Il beato Giovanni XXIII la definì così: “La Chiesa Santa di Dio, che vuol essere luce delle genti, ha una sua parola da dire agli uomini dell’epoca presente. Con umile fermezza, essa per la voce dei suoi pastori, uniti con Pietro, richiama i popoli alla preminenza delle cose dello spirito; invoca l’istituzione di un ordine civile e domestico più equo e più nobile, in cui tutti i figli di Dio, redenti dal Sangue di Cristo, possano vivere nell’amore reciproco, nel rispetto dei mutui diritti e doveri. La Chiesa chiama soprattutto i suoi figli a una rifioritura esemplare di virtù, nella pratica costante delle opere di misericordia e nell’esercizio volenteroso del buon esempio e dell’apostolato. È questa la novella Pentecoste, che invochiamo ardentemente dallo Spirito Santo, come frutto del Concilio Ecumenico Vaticano II.” (Udienza generale del 24 ottobre 1962).
sabato 26 maggio 2012
mercoledì 23 maggio 2012
The War of the Vendée (finalmente il dvd)
Regia e sceneggiatura: Jim Morlino
Durata: 90 min. + 60 min. di contenuti speciali
Produzione: Navis Pictures, USA 2012
Lingua: inglese
Sottotitoli: francese e spagnolo
Un film interamente dedicato alla vera storia della controrivoluzione
vandeana mancava.
Diverse pellicole negli scorsi anni, anche con protagonisti
eccellenti come il Danton di Wajda con Gerard Depardieu, hanno
considerato vari aspetti della Rivoluzione Francese ma nessuno si è occupato in
particolare della guerra che i contadini della Vandea mossero contro la
rivoluzione.
La lacuna è stata colmata ora da The War of the Vendée (La
guerra di Vandea), prodotto dalla Navis Pictures, piccola casa cinematografica
cattolica con sede a Dansbury, nel Connecticut (USA), fondata nel 2007
dall’attore e regista Jim Morlino.
La casa ha già al proprio attivo l’ottimo St. Bernadette of Lourdes
(2009), e Robin Hood, the good
spirit of Sherwood (2007), che ricostruisce la figura storica dell’arciere
alla luce della dottrina cattolica sulla giustizia sociale ed ha in programma di
realizzare film su soggetti come i Martiri cristiani, Santa Giovanna d’Arco e la
battaglia di Lepanto. I film della Navis Pictures, ovviamente, non hanno accesso
al circuito delle sale cinematografiche ma vengono distribuiti in dvd; di The War of the Vendée sono state
prodotte 5000 copie.
Il film, girato con un budget di 50.000 dollari (cifra che in una
produzione hollywoodiana non basta neppure per i cosmetici), è stato realizzato
con 250 attori non professionisti, tra i 4 e i 20 anni.
Si tratta per la maggior parte di homeschooled, cioè ragazzi
educati e formati in famiglia, che non hanno frequentato le scuole pubbliche, i
cui programmi all’insegna della politically correctness sono svolti su libri sono infarciti di
relativismo e progressismo. L’homeschooling è un fenomeno nato negli USA da diversi anni e che
si va radicando, grazie anche ad un circuito informatizzato di materiali e
supporti didattici che si avvale di docenti e di testi selezionati, e che sta
dando ottimi risultati: i ragazzi, che ogni anno devono sottoporsi agli esami da
privatisti, ottengono valutazioni scolastiche eccellenti in percentuali del
tutto sconosciute nella scuola pubblica. Le prime generazioni di homeschooled, già arrivate
all’università, stanno confermando in pieno l’alta qualità della formazione
ricevuta.
Questa corrente di reazione alle devastazioni della modernità e
post-modernità ha dato vita a molte iniziative in diversi settori, per avviare
una sorta di reconquista
culturale, tra le quali si inserisce anche la produzione audiovisiva come quella
della Navis Pictures.
Il tema scelto per The War of the Vendée offre moltissimi spunti da questo punto di
vista, poiché in Vandea la Rivoluzione francese del 1789 svelò il proprio volto.
Coloro che avevano la pretesa di agire in nome del popolo, per costruire un mondo nuovo di libertà, eguaglianza e
fraternità, compirono uno dei più sanguinosi genocidi della storia, misero
letteralmente a ferro e fuoco un’intera regione, dispersero i superstiti in ogni
angolo della Francia, pur di fermare quella Controrivoluzione che il popolo aveva iniziato in
Vandea.
I contadini vandeani, infatti, sotto la guida di un vetturino,
Jacques Cathelineau, e di un guardiacaccia, Jean-Nicolas Stofflet, avevano
imbracciato le armi contro la Rivoluzione che con la violenza, poi divenuta terrore, aveva squassato la
realtà per intronizzare l’utopia.
Al culmine del delirio rivoluzionario, quando con la decapitazione
del Re Luigi XVI (21.12.1793) fu consumato l’atto supremo e sacrilego che voleva
annientare l’ordine sociale e quello naturale - specchio dell’Ordine
soprannaturale in nome del quale i Re venivano unti – i vandeani, abituati a
misurarsi con la concretezza della vita più che con l’astrattezza
dell’ideologia, si sollevarono in difesa di un mondo che certamente non era
perfetto, ma che era a misura d’uomo, costruito in mille anni di storia ed
ereditato delle generazioni che li avevano preceduti.
La sollevazione della Vandea fu subito Controrivoluzione: quando presero le armi, quei contadini avvezzi alla vanga più che alla spada si presentarono alle residenze dei nobili locali per richiamarli al loro dovere perché si mettessero alla guida di quell’armata che aveva bisogno di capi. Il popolo chiamò i signori alle armi, per difendere e restaurare i cardini sui quali si fondava la realtà che conoscevano: Dio, il Re, la tradizione.
I Generalissimi
che risposero all’appello seppero guidare l’Armata Cattolica e Reale della
Vandea con vero eroismo. Di ciascuno di essi, Cathelineau e Stofflet e poi
Charles de Bonchamps, Louis d’Elbée, Antoine de la Trémoille principe di
Talmont, Henri de la Rochejaquelein, Louis Marie de Lescure, François Athanas de
Charette, si ricordano il coraggio militare e l’onore, espresso in gesta di
altissimo valore umano e spirituale. Nessuno di loro sopravvisse
all’impresa.
La Vandea, dopo la strage, subì la damnatio memoriae e scomparve
dai libri di storia e dalle carte geografiche; quel che rimase della popolazione
fu deportato nei diversi dipartimenti francesi perché i legami familiari e
sociali rimanessero spezzati per sempre.
Ci sono voluti duecento anni perché questa gloriosa pagina della
contro-rivoluzione ritornasse alla luce, grazie alla contestazione contro le
celebrazioni per il bicentenario del 1789. Da allora, tra studi, ricerche,
iniziative culturali e di richiamo turistico ecc., l’altra storia della
rivoluzione francese è stata raccontata in molti modi da un vasto movimento di
recupero della memoria storica, e fa capolino persino in qualche libro di
scuola.
Guarda il
trailer del film
<http://www.editorialeilgiglio.it/articles.php?lng=it&pg=1240> Leggi la scheda completa del film e guarda il trailer.
