vissuta, la prassi, diviene il
metro di valore e poiché la vita di molti cristiani è immersa nel peccato, al
punto che oggi non lo si ritiene più tale, la Chiesa dovrà adeguare la sua
dottrina a queste convinzioni vissute, a questa prassi morale.
Il
card. Kasper, nella sua relazione, non si è chiesto come è nata e come si è
sviluppata, negli ultimi decenni, questa prassi antitetica alla dottrina della
Chiesa; non si è domandato quali sono le
idee che l’hanno provocata e gli uomini che l’hanno promossa. Egli riduce la
storia a un flusso impersonale di eventi e sembra credere che nel rapporto
antagonistico tra la Chiesa e la società, la Chiesa debba inseguire le
trasformazioni della società secolarizzata, piuttosto che cercare di
convertirla.
L’ideale di una società integralmente
cristiana è abbandonata, perché la fede, privata dei suoi preamboli razionali è
ridotta a lievito sentimentale di un
mondo che si auto-costruisce indipendentemente dalla filosofia del Vangelo. Il
ruolo della Chiesa è dunque di benedire tutto ciò che emerge dalla realtà
sociologica, a cominciare dalle convivenze extramatrimoniali. Il
pastore-sociologo riduce le concezioni del mondo a espressioni della situazione
storico-sociale. E’ la vision di chi afferma il primate della prassi sulla
dottrina, del divenire sull’essere, dell’azione sulla contemplazione.
Trasponendo sul piano religioso la II tesi di Marx su Feuerbach dovremmo
affermare che è nella prassi pastorale che i vescovi e i teologi devono
verificare la verità della loro dottrina, perché il compito dei pastori e dei
teologi non è di insegnare la dottrina, ma di adeguarla al mondo, non è di
insegnare la verità, ma di apprenderla dalla storia.
La Tradizione nella Chiesa
A questa visione del mondo prassista e sociologista dobbiamo contrapporre
una visione del mondo assiologica. Questa visione del mondo è racchiusa nella
parola Tradizione.
La tradizione è lo sviluppo ordinato, nel tempo, di un principio o di un
nucleo di princìpi che in quanto tali sono immutabili, non possono mutare.
La
Tradizione nella Chiesa è, come la Sacra Scrittura, una fonte della
Rivelazione, divinamente assistita dallo Spirito Santo. La
Tradizione è la Parola di Gesù Cristo che insegnò ai suoi Apostoli prima e dopo
la sua Passione, morte e Risurrezione.
Nei 40 giorni tra la Risurrezione e la Ascensione egli apparve spesso a sua
Madre e agli apostoli e chiarì bene, fin nei dettagli, il senso della missione
della Chiesa da lui fondata, il significato profondo dell’ultima Cena, il
significato del Divin Sacrificio che essi avrebbero dovuto perpetuare. La prima
Messa, celebrata da san Pietro, seguì meticolosamente le indicazioni di Cristo
e fu ritrasmessa da quel rito che chiamiamo tradizionale.
Sappiamo che la Divina Rivelazione si concluse con morte dell’ultimo
apostolo San Giovanni. Ma questa Rivelazione non è contenuta solo nei quattro
Vangeli e nella Sacra Scrittura, ma anche negli insegnamenti che gli Apostoli
ricevettero dalla bocca stessa di Gesù. Si può immaginare fino a che punto la
Madonna conservò, memorizzò nel suo Cuore purissimo tutte queste veritàe questi
riti e con quanta fedeltà li trasmise
poi agli Apostoli. E san Giovanni non fu solo l’ultimo a ritrasmettere di
persona le parole che aveva udito, ma per la sua intimità con la Madonna, fu
forse quello che ebbe in maggior misura la luce della Tradizione. Morì alla
fine del I secolo e già pochi anni dopo la sua morte, la lex orandi e la lex credendi
della Chiesa erano immutabilmente definite.
La Chiesa nel corso dei secoli avebbe esplicitato, chiarito e definito
queste verità, ma non le avrebbe mai innovate o trasformate. La missione della
Chiesa è custodire, trasmettere e difendere la Tradizione:
Il sensus fidei che abbiamo
ricevuto col sacramento del battesimo ci impone la fedeltà a quella Tradizione
che solo i Pastori hanno il diritto di chiarire e di insegnare, ma che tutti i
battezzati hanno il diritto di custodire e di trasmettere come l'hanno
ricevuta.
