Pubblichiamo dopo Chiesa e post Concilio anche noi il paragrafo 15, che riepiloga la questione liturgica, della magistrale analisi della Lumen Fidei, di Enrico Maria Radaelli, dal sito Aurea Domus, dove è possibile consultarla nella sua versione integrale.
Siamo sempre più convinti che dalla presente e sempre più evidente crisi della Chiesa in tutte le sue espressioni si uscirà solo per mezzo (e sarebbe l'ipotesi meno traumatica, ma umanamente improbabilissima) o con il ripristino (dopo un trauma universale) del Rito Romano Tradizionale.
15. LEX MINUS CREDENDI, LEX MINUS ORANDI.
LA CHIESA, FORZATA DA CINQUANT’ANNI A FARE
MENO VERITÀ, MENO BELLEZZA, MENO ADORAZIONE.
Non si può tralasciare poi di accennare, se pur sommariamente, a quanto tutto questo processo “dedogmatizzante”, cui porta la prima Enciclica di Papa Francesco (o Benedetto XVI?), dia un contributo forte e incisivo di analogo processo decisamente “deadorante” nel Rito liturgico: si sa che lex credendi, lex orandi, ossia: “come si crede si prega”, e infatti il persistente dimezzamento della tonalità autoritativa di magistero e il rovesciamento della corretta teologia da deiforme ad antropocentrica di cui esso è veicolo, qui ora visti col ribaltamento della “teologia dell’Annuncio” in “teologia dell’Incontro”, naturale conseguenza della sopravista « dislocazione della divina Monotriade », portano a una ricaduta diretta sul modus orandi, accentuando il rinsecchimento della già decaduta adorazione attuale, dovuta tutta al Novus Ordo Missæ.
Del tema, nei suoi termini generali, parlo in diversi miei lavori (specie in RADAELLI 2007, 2011 e 2013), ma non si può non ostensire anche qui l’insistenza fuori luogo – e fuori legge divina, o ius divinum – con cui l’attuale magistero novatore astringe fino a proibizione de facto, anche dopo il Motu proprio Summorum Pontificum, la celebrazione del Rito Perenne detto ‘di san Pio V’, o Tridentino, o Gregoriano, oggi molto impropriamente e volutamente detto ‘Extraordinario’, ossia il Rito che veniva serenamente celebrato in tutto l’orbe cattolico fino al Vaticano II compreso.
La “dedogmatizzazione”, unita alla conseguente “deadorazione”, non è altro che la trasformazione del ferro in argilla, della pietra in sabbia, un’apertura delle Porte di bronzo attraverso cui possa meglio infiltrarsi nella Chiesa il « fumo di satana » di cui si avvide anche Paolo VI, principale artefice di quelle trasformazioni e di quell’apertura.
Va fatta chiarezza: tale Rito è – e non può non essere, come pure sempre è stato e sempre sarà – per diritto di istituzione divina il Rito Ordinario – l’unico Rito Ordinario – di santa Romana Chiesa.
Di ‘istituzione divina’, si è detto, la cui pienezza e solidità dogmatica non pochi e santi Papi (san Damaso, san Gregorio Magno, san Pio V, per dire solo i più celebri) contribuirono a far risplendere e a fortificare, ma i loro interventi ecclesiastici restarono sempre estremamente rispettosi dell’intangibilità assoluta, in ogni sua parte, del nucleo sostanziale di Rito essenzialmente divino: divino nella sostanza soprannaturale e miracolosa, divino nella forma sacrificale-propiziatoria, divino nel linguaggio misterico-universale.
Paolo VI, con l’istituzione del suo Novus Ordo, sapendo di non poter abrogare il Rito Perenne, lo proibì però per tutto l’orbe, così “obrogandolo”, direbbe Cicerone, ossia abrogandolo de facto non potendolo abrogare de iure; ma, così facendo, non solo compì un atto che non gli era permesso, dunque dittatoriale, inammissibile, ma anche si smentì, perché contemporaneamente insisteva nel sostenere che la sua artificiale costruzione (così anche il cardinale Ratzinger nella sua Premessa a GAMBER 1992) fosse la naturale trasformazione del Vetus Ordo secondo le esigenze moderne. Ma come si fa a proibire ciò che si dice star proseguendo?