<http://www.editorialeilgiglio.it/acq/modulo.html>
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martedì 22 maggio 2012
status quaestionis liturgicae
La riforma della Liturgia Romana
di Klaus Gamber
«La Liturgia Romana è rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella sua
sobria e piuttosto austera forma risalente ai primi cristiani.
Essa s’identifica con il Rito più antico. Nel corso dei secoli, molti
Papi hanno contribuito alla sua configurazione: San Damaso papa (+384), per
esempio, e successivamente soprattutto San Gregorio Magno (+604) […]. La
Liturgia damasiano-gregoriana è quella che è stata celebrata nella Chiesa
latina sino alla riforma liturgica dei nostri giorni. Non è quindi esatto
parlare di abolizione del Messale di “San Pio V”. A differenza di quanto è
avvenuto oggi in maniera spaventosa, i cambiamenti apportati al Missale
Romanum nel corso di quasi 1400 anni non hanno toccato il Rito della
Messa: si è bensì trattato solo di arricchimenti, per l’aggiunta di
feste, di Propri di Messe e di singole preghiere […]. Non esiste in senso
stretto una “Messa Tridentina” o “di San Pio V”, per il fatto che non è mai
stato promulgato un nuovo Ordo Missae, in seguito al Concilio di
Trento, da San Pio V. Il Messale che San Pio V fece approntare fu il Messale
della Curia Romana, in uso a Roma da molti secoli e che i Francescani avevano
già introdotto in gran parte dell’ Occidente; un Messale, tuttavia, che non era
mai stato imposto universalmente, in modo unilaterale dal Papa. […]. Sino a
Paolo VI, i Papi non hanno mai apportato alcun cambiamento all’Ordo
Missae, ma solo ai Propri delle Messe per le singole festività. […]. Noi
parliamo piuttosto di Ritus Romanus e lo contrapponiamo al Ritus
Modernus. […]. L’unico punto su cui tutti i Papi, dal secolo V in poi,
hanno insistito è stata l’ estensione di questo Canone Romano alla Chiesa
universale, sempre ribadendo che esso risale all’Apostolo Pietro. […].
Il rito Romano si può definire come l’insieme delle forme obbligatorie del Culto
che, risalenti in ultima analisi a N. S. Gesù Cristo, si sono
sviluppate nei dettagli a partire da una Tradizione apostolica comune,
e sono state più tardi sancite dall’Autorità ecclesiastica. […]. Un Rito che
nasce da una Tradizione apostolica comune […] non può essere rifatto ‘ex
novo’ nella sua globalità. […]. Ha il Papa il diritto di mutare un Rito
che risale alla Tradizione apostolica e che si è formato nel corso dei
secoli? […]. Con l’Ordo Missae del 1969 è stato creato un nuovo
Rito. L’Ordo tradizionale è stato totalmente trasformato e addirittura,
alcuni anni dopo, proscritto. Ci si domanda: un così radicale rifacimento è
ancora nel quadro della Tradizione della Chiesa? No. […]. Nessun
documento della Chiesa, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice
espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il
diritto di abolire il Rito tradizionale. Alla ‘plena et suprema
potestas’ del Papa sono chiaramente posti dei limiti […]. Più di un autore
(Gaetano, Suarez) esprime l’ opinione che non rientra nei poteri del Papa
l’abolizione del Rito tradizionale. […]. Di certo non è compito
della Sede Apostolica distruggere un Rito di Tradizione apostolica,
ma suo dovere è quello di mantenerlo e tramandarlo. […]. Nella Chiesa
orientale e occidentale non si è mai celebrato versus populum, ma ci si
è volti ad Orientem […]. Che il celebrante debba rivolgere il viso al
popolo fu sostenuto per la prima volta da Martin Lutero. […]» (Klaus
Gamber, La riforma della Liturgia Romana. Cenni Storici –
Problematica, 1979, tr. it., Roma, Una Voce, giugno/ dicembre 1980).
domenica 20 maggio 2012
una nuova supplica al Santo Padre
Supplica di intellettuali polacchi,
al Sommo Pontefice
Benedetto XVI
per chiedere un studio approfondito
del Concilio Vaticano II
5 aprile 2012
al Sommo Pontefice
Benedetto XVI
per chiedere un studio approfondito
del Concilio Vaticano II
5 aprile 2012
La supplica, tradotta dal polacco,
è stata pubblicata su DICI
Santissimo
Padre,
Il prossimo 50° anniversario della convocazione del Concilio Vaticano II e la dichiarazione del 2012 come “Anno della fede”, proclamato da Vostra Santità con la Lettera Apostolica Porta Fidei dell’11 ottobre 2011, sono delle buone occasioni per occuparsi in modo più approfondito degli insegnamenti contenuti nei documenti del Concilio (1). Il compito principale del Concilio sembrava essere in conformità con l’appello lanciato da uno dei Vostri predecessori, Paolo VI, che dichiarava: «la Chiesa deve approfondire la coscienza di se stessa, meditare sul mistero che le è proprio, esplorare a propria istruzione ed edificazione la dottrina, già a lei nota e già in questo ultimo secolo enucleata e diffusa, sopra la propria origine, la propria natura, la propria missione, la propria sorte finale» (2). In effetti, numerosi osservatori constatano che il Vaticano II, che ha seguito fedelmente le indicazioni di Paolo VI, ha dotato la Chiesa di un più alto grado di coscienza di sé (Ecclesia ad intra) e delle sue relazioni col mondo contemporaneo (Ecclesia ad extra) (3).
Con il vantaggio di uno sguardo retrospettivo su mezzo secolo, sembra appropriato valutar la risposta data dal concilio pastorale Vaticano II a questa domanda spesso avanzata: Chiesa, cosa dici di te stessa (Ecclesia, quid dicis de teipsa)?
Bisogna notare, tuttavia, che il centro della riflessione non verte né su «gli aspetti pratici della ricezione e dell’applicazione [dei documenti conciliari] insieme positivi e negativi», né su «la natura dell’assenso intellettuale che è dovuto agli insegnamenti del Concilio» (4). Ciò che si vuole intendere è piuttosto una profonda comprensione dottrinale e pastorale del contenuto dei documenti del Concilio, al fine di determinare se – e se sì, in quali aspetti – gli insegnamenti del concilio Vaticano II hanno effettivamente risposto all’aspirazione della Chiesa di «approfondire la coscienza ch’essa deve avere di sé, del tesoro di verità di cui è erede e custode e della missione ch'essa deve esercitare nel mondo» (5).
In questo spirito, è stata recentemente presentata a Vostra Santità un’umile supplica, da parte di importanti rappresentanti cattolici italiani del mondo della scienza e dell’informazione (6). I colloqui dottrinali recentemente conclusisi con dei membri della Fraternità Sacerdotale San Pio X, sostenuti dall’autorità del successore di San Pietro, sembrano essere un’altra espressione di questa riflessione. A nostra volta, anche noi, rappresentanti cattolici del mondo della scienza e della cultura, osservatori appassionati e partecipanti alla vita pubblica della Polonia, rispettosamente e umilmente chiediamo a Vostra Santità di riconsiderare alcuni insegnamenti dell’ultimo Concilio alla luce del Magistero infallibile della Chiesa cattolica.