La Tradizione non è solo la regula
fidei della Chiesa, è anche il fondamento della società. La Chiesa infatti
è maestra non solo di fede, ma anche di morale. La morale di una società si
esprime in usi, costumi, abitudini, in una parola in una tradizione storica e
concreta, che riflette quella divina e naturale. Una Tradizione che è giudizio
sulla storia in nome non della storia stessa ma di verità che la trascendono.
La tradizione storica è rappresentata dai costumi di un popolo che non sono
altro che le disposizioni morali di una società. Questa tradizione è custodita
dalle famiglie, dalle élites sociali, da chiunque ne senta riecheggiare la voce
nel cuore. Abbimo bisogno di uomini della Tradizione, di cattolici inegri e
integrali nella vita e nella dottrina e, con l’aiuto di dio, abbiamo bisogno di
santi. Abbiamo bisogno di protettori in Cielo.
Abbiamo bisogno di protettori della Tradizione e tra i possibili patroni,
vorrei ricordare santa Teresa la Grande. Quella santa Teresa che diceva che
avrebbe dato la vita per la più piccola cerimonia della Chiesa. Quante vite
avrebbe dato, quanto sangue avrebbe versato santa Teresa, di fronte alla
devastazione degli altari, alla eversione dei riti, al seppellimento delle
cerimonie nel clima di furore iconoclasta e di odio alla tradizione che ci
circonda?
Santa Teresa scriveva
anche delle parole che ci devono confortare nei giorni difficili della nostra
vita e della nostra storia.
"Nulla ti turbi, nulla ti
spaventi. Chi ha Dio di nulla manca. Tutto passa, solo Dio non muta” .
Queste parole sono un manifesto della Tradizione.
Ebbene, la frase di Santa Teresa, solo Dio non muta, significa che solo ciò
che riflette la legge naturale e divina vive e merita di vivere nella storia;
ciò che è innaturale, ciò che si allontana dall’ordine divino è destinato a
cadere e a corrompersi.
In questo mondo, che si tratti della vita morale o della vita fisica, ci
sono le cose che passano e le cose che restano. La Tradizione è l’elemento
incorruttibile immutabile della società.
La Tradizione è ciò che non passa. E solo nella Tradizione è possibile il
progresso, perché noi non possiamo progredire e perfezionarci nelle cose che
passano, ma possiamo farlo solo in quelle che restano. La Tradizione è ciò che
del passato vive nel presente ciò che deve vivere perché il nostro presente
abbia un futuro.
Robespierre nel suo odio distruttore di ogni Tradizione diceva “Cosa c’è di comune tra ciò che è e ciò che
fu?”. Noi rispondiamo che se nulla ci fosse di comune tra ciò che è e ciò
che fu, tra il presente e il passato, non sarebbe possibile né presente né
futuro, ma il presente sarebbe destinato ad essere inghiottito nel nulla,
perché tutto ciò che è trae la sua origine da un principio, ogni frutto ha un
albero e ogni albero ha una radice. E la radice ultima di tutto ciò che è e di
ciò che sarà, è Dio stesso, in cui passato, presente e futuro, si fondano in
unico infinito atto di essere.
Il cuore della tradizione è in Dio stesso, essere per essenza, immutabile
eterno. E' in Dio, e solo in Lui, e in Colei che di Lui è l’eco perfetta, la
Santissima Vergine Maria, che i difensori della fede e della Tradizione possono
trovare la forza soprannaturale necessaria ad affrontare il nostro tempo di
crisi. La Tradizione è ciò che è stabile nel perenne divenire delle cose, è ciò
che è immutabile nel mondo che muta, e lo è perché ha in sé un riflesso di
eternità
E' per questo che le parole di Santa Teresa risuonano nei nostri cuori come
un manifesto, un motto della Tradizione:"Tutto passa, solo Dio non muta".
Sì, solo Dio non muta, solo ciò che in Dio si fonda e si riposa merita di
essere conservato, trasmesso, custodito. E nell’epoca di Rivoluzione attuale,
dove potrebbero gli uomini e i popoli cercare la stabilità e la pace se non in
Colui che ha detto. “Il Cielo e la terra
passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mc, 13, 31).
tratto da:
http://santantoniolinarolo.blogspot.it/2014/05/1-maggio-relazioni.html