venerdì 31 dicembre 2010

in Octava Nativitatis

Inchiesta sulla nascita di Gesù
di Antonio Socci

Le tracce anagrafiche di Gesù ci portano sul Campidoglio di Roma, da dove si gode una veduta mozzafiato dei Fori imperiali. Il fazzoletto di terra tra il Tabularium - che sta alle fondamenta dell'attuale municipio - e l'Aerarium del Tempio di Saturno, duemila anni fa era il centro del mondo. In quel punto erano custoditi i documenti del censimento di Augusto, secondo Tertulliano "teste fedelissimo della natività di Nostro Signore".

Era lì dunque la registrazione anagrafica della nascita - fatta da due giovani ebrei - di un bambino chiamato Yehòshua', Gesù, che significava "Dio salvatore". Incendi e distruzioni hanno perduto quei documenti. Sempre lì dovette trovarsi anche la relazione a Tiberio che Ponzio Pilato scrisse verso il 35 d.C. per giustificare processo ed esecuzione dello stesso Gesù. Da cui venne la proposta di Tiberio al Senato di riconoscere quel Gesù come dio, ossia di legittimare il culto di Cristo che si stava diffondendo. Il Senato rispose di no. La notizia è contenuta in un passo dell'Apologetico (V,2) di Tertulliano ed è stata recentemente dimostrata attendibile da un'autorevole storica, Marta Sordi.

Ma torniamo a quel censimento. Negli studi della "Scuola di Madrid" - sintetizzati nel libro "La vita di Gesù" di Josè Miguel Garcia - trova soluzione anche il problema cronologico del censimento che finora non si sapeva quando collocare e pareva storicamente dubbio.

Perché Giuseppe e Maria devono andare a Betlemme il cui nome, beth-lehem, in ebraico significa "città del pane"? Perché Erode, per conto dei romani, ha imposto un giuramento-censimento. Le autorità di Betlemme pretendono che della famiglia di Davide non manchi nessuno: Giuseppe è un discendente dell'antico casato reale che è tenuto particolarmente d'occhio. Soprattutto in questi anni nei quali - a causa di alcune profezie e di alcuni segni - si è fatta fortissima l'idea che il Messia stia per arrivare. Si sa infatti che il "liberatore" che gli ebrei aspettano è di sangue reale. E dunque quelli della famiglia di Re David sono tutti "sospetti".

E' per queste origini che la famiglia di Gesù, pur essendo diventata modesta e umile, custodisce gelosamente le genealogie che non a caso si trovano riportate nei vangeli. Genealogie che raccontano storie terribili, su cui i vangeli non sorvolano affatto. Tanto da stupire quel poeta cattolico che fu Charles Péguy: "bisogna riconoscerlo, la genealogia carnale di Gesù è spaventosa... E' in parte ciò che dà al mistero dell'Incarnazione tutto il suo valore, tutta la sua profondità, tutto il suo impeto, il suo carico di umanità. Di carnale". Secondo uno studio recente nelle origini familiari di Gesù troviamo la stessa tribù discendente da Caino, il primo omicida della storia. In Numeri 24, 21 si dice che i Qeniti sono i discendenti di Caino, verranno assorbiti dal popolo ebraico e la loro terra è dove poi sorgerà Betlemme. In un passo successivo (34,19) con Giosuè sono raccolti, per la spartizione della terra conquistata, i capi delle dodici tribù d'Israele. A capo della tribù di Giuda sta Kaleb detto il Qenizita, a cui Giosuè assegna una porzione della terra di Giuda. I Qeniti, spiega Tommaso Federici, sono dunque "una sottotribù di Giuda, la loro terra sta nella 'parte montagnosa', con capitale Hebron. Essa comprendeva la Betlemme di Kaleb, attraverso la sua sposa Efrata". Dunque "i Davididi sono i Qeniti o Cainiti". Ecco - commenta Federici "sopra quale abisso è disceso l'Immortale Eterno per assumere la carne dei peccatori. Cristo Signore così riassume in sé ogni Caino d'ogni tempo, per salvarlo". Gesù dunque è "il segno" che Dio aveva posto sopra Caino "per cui questi ha salva la vita". Nel profeta Isaia leggiamo infatti: "Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori... è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti". Nello stesso ceppo familiare di Gesù sono riassunti "sia Israele, sia Giuda, sia i pagani ed i peccatori più lontani. Di fatto" spiega Federici "a Betlemme, Booz, antenato di David, sposando Rut la Moabita, dunque pagana e idolatra, l'inserisce a pieno titolo nel popolo di Dio, tanto che diventa antenata di David".

La predilezione di Dio non è caduta sui migliori, ma su dei peccatori. Fra i figli di Giacobbe viene scelto Giuda, il quartogenito, uno dei fratelli che avevano venduto Giuseppe. Uno la cui moralità crolla platealmente nell'unione con la nuora, Tamar, unione da cui discende legalmente Gesù. Della sua genealogia fanno parte poi dei re idolatri, immorali e qualcuno criminale. Lo stesso Davide, il più grande dei re e il più amato da Dio, commette peccati e delitti spaventosi. Le donne della genealogia di Gesù scriveva il cardinale Van Thuan "colpiscono per le loro storie, sono donne che si trovano tutte in una situazione irregolare e di disordine morale: Tamar è una peccatrice, che con l'inganno ha avuto una unione incestuosa col suocero Giuda; Raab è la prostituta di Gerico che accoglie e nasconde le due spie israelite inviate da Giosuè e viene ammessa nel popolo ebraico; Rut è una straniera; della quarta donna... 'quella che era stata moglie di Urìa', si tratta di Betsabea, la compagna di adulterio di David".

Sembra una storia terribile, eppure è la storia della salvezza. La storia da cui è nato Gesù che ha voluto riservarsi - totalmente puri e santi - solo gli ultimi rampolli di quei clan familiari: Maria e Giuseppe. Che dunque arrivano a Betlemme dove nasce Gesù. A lungo si è ritenuto che il 25 dicembre fosse una data convenzionale, scelta per contrastare le feste pagane del Natale Solis invicti (da identificare forse con Mitra, forse con l'imperatore romano). Ma recentemente una scoperta archeologica fatta tra i papiri di Qumran ha clamorosamente suggerito la possibile esattezza di quella data. Dal "Libro dei Giubilei" uno studioso israeliano, Shemarjahu Talmon ha ricostruito la successione dei 24 turni sacerdotali relativi al servizio nel Tempio di Gerusalemme e ha scoperto che "il turno di Abia" corrispondeva all'ultima settimana di settembre.

Notizia importante perché si lega a una informazione cronologica del Vangelo di Luca (1,5) secondo cui Zaccaria, il padre di Giovanni Battista e marito di Elisabetta, appartenente alla tribù sacerdotale di Abia, vide l'angelo, che annunciava il concepimento di Giovanni, proprio mentre "officiava davanti al Signore nel turno della sua classe". Quindi a fine settembre.

Il rito bizantino che da secoli fa memoria dell'annuncio a Zaccaria il 23 settembre deriva dunque da un'antica memoria, forse una tradizione orale. La Chiesa tutta poi celebra nove mesi dopo la nascita del Battista e tutta la liturgia cristiana è impostata su questa data giacché Luca (1, 26) spiega che l'annuncio a Maria avviene quando Elisabetta era al sesto mese di gravidanza. In effetti la Chiesa celebra l'Annunciazione il 25 marzo e il Natale del Signore nove mesi dopo, il 25 dicembre (lo attesta già un calendario liturgico del 326 d.C.). Ne discende che se ha fondatezza storica l'annuncio a Zaccaria il 23 settembre, a catena - come ha dimostrato Antonio Ammassari - acquisiscono storicità anche la data dell'Annunciazione e quella del Natale.

Dal recente libro di Garcia si apprende pure la verità sul luogo della nascita di Gesù. Il contesto deve essere non una grotta, ma la grande casa paterna di Giuseppe a Betlemme. "Tali case erano costituite da un'unica grande stanza, dove le persone occupavano una specie di piattaforma rialzata, mentre in un'estremità si trovavano gli animali di cui la famiglia aveva bisogno per lavorare. E per questi animali era ovvio che ci fosse una mangiatoia".

Probabilmente Giuseppe e la giovane partoriente, per avere un po' di riservatezza e più caldo, furono alloggiati in questa parte della casa e il bambino fu posto in quella mangiatoia. E' con una storia così ordinaria, così normale, che Dio - per i cristiani - è venuto nel mondo. E con lui la bellezza, la bontà e la salvezza. Incontrarlo è il senso della vita. Scrive Péguy: "Felici coloro che bevevano lo sguardo dei tuoi occhi"."