In quanto cattolici impegnati in diversi ambiti, nella scienza, nell’educazione, nella comunicazione sociale o nella vita politica, desideriamo approfittare di questo anniversario per attirare l’attenzione di Vostra Santità sulle conseguenze di certe dottrine del Vaticano II, nei confronti sia della vita interna della Chiesa, sia della sua influenza nel dominio pubblico.
In prima istanza, desideriamo affrontare la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa (Dignitatis Humanae), in rapporto all’insegnamento tradizionale della Chiesa sullo Stato cattolico, chiaramente esposto dai predecessori di Vostra Santità, i Papi Gregorio XVI (Mirari vos), Pio IX (Quanta cura), Leone XIII (Libertas e Immortale Dei) e Pio XI (Quas primas).
Tenendo conto principalmente della dichiarazione presente nell’introduzione della Dignitatis humanae, secondo la quale la dottrina della libertà religiosa «lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo» (7), desideriamo sottoporre al giudizio di Vostra Santità la questione di sapere se – e se sì in che misura – la Dichiarazione sviluppa, chiarisce o illustra in dettaglio gli insegnamenti costanti dei Papi precedenti sullo Stato cristiano e sul regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo.
Il contenuto della Dichiarazione Dignitatis humanae, sostiene il carattere cattolico dello Stato, posto che, secondo l’insegnamento di Leone XIII, «le società non possono, senza sacrilegio, condursi come se Dio non esistesse, o ignorare la religione come fosse una pratica estranea e di nessuna utilità, o accoglierne indifferentemente una a piacere tra le molte; ma al contrario devono, nell’onorare Dio, adottare quella forma e quei riti coi quali Dio stesso dimostrò di voler essere onorato»? (8).
Come può conciliarsi il diritto di limitare il culto pubblico delle altre confessioni religiose, che i predecessori di Vostra Santità hanno accordato ai dirigenti degli Stati cattolici per preservare la vera religione (9), con la libertà di non coercizione esterna nel culto pubblico per ogni religione, diritto che dalla Dignitatis humanae è stato elevato al rango di legge naturale, dichiarando che esso avrebbe il suo fondamento nella dignità della persona umana (10)?
La dignità della persona umana, correttamente compresa, non è quella che si manifesta quando questa adora Dio nella vera religione?
Qual è l’interpretazione suggerita dall’affermazione, contenuta nel Catechismo della Chiesa Cattolica, secondo la quale il diritto alla libertà religiosa è garantito nei «giusti limiti», cioè «non può essere di per sé né illimitato, né limitato semplicemente da un “ordine pubblico”concepito secondo un criterio positivista o naturalista»?
L’espressione «giusti limiti» (11) rinvia in qualche modo alla verità oggettiva o alla falsità di una data religione (12)?
Quale che sia la risposta data a queste domande, è innegabile che Dignitatis humanae non contiene alcun riferimento all’obbligo delle pubbliche autorità di riconoscere e proteggere la vera religione, cioè la religione cattolica, obbligo imposto ai capi di Stato dal Magistero dei Papi precedenti.
Inoltre, il documento non arriva a porre la questione della tolleranza religiosa, che è stata stabilita esplicitamente e senza ambiguità da uno dei predecessori di Vostro Santità, il Papa Pio XII: «Il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose non può quindi essere una ultima norma di azione. Esso deve essere subordinato a più alte e più generali norme, le quali in alcune circostanze permettono, ed anzi fanno forse apparire come il partito migliore il non impedire [cioè tollerare] l'errore, per promuovere un bene maggiore. […] Primo: ciò che non risponde alla verità e alla norma morale, non ha oggettivamente alcun diritto né all'esistenza, né alla propaganda, né all'azione. Secondo: il non impedirlo per mezzo di leggi statali e di disposizioni coercitive può nondimeno essere giustificato nell'interesse di un bene superiore e più vasto» (13).
Un’analisi della Dichiarazione sulla libertà religiosa nella sua interezza crea l’irresistibile impressione che questo documento rifletta un concetto liberale piuttosto che cattolico dello Stato. In questo senso, essa sostiene quella separazione fra la Chiesa e lo Stato che è stata condannata da San Pio X nella sua enciclica Vehementer nos, e sembra anche ignorare la necessità di sottomettere lo Stato al primato di Cristo. Questa necessità, con i suoi vantaggi, è stata messa chiaramente in evidenza dal papa Pio XI: «Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all'impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l'incolumità del loro potere, l'incremento e il progresso della patria» (14).
Qui è interessante notare come i tentativi di risolvere l’inevitabile tensione tra l’insegnamento che emerge dal concilio Vaticano II sulla libertà religiosa e il magistero dei Papi di prima del Concilio vanno in una stessa direzione. Questi tentativi sfociano essenzialmente nella relativizzazione degli insegnamenti proposti dai predecessori di Vostra Santità sul carattere cristiano dello Stato e sul primato sociale di Gesù Cristo. Le costanti linee direttrici date dal Magistero della Chiesa sono sottoposte alla critica, secondo le regole dello «storicismo» (15), come se fossero dei documenti dal valore puramente storico, suscettibili di valutazione da parte della ragione naturale dell’uomo. Nel migliore dei casi, la critica dà luogo al tentativo di «purificare» gli insegnamenti pontifici dalle loro supposte «aggiunte dell’era post-costantiniana» che si riflettono in insegnamenti obsoleti e/o irrealizzabili nello Stato cristiano, non validi nel mondo contemporaneo.
Noi lasciamo a Vostra Santità il giudizio se sia legittimo questo «metodo di studio» applicato agli atti del Magistero. Tuttavia, in quanto cattolici impegnati attivamente nella vita pubblica della Polonia, non possiamo evitare di notare che il concetto di Stato liberale, essenzialmente neutro in materia di religione, soffoca efficacemente le legittime aspirazioni dei Polacchi, come contraddice i valori più profondamente radicati nella storia della nazione polacca.
In seconda istanza, noi desideriamo di attirare l’attenzione di Vostra Santità sul decreto conciliare Unitatis redintegratio sull’ecumenismo e, in particolare, sulle dichiarazioni equivoche contenute nell’articolo 3: «Anche non poche azioni sacre della religione cristiana vengono compiute dai fratelli da noi separati, e queste in vari modi, secondo la diversa condizione di ciascuna Chiesa o comunità, possono senza dubbio produrre realmente la vita della grazia, e si devono dire atte ad aprire accesso alla comunione della salvezza. Perciò queste Chiese e comunità separate, quantunque crediamo abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non son affatto spoglie di significato e di valore. Lo Spirito di Cristo infatti non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica».
Numerosi elementi di «santificazione» di «verità» presenti al di fuori dei limiti della Chiesa sono anche richiamati nella Costituzione dogmatica Lumen gentium, al paragrafo 8.
In quale altro modo potrebbe essere intesa l’espressione «atte ad aprire accesso alla comunione della salvezza», se non come l’assicurazione che le persone sono in grado di raggiungere la salvezza al di fuori della Chiesa cattolica, grazie ai rituali e alle pratiche di altre confessioni cristiane?