Il fatto è che invece, in primo luogo tale celebrazione non può essere in alcun modo e da nessuno essere abrogata; in secondo, non può essere in alcun modo e da nessuno nemmeno obrogata; in terzo poi essa dev’essere invece, piuttosto, positivamente e con ogni mezzo, sia imperativo che sollecitativo ed educativo, da tutti i Pastori dell’Orbe celebrata e fatta celebrare cum populo, nella Chiesa, quale Rito la cui forma è sicuramente, fortemente e in ogni sua parte sempre appoggiata al dogma come nessun’altra mai potrebbe (v. BACCI-OTTAVIANI 1969).
Contro lo ius divinum, oltre il Novus Ordo si schierarono prima l’Instructiones de Constitutione (14-6-1971) in cui si disponeva che « in tutti i Paesi “dal giorno in cui i testi tradotti [del nuovo Messale] saranno usati per le celebrazioni in lingua vernacolare, sarà permessa solo la forma riveduta della Messa e [del Breviario], anche per coloro che continuano ad usare il Latino », poi la Notifica Conferentia Episcopalium (28-10-1974), dove si richiede che i vescovi di tutto il mondo debbono assicurarsi che tutti i sacerdoti e fedeli di Rito Romano, « nonostante il pretesto [sic!] di una qualche consuetudine, anche di lunga data, accettino rigorosamente l’Ordinario della Messa nel Messale Romano »; la sacra Congregazione per il Culto divino pubblicò nel ’74 un’ulteriore Notifica che specificava che poteva essere celebrato solo il Novus Ordo e che il Gregoriano, invece, era proibito.
Fu una vessazione generale, il cui fine era annientare il Rito celebrato per duemila anni (persino dai quasi 2.500 Padri del Vaticano II): tra il Vetus Ordo e il Novus, nessuno doveva più poter confrontare tra loro i due Riti, anche perché Papa Paolo VI si era autoconvinto che quello steso a tavolino (così più volte anche il card. Ratzinger, in RATZINGER 1992 e 2001) non fosse altro che la naturale continuazione del Perenne, e che dunque di Riti ce ne fosse solo uno. Ma allora, se fosse stato realmente così, perché proibirlo? I Papi san Damaso, san Gregorio, san Pio V, e tutti gli altri che apportarono abbellimenti e rinforzi liturgico-dogmatici, mai si sognarono di proibire la celebrazione del Rito Perenne nelle forme in cui di volta in volta lo avevano trovato, perché era naturale per tutti i sacerdoti della Chiesa adeguarsi a tali naturali abbellimenti e rinforzi che non raddoppiavano il Rito, ma lo maggioravano in fede, in bellezza e in adorazione (Papa Ghisleri proibì unicamente i riti che, non superando i 200 anni di consuetudo celebrationis, non garantivano la loro assimilazione al Perenne, dunque si trattava di un divieto il cui fine era esattamente l’opposto di quello di Papa Montini).
Che il Rito perenne non possa essere né abrogato né obrogato – e ciò sia nella celebrazione sine populo che anche e specialmente cum populo – è convinzione comune, valga per tutte quella del noto liturgista Klaus Gamber, che nel suo La riforma della liturgia romana (GAMBER 1979) osserva: « Nessun documento della Chiesa, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale. […] Di certo non è compito della Sede Apostolica distruggere un Rito di Tradizione apostolica, ma suo dovere è quello di mantenerlo e tramandarlo ».
Anche il cardinale Ratzinger prende posizione, se pur come dottore privato: « Dopo il concilio Vaticano II si è ingenerata l’impressione che il papa potesse fare qualunque cosa in materia liturgica, soprattutto se agiva su incarico di un concilio ecumenico. È accaduto così che l’idea della liturgia come qualcosa che ci precede e che non può essere “fatta” a proprio arbitrio sia andata ampiamente perduta nella coscienza diffusa dell’Occidente », e già qui si può notare una larvata ma chiara critica all’operato montiniano, « Difatti però – prosegue –, il concilio Vaticano I non ha per nulla inteso definire il papa come un monarca assoluto, ma, al contrario, come il garante dell’obbedienza alla parola tramandata: la sua potestà è legata alla tradizione della fede e questo vale anche nel campo della liturgia. […] Anche il papa può essere solo umile servitore del suo giusto sviluppo e della sua permanente integrità e identità » (Ratzinger 2001, p. 162).
Insomma, in parole povere: SEMPER lex plus adorandi, UNQUAM lex minus adorandi, sempre una legge più adorante, mai una legge meno adorante.