(tratto da: Il Giornale del 23.12.2005)
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25 dicembre è data storica
di Tommaso Federici

Non fu una scelta arbitraria per soppiantare antiche feste pagane. Quando la Chiesa celebra la nascita di Gesù nella terza decade di dicembre, attinge all'ininterrotta memoria delle prime comunità cristiane riguardo ai fatti evangelici e ai luoghi in cui accaddero. Tommaso Federici, professore emerito di teologia biblica, fa il punto su indizi e recenti scoperte che confermano la storicità della data del Natale

Un preambolo

In genere si assumeva e si assume senza discutere la notizia già antica secondo cui la celebrazione del Natale del Signore nella prima metà del secolo IV fu introdotta dalla Chiesa di Roma per motivi ideologici. Infatti sarebbe stata posta al 25 dicembre per contrastare una pericolosa festa pagana, il Natale Solis invicti (fosse Mitra, come è probabile, o fosse una titolatura di un imperatore romano). Tale festa era stata fissata al solstizio invernale (21-22 dicembre), quando il sole riprendeva il suo corso trionfale verso il suo sempre maggiore risplendere. Quindi in ambito cristiano, risalendo di 9 mesi, si era posta al 25 marzo la celebrazione dell'annuncio dell'Angelo a Maria Vergine di Nazareth, e la sua Immacolata Concezione [il concepimento verginale,(1)] del Figlio e Salvatore. In conseguenza, sei mesi prima della nascita del Signore si era posta anche la memoria della nascita del suo precursore e profeta e battezzatore Giovanni.

D'altra parte, l'Occidente cristiano non celebrava l'annuncio della nascita di Giovanni al padre, il sacerdote Zaccaria. Che invece, e da lunghissima data, è commemorato nell'Oriente siro alla prima domenica del "Tempo dell'Annuncio (Sûbarâ)", che comprende in altre cinque domeniche l'annunciazione a Maria Vergine, la visitazione, la nascita del Battista, l'annuncio a Giuseppe, la genealogia del Signore secondo Matteo.

L'Oriente bizantino, e sempre da data immemoriale, celebra invece al 23 settembre anche l'annuncio a Zaccaria.

Si hanno in successione quattro date evangeliche che inseguendosi si intersecano, ossia I) l'annuncio a Zaccaria e II) sei mesi dopo l'annunciazione a Maria, III) rispettivamente nove e tre mesi dopo le prime due date, la nascita del Battista, e IV) rispettivamente sei mesi dopo quest'ultima data, e naturalmente nove mesi dopo l'annunciazione, la Nascita del Signore e Salvatore.

Il referente per così dire "liturgico" di tutto questo sarebbe quindi il Natale del Signore, al 25 dicembre, sulla cui base, si assume, furono disposte le feste dell'annunciazione nove mesi prima, e della nascita del Battista sei mesi prima. Gli storici e i liturgisti su questo svolgono diverse ipotesi più o meno accolte. Il problema è che già nei secoli II-IV erano state avanzate diverse datazioni, che tenevano conto di computi astronomici, o di idee teologiche.

Una data "storica" esterna, ossia che non fosse biblica, patristica e liturgica, e che portasse una conferma agli studiosi, non era ancora conosciuta.

Un riferimento: l'annuncio a Zaccaria

Luca ha una certa sua cura di situare la storia. Così ad esempio cita "l'editto di Cesare Augusto" per il lungo censimento di Quirino (circa il 7-6 a. C.), durante il quale avvenne la nascita del Signore (Lc 2, 1-2). Inoltre rimanda all'anno quindicesimo di Tiberio Cesare (circa il 27-28 d. C.), quando Giovanni il Battista cominciò la sua predicazione preparatoria del Signore (Lc 3, 1). E annota: "E lo stesso Gesù era cominciante [il suo ministero dopo il Battesimo, Lc 3, 21-22] quasi di anni 30" (Lc 3, 23), di fatto avendo circa 33 o 34 anni.

Secondo la sua suggestiva narrazione evangelica, lo stesso Angelo del Signore, Gabriele, sei mesi prima dell'annunciazione a Maria (Lc 1, 26-38), alla conclusione della solenne celebrazione sacrificale quotidiana aveva annunciato nel santuario all'anziano sacerdote Zaccaria che la sua sposa, sterile e anziana, Elisabetta, avrebbe concepito un figlio, destinato a preparare un popolo a Colui che doveva venire (Lc 1, 5-25). Luca si preoccupa di situare questo fatto con una precisione che rimanda a un dato conosciuto da tutti. Così narra che Zaccaria apparteneva alla "classe [sacerdotale, ephêmería] di Abia" (Lc 1, 5), e mentre gli appare Gabriele "esercitava sacerdotalmente nel turno [táxis] del suo ordine [ephêmería]" (Lc 1, 8).

Così rimanda a un fatto generale senza difficoltà, e a uno specifico e puntuale, che presenta un problema. Il primo fatto, noto a tutti, era che nel santuario di Gerusalemme, secondo la narrazione del cronista, David stesso aveva disposto che i "figli di Aronne" fossero distinti in 24 táxeis, ebraico sebaot, i "turni" perenni (1 Cr 24, 1-7.19). Tali "classi", avvicendandosi in ordine immutabile, dovevano prestare servizio liturgico per una settimana, "da sabato a sabato", due volte l'anno. L'elenco delle classi sacerdotali fino alla distruzione del tempio (anno 70 d. C.) secondo il testo dei Settanta era stabilito per sorteggio, così: I) Iarib, II) Ideia, III) Charim, IV) Seorim, V) Mechia, VI) Miamin, VII) Kos, VIII) Abia, IX) Giosuè, X) Senechia, XI) Eliasib, XII) Iakim, XIII) Occhoffa, XIV) Isbaal, XV) Belga, XVI) Emmer, XVII) Chezir, XVIII) Afessi, XIX) Fetaia, XX) Ezekil, XXI) Iachin, XXII) Gamoul, XXIII) Dalaia, XXIV) Maasai (l'elenco, in 1 Cr 24, 7-18).

Il secondo fatto è che Zaccaria quindi apparteneva al "turno di Abia", l'VIII. Il problema che pone questo è che Luca scrive quando il tempio è ancora in attività, e quindi tutti potevano conoscere le sue funzioni, e non annota "quando" stava in esercizio il "turno di Abia". Inoltre, non dice in quale dei due avvicendamenti annuali Zaccaria ricevette l'annuncio dell'Angelo nel santuario. E sembra che lungo i secoli nessuno abbia avuto cura di riportare la memoria, o di fare qualche ricerca. La stessa Comunità madre, la Chiesa di Gerusalemme, giudeo-cristiana di lingua aramaica, che tradizionalmente (almeno per due secoli) era guidata dai parenti di sangue di Gesù, Giacomo e i suoi successori, non sembra che si curasse di questo particolare, che per i contemporanei andava da sé.

Il "turno di Abia" con data certa

Nel 1953 la grande specialista francese Annie Jaubert, nell'articolo «Le calendrier des Jubilées et de la secte de Qumran. Ses origines bibliques», in «Vetus Testamentum», Suppl. 3 (1953) pp. 250-264, aveva studiato il calendario del Libro dei Giubilei, un apocrifo ebraico assai importante, che risaliva alla fine del sec. II a.C. Ora numerosi frammenti di testo di tale calendario, ritrovati nelle grotte di Qumran, dimostravano non solo che esso era stato fatto proprio dagli Esseni che lì vivevano (circa sec. II a. C.-sec. I d. C.), ma che esso era ancora in uso. Detto calendario è solare, e non dà nomi ai mesi, ma li chiamava con il numero di successione. La studiosa aveva pubblicato poi su questo diversi altri articoli importanti; vedi anche la sua voce "Calendario di Qumran", in "Enciclopedia della Bibbia" 2 (1969) pp. 35- 38. E in una celebre monografia, "La date de la Cène, Calendrier biblique et liturgie chrétienne", Études Bibliques, Paris 1957, aveva anche ricostruito la successione degli eventi della settimana santa, individuando in modo convincente (salvo dissensi di qualcuno) al martedì, e non al giovedì, la data della cena del Signore.

Da parte sua, anche lo specialista Shemarjahu Talmon, dell'Università Ebraica di Gerusalemme, aveva lavorato sui documenti di Qumran e sul calendario dei Giubilei, ed era riuscito a precisare lo svolgersi settimanale dell'ordine dei 24 turni sacerdotali nel tempio, allora ancora in funzione. I suoi risultati erano consegnati nell'articolo "The Calendar Reckoning of the Sect from the Judean Desert. Aspects of the Dead Sea Scrolls", in "Scripta Hierosolymitana", vol. IV, Jerusalem 1958, pp. 162-199; si tratta di uno studio accurato e importante, ma, si deve dire, passato pressoché inosservato dal grande circuito, ma non ad Annie Jaubert. Ora, la lista che il professor Talmon ricostruisce indica che il "turno di Abia (Ab-Jah)", prescritto per due volte l'anno, ricorreva così: I) la prima volta, dall'8 al 14 del terzo mese del calendario, e II) la seconda volta dal 24 al 30 dell'ottavo mese del calendario. Ora, secondo il calendario solare (non lunare, come è l'attuale calendario ebraico), questa seconda volta corrisponde circa all'ultima decade di settembre.