Tuttavia la domanda che si pone è sapere come questa interpretazione possa conciliarsi con la dottrina tradizionale dell’Extra Ecclesiam nulla salus, che afferma che la fede cattolica è una condizione preliminare per la salvezza (16), o in particolare con l’insegnamento stabilito sull’unità della Chiesa da Leone XIII: «E per meglio rappresentare la Chiesa una, [San Paolo] la paragona al corpo animato, le cui membra non possono vivere altrimenti che congiunte col capo, da cui derivano la loro virtù vitale; separate che siano, necessariamente muoiono. […] È dunque la chiesa di Cristo unica e perpetua. Chiunque se ne separa, devia dalla volontà e dal precetto di Cristo nostro Signore, e, abbandonata la via della salute, corre alla rovina» (17).
Qual è la relazione di queste dichiarazioni di Unitatis redintegratio con le proposizioni 16 e 17 condannate dal Syllabus di Pio IX(18)?
Indipendentemente dai problemi dottrinali sopra esposti, si constata in tutta evidenza che la pratica pastorale dell’ecumenismo si è allontanata dalla comprensione tradizionale dell’apostolato a favore dell’unità dei cristiani, che, secondo Pio XI: «non si può altrimenti favorire l’unità dei cristiani che procurando il ritorno dei dissidenti all’unica vera Chiesa di Cristo, dalla quale essi un giorno infelicemente s’allontanarono» (19).
Essenzialmente, come notava il Prof. Romano Amerio nel suo monumentale studio, Iota Unum, il termine «ritorno» (reditus) non si trova per niente in tutto il testo del decreto del Concilio sull’ecumenismo. L’idea del ritorno dei cristiani separati alla «sola vera Chiesa di Cristo che a tutti certamente è manifesta e che, per volontà del suo Fondatore, deve restare sempre quale Egli stesso la istituì per la salvezza di tutti» (20), è stata rimpiazzata dal concetto della conversione di tutti i cristiani a Gesù Cristo: «Ci rallegriamo tuttavia vedendo i fratelli separati tendere a Cristo come a fonte e centro della comunione ecclesiale. Presi dal desiderio dell'unione con Cristo, essi sono spinti a cercare sempre di più l'unità ed anche a rendere dovunque testimonianza della loro fede presso le genti» (21). Per i cattolici, dunque, la conversione deve operarsi nel senso della riforma in corso nella Chiesa (22).
Se l’impegno per l’unità di tutti i cristiani viene collocato in questo quadro, non si finirà col compromettere, se non col cancellare completamente, lo spirito apostolico e missionario a tutti i livelli nella vita della Chiesa?
Negando ogni sforzo volto a ricondurre gli eretici e gli scismatici alla Chiesa cattolica, non si rischia che ogni allusione, sia pure la più velata, sul ritorno dei non cattolici all’ovile di Roma venga percepito in ambito pubblico come un segno di intolleranza o un «discorso odioso»?
Il problema non è relativo solo all’ecumenismo in senso stretto, ma anche, e forse soprattutto, al dialogo interreligioso contemporaneo promosso dalla Dichiarazione Nostra Aetate del concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.
Come ha affermato il Prof. Romano Amerio, da lungo tempo il dialogo ha perduto la sua dimensione strettamente religiosa e si è trasformato in un impegno puramente naturalista mirante alla costruzione «di un mondo più degno dell’uomo»: «Il nuovo ecumenismo tende dunque a spostarsi dalla sfera religiosa, il cui fondamento è il soprannaturale, alla sfera civile, assimilando sempre più l’ecumene religiosa all’etnarchia umanitaria propugnata dall’ONU» (23).
A questo punto sorge una domanda: sapere se questo programma illustra la missione della Chiesa nel mondo contemporaneo. La virtù teologale della speranza non si trasforma in una speranza puramente naturale per la costruzione di una «civiltà dell’amore» terreno?
Questo nuovo approccio per le relazioni fra la Chiesa e i cristiani non cattolici e i non cristiani, non equivale ad una violazione del comando di amare il prossimo, che deve esprimersi con degli sforzi per ottenere la sua salvezza eterna («Ammonire i peccatori»), e al tempo stesso una tale nuova concezione non mira a stabilire un nuovo ordine alquanto curioso, che tenderebbe «a costruire un mondo migliore con i membri di altre religioni»?
In terza istanza, ci prendiamo la libertà di chiedere a Vostra Santità di riconsiderare la dottrina del Concilio sulla collegialità, descritta al paragrafo 22 della Costituzione Lumen gentium e all’articolo 4 del Decreto Christus Dominus, relativo alla Missione Pastorale dei vescovi nella Chiesa.
Per un verso, la dottrina espressa sembra lasciare intatto l’insegnamento infallibile della Chiesa sul primato di Roma: «Infatti il romano Pontefice, in virtù del suo ufficio di Vicario di Cristo e di pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente» (24).
Per altro verso, tuttavia, Lumen Gentium introduce il Collegio dei vescovi come un nuovo organo giuridico che detiene la più grande autorità nella Chiesa in comunione col Papa: «D'altra parte, l'ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa» (25).
Malgrado i chiarimenti apportati dalla Nota esplicativa previa che indica che il Collegio – che non sempre è in pieno esercizio – «non agisce con atto strettamente collegiale se non ad intervalli e col consenso del capo», resta il problema allorché si vuole conciliare la dichiarazione del Concilio sulla collegialità con l’affermazione secondo la quale non v’è che un solo detentore del potere supremo nella Chiesa; affermazione espressa esplicitamente nella Costituzione dogmatica Pastor Aeternus del Vaticano I.
Si pone dunque il problema di sapere se una definizione dogmatica solenne possa, il linea di principio, richiedere un «chiarimento» supplementare o un «supplemento di informazione».
Spingendosi più avanti sull’argomento, si dovrebbe ugualmente considerare se il principio generale della collegialità, così com’è attuato nelle attività delle Conferenze Episcopali, non arrechi danno – o scalzi – il potere diretto dei vescovi nelle Chiese particolari. Elemento importante da considerare è che Il Decreto del Concilio Vaticano II Christus Dominus sembra esprimere dei dubbi sulla possibilità stessa dell’esercizio effettivo del potere episcopale ordinario: «In specie ai nostri tempi, i vescovi spesso sono difficilmente in grado di svolgere in modo adeguato e con frutto il loro ministero, se non realizzano una cooperazione sempre più stretta e concorde con gli altri vescovi» (26).
Santissimo Padre, i problemi sopra richiamati inducono ad una riflessione più generale su una certa specifica qualità del Magistero nei tempi del Concilio e del post-concilio. Secondo le espressioni frequentemente impiegate da Vostra Santità, la corretta interpretazione e l’applicazione dell’ultimo Concilio sono possibili solo alla luce di una corretta ermeneutica della riforma (27). E recentemente vi sono state molte discussioni sulla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II e sulla eliminazione degli errori di interpretazione.
Il fatto che dopo 50 anni della convocazione del Vaticano II gli insegnamenti del Concilio continuino ad essere oggetto di controversie, che necessitino di un chiarimento costante, fatto di aggiunte e di rettifiche, non significa che a causa del Concilio il Magistero contemporaneo è costantemente preoccupato per se stesso, invece di preoccuparsi di esplorare il deposito della fede?