Il Motu proprio Summorum Pontificum non modificò tale situazione di – bisogna pur dirlo – dittatoriale e deadorante brutalità se non apparentemente: già il fatto di indicare come ‘ordinario’ un Rito che al massimo potrebbe assurgere a ‘straordinario’, e viceversa ‘straordinario’ il Rito che divina natura sua è e non può non essere che ‘ordinario’, e nulla può spodestarlo dalla sua divina ordinarietà, dovrebbe mettere sull’avviso ogni anima che avversi con sano sentire cattolico un magistero modernista; ma poi il secondo fatto affermato, che un sacerdote abbia la libertà di celebrare il Rito Perenne (Romano, Ambrosiano o altro che sia) unicamente sine populo, giacché altrimenti debbono essere aperte complesse procedure la cui positiva conclusione può essere in ogni momento dall’Autorità impugnata e sospesa, è cosa che ancor più giustifica ogni e più ragionevole allarme, come si è potuto vedere in ormai troppe occasioni, in cui i Pastori novatori hanno portato a una deadorazione analoga all’ecumenica loro già attuata dedogmatizzazione: primo fu il monastero benedettino di Le Barroux, poi la Fraternità San Pietro, poi Campos (dove si concelebra e si amministra la comunione anche sulla mano), poi l’Istituto Buon Pastore, ora è la volta dei Frati Francescani dell’Immacolata: in ognuna di queste realtà i modernisti hanno imposto vessazioni di ogni tipo per limitare, circoscrivere e abbruttire in ogni modo l’adorazione col Vetus Ordo, imponendo regole cui la coscienza cattolica dovrebbe ribellarsi e cui di fatto si ribella, rimanendo però con le mani legate dall’obbedienza.
Obbedire bisogna, pena la caduta della virtù necessaria al cattolicesimo (e anche le più gravi sanzioni canoniche).
La “dedogmatizzazione”, unita alla conseguente “deadorazione”, non è altro che la trasformazione del ferro in argilla, della pietra in sabbia, un’apertura delle Porte di bronzo attraverso cui possa meglio infiltrarsi nella Chiesa il « fumo di satana » di cui si avvide anche Paolo VI, principale artefice di quelle trasformazioni e di quell’apertura.
Va fatta chiarezza: tale Rito è – e non può non essere, come pure sempre è stato e sempre sarà – per diritto di istituzione divina il Rito Ordinario – l’unico Rito Ordinario – di santa Romana Chiesa.
Di ‘istituzione divina’, si è detto, la cui pienezza e solidità dogmatica non pochi e santi Papi (san Damaso, san Gregorio Magno, san Pio V, per dire solo i più celebri) contribuirono a far risplendere e a fortificare, ma i loro interventi ecclesiastici restarono sempre estremamente rispettosi dell’intangibilità assoluta, in ogni sua parte, del nucleo sostanziale di Rito essenzialmente divino: divino nella sostanza soprannaturale e miracolosa, divino nella forma sacrificale-propiziatoria, divino nel linguaggio misterico-universale.
Paolo VI, con l’istituzione del suo Novus Ordo, sapendo di non poter abrogare il Rito Perenne, lo proibì però per tutto l’orbe, così “obrogandolo”, direbbe Cicerone, ossia abrogandolo de facto non potendolo abrogare de iure; ma, così facendo, non solo compì un atto che non gli era permesso, dunque dittatoriale, inammissibile, ma anche si smentì, perché contemporaneamente insisteva nel sostenere che la sua artificiale costruzione (così anche il cardinale Ratzinger nella sua Premessa a GAMBER 1992) fosse la naturale trasformazione del Vetus Ordo secondo le esigenze moderne. Ma come si fa a proibire ciò che si dice star proseguendo?
Il fatto è che invece, in primo luogo tale celebrazione non può essere in alcun modo e da nessuno essere abrogata; in secondo, non può essere in alcun modo e da nessuno nemmeno obrogata; in terzo poi essa dev’essere invece, piuttosto, positivamente e con ogni mezzo, sia imperativo che sollecitativo ed educativo, da tutti i Pastori dell’Orbe celebrata e fatta celebrare cum populo, nella Chiesa, quale Rito la cui forma è sicuramente, fortemente e in ogni sua parte sempre appoggiata al dogma come nessun’altra mai potrebbe (v. BACCI-OTTAVIANI 1969).
Contro lo ius divinum, oltre il Novus Ordo si schierarono prima l’Instructiones de Constitutione (14-6-1971) in cui si disponeva che « in tutti i Paesi “dal giorno in cui i testi tradotti [del nuovo Messale] saranno usati per le celebrazioni in lingua vernacolare, sarà permessa solo la forma riveduta della Messa e [del Breviario], anche per coloro che continuano ad usare il Latino », poi la Notifica Conferentia Episcopalium (28-10-1974), dove si richiede che i vescovi di tutto il mondo debbono assicurarsi che tutti i sacerdoti e fedeli di Rito Romano, « nonostante il pretesto [sic!] di una qualche consuetudine, anche di lunga data, accettino rigorosamente l’Ordinario della Messa nel Messale Romano »; la sacra Congregazione per il Culto divino pubblicò nel ’74 un’ulteriore Notifica che specificava che poteva essere celebrato solo il Novus Ordo e che il Gregoriano, invece, era proibito.
Fu una vessazione generale, il cui fine era annientare il Rito celebrato per duemila anni (persino dai quasi 2.500 Padri del Vaticano II): tra il Vetus Ordo e il Novus, nessuno doveva più poter confrontare tra loro i due Riti, anche perché Papa Paolo VI si era autoconvinto che quello steso a tavolino (così più volte anche il card. Ratzinger, in RATZINGER 1992 e 2001) non fosse altro che la naturale continuazione del Perenne, e che dunque di Riti ce ne fosse solo uno. Ma allora, se fosse stato realmente così, perché proibirlo? I Papi san Damaso, san Gregorio, san Pio V, e tutti gli altri che apportarono abbellimenti e rinforzi liturgico-dogmatici, mai si sognarono di proibire la celebrazione del Rito Perenne nelle forme in cui di volta in volta lo avevano trovato, perché era naturale per tutti i sacerdoti della Chiesa adeguarsi a tali naturali abbellimenti e rinforzi che non raddoppiavano il Rito, ma lo maggioravano in fede, in bellezza e in adorazione (Papa Ghisleri proibì unicamente i riti che, non superando i 200 anni di consuetudo celebrationis, non garantivano la loro assimilazione al Perenne, dunque si trattava di un divieto il cui fine era esattamente l’opposto di quello di Papa Montini).
Che il Rito perenne non possa essere né abrogato né obrogato – e ciò sia nella celebrazione sine populo che anche e specialmente cum populo – è convinzione comune, valga per tutte quella del noto liturgista Klaus Gamber, che nel suo La riforma della liturgia romana (GAMBER 1979) osserva: « Nessun documento della Chiesa, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale. […] Di certo non è compito della Sede Apostolica distruggere un Rito di Tradizione apostolica, ma suo dovere è quello di mantenerlo e tramandarlo ».
Anche il cardinale Ratzinger prende posizione, se pur come dottore privato: « Dopo il concilio Vaticano II si è ingenerata l’impressione che il papa potesse fare qualunque cosa in materia liturgica, soprattutto se agiva su incarico di un concilio ecumenico. È accaduto così che l’idea della liturgia come qualcosa che ci precede e che non può essere “fatta” a proprio arbitrio sia andata ampiamente perduta nella coscienza diffusa dell’Occidente », e già qui si può notare una larvata ma chiara critica all’operato montiniano, « Difatti però – prosegue –, il concilio Vaticano I non ha per nulla inteso definire il papa come un monarca assoluto, ma, al contrario, come il garante dell’obbedienza alla parola tramandata: la sua potestà è legata alla tradizione della fede e questo vale anche nel campo della liturgia. […] Anche il papa può essere solo umile servitore del suo giusto sviluppo e della sua permanente integrità e identità » (Ratzinger 2001, p. 162).
Insomma, in parole povere: SEMPER lex plus adorandi, UNQUAM lex minus adorandi, sempre una legge più adorante, mai una legge meno adorante.
Il Motu proprio Summorum Pontificum non modificò tale situazione di – bisogna pur dirlo – dittatoriale e deadorante brutalità se non apparentemente: già il fatto di indicare come ‘ordinario’ un Rito che al massimo potrebbe assurgere a ‘straordinario’, e viceversa ‘straordinario’ il Rito che divina natura sua è e non può non essere che ‘ordinario’, e nulla può spodestarlo dalla sua divina ordinarietà, dovrebbe mettere sull’avviso ogni anima che avversi con sano sentire cattolico un magistero modernista; ma poi il secondo fatto affermato, che un sacerdote abbia la libertà di celebrare il Rito Perenne (Romano, Ambrosiano o altro che sia) unicamente sine populo, giacché altrimenti debbono essere aperte complesse procedure la cui positiva conclusione può essere in ogni momento dall’Autorità impugnata e sospesa, è cosa che ancor più giustifica ogni e più ragionevole allarme, come si è potuto vedere in ormai troppe occasioni, in cui i Pastori novatori hanno portato a una deadorazione analoga all’ecumenica loro già attuata dedogmatizzazione: primo fu il monastero benedettino di Le Barroux, poi la Fraternità San Pietro, poi Campos (dove si concelebra e si amministra la comunione anche sulla mano), poi l’Istituto Buon Pastore, ora è la volta dei Frati Francescani dell’Immacolata: in ognuna di queste realtà i modernisti hanno imposto vessazioni di ogni tipo per limitare, circoscrivere e abbruttire in ogni modo l’adorazione col Vetus Ordo, imponendo regole cui la coscienza cattolica dovrebbe ribellarsi e cui di fatto si ribella, rimanendo però con le mani legate dall’obbedienza.
Obbedire bisogna, pena la caduta della virtù necessaria al cattolicesimo (e anche le più gravi sanzioni canoniche).
E allora come si fa? Come suggerisco ancora dal tempo de Il Mistero della Sinagoga bendata (v. RADAELLI 2002), la strada è indicata da san Tommaso: è quella della ragione e della “correzione fraterna” (v. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II 33), è la via misericordiosa della dimostrazione insistente e documentata dell’inalienabilità del Rito Perenne, sine populo o cum populo che sia, per via della sua origine apostolica, il cui livello divino è superiore a ogni legge ecclesiastica, e tale natura preserva e garantisce – e deve preservare e garantire in ogni situazione e momento – chiunque voglia servirsene, giacché chi si appella al diritto divino, allo ius divinum, si appella a ciò da cui ogni altro diritto – canonico compreso – riceve i suoi munera.
La resistenza dovrebbe fondarsi in specie sul concetto, da far rilevare al massimo, che il diritto divino cui ci si appella è il medesimo su cui è costituito quell’Ordine sacerdotale che conferisce ai Pastori il munus sanctificandi, il potere cioè di celebrare i divini Misteri. La medesima radice deve ricordare a tutti che non ci si può allontanare da essa senza pregiudizio, perché la medesima radice lega l’Ordine al Sacrificio come l’effetto alla causa e dunque una modificazione della causa porterebbe a una medesima modificazione sull’effetto.
La resistenza dovrebbe fondarsi in specie sul concetto, da far rilevare al massimo, che il diritto divino cui ci si appella è il medesimo su cui è costituito quell’Ordine sacerdotale che conferisce ai Pastori il munus sanctificandi, il potere cioè di celebrare i divini Misteri. La medesima radice deve ricordare a tutti che non ci si può allontanare da essa senza pregiudizio, perché la medesima radice lega l’Ordine al Sacrificio come l’effetto alla causa e dunque una modificazione della causa porterebbe a una medesima modificazione sull’effetto.
Oltre a ciò, l’obbedienza può appellarsi alla Bolla Quo primum di Papa san Pio V, mai revocata – né mai revocabile – e al motu proprio Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI, anch’esso tutt’ora legge positiva della Chiesa, per abrogare il quale un Papa dovrebbe emanare una legge di eguale livello, salvo comunque poi scontrarsi con la natura perenne e inabrogabile del Rito in se stesso, confermato dalla Bolla irreformabile Quo primum che codifica il Messale Tridentino, la quale Bolla non permette ad alcuno, fosse pure un Papa, poi in nessun modo, fosse pure l’atto più solenne di un governo papale, e in nessun tempo, fosse pure fra mille anni, di essere minimizzato, dimezzato, « dimidiato », come diceva Romano Amerio con termine plastico, perché imporre di adorare meno è, come mostro in Sacro al calor bianco. La Messa di san Pio V e la Messa di Paolo VI alla luce della Filosofia dell’Æsthetica trinitaria (RADAELLI 2008), l’atto più contro natura di tutti gli atti contro natura che l’uomo possa mai compiere.
Ma c’è un fatto che dovrebbe essere infine ricordato, superiore a ogni altro, ed è che oltre all’obbedienza giuridica si dovrebbe tutti aver presente quell’obbedienza alla verità che tutti muove: fedeli e Pastori, di cui qui si sono voluti ricordare le origini muovendosi su un territorio strettamente filosofico, obbedienza che dovrebbe facilitare la ricomposizione di ogni dissidio, nel rispetto del Bene a tutti superiore.
Una Lettera enciclica sulla Fede non può non toccare questi argomenti, almeno per la realtà posta dal vincolo “Lex credendi, lex orandi”, cui non ci si può sottrarre: la teologia che si diceva, “dell’Incontro”, con i suoi forti risvolti poi anche pseudoecumenici e protestantizzanti, si riversa e si compenetra nella liturgia comunitaria e antropocentrica – ecumenista e pseudoprotestante – di Paolo VI, e il linguaggio narrativo (tecnicamente: “epidittico”) del nuovo magistero dedogmatizzato trasuda senza soluzione di continuità nel linguaggio affabulatorio e sempre meno orante della nuova Messa, così da trasformare tristemente quell’adagio in Lex MINUS credendi, lex MINUS orandi. Ma è ammissibile tutto ciò?
Ci si rende conto che da cinquant’anni la Chiesa orante viene forzata dai suoi più alti Pastori, dal Trono più alto, a pregare meno, ad adorare meno?
Ci si rende conto che da cinquant’anni la Chiesa orante viene costretta da quei suoi più alti Pastori e da quel suo Trono più alto a celebrare con meno dogmaticità, ossia, come rilevarono nello studio sopracitato i cardinali Bacci e Ottaviani, con meno garanzie di fedeltà alle verità rivelate?
La nuova antropologia cattolica si è aperta un varco che nella prassi liturgica comunitaria esprime la nuova teorica teologica “dell’Incontro”. L’una e l’altra sono fondate su una universale quanto occultata adulterazione del reale, su quella « dislocazione della divina Monotriade » di cui si parlava, ed è proprio da lì che dovrebbe partire la resistenza all’una e all’altra, mostrando con riverenza e rispetto ai Pastori – fossero anche Sommi – che, ancora una volta, è la Fede il fatto su cui si gioca tutto. Non la carità: la Fede.
Tanto che nostro Signore chiedeva: « Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra? » (Lc 18,8): non chiedeva se avesse trovato carità, e quanta, ma fede, fede, fede.
Ma c’è un fatto che dovrebbe essere infine ricordato, superiore a ogni altro, ed è che oltre all’obbedienza giuridica si dovrebbe tutti aver presente quell’obbedienza alla verità che tutti muove: fedeli e Pastori, di cui qui si sono voluti ricordare le origini muovendosi su un territorio strettamente filosofico, obbedienza che dovrebbe facilitare la ricomposizione di ogni dissidio, nel rispetto del Bene a tutti superiore.
Una Lettera enciclica sulla Fede non può non toccare questi argomenti, almeno per la realtà posta dal vincolo “Lex credendi, lex orandi”, cui non ci si può sottrarre: la teologia che si diceva, “dell’Incontro”, con i suoi forti risvolti poi anche pseudoecumenici e protestantizzanti, si riversa e si compenetra nella liturgia comunitaria e antropocentrica – ecumenista e pseudoprotestante – di Paolo VI, e il linguaggio narrativo (tecnicamente: “epidittico”) del nuovo magistero dedogmatizzato trasuda senza soluzione di continuità nel linguaggio affabulatorio e sempre meno orante della nuova Messa, così da trasformare tristemente quell’adagio in Lex MINUS credendi, lex MINUS orandi. Ma è ammissibile tutto ciò?
Ci si rende conto che da cinquant’anni la Chiesa orante viene forzata dai suoi più alti Pastori, dal Trono più alto, a pregare meno, ad adorare meno?
Ci si rende conto che da cinquant’anni la Chiesa orante viene costretta da quei suoi più alti Pastori e da quel suo Trono più alto a celebrare con meno dogmaticità, ossia, come rilevarono nello studio sopracitato i cardinali Bacci e Ottaviani, con meno garanzie di fedeltà alle verità rivelate?
La nuova antropologia cattolica si è aperta un varco che nella prassi liturgica comunitaria esprime la nuova teorica teologica “dell’Incontro”. L’una e l’altra sono fondate su una universale quanto occultata adulterazione del reale, su quella « dislocazione della divina Monotriade » di cui si parlava, ed è proprio da lì che dovrebbe partire la resistenza all’una e all’altra, mostrando con riverenza e rispetto ai Pastori – fossero anche Sommi – che, ancora una volta, è la Fede il fatto su cui si gioca tutto. Non la carità: la Fede.
Tanto che nostro Signore chiedeva: « Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra? » (Lc 18,8): non chiedeva se avesse trovato carità, e quanta, ma fede, fede, fede.