Come annota anche Antonio Ammassari, "Alle origini del calendario natalizio", in "Euntes Docete" 45 (1992) pp. 11-16, Luca, con l'indicazione sul "turno di Abia", risale a una preziosa tradizione giudeo-cristiana gerosolimitana, che da narratore accurato di storia (Lc 1, 1-4) ha rintracciato, e offre la possibilità di ricostruire alcune date storiche.

Così il rito bizantino al 23 settembre fa memoria dell'annuncio a Zaccaria, e conserva una data storica certa, e pressoché precisa (forse con un decalco di uno o due giorni).

Date storiche del Nuovo Testamento

La principale datazione storica sulla vita del Signore verte sull'evento principale: la sua resurrezione nel resoconto unanime dei quattro Evangeli (e del resto della Tradizione apostolica del Nuovo Testamento, vedi 1Cor 15, 3-7) avvenne all'alba della domenica 9 aprile dell'anno 30 d.C., data astronomica certa, e quindi quella della sua morte avvenne circa alle 15 pomeridiane del venerdì 7 aprile del medesimo anno 30.

Secondo i dati ricavati dall'indagine recente come sopra accennata, viene un intreccio impressionante di altre date storiche.

Il ciclo di Giovanni il Battista ha la data storica accertata (circa) del 24 settembre del nostro calendario gregoriano dell'anno 7-6 a. C. per l'annuncio divino concesso a suo padre Zaccaria. Nel computo attuale, sarebbe nell'autunno dell'1 a. C., ma si sa che dal VI secolo vi fu un errore di circa sei o cinque anni sulla data reale dell'anno della nascita del Signore.

La nascita di Giovanni il Battista nove mesi dopo (Lc 1, 57-66), (circa) il 24 giugno, è una data storica.

Ma allora, nel ciclo di Cristo Signore, che Luca pone in forma di un dittico speculare con quello del Battista, l'annunciazione a Maria Vergine di Nazareth "nel mese sesto" dopo la concezione di Elisabetta (Lc 1, 28) risulta come un'altra data storica.

E in conseguenza, e finalmente,è una data storica la nascita del Signore al 25 dicembre, ossia 15 mesi dopo l'annuncio a Zaccaria, nove mesi dopo l'annunciazione alla Madre sempre vergine, sei mesi dopo la nascita di Giovanni il Battista.

La santa circoncisione otto giorni dopo la nascita, secondo la legge di Mosè (Lev 12, 1-3), è una data storica.

E così, quaranta giorni dopo la nascita, il 2 febbraio, la "presentazione" del Signore al tempio sempre secondo la legge di Mosè (Lev 12, 4-8), che segna l'hypapantê, l'Incontro con il suo popolo, è una data storica.

"Problemi liturgici"

La data del Natale ha intorno un nugolo di problemi. Anzitutto viene il fatto che in alcune Chiese si cumulò e talvolta si confuse il 25 dicembre con il 6 gennaio, giorno che cumulava la memoria degli eventi che contornavano la nascita del Salvatore.

Poi, soprattutto, la non chiara distinzione tra memoria di un fatto, che può durare generazioni, la devozione intorno a questo fatto, che si può esprimere con un culto non liturgico, e l'istituzione di una festa "liturgica" con data propria e con una vera e propria ufficiatura, che comprende la liturgia delle ore sante e quella dei divini misteri.

Qui va tenuto conto, come invece in genere si trascura, dell'incredibile memoria delle comunità cristiane quanto a eventi evangelici, e ai luoghi che videro il loro verificarsi.

L'Annunciazione, ad esempio, era entrata nella formulazione di alcuni "Simboli battesimali" più antichi già nel secolo II. Essa nella medesima epoca fu rappresentata nell'arte cristiana primitiva, come nella catacombe di Priscilla. A Nazareth stessa, come ormai ha dimostrato splendidamente l'archeologia, il luogo dell'Annunciazione fu conservato e venerato senza interruzione dalla comunità locale, e fu visitato da un ininterrotto afflusso di pellegrini devoti, che lungo i secoli lasciarono anche graffiti e scritte commoventi, fino ai giorni nostri. Quando si avviò il culto "liturgico" della Madre di Dio, nel V secolo inoltrato, si ebbe la grande festa "liturgica" dell'Euaggelismós, l'annunciazione a Maria. Questa acquistò tale straordinaria risonanza che in Occidente i Padri la annoverarono tra i "primordi della nostra redenzione" (con il Natale, i Magi e le nozze di Cana), e in Oriente fu considerata così solenne e quasi soverchiante, che la sua data nel rito bizantino abolisce la domenica e perfino il giovedì santo, cede solo al venerdì santo, e se cade alla domenica della Resurrezione divide la celebrazione così che si celebra metà del Canone pasquale e metà del Canone dell'Annunciazione.

A Betlemme già prima della costruzione della Basilica costantiniana (primo trentennio del IV secolo), la comunità cristiana aveva conservata la memoria e la venerazione ininterrotte del luogo della nascita del Signore.

In Egitto la Chiesa copta conserva con ininterrotta devozione la memoria dei luoghi dove la santa famiglia sostò nella sua fuga (Mt 2, 13-18), dove furono costruite chiese ancora officiate.

Si può parlare qui dei luoghi santi della Palestina, in specie quelli di Gerusalemme: dell'Anástasis, la Resurrezione (così riduttivamente chiamato "santo sepolcro") e del Golgota, del Cenacolo, del "Monte della Galilea" che è quello dell'Ascensione, del Getsemani, di Betania, della piscina probatica (Gv 5, 1-9), dove fu costruita una chiesa, del luogo della "Dormizione" della Madre di Dio nel Cedron, e così via. Su tutti questi luoghi esiste una documentazione preziosa, impressionante e ininterrotta lungo i secoli fino a noi, dei pellegrini che li visitarono sempre con gravi sacrifici e pericoli, e lasciarono descrizioni e resoconti scritti della venerazione di cui erano oggetto, e degli usi della devozione degli abitanti e degli altri visitatori.

Il problema di grande interesse qui è la scelta delle date per le celebrazioni "liturgiche" vere e proprie. Quanto alla celebrazione "liturgica", nel senso visto sopra, del Signore, della sua Madre sempre vergine, di Giovanni il Battista, si trattò di scelte arbitrarie, provenienti da ideologie o da calcoli ingegnosi? Non pare. Il 23 settembre e il 24 giugno per l'annuncio e la nascita di Giovanni il Battista, e il 25 marzo e il 25 dicembre per l'annunciazione del Signore e per la sua nascita, non furono arbitrarie, e non provengono da ideologie di riporto. Le Chiese avevano conservato memorie ininterrotte, e quando decisero di renderle celebrazioni "liturgiche" non fecero che sanzionare un uso immemoriale della devozione popolare.

Va tenuto conto anche del fatto poco notato che le Chiese si comunicavano le "date" delle loro celebrazioni, e così ad esempio quelle delle "deposizioni dei martiri", che chiamavano il "natale dei martiri" alla gloria dei cielo. Per le grandi ricorrenze, come le feste del Signore, degli apostoli, dei martiri, dei santi vescovi delle Chiese locali, e dal secolo V anche di quelle della Madre di Dio, le Chiese adottarono volentieri le proposte delle Chiese sorelle. In pratica, pressoché tutte le grandi feste del Signore e della Madre di Dio vengono dall'Oriente palestinese, e, furono accettate con grande entusiasmo dalle Chiese dell'Impero, e prima dei grandi scismi del V secolo, anche dall'immensa cristianità dell'Impero parto. Il Natale, come sembra, venne da Roma, e fu accettato, sia pure con qualche esitazione, da tutte le Chiese.

Con questo, si vuole dire che le Chiese avevano la possibilità di controlli e di verifiche, e va detto che gli antichi padri nostri non erano affatto creduloni, ma spesso giustamente diffidenti, così da respingere ogni tentativo illecito e illegittimo di culto "non provato".

L'evangelista Luca in tutto questo ha una parte non piccola, quando con opportuni e abili accenni rimanda a luoghi ed eventi e date e persone.

(1)Il testo sembra cadere nell'errore di far coincidere la Concezione Immacolata di Maria con il concepimento verginale di Gesù. Ovviamente le due realtà sono strettamente congiunte, ma non è esatto lasciar intendere che l'Immacolata Concezione di Maria equivalga al concepimento del figlio Gesù senza il contributo dello sposo Giuseppe."Se vien qualcuno tra voi e non porta questa dottrina non lo ricevete in casa e nemmeno salutatelo "(Giov.IIª, 10).