Dimostra, questo stato di cose, che il Concilio ha veramente trasmesso «integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica» (28) come auspicava il beato Papa Giovanni XXIII?
Tenuto conto dei dubbi sopra espressi, si può legittimamente affermare che «Non soltanto il Vaticano II va interpretato alla luce di precedenti documenti magisteriali, ma anche alcuni di questi vengono meglio capiti alla luce del Vaticano II» (29)?
Noi crediamo che le domande che in questa lettera sottoponiamo al giudizio di Vostra Santità siano ben riassunte nelle parole del Vostro predecessore Pio XII: «Se poi la Chiesa esercita questo suo officio (come nel corso dei secoli è spesso avvenuto) con l'esercizio sia ordinario che straordinario di questo medesimo officio, è evidente che è del tutto falso il metodo con cui si vorrebbe spiegare le cose chiare con quelle oscure; anzi è necessario che tutti seguano l'ordine inverso» (30).
Beneamato Padre, ci rivolgiamo a Lei con l’umile richiesta di voler esaminare le questioni sopra esposte, che già sono state portate all’attenzione di Vostra Santità diverse volte. Siamo profondamente convinti che questa riflessione attuata nel corso dell’Anno della Fede, susciterà, secondo le parole stesse di Vostra Santità, «in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, con fiducia e speranza» (31).
Con le nostre preghiere più sincere per Vostra Santità, teniamo ad esprimerLe la nostra profonda devozione filiale.
NOTE
1 – Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della fede.
2 – Paolo VI, Enciclica Ecclesiam suam, 10.
3 - Cfr. Cardinale Karol Wojtyla, Instructions Générales, [in] Sobor Watykanski II. Konstitytucje, Dekrety, Deklaracje [Concile Vatican II. Constitutions, Décrets, Déclarations], Pallotinum 1967, pp. 12-14.
4 – Cfr. Mons. Fernando Ocáriz, Sull’adesione al concilio Vaticano II, L’Osservatore Romano, 2 dicembre 2011
5 - Paolo VI, Enciclica Ecclesiam suam, 19.
6 - Supplica al Santo Padre Benedetto XVI, Sommo Pontefice, felicemente regnante, affinché voglia promuovere un approfondito esame del pastorale Concilio Ecumenico Vaticano II.
7 – Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 2105.
8 – Leone XIII, Enciclica Immortale Dei.
9 - Gregorio XVI, Enciclica Mirari vos; Pio IX, Enciclica Quanta cura.
10 – Dignitatis humanae, 2, 9.
11 – Catechismo della Chiesa Cattolica, 2109.
12 – Ibid, 2110.
13 – Pio XII, Ci riesce, Discorso ai giuristi cattolici italiani, 6 dicembre 1953.
14 – Pio XI, Enciclica Quas primas.
15 – Condannato dal Papa Pie XII nella sua Enciclica Humani generis.
16 - Cfr. Simbolo di Sant’Atanasio: «Chiunque voglia salvarsi, deve anzitutto possedere la fede cattolica: colui che non la conserva integra ed inviolata perirà senza dubbio in eterno».
17 - Leone XIII, Enciclica Satis cognitum.
18 – Rispettivamente: «Gli uomini nell’esercizio di qualsivoglia religione possono trovare la via della eterna salvezza, e conseguire l’eterna salvezza» e «Almeno si deve bene sperare della eterna salvezza di tutti coloro che non sono nella vera Chiesa di Cristo».
19 - Pio XI, Enciclica Mortalium animos.
20 – Ibid.
21 – Unitatis redintegratio, 20.
22 – Ibid, 6
23 - Romano Amerio, Iota Unum, Kansas City, 1996, p. 568. (In italiano: Cap. XXXV, L’ecumenismo, n° 255).
24 - Lumen Gentium, 22.
25 – Ibid.
26 – Christus Dominus, 37
27 - Cfr. Benedetto XVI, Lettera Apostolica Porta Fidei, 5.
28 – Giovanni XXIII, Discorso di apertura del concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962.
29 – Mons. Fernando Ocáriz, op. cit.
30 - Pio XII, Enciclica Humani generis, 21.
31 – Benedetto XVI, Lettera Apostolica Porta Fidei, 9.
Firmatari:
Il prossimo 50° anniversario della convocazione del Concilio Vaticano II e la dichiarazione del 2012 come “Anno della fede”, proclamato da Vostra Santità con la Lettera Apostolica Porta Fidei dell’11 ottobre 2011, sono delle buone occasioni per occuparsi in modo più approfondito degli insegnamenti contenuti nei documenti del Concilio (1). Il compito principale del Concilio sembrava essere in conformità con l’appello lanciato da uno dei Vostri predecessori, Paolo VI, che dichiarava: «la Chiesa deve approfondire la coscienza di se stessa, meditare sul mistero che le è proprio, esplorare a propria istruzione ed edificazione la dottrina, già a lei nota e già in questo ultimo secolo enucleata e diffusa, sopra la propria origine, la propria natura, la propria missione, la propria sorte finale» (2). In effetti, numerosi osservatori constatano che il Vaticano II, che ha seguito fedelmente le indicazioni di Paolo VI, ha dotato la Chiesa di un più alto grado di coscienza di sé (Ecclesia ad intra) e delle sue relazioni col mondo contemporaneo (Ecclesia ad extra) (3).
Con il vantaggio di uno sguardo retrospettivo su mezzo secolo, sembra appropriato valutar la risposta data dal concilio pastorale Vaticano II a questa domanda spesso avanzata: Chiesa, cosa dici di te stessa (Ecclesia, quid dicis de teipsa)?
Bisogna notare, tuttavia, che il centro della riflessione non verte né su «gli aspetti pratici della ricezione e dell’applicazione [dei documenti conciliari] insieme positivi e negativi», né su «la natura dell’assenso intellettuale che è dovuto agli insegnamenti del Concilio» (4). Ciò che si vuole intendere è piuttosto una profonda comprensione dottrinale e pastorale del contenuto dei documenti del Concilio, al fine di determinare se – e se sì, in quali aspetti – gli insegnamenti del concilio Vaticano II hanno effettivamente risposto all’aspirazione della Chiesa di «approfondire la coscienza ch’essa deve avere di sé, del tesoro di verità di cui è erede e custode e della missione ch'essa deve esercitare nel mondo» (5).
In questo spirito, è stata recentemente presentata a Vostra Santità un’umile supplica, da parte di importanti rappresentanti cattolici italiani del mondo della scienza e dell’informazione (6). I colloqui dottrinali recentemente conclusisi con dei membri della Fraternità Sacerdotale San Pio X, sostenuti dall’autorità del successore di San Pietro, sembrano essere un’altra espressione di questa riflessione. A nostra volta, anche noi, rappresentanti cattolici del mondo della scienza e della cultura, osservatori appassionati e partecipanti alla vita pubblica della Polonia, rispettosamente e umilmente chiediamo a Vostra Santità di riconsiderare alcuni insegnamenti dell’ultimo Concilio alla luce del Magistero infallibile della Chiesa cattolica.
In quanto cattolici impegnati in diversi ambiti, nella scienza, nell’educazione, nella comunicazione sociale o nella vita politica, desideriamo approfittare di questo anniversario per attirare l’attenzione di Vostra Santità sulle conseguenze di certe dottrine del Vaticano II, nei confronti sia della vita interna della Chiesa, sia della sua influenza nel dominio pubblico.
In prima istanza, desideriamo affrontare la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa (Dignitatis Humanae), in rapporto all’insegnamento tradizionale della Chiesa sullo Stato cattolico, chiaramente esposto dai predecessori di Vostra Santità, i Papi Gregorio XVI (Mirari vos), Pio IX (Quanta cura), Leone XIII (Libertas e Immortale Dei) e Pio XI (Quas primas).
Tenendo conto principalmente della dichiarazione presente nell’introduzione della Dignitatis humanae, secondo la quale la dottrina della libertà religiosa «lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo» (7), desideriamo sottoporre al giudizio di Vostra Santità la questione di sapere se – e se sì in che misura – la Dichiarazione sviluppa, chiarisce o illustra in dettaglio gli insegnamenti costanti dei Papi precedenti sullo Stato cristiano e sul regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo.
Il contenuto della Dichiarazione Dignitatis humanae, sostiene il carattere cattolico dello Stato, posto che, secondo l’insegnamento di Leone XIII, «le società non possono, senza sacrilegio, condursi come se Dio non esistesse, o ignorare la religione come fosse una pratica estranea e di nessuna utilità, o accoglierne indifferentemente una a piacere tra le molte; ma al contrario devono, nell’onorare Dio, adottare quella forma e quei riti coi quali Dio stesso dimostrò di voler essere onorato»? (8).
Come può conciliarsi il diritto di limitare il culto pubblico delle altre confessioni religiose, che i predecessori di Vostra Santità hanno accordato ai dirigenti degli Stati cattolici per preservare la vera religione (9), con la libertà di non coercizione esterna nel culto pubblico per ogni religione, diritto che dalla Dignitatis humanae è stato elevato al rango di legge naturale, dichiarando che esso avrebbe il suo fondamento nella dignità della persona umana (10)?
La dignità della persona umana, correttamente compresa, non è quella che si manifesta quando questa adora Dio nella vera religione?
Qual è l’interpretazione suggerita dall’affermazione, contenuta nel Catechismo della Chiesa Cattolica, secondo la quale il diritto alla libertà religiosa è garantito nei «giusti limiti», cioè «non può essere di per sé né illimitato, né limitato semplicemente da un “ordine pubblico”concepito secondo un criterio positivista o naturalista»?
L’espressione «giusti limiti» (11) rinvia in qualche modo alla verità oggettiva o alla falsità di una data religione (12)?
Quale che sia la risposta data a queste domande, è innegabile che Dignitatis humanae non contiene alcun riferimento all’obbligo delle pubbliche autorità di riconoscere e proteggere la vera religione, cioè la religione cattolica, obbligo imposto ai capi di Stato dal Magistero dei Papi precedenti.
Inoltre, il documento non arriva a porre la questione della tolleranza religiosa, che è stata stabilita esplicitamente e senza ambiguità da uno dei predecessori di Vostro Santità, il Papa Pio XII: «Il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose non può quindi essere una ultima norma di azione. Esso deve essere subordinato a più alte e più generali norme, le quali in alcune circostanze permettono, ed anzi fanno forse apparire come il partito migliore il non impedire [cioè tollerare] l'errore, per promuovere un bene maggiore. […] Primo: ciò che non risponde alla verità e alla norma morale, non ha oggettivamente alcun diritto né all'esistenza, né alla propaganda, né all'azione. Secondo: il non impedirlo per mezzo di leggi statali e di disposizioni coercitive può nondimeno essere giustificato nell'interesse di un bene superiore e più vasto» (13).
Un’analisi della Dichiarazione sulla libertà religiosa nella sua interezza crea l’irresistibile impressione che questo documento rifletta un concetto liberale piuttosto che cattolico dello Stato. In questo senso, essa sostiene quella separazione fra la Chiesa e lo Stato che è stata condannata da San Pio X nella sua enciclica Vehementer nos, e sembra anche ignorare la necessità di sottomettere lo Stato al primato di Cristo. Questa necessità, con i suoi vantaggi, è stata messa chiaramente in evidenza dal papa Pio XI: «Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all'impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l'incolumità del loro potere, l'incremento e il progresso della patria» (14).
Qui è interessante notare come i tentativi di risolvere l’inevitabile tensione tra l’insegnamento che emerge dal concilio Vaticano II sulla libertà religiosa e il magistero dei Papi di prima del Concilio vanno in una stessa direzione. Questi tentativi sfociano essenzialmente nella relativizzazione degli insegnamenti proposti dai predecessori di Vostra Santità sul carattere cristiano dello Stato e sul primato sociale di Gesù Cristo. Le costanti linee direttrici date dal Magistero della Chiesa sono sottoposte alla critica, secondo le regole dello «storicismo» (15), come se fossero dei documenti dal valore puramente storico, suscettibili di valutazione da parte della ragione naturale dell’uomo. Nel migliore dei casi, la critica dà luogo al tentativo di «purificare» gli insegnamenti pontifici dalle loro supposte «aggiunte dell’era post-costantiniana» che si riflettono in insegnamenti obsoleti e/o irrealizzabili nello Stato cristiano, non validi nel mondo contemporaneo.
Noi lasciamo a Vostra Santità il giudizio se sia legittimo questo «metodo di studio» applicato agli atti del Magistero. Tuttavia, in quanto cattolici impegnati attivamente nella vita pubblica della Polonia, non possiamo evitare di notare che il concetto di Stato liberale, essenzialmente neutro in materia di religione, soffoca efficacemente le legittime aspirazioni dei Polacchi, come contraddice i valori più profondamente radicati nella storia della nazione polacca.
In seconda istanza, noi desideriamo di attirare l’attenzione di Vostra Santità sul decreto conciliare Unitatis redintegratio sull’ecumenismo e, in particolare, sulle dichiarazioni equivoche contenute nell’articolo 3: «Anche non poche azioni sacre della religione cristiana vengono compiute dai fratelli da noi separati, e queste in vari modi, secondo la diversa condizione di ciascuna Chiesa o comunità, possono senza dubbio produrre realmente la vita della grazia, e si devono dire atte ad aprire accesso alla comunione della salvezza. Perciò queste Chiese e comunità separate, quantunque crediamo abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non son affatto spoglie di significato e di valore. Lo Spirito di Cristo infatti non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica».
Numerosi elementi di «santificazione» di «verità» presenti al di fuori dei limiti della Chiesa sono anche richiamati nella Costituzione dogmatica Lumen gentium, al paragrafo 8.
In quale altro modo potrebbe essere intesa l’espressione «atte ad aprire accesso alla comunione della salvezza», se non come l’assicurazione che le persone sono in grado di raggiungere la salvezza al di fuori della Chiesa cattolica, grazie ai rituali e alle pratiche di altre confessioni cristiane?