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La nascita di Gesù
di Giuseppe Ricciotti

Un elemento assolutamente sicuro per fissare la data della nascita di Gesù è che egli nacque prima della morte di Erode il Grande, cioè prima del tempo tra la fine di marzo e il principio di aprile dell'anno 750 di Roma, 4 av. Cr., essendo certo che Erode morì in quel tempo (§ 12). Ma quanto tempo prima della morte di Erode era nato Gesù? Ricorrendo a vari argomenti si riesce a circoscrivere entro certi limiti il tempo utile anteriore al 750 di Roma.

Un argomento si può trarre dal comando di Erode che fece uccidere tutti i bambini nati in Beth-lehem da un biennio in giù (Matteo, 2, 16), ritenendo con ciò d'includervi sicuramente il bambino Gesù: dunque Gesù era nato molto meno di un biennio prima, giacché si può supporre a buon diritto che Erode abbondasse assai nella misura stabilita per esser certo di raggiungere il suo scopo. Ma questa misura di un biennio non risale dalla morte di Erode, bensì dalla visita dei Magi i quali appunto fornirono a Erode la base dei suoi calcoli. D'altra parte i Magi al loro arrivo trovarono Erode ancora a Gerusalemme (Matteo, 2, 1 segg.), mentre noi sappiamo che il vecchio monarca, già malato e aggravatosi di salute, si fece trasportare nella tepida Gerico ove poi morì: possiamo anche ragionevolmente stabilire che questo trasporto avvenne ai primi rigori dell'inverno con cui si chiudeva l'anno 749 di Roma, cioè un 4 mesi prima della morte di Erode.

La consecuzione dei fatti è dunque questa: nascita di Gesù; arrivo dei Magi a Gerusalemme; decreto di strage dei bambini nati da un biennio; partenza di Erode per Gerico; morte di Erode. Per collegare cronologicamente i due termini estremi - cioè la nascita di Gesù e la morte di Erode - dobbiamo calcolare il biennio stabilito nel decreto di Erode, pur avendo presente che è una misura assai sovrabbondante, ma dobbiamo anche farvi l'aggiunta dei 4 mesi testé stabiliti. Un'altra aggiunta da fare è l'intervallo tra l'arrivo dei Magi e la partenza di Erode per Gerico, ma di ciò non sappiamo nulla di preciso. Una terza aggiunta è l'intervallo tra la nascita di Gesù e l'arrivo dei Magi: di questo intervallo sappiamo soltanto che non poté essere inferiore ai 40 giorni della purificazione (Luca, 2, 22 segg.), perché Giuseppe certamente non avrebbe esposto il bambino Gesú al grave pericolo di presentarlo a Gerusalemme se ivi fosse già stata decretata la morte del neonato; tuttavia questo stesso intervallo può essere stato notevolmente maggiore di 40 giorni. In conclusione, risalendo per questa via dalla data di morte di Erode, possiamo concludere che la grande sovrabbondanza del biennio decretato da Erode colmi in maniera tale i 4 mesi e i due intervalli testé esaminati, che ne sopravanzi anche qualche piccolo spazio di tempo quindi: Gesù sarebbe nato un pò meno di un biennio prima della morte di Erode, cioè sullo scorcio dell'anno 748 di Roma (6 av. Cr.).
 
(tratto da: Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Mondadori, Milano 1999, § 173)

giovedì 30 dicembre 2010

bilanci e segnali incoraggianti

Bilancio 2010 della Tradizione Cattolica

Siamo ormai a fine anno, è giunto il momento di stilare il bilancio 2010 della Tradizione Cattolica, che ancora una volta si è chiuso in maniera positiva. Ripercorriamo insieme i principali avvenimenti:

- Nel corso dell'anno è stata raggiunta la soglia dei 200 vescovi e cardinali che hanno celebrato la Messa tradizionale dopo la promulgazione del Motu Proprio Summorum Pontificum nel 2007. Il conteggio è stato tenuto dal mio amico José Luis Cabrera Ortiz, presidente di “Una Voce Málaga”.

- Nel mondo è aumentato il numero delle Messe tradizionali celebrate nei giorni di precetto.

- Sono proseguiti gli importantissimi colloqui dottrinali tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X, volti a fare chiarezza su alcuni punti del magistero ecclesiastico degli ultimi decenni. Inoltre da Menzingen (sede del quartier generale lefebvriano) sono giunti segnali incoraggianti che lasciano sperare in una prossima soluzione della questione riguardante lo status giuridico della Fraternità.

- Benedetto XVI ha creato cardinale il zelantissimo vescovo americano Raymond Leo Burke. Inoltre è stato creato cardinale anche il leggendario Domenico Bartolucci, il più grande compositore di musica sacra degli ultimi due secoli. Entrambi i neo porporati sono innamorati della Messa tridentina.

- Il “siriano” cardinale Mauro Piacenza è stato nominato Prefetto della Congregazione per il Clero.

- È stato beatificato il grande cardinale John Henry Newman, strenuo oppositore del relativismo e del liberalismo.

- Anche quest'anno sono state numerose le vocazioni religiose e sacerdotali negli istituti legati all'antica forma liturgica.

Come non rendere grazie a Dio per tutto ciò? Ovviamente non ci sono state solo rose e fiori, sono infatti proseguite in vari modi le persecuzioni dei denigratori della Messa gregoriana, ma come ho già spiegato in passato, costoro contribuiscono indirettamente alla crescita del movimento liturgico legato alla forma straordinaria della liturgia.

Per quanto riguarda invece il blog Cordialiter, inaugurato nel primo trimestre del 2008, penso che il bilancio possa essere chiuso in nero (chi ha studiato ragioneria sa che chiudere il bilancio in nero significa che c'è stato un risultato positivo, mentre chiuderlo in rosso significa che c'è stata una perdita d'esercizio). Per bilancio positivo, intendo dire che c'è stato un numero elevato di visitatori, con un incremento del 200% sull'anno precedente. Ho notato che anche altri blog e siti filo-tradizionali hanno riscosso molto interesse, ottenendo risultati numericamente ancora più positivi. Insomma, c'è tanto interesse della gente per queste tematiche.

Inoltre è nato anche il blog "Vocazione Religiosa" che con circa 5.000 visite mensili, ha superato ogni mia più rosea previsione. Non nobis, non nobis.
Speriamo che il 2011 sia un anno di ulteriore crescita della Tradizione Cattolica nel mondo, per il bene delle anime e la maggior gloria di Dio.

Pubblicato da cordialiter
 
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Il papa distribuisce i nuovi cardinali nella sua squadra di Curia

Sono uscite oggi le nomine dei cardinali annoverati da Papa Benedetto come membri dei vari dicasteri vaticani. Trovate l'elenco completo a questo link della Sala Stampa.

Vi segnalo solo l'infornata di membri, ben noti per le loro posizioni, nella Congregazione per il Culto Divino:

Il Santo Padre ha annoverato tra i Membri dei Dicasteri della Curia Romana i seguenti Eminentissimi Signori Cardinali, creati e pubblicati nel Concistoro del 20 novembre 2010...

3) nella Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti gli Eminentissimi Signori Cardinali: Kazimierz Nycz, Arcivescovo di Warszawa; Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don, Arcivescovo di Colombo; Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi; Raymond Leo Burke, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica; Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero; Velasio De Paolis, Presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede.

Mi pare che il Papa, stavolta, sia stato mooooooolto chiaro sul messaggio che sta lanciando a proposito di liturgia, proprio attraverso la scelta di questi membri della Congregazione. Non vi pare?

Il rientro di Ranjith in uffici a lui ben noti e lasciati inopinatamente anni addietro; l'ingresso del "cappamagnate" Burke, e del suo collega canonista De Paolis - che recentemente è stato udito invocare il ritorno del "diritto divino e canonico" a regnare tra gli ecclesiastici per attenuare l’attuale confusione generalizzata (vedi qui); l'arrivo del Card. Piacenza, che tanto insiste sull'identità e la santità del Clero e di Amato (ortodossissimo prefetto dei Santi), farà glissare sul nome dell'arcivescovo polacco, il quale non risulta eccellere nei riti sacri...




Il Papa riconsidera l'indulto della comunione sulla mano: revocato alle Messe papali

Notizia di enorme significato: nelle Messe celebrate dal Santo Padre (a partire dalla Messa della Notte di Natale 2010), non solo lui, ma tutti i sacerdoti che lo aiutano a distribuire ai fedeli la comunione, non porranno più l'ostia santa sul palmo della mano, ma solo in bocca, a ciascun comunicando, laico o chierico che sia.

Non c'è dubbio, per chi è stato anche una sola volta alle messe celebrate in San Pietro dal Papa, che il momento della comunione è spesso di grande confusione, e c'è gente che allunga le mani verso ogni sacerdote, a volte dando quasi l'impressione di voler ghermire una particola. Adesso ciascuno, con più ordine, e con meno pericoli di far cadere a terra le particole, dovrà con calma presentarsi di fronte al ministro e ricevere da lui sulla bocca la santa comunione.

Questo modo di ricevere il Corpo di Cristo, non solo aumenta la devozione e la consapevolezza della reale presenza del Salvatore, ma previene anche non difficili furti delle sacre specie che possono avvenire nelle messe più affollate.

A quanti diranno che "si torna indietro" ecc. ecc., è bene SEMPRE ricordare:

a) Il modo UNICO previsto dal Messale di Paolo VI è ricevere la comunione sulla bocca.

b) La possibilità alternativa di ricevere sulle mani è regolata da un INDULTO che può essere messo in vigore in alcuni luoghi (e ritirato) da alcuni vescovi (e non da altri).

La notizia è ripresa dal Blog di Fr. Z


martedì 28 dicembre 2010

protestantesimo tradizionalista: niente di meno!


A Natale siamo tutti più buoni: perfino noi, i terribili tradizionalisti con il coltello tra i denti! E così le anime più ardimentose possono permettersi di sparare a palle incatenate contro il mondo della Tradizione, in quello e nei giorni successivi in ben altre faccende ben affaccendato. Stiamo parlando dell’inopinato attacco che il vaticanista Andrea Tornielli ha vergato sul suo blog: sembra davvero uno sfogo a caldo più che un’invettiva a lungo meditata; ne sono prova i non pochi refusi tra i quali spicca quello per cui sembrerebbe che i tradizionalisti abbiano il vezzo di apostrofare “chi segue l’antico rito” con il epiteto di “modernista”. Mai sentita una roba del genere! Ed anche il resto appare davvero uno zibaldone messo giù in qualche modo e con molta approssimazione, cosa che il buon Tornielli non fa mai, essendo ordinariamente preciso e ben informato nei suoi scritti, tanto che questa volta verrebbe da domandare come all’Ariosto: “Messer Ludovico, dove mai avete trovato tante corbellerie?”

Nella colluvie di petizioni di principio e di affermazioni gratuite si distinguono due accuse molto pesanti contro il mondo della Tradizione e a quelle vale la pena di rispondere perché siamo di fronte al solito giochetto, questo sì praticato ben a lungo dai modernisti, di rovesciare la realtà: parliamo dell’accusa di protestantesimo e di gallicanesimo. Niente di meno! Dare dei protestanti ai tradizionalisti significa usare un’arma di distruzione di massa e accusare di gallicanesimo (e velatamente, ma non tanto, di sedevacantismo) il mondo che ruota intorno alla Tradizione significa mirare al cuore dell’avversario. Lo meritiamo davvero un trattamento del genere? Il giorno di Natale poi! È una notevole caduta di stile e non facciamo del moralismo: non cessavano forse di spararsi addosso anche i soldati in trincea il giorno di Natale? In quest’ultimo Natale abbiamo dovuto registrare una mitragliata di accuse lanciate non certo sine ira ac studio, a giudicare dal tono e dagli “argomenti”. Ma veniamo all’accusa, mascherata da preoccupazione, che “certo tradizionalismo possa scivolare proprio nel suo esatto contrario, il protestantesimo. O meglio, il gallicanesimo”: che dire? Vediamo in che cosa consista il protestantesimo e poi il gallicanesimo prima di rispondere. Il protestantesimo è di difficile inquadramento, ma potrebbe benissimo essere sintetizzato in un radicale rifiuto di ogni mediazione umana sul piano storico con il ripudio della Tradizione, sul piano ecclesiologico con il rifiuto della Chiesa gerarchica e sul piano soteriologico con il disprezzo delle opere buone. Sul piano pratico il protestantesimo si caratterizza, come suggerisce il nome, per la protesta che può dirsi anche “rifiuto costante di identificare il messaggio di salvezza e la salvezza stessa con una forma storica particolare” (B. Mondin, Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale, voce Protestantesimo, Milano, 1989). Dunque se si accusa sostanzialmente il mondo della Trradizione di voler prescindere dalla tradizione degli ultimi quarant’anni, si può anche essere nel giusto, ma non si potrà mai accusare la Tradizione di rifiutare la Tradizione. Per quanto riguarda il rifiuto della Chiesa gerarchizzata e istituzionalizzata, ciò non appartiene davvero al mondo della Tradizione, ma a tutto quel mondo che in questi anni ha enfatizzato i "carismi" più eterogenei ed eterodossi e deprezzato la Chiesa così come l’ha fondata Nostro Signore blaterando di una “nuova pentecoste”. I tradizionalisti sono per la Messa di sempre e per la Chiesa di sempre che non hanno mai rifiutato come fanno coloro che, come ammonì il Papa nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, hanno visto nel Concilio “una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova” ricordando subito dopo che i Padri conciliari non potevano vantare nessun mandato per fondare una nuova Chiesa perché “nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore”. Chi è per il rifiuto della Chiesa? Chi le rimane attaccato anche a costo di strattonarla un po’ o chi ne vorrebbe una “nuova”? Non sembri un’esagerazione perché è lo stesso Pontefice a ricordarlo nella catechesi di mercoledì 10 marzo scorso: «Sappiamo - ha detto - come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente "altra"» e per non lasciare spazio ad equivoci il Papa ha definito tale aspirazione come «un utopismo anarchico!». Con tanto di punto esclamativo. Se poi si vuole passare al setaccio la Chiesa per scovare sacche di resistenza e di disobbedienza al Santo Padre, si cerchi altrove: il mondo della Tradizione, fatta salva la Fede, finora ha dimostrato ben altro spirito. Se poi l’accusa di protestantesimo si riferisce alle ripetute richieste di un intervento autorevole ed organico circa alcune questioni aperte dal Concilio, enfatizzate da un’ideologia paraconciliare già durante il Concilio e poi esplose, al dire da Mons. Pozzo, nel post-concilio, non pare proprio che possa essere onestamente definita “protesta” una “supplica” al Santo Padre perché intervenga. Essere cattolici non significa essere decerebrati e chiedere, supplicare, invocare un chiarimento su questioni dubbie da parte del Magistero non sembra proprio un atteggiamento della miglior scuola luterana o medodista che sia. Dom Gueranger scriveva già nell’Ottocento: “… quando il pastore si cambia in lupo, tocca anzitutto al gregge difendersi. Di regola, senza dubbio, la dottrina discende dai vescovi ai fedeli; e i sudditi non devono giudicare nel campo della fede i loro capi. Ma nel campo della Rivelazione vi sono dei punti essenziali dei quali ogni cristiano, per il fatto stesso di essere cristiano, ha la necessaria conoscenza e la custodia obbligatoria.” Anche lui protestante? Quanto poi alla risibile accusa di gallicanesimo basti ricordare che uno dei punti della Dichiarazione del clero gallicano votata dal clero francese nel 1682 affermava la superiorità dei Concili ecumenici sul Papa. Tale astruseria appartiene, caro dottor Tornielli, ad altro mondo rispetto a quello tradizionalista. Accusando la Tradizione di gallicanesimo si scivola nell’esatto contrario di un'informazione accurata a meno che non si intendesse dire che il tradizionalismo è gallicano perché oggi parla soprattutto francese, ma ciò non è possibile perché un vaticanista non può non conoscere la storia della Chiesa e il significato di certi aggettivi.

A conclusione di questa disamina viene, del tutto estemporaneamente, in mente ciò che più di cento anni fa San Pio X scriveva nell’ Enciclica Pascendi ai Vescovi dell’orbe cattolico: «Dopo ciò, Venerabili Fratelli, qual meraviglia se i cattolici, strenui difensori della Chiesa, son fatti segno dai modernisti di somma malevolenza e di livore? Non vi è specie d’ingiurie con cui non li lacerino: l’accusa più usuale è quella di chiamarli ignoranti ed ostinati». Ad essere chiamati ignoranti ed ostinati ci siamo abituati, ma protestanti è davvero troppo!