Tuttavia la domanda che si pone è sapere come questa interpretazione possa conciliarsi con la dottrina tradizionale dell’Extra Ecclesiam nulla salus, che afferma che la fede cattolica è una condizione preliminare per la salvezza (16), o in particolare con l’insegnamento stabilito sull’unità della Chiesa da Leone XIII: «E per meglio rappresentare la Chiesa una, [San Paolo] la paragona al corpo animato, le cui membra non possono vivere altrimenti che congiunte col capo, da cui derivano la loro virtù vitale; separate che siano, necessariamente muoiono. […] È dunque la chiesa di Cristo unica e perpetua. Chiunque se ne separa, devia dalla volontà e dal precetto di Cristo nostro Signore, e, abbandonata la via della salute, corre alla rovina» (17).
Qual è la relazione di queste dichiarazioni di Unitatis redintegratio con le proposizioni 16 e 17 condannate dal Syllabus di Pio IX(18)?
Indipendentemente dai problemi dottrinali sopra esposti, si constata in tutta evidenza che la pratica pastorale dell’ecumenismo si è allontanata dalla comprensione tradizionale dell’apostolato a favore dell’unità dei cristiani, che, secondo Pio XI: «non si può altrimenti favorire l’unità dei cristiani che procurando il ritorno dei dissidenti all’unica vera Chiesa di Cristo, dalla quale essi un giorno infelicemente s’allontanarono» (19).
Essenzialmente, come notava il Prof. Romano Amerio nel suo monumentale studio, Iota Unum, il termine «ritorno» (reditus) non si trova per niente in tutto il testo del decreto del Concilio sull’ecumenismo. L’idea del ritorno dei cristiani separati alla «sola vera Chiesa di Cristo che a tutti certamente è manifesta e che, per volontà del suo Fondatore, deve restare sempre quale Egli stesso la istituì per la salvezza di tutti» (20), è stata rimpiazzata dal concetto della conversione di tutti i cristiani a Gesù Cristo: «Ci rallegriamo tuttavia vedendo i fratelli separati tendere a Cristo come a fonte e centro della comunione ecclesiale. Presi dal desiderio dell'unione con Cristo, essi sono spinti a cercare sempre di più l'unità ed anche a rendere dovunque testimonianza della loro fede presso le genti» (21). Per i cattolici, dunque, la conversione deve operarsi nel senso della riforma in corso nella Chiesa (22).
Se l’impegno per l’unità di tutti i cristiani viene collocato in questo quadro, non si finirà col compromettere, se non col cancellare completamente, lo spirito apostolico e missionario a tutti i livelli nella vita della Chiesa?
Negando ogni sforzo volto a ricondurre gli eretici e gli scismatici alla Chiesa cattolica, non si rischia che ogni allusione, sia pure la più velata, sul ritorno dei non cattolici all’ovile di Roma venga percepito in ambito pubblico come un segno di intolleranza o un «discorso odioso»?
Il problema non è relativo solo all’ecumenismo in senso stretto, ma anche, e forse soprattutto, al dialogo interreligioso contemporaneo promosso dalla Dichiarazione Nostra Aetate del concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.
Come ha affermato il Prof. Romano Amerio, da lungo tempo il dialogo ha perduto la sua dimensione strettamente religiosa e si è trasformato in un impegno puramente naturalista mirante alla costruzione «di un mondo più degno dell’uomo»: «Il nuovo ecumenismo tende dunque a spostarsi dalla sfera religiosa, il cui fondamento è il soprannaturale, alla sfera civile, assimilando sempre più l’ecumene religiosa all’etnarchia umanitaria propugnata dall’ONU» (23).
A questo punto sorge una domanda: sapere se questo programma illustra la missione della Chiesa nel mondo contemporaneo. La virtù teologale della speranza non si trasforma in una speranza puramente naturale per la costruzione di una «civiltà dell’amore» terreno?
Questo nuovo approccio per le relazioni fra la Chiesa e i cristiani non cattolici e i non cristiani, non equivale ad una violazione del comando di amare il prossimo, che deve esprimersi con degli sforzi per ottenere la sua salvezza eterna («Ammonire i peccatori»), e al tempo stesso una tale nuova concezione non mira a stabilire un nuovo ordine alquanto curioso, che tenderebbe «a costruire un mondo migliore con i membri di altre religioni»?
In terza istanza, ci prendiamo la libertà di chiedere a Vostra Santità di riconsiderare la dottrina del Concilio sulla collegialità, descritta al paragrafo 22 della Costituzione Lumen gentium e all’articolo 4 del Decreto Christus Dominus, relativo alla Missione Pastorale dei vescovi nella Chiesa.
Per un verso, la dottrina espressa sembra lasciare intatto l’insegnamento infallibile della Chiesa sul primato di Roma: «Infatti il romano Pontefice, in virtù del suo ufficio di Vicario di Cristo e di pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente» (24).
Per altro verso, tuttavia, Lumen Gentium introduce il Collegio dei vescovi come un nuovo organo giuridico che detiene la più grande autorità nella Chiesa in comunione col Papa: «D'altra parte, l'ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa» (25).
Malgrado i chiarimenti apportati dalla Nota esplicativa previa che indica che il Collegio – che non sempre è in pieno esercizio – «non agisce con atto strettamente collegiale se non ad intervalli e col consenso del capo», resta il problema allorché si vuole conciliare la dichiarazione del Concilio sulla collegialità con l’affermazione secondo la quale non v’è che un solo detentore del potere supremo nella Chiesa; affermazione espressa esplicitamente nella Costituzione dogmatica Pastor Aeternus del Vaticano I.
Si pone dunque il problema di sapere se una definizione dogmatica solenne possa, il linea di principio, richiedere un «chiarimento» supplementare o un «supplemento di informazione».
Spingendosi più avanti sull’argomento, si dovrebbe ugualmente considerare se il principio generale della collegialità, così com’è attuato nelle attività delle Conferenze Episcopali, non arrechi danno – o scalzi – il potere diretto dei vescovi nelle Chiese particolari. Elemento importante da considerare è che Il Decreto del Concilio Vaticano II Christus Dominus sembra esprimere dei dubbi sulla possibilità stessa dell’esercizio effettivo del potere episcopale ordinario: «In specie ai nostri tempi, i vescovi spesso sono difficilmente in grado di svolgere in modo adeguato e con frutto il loro ministero, se non realizzano una cooperazione sempre più stretta e concorde con gli altri vescovi» (26).
Santissimo Padre, i problemi sopra richiamati inducono ad una riflessione più generale su una certa specifica qualità del Magistero nei tempi del Concilio e del post-concilio. Secondo le espressioni frequentemente impiegate da Vostra Santità, la corretta interpretazione e l’applicazione dell’ultimo Concilio sono possibili solo alla luce di una corretta ermeneutica della riforma (27). E recentemente vi sono state molte discussioni sulla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II e sulla eliminazione degli errori di interpretazione.
Il fatto che dopo 50 anni della convocazione del Vaticano II gli insegnamenti del Concilio continuino ad essere oggetto di controversie, che necessitino di un chiarimento costante, fatto di aggiunte e di rettifiche, non significa che a causa del Concilio il Magistero contemporaneo è costantemente preoccupato per se stesso, invece di preoccuparsi di esplorare il deposito della fede?
Dimostra, questo stato di cose, che il Concilio ha veramente trasmesso «integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica» (28) come auspicava il beato Papa Giovanni XXIII?
Tenuto conto dei dubbi sopra espressi, si può legittimamente affermare che «Non soltanto il Vaticano II va interpretato alla luce di precedenti documenti magisteriali, ma anche alcuni di questi vengono meglio capiti alla luce del Vaticano II» (29)?
Noi crediamo che le domande che in questa lettera sottoponiamo al giudizio di Vostra Santità siano ben riassunte nelle parole del Vostro predecessore Pio XII: «Se poi la Chiesa esercita questo suo officio (come nel corso dei secoli è spesso avvenuto) con l'esercizio sia ordinario che straordinario di questo medesimo officio, è evidente che è del tutto falso il metodo con cui si vorrebbe spiegare le cose chiare con quelle oscure; anzi è necessario che tutti seguano l'ordine inverso» (30).
Beneamato Padre, ci rivolgiamo a Lei con l’umile richiesta di voler esaminare le questioni sopra esposte, che già sono state portate all’attenzione di Vostra Santità diverse volte. Siamo profondamente convinti che questa riflessione attuata nel corso dell’Anno della Fede, susciterà, secondo le parole stesse di Vostra Santità, «in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, con fiducia e speranza» (31).
Con le nostre preghiere più sincere per Vostra Santità, teniamo ad esprimerLe la nostra profonda devozione filiale.
NOTE
1 – Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della fede.
2 – Paolo VI, Enciclica Ecclesiam suam, 10.
3 - Cfr. Cardinale Karol Wojtyla, Instructions Générales, [in] Sobor Watykanski II. Konstitytucje, Dekrety, Deklaracje [Concile Vatican II. Constitutions, Décrets, Déclarations], Pallotinum 1967, pp. 12-14.
4 – Cfr. Mons. Fernando Ocáriz, Sull’adesione al concilio Vaticano II, L’Osservatore Romano, 2 dicembre 2011
5 - Paolo VI, Enciclica Ecclesiam suam, 19.
6 - Supplica al Santo Padre Benedetto XVI, Sommo Pontefice, felicemente regnante, affinché voglia promuovere un approfondito esame del pastorale Concilio Ecumenico Vaticano II.
7 – Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 2105.
8 – Leone XIII, Enciclica Immortale Dei.
9 - Gregorio XVI, Enciclica Mirari vos; Pio IX, Enciclica Quanta cura.
10 – Dignitatis humanae, 2, 9.
11 – Catechismo della Chiesa Cattolica, 2109.
12 – Ibid, 2110.
13 – Pio XII, Ci riesce, Discorso ai giuristi cattolici italiani, 6 dicembre 1953.
14 – Pio XI, Enciclica Quas primas.
15 – Condannato dal Papa Pie XII nella sua Enciclica Humani generis.
16 - Cfr. Simbolo di Sant’Atanasio: «Chiunque voglia salvarsi, deve anzitutto possedere la fede cattolica: colui che non la conserva integra ed inviolata perirà senza dubbio in eterno».
17 - Leone XIII, Enciclica Satis cognitum.
18 – Rispettivamente: «Gli uomini nell’esercizio di qualsivoglia religione possono trovare la via della eterna salvezza, e conseguire l’eterna salvezza» e «Almeno si deve bene sperare della eterna salvezza di tutti coloro che non sono nella vera Chiesa di Cristo».
19 - Pio XI, Enciclica Mortalium animos.
20 – Ibid.
21 – Unitatis redintegratio, 20.
22 – Ibid, 6
23 - Romano Amerio, Iota Unum, Kansas City, 1996, p. 568. (In italiano: Cap. XXXV, L’ecumenismo, n° 255).
24 - Lumen Gentium, 22.
25 – Ibid.
26 – Christus Dominus, 37
27 - Cfr. Benedetto XVI, Lettera Apostolica Porta Fidei, 5.
28 – Giovanni XXIII, Discorso di apertura del concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962.
29 – Mons. Fernando Ocáriz, op. cit.
30 - Pio XII, Enciclica Humani generis, 21.
31 – Benedetto XVI, Lettera Apostolica Porta Fidei, 9.
Firmatari:
- - Maciej Andrzejczak, tłumacz, przedsiębiorca;
- - dr hab. Jacek Bartyzel, prof. UMK nauczyciel akademicki, Rada Centrum Kultury i Tradycji;
- - Grzegorz Braun, reżyser;
- - dr Zbigniew Czapla, nauczyciel akademicki;
- - Marcin Dybowski, wydawca;
- - dr Mariola Fortuna, teolog;
- - Artur Górski, poseł na Sejm RP V, VI i VII kadencji;
- - prof. dr hab. Grzegorz Grzybowski, pracownik Polskiej Akademii Nauk;
- - prof. dr hab. Tomasz Grzybowski nauczyciel akademicki;
- - Piotr Kamiński, nauczyciel akademicki;
- - Sławomir Hazak, Szamotulskie Środowisko Tradycji;
- - dr Krzysztof Kawęcki, nauczyciel akademicki;
- - dr Marcin Masny, publicysta, tłumacz;
- - dr Adam Matyszewski, teolog, członek Komisji ds. Muzyki Kościelnej Diecezji Płockiej;
- - Piotr Mazur, Rada Centrum Kultury i Tradycji, członek Zarządu Towarzystw - Gimnastycznych Sokół w Polsce;
- - Stanisław Michalkiewicz, publicysta;
- - Artur Paczyna, prezes Rady Głównej Śląskiego Środowiska Wiernych Tradycji;
- - Stanisław Pięta, poseł na Sejm VI i VII kadencji;
- - dr Justyn Piskorski, prawnik, UAM;
- - Paweł Pomianek, teolog;
- - Arkadiusz Robaczewski, prezes Centrum Kultury i Tradycji;
- - dr Piotr Szczudłowski, pedagog;
- - dr Teresa Świrydowicz;
- - dr hab. Kazimierz Świrydowicz, profesor UAM;
- - Joanna M. Tryjanowska, prawnik;
- - prof. Dr hab. Piotr Tryjanowski, nauczyciel akademicki;
- - dr hab. Piotr Tylus nauczyciel akademicki;
- - Maciej Walaszczyk, dziennikarz;
- - Piotr Walerych, poseł na Sejm RP I kadencji, członek Rady Programowej Telewizji Polskiej w latach 1995-2002;
- - Robert Winnicki, Prezes Rady Naczelnej Związku Młodzieży Wszechpolskiej;
- - dr Marcin Woźniak, nauczyciel akademicki;
- - Krzysztof Wyszkowski, założyciel Wolnych Związków Zawodowych Wybrzeża;
- - Dariusz Zalewski, publicysta, popularyzator tomistycznej etyki wychowawczej;
- - Zbigniew Zarywski, przedsiębiorca, kolekcjoner;
- - Artur Zawisza, poseł na sejm V i VI kadencji, przedsiębiorca;
- - Michał Zieliński, ekonomista, Korporacja Akademicka Legia.
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