lunedì 27 dicembre 2010

l’europa è un morto che cammi­na

Uccidono i cristiani ma è l'Europa ad essere morta
di Marcello Veneziani

Nel giro di poche ore l'Ue si dimentica delle festività critiane e si rifiuta di equiparare le vittime del comunismo a quelle del nazismo. E se ne frega se attaccano le chiese in Nigeria e nelle Filippine
Per l’Unione europea il Natale non esi­ste, la Pasqua nemmeno, e se uccidono i cristiani in Nigeria e nelle Filippine, co­me è accaduto nel giorno di Natale, chi se ne frega, la cosa non ci riguarda. I cri­stiani saranno una setta del posto. Noi europei ci occupiamo di misurare le ba­nane, mica di religioni, superstizioni, stragi e amenità varie. Noi siamo civili, lavoriamo in banca, mica pensiamo alle festività religiose. E poi in questi giorni la Commissione europea non lavora, è in vacanza natalizia, anche se non si sa uffi­cialmente la ragione di queste festività, sarà l’anniversario dell’euro o l’onoma­stico di Babbo Natale... Non sto vaneg­giando per overdose di spumanti e pa­nettoni. È stata diffusa in milioni di copie e in migliaia di scuole, in tutta Europa e forse anche nei Paesi islamici, l’agenda ufficia­le dell’Europa, firmata della Commissione europea. Nel diario europeo, che mi è capitato di vedere, c’è traccia delle più estrose festività relative alle più minoritarie religioni, ma non c’è alcun riferimen­to alle festività antiche, canoniche e ufficiali della cristianità europea. Non si sa perché festeggiamo Natale e le altre festività religiose, nulla è ac­cennato sull’agenda che ricordi la Natività, la Resurrezione e tutto il re­sto, nulla che segni in rosso una san­­ta festività. Ma quale Natale, Pasqua, Epifania, diceva Totò, a cui evidente­mente si ispira l’Unione Europea. L’ha fatto notare, protestando, il mi­nistro degli Esteri Frattini, ma in que­sti giorni l’Unione europea è chiusa per inventario merci (non esistendo il Santo Natale) e dunque la protesta affonda nel vuoto vacanziero di que­sta vuota Europa. A ragion veduta possiamo perciò accusare l’Unione europea di nega­zionismo. L’Unione europea è un’as­sociazione vigliacca di smemorati banchieri fondata sul negazioni­smo. Nel giro di poche ore, l’Unione eu­ropea ha infatti negato le festività cri­stiane e dunque la sua tradizione principale ancora viva da cui provie­ne e nel cui nome ha un calendario e un sistema di festività. Ed ha pure ne­gato ai Paesi dolorosamente usciti dal comunismo il diritto di conside­rare i loro milioni di vittime sullo stes­so piano delle vittime del nazismo. Come sapete, la Commissione eu­ropea ha nega­to che si possano equi­parare gli stermini comunisti a quelli nazisti e possa dunque scattare an­che per loro il reato di negazionismo. Pur avendo commesso «atti orren­di», i regimi del gulag, secondo la Commissione europea, «non hanno preso di mira minoranze etniche». E che vuol dire, sterminare i borghesi o i contadini è meglio che sterminare gli appartenenti a una razza? Uccide­re chi non la pensa come te è un cri­mine meno efferato che uccidere chi è di un’altra razza? Tra le fosse di Ka­tyn, le foibe e le camere a gas di Da­chau, qual è la differenza etica, giuri­dica ed umana? Tra chi nega gli ster­mini di popolazioni civili di Paesi in­vasi dal comunismo e chi nega gli stermini etnici, qual è la differenza? È ideologica, signori, puramente ide­ologica. Come ideologica è la nega­zione delle tradizioni cristiane più popolari. Non parliamo infatti del dogma trinitario o di altri quesiti teo­logici, qui parliamo di Natale e Pa­squa, avete presente? Alla base del­l’Europa c’è un negazionismo vi­gliacco e bugiardo, che non è solo quello di negare alcuni colossali orro­ri per riconoscere e perseguirne de­gli altri; ma negare l’Europa stessa, la sua vita, il calendario che scandisce i suoi giorni, la sua realtà e la sua veri­tà, la sua tradizione e la sua storia. Il negazionismo dell’Unione euro­p­ea è ancora più grave del negazioni­smo elevato a reato: perché non ne­ga solo alcuni orrori, ma nega anche in positivo la storia, la provenienza, la vita europea. Del suo passato l’Unione resetta tutto,difende solo la memoria della Shoah, e poi cancella millenni di civiltà cristiana, millenni di natali e pasque, orrori del comuni­smo e di altre tirannidi. Che schifo. Io non ho ancora capito a che serve l’Unione europea fuori dall’ambito economico. Non è un soggetto politi­co che esprime posizioni unitarie, non ha un governo passato dal con­senso del popolo europeo, la sua stes­sa unione non fu voluta o almeno rati­ficata da un referendum costitutivo del popolo sovrano. Non è un sogget­to cul­turale e civile perché non fa nul­la per affermare, difendere o valoriz­zare l’identità europea, anzi fa di tut­to per negarla. Non ha una sua carta costituzionale dove declina le sue ge­neralità storiche, le sue affinità idea­li, i suoi principi, le sue provenienze civili e religiose. Non ha una sua poli­tica es­tera unitaria o una strategia in­ternazionale, e non si occupa di stra­gi dei cristiani, semmai si agita solo se c’è una donna condannata a mor­te per aver ucciso il marito in Iran. Insomma, l’Europa non è mai nata e ha paura pure della sua ombra. Esi­ste solo un sistema monetario unico, un sistema di dazi e di regole, di ban­che e di finanziamenti. È un ente eco­nomico, un istituto per il commer­cio. Per questo l’Unione europea non esiste, abbiamo ancora la Cee, la Comunità economica europea. Anzi non sprechiamo la parola comunità per un consorzio economico, tornia­mo al Mec, Mercato europeo comu­ne. L’Europa è un morto che cammi­na.

fonte: Il Giornale

domenica 26 dicembre 2010

digiuni di qualsiasi conoscenza liturgica i più si sono soffermati solo sulla reintroduzione del latino, riducendo la differenza tra il vecchio e il nuovo rito alla sola lingua.

La liturgia tradizionale
di Francesco Agnoli


(...) il 7 luglio 2007 è stato reso pubblico il motu proprio "Summorum pontificum cura" con cui Benedetto XVI ha liberalizzato la cosiddetta "Messa in latino", o "messa tridentina" o "messa di san Pio V".

I mass media nazionali e mondiali hanno dato grande risalto all'evento, senza però comprendere veramente il cuore e il senso di questa iniziativa del pontefice. Digiuni di qualsiasi conoscenza liturgica i più si sono soffermati solo sulla reintroduzione del latino, riducendo la differenza tra il vecchio e il nuovo rito alla sola lingua. Così si sono sprecate le dichiarazioni sulla Chiesa che non sa stare al passo coi tempi, che rimane sempre indietro, che non sa parlare alla gente di oggi, che va a rispolverare vecchie abitudini e linguaggi ormai incomprensibili. In realtà questo provvedimento con cui la messa latina torna ad avere piena cittadinanza nel mondo cattolico, ha un'importanza straordinaria, che va ben al di là di un semplice discorso linguistico. E che si può comprendere solo attraverso un breve esame storico e liturgico, che illustri le vere differenze tra i due riti e lo spirito che li anima.



Come prima brevissima considerazione si può solo dire che la messa latina attrae ancora molti fedeli per il suo potente senso del sacro: sacra e fascinosa, per la sua antichità e universalità, la lingua; sacri e spirituali, ben più delle canzonette con la chitarra o con i tamburi, i canti gregoriani, le polifonie e un immenso patrimonio di brani poetici accumulatisi nei secoli; solenni e maestosi i vecchi altari medievali, incorniciati dal ciborio, o gli altari barocchi, slanciati verso il cielo; densi di significato alcuni momenti della liturgia, contrassegnati dal silenzio, dal senso del mistero, da un profondo spirito di adorazione espresso anche fisicamente nella consuetudine di inginocchiarsi in più occasioni e soprattutto nel momento più importante, quello dell'incontro eucaristico con Gesù… Di tutto questo si è tornati a parlare subito dopo l'elezione di Benedetto XVI: si è tornati a discutere su quale sia il modo più giusto, o più bello, o più opportuno, di pregare, di rivolgersi a Dio. In molti infatti hanno rispolverato alcuni scritti passati, del Cardinal Ratzinger, e vi hanno trovato una quantità abbondante di riflessioni, di ricordi, di annotazioni a margine di abusi liturgici, di canto gregoriano e di fascinose tradizioni dimenticate.



L'autobiografia stessa di Benedetto XVI, "La mia vita", accenna alle liturgie naziste, con quegli alberi innalzati nelle piazze, come durante la Rivoluzione Francese, o come ai tempi dell'Irminsur, l'albero sacro ai Sassoni pagani; ma soprattutto ricorda la liturgia cattolica, che scandiva il tempo e il ritmo della sua vita di fanciullo: "un misterioso intreccio di testi e di azioni", "cresciuto nel corso dei secoli dalla Fede della Chiesa", che "portava in sé il peso di tutta la storia ed era, insieme, molto di più che un prodotto della storia umana". Eppure quella liturgia, continuava il Cardinal Ratzinger, era stata dimenticata, accantonata, con troppa fretta, e troppa superficialità, creando in lui, e in molti altri Padri conciliari, un certo disagio, la paura di dover assistere, addirittura, alla "autodistruzione della liturgia", e la tristezza di vedere "certa liturgia post-conciliare, fattasi opaca o noiosa per il suo gusto del banale e del mediocre, tale da dare i brividi…"

Ebbene, a queste ed altre riflessioni del Cardinal Ratzinger, hanno fatto seguito il Sinodo dei vescovi del 2006, in cui Benedetto XVI ha preso la parola, all'improvviso, per ribadire con forza il carattere anche sacrificale della Santa Messa, l'esortazione sinodale a ridare impulso alle adorazioni eucaristiche, e una serie di articoli di personalità laiche, impegnate a dibattere, come osservatori, o come fedeli, sulla cosiddetta lex orandi: hanno parlato di liturgia, confrontando quella tridentina e quella attuale, tra gli altri, Geminello Alvi, Alberto Melloni e Paolo Isotta, sul "Corriere della sera", e Antonio Socci, alcune volte, sul "Giornale" e su "Libero". Proprio quest'ultimo ha ricordato come la nuova liturgia in volgare, il cosiddetto "Novus Ordo Missae", introdotto ufficialmente nel 1970, avesse sollevato le perplessità, oltre che di molti fedeli, e di importantissimi ecclesiastici come i cardinali Ottaviani e Bacci, anche di numerosi intellettuali e scrittori dell'epoca: Cristina Campo, Ettore Paratore, Massimo Pallottino, De Chirico, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale, Giorgio Bassani, Guido Piovene, Gianfranco Contini, Agatha Christie, Graham Greene, Augusto del Noce, Maritain e Mauriac, Tito Casini, Giovannino Guareschi…

Tutti costoro si schierarono a difesa della liturgia tradizionale convinti di dover salvaguardare un patrimonio religioso e culturale, di canti, di preghiere e di gesti, antichi e solenni, in cui vedevano incarnati, al massimo grado, senso estetico, spirito di devozione e contemplazione del Mistero. E del resto quanti personaggi famosi, atei o miscredenti intemerati, si sono convertiti, nei secoli, proprio di fronte alla bellezza della liturgia, e dei templi per essa costruiti? Non si era appassionato alla Fede, soprattutto grazie alla bellezza della liturgia latina, un esteta decadente come Joris Karl Huysmans? "Solo la Chiesa - aveva scritto in "Controcorrente" - ha raccolto l'arte, la forma perduta dei secoli; ha fissato, perfino nella vile riproduzione moderna, il disegno dei lavori di oreficeria, ha conservato il fascino dei calici slanciati come petunie, dei cibori dai fianchi puri; ha mantenuto perfino nell'alluminio, nei finti smalti, nei vetri colorati, la grazia delle creazioni di una volta?". E non era stato Paul Claudel a lasciarsi affascinare, e convertire, con la stessa travolgente immediatezza di Andrè Frossard, dal canto del Magnificat dei bambini di Notre Dame e di Saint Nicolas du Chardonnet: "in un istante il mio cuore fu toccato e io credetti… Improvvisamente ebbi il sentimento lacerante dell'innocenza, dell'eterna infanzia di Dio: una rivelazione ineffabile!…Le lacrime e i singulti erano spuntati, mentre l'emozione era accresciuta ancor più dalla tenera melodia dell'Adeste Fideles".

Non serve essere esperti liturgisti, per chiedersi, semplicemente: dov'è finito, dopo la riforma liturgica, il senso artistico della Chiesa? Dove la bellezza della sua arte? Dove la possibilità di commuoversi e di piangere, liberamente, come un bambino che si sente felice ed amato, per un canto sacro? E dove sono spariti i turiboli, gli incensi, i paramenti fioriti e colorati, gli altari barocchi, i tabernacoli, i cibori e i baldacchini, gli organi immensi, che creavano nei cattolici del passato, come avviene ancora nel mondo ortodosso, l'idea di poter assaporare, nella liturgia, l'atmosfera del Paradiso? La realtà è che la riforma liturgica del Novus Ordo Missae del 1970 rappresenta per alcuni aspetti una rottura con la tradizione liturgica della Chiesa, un avvicinamento alle posizioni protestanti, ed anche una trascrizione non fedele persino delle prescrizioni conciliari: è lo stesso Monsignor Annibale Bugnini, già allontanato da Giovanni XIII dalla Commissione conciliare della liturgia ("mi si accusa di iconoclastia"), poi richiamato da Paolo VI, a definire la sua opera "una vera creazione", "un'immagine completamente diversa da quel che essa era in passato" (conferenza stampa del 4/1/'67).

Questo Benedetto XVI lo sa bene anche per un fatto: è un tedesco, e conosce, quindi, quanto la nuova liturgia sia nata per influenza protestante e quanto sia importante invece ritrovare il senso di un rito, quello cattolico, che esprime una fede ben diversa da quella riformata. Per capire questo occorre tornare brevemente a Lutero.

Messa cattolica e messa protestante

Di fronte alla crisi che nel quattro-cinquecento attanaglia la Chiesa cattolica, i suoi vescovi “vagabondi” e parte del suo clero, la riforma proposta dal monaco agostiniano Lutero viene a toccare il concetto stesso di sacerdozio, di gerarchia. L’attacco al papa, non nella singola persona, ma nell’istituzione in quanto tale, all’“idolo”, si accompagna alla proclamazione del sacerdozio universale e quindi alla negazione del Sacramento dell’Ordine.

A proposito di questo, a livello pratico, non si tralascia di far leva sull’anticlericalismo, particolarmente presente in un’epoca in cui il popolo cristiano poteva assistere alla confusione fra potere spirituale e potere temporale, alla bramosia di mondanità rappresentata, al sommo livello, da varie figure di principi vescovi, ma anche da sacerdoti intenti ad accumulare incarichi e prebende, più che alla cura animarum. È evidente che una nuova concezione del sacerdozio, unita alla dottrina della “sola fides”, porti con sé, consequenzialmente, la riforma di ciò che è compito precipuo del sacerdote, cioè l’amministrazione dei sacramenti e la celebrazione della Messa. “Io dichiaro - scrive Lutero nell’Omelia della I di Avvento - che tutti i postriboli, gli omicidi, i furti, gli assassinii e gli adulteri sono meno malvagi di quell’abominazione che è la messa papista” .

E nel “Contra Henricum”: Quando la messa sarà distrutta, penso che avremo distrutto anche il papato... Infatti il papato poggia sulla messa come su una roccia. Tutto questo crollerà necessariamente quando crollerà la loro abominevole e sacrilega messa” . Comprendere la riforma liturgica proposta da Lutero significa allora cogliere le radici profonde, teologiche, della sua polemica. Poco serve il solito impelagarsi in una trattazione storica che si riduca ad una elencazione cronachistica, settoriale - che non coglie l’essenza - delle preghiere della messa cattolica mantenute e di quelle tolte, dei cambiamenti accennati e non realizzati, delle tappe successive e talora contraddittorie di un lento e progressivo delinearsi del rito... Fin da subito infatti Lutero ha presente il cardine, lo spirito della sua azione, ma chiaramente i “dettagli”, gli aspetti “secondari” tardano ad allinearsi, a chiarirsi nella sua mente, ad essere conformati in modo consequenziale. Talora è il conflitto coi discepoli, talora la volontà di non turbare le “coscienze deboli” che determinano ripensamenti, passi indietro, la non applicazione di principi teorici già espressi, o riforme realizzate tacitamente ma non esplicitate, non dichiarate .

Talora infine è la grande libertà nelle cerimonie, che Lutero ammette in linea di principio, a rendere poco proficua una analisi solo anatomica e diacronica della messa protestante. Per tutti questi motivi occorre identificare originari fili conduttori, immediatamente presenti al riformatore, ma che saranno dipanati nel tempo, un nucleo, lo spirito stesso, e non i dettagli, della riforma liturgica, che consiste principalmente nei tre aspetti della condanna della nozione di sacrificio, dell’altare versus populum e dell’uso del volgare.

CONDANNA DELLA NOZIONE DI SACRIFICIO

Ciò contro cui il monaco riformatore viene precipuamente a scontrarsi è la tradizionale nozione cattolica di messa, intesa sì come memoriale e banchetto, ma, prima e soprattutto, come rinnovazione incruenta del sacrificio della croce, come rievocazione - riattuazione mistica dell’offerta che Cristo fece di sé al Padre, per la salvezza degli uomini. Sacrificio che, come nel mondo ebraico, greco, romano... aveva anche una funzione di ringraziamento, sottomissione e di impetrazione alla divinità, dando luogo solo in un secondo momento alla consumazione e alla compartecipazione. “Vi è un rapporto sorprendente - scrive J.Hani - fra l’altare di Mosè e il nostro (cattolico, nda.) altare. Mosè costruisce un altare ai piedi del Sinai, offre il sacrificio e fa due metà con il sangue: una è data al Signore (più esattamente: è versata sull’altare che Lo rappresenta) e l’altra la asperge sul popolo...”.

Per Lutero, invece, “la messa non è un sacrificio, o l’azione del sacrificatore... Chiamiamola benedizione, eucarestia, mensa del Signore o memoriale del Signore. Le si dia qualunque altro nome, purché non la si macchi col nome di sacrificio” . Il sacrificio quotidiano, rinnovato più volte ogni giorno nella Messa, toglierebbe infatti valore all’unico sacrificio di Cristo, avvenuto in un preciso momento storico e sufficiente da solo a cancellare i peccati del mondo, definitivamente. Questa concezione porta, soprattutto ne “L’abominio della messa silenziosa. Il cosiddetto canone”, del 1525, a modificare la parte essenziale del rito, eliminando i vari accenni al sacrificio presenti: soprattutto il “Te igitur”, nel quale si dice “haec dona, haec munera, haec sancta sacrificia illibata” ed il riferimento ad Abele. “Ora va rimosso anche il secondo scandalo, che è molto più esteso e appariscente, cioè la convinzione, diffusa un po’ dappertutto, che la Messa sia un sacrificio offerto a Dio. Anche le parole del Canone sembrano orientate in questo senso, dove dice «questi doni, queste offerte, questi santi sacrifici», e poi «questa offerta».

E ancora, si chiede in modo chiarissimo che il sacrificio sia gradito come quello di Abele, eccetera. Perciò Cristo è chiamato vittima dell’altare” . Nell’insegnamento cattolico, che Lutero trova riassunto in Pietro Lombardo, infatti, il sacrificio dell’agnello fatto da Abele, la morte di Cristo, “agnus Dei” sulla croce, e Cristo come vittima, “hostia”, nella Messa, sono collegati, in quanto il primo non è che la prefigurazione veterotestamentaria dei secondi. Da un punto di vista esteriore, tangibile, occorrerà allora abolire la lettura silenziosa del canone, in quanto essa esclude i fedeli, anch’essi sacerdoti, dalla partecipazione, e soprattutto mette in evidenza l’idea della messa come “azione del sacrificatore”. Implica infatti che il prete, e solo lui, sia concepito come “altro Cristo”, e quindi ad un tempo il sacerdote e la vittima: per questo legge silenziosamente il canone, separando nettamente, col cambiamento di tono di voce e di atteggiamento, la parte della narrazione (“Il quale nella vigilia della passione prese...”), da quella della consacrazione (“Questo è infatti il mio corpo”), e cioè il memoriale, cui tutti devono far riferimento, dalla azione attuale, reale ri-attuazione mistica del sacrificio. Con Lutero così il canone silenzioso perde di significato, divenendo tutta la cerimonia esclusivamente banchetto e memoriale, e come tale atto comunitario legato all’ascolto e alla rievocazione di un avvenimento storico e non più evento precipuamente soprannaturale, il sacrificio, intrinsecamente efficace (non necessitando della presenza dei fedeli), cui assistere, comunque, da silenziosi e adoranti spettatori, come ai piedi del Golgota.

“Atto comunitario”, si è detto, opposto ad un rito che può essere “privato”, ma che non vuole esserlo in senso assoluto: è il significato del termine “comunità” a mutare, ad assumere connotazioni diverse. Nel concetto protestante esso implica una presenza fisica, concreta, l’incontrarsi reale, attuale, che permette la con-celebrazione e l’ascolto. “L’idea basilare del Protestantesimo - così sintetizza Laura Ferrari - è la convinzione che Dio si manifesta nella comunità, in ciascuno dei suoi membri, convocati attorno alla Santa Mensa per celebrare la Cena e ascoltare la Parola...” .

Il rito cattolico, invece, sacrificale e solo secondariamente conviviale, comporta la supposizione dell’esistenza, sempre, della comunione fra Chiesa militante, purgante, negata dai protestanti, e trionfante, che si realizza, anche in assenza del popolo, per i meriti di Colui “che è il capo del corpo, che è la Chiesa”, attraverso la ricaduta benefica che ha la celebrazione, come la morte del Venerdì santo, sull’universo intero. La messa cattolica, scrive John Bossy, era intessuta di “preghiere di intercessione in vernacolo per le autorità... i frutti della terra, per gli amici” e “non faceva altro che unire i vivi coi morti nell’atto del sacrificio”: E papa Gregorio Magno (Dial. IV 58.2), scriveva: “nell’ora del Sacrificio, alla voce del sacerdote i Cieli si aprono... a questo Mistero partecipano anche i cori angelici... l’Alto e il basso si congiungono, il Cielo e la terra si uniscono, il visibile e l’Invisibile divengono una sola cosa”.


CELEBRAZIONE VERSUS POPULUM; tavola al posto dell'altare.

Un’altra riforma “esteriore”, che è però conseguenza di premesse teologiche, è l’abolizione dell’altare “ad Deum”, inteso come ara sacrificale su cui un pontefice, nel senso etimologico, realizzi la consacrazione; così Lutero condanna l’usanza di porre le reliquie dei martiri, immagine del sacrificio degli uomini che si unisce a quello di Cristo, all’interno dell’altare, in quanto esso va ora inteso non più come luogo di immolazione, del “martirio” rinnovato di Gesù, ma come semplice tavola su cui si realizza la “Cena del Signore”. “...nella vera messa - scrive nel 1526 - fra puri cristiani, l’altare non dovrebbe rimanere così e il sacerdote dovrebbe sempre rivolgersi verso il popolo, come ha fatto senza dubbio Cristo nell’Ultima Cena.

Ma attendiamo che il tempo sia maturato per ciò” . Quasi chiosando il suo pensiero (che non fu però realizzato in tutti i gruppi protestanti) il riformatore anglicano Thomas Cranmer, 25 anni dopo, spiegherà che “la forma di tavola è prescritta per portare la gente semplice dalla idea superstiziosa della Messa papista al buon uso della Cena del Signore. Infatti, per offrire un sacrificio occorre un altare; al contrario, per servire da mangiare agli uomini occorre una tavola” . Ciò a maggior ragione nell’ottica luterana per cui “il sacerdozio non è niente altro che servizio” di predicazione della S. Scrittura e quindi un servizio rivolto al popolo (versus populum): la centralità dell’azione sacrificale del sacerdote, altro Cristo che si rivolge a Dio Padre, propria del rito cattolico, viene sostituita con la centralità della Parola, la “sola scriptura”. “Tutta la terra - sostiene polemicamente nel trattato intitolato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa” - è piena di sacerdoti, di vescovi, di cardinali, di ecclesiastici, ma nessuno di loro ha il compito di predicare, a meno che non riceva una nuova chiamata speciale” . Questo stesso concetto, la preminenza della Parola e dell’ascolto scritturale, porta ad esclamare, nel medesimo scritto: “Perché deve essere lecito celebrare la Messa in greco, latino o ebraico e non anche in tedesco o in qualsiasi altra lingua?”

L'INTRODUZIONE DEL VOLGARE

L’introduzione del volgare al posto del latino è invero un’altra capitale innovazione, che risulterà funzionale anche alla formazione delle Chiese nazionali e ad accelerare la separazione del mondo protestante da Roma, della Germania dal suo passato latino, nella religione, nelle lettere e nella cultura in genere. Come l’evangelizzatore S. Bonifacio del Wessex, “Grammaticus Germanicus” e il vescovo Rabano Mauro, autore dell’inno liturgico “Veni Creator Spiritus” e soprannominato “praeceptor Germaniae”, avevano portato ai tedeschi, tramite il latino, la Fede cattolica e la cultura romana antica, “conquistando quella terra alla romanità”, è ancora in buona parte attraverso la lingua adottata nella liturgia e nei testi sacri che Lutero e Melantone, giustamente ribattezzati anch’essi “precettori della Germania”, attuano una rottura con il passato e danno vita ad una diversa stagione non solo religiosa, ma anche culturale e politica .

In ultima analisi l’adozione del volgare appare funzionale, in genere, a tutta la concezione della messa luterana, che potremmo definire orizzontale, contrapposta a quella verticale - dall’uomo a Dio, attraverso il sacerdote mediatore - del culto sacrificale cattolico, esteriorizzata, quest’ultima, negli altari notevolmente rialzati di molte chiese romaniche, nello slancio di quelle gotiche, con le loro vetrate vertiginose e i trittici dorati, nell’uso dell’incenso, nell’abbondanza delle luci, nella lussuosa ricchezza dei paramenti che distinguono notevolmente i ministri di Dio dai fedeli... L’“orizzontalità” del culto luterano, invece, nasce da precise convinzioni teologiche: la messa come cena; il sacerdozio universale comunitario, che si manifesta soprattutto nell’abolizione della messa privata : il rito non ha più valore intrinseco - come nel caso in cui, come sul Golgota, il vero attore sia Cristo, tramite il sacerdote, e non i fedeli - ma necessita, per la sua stessa validità, della presenza umana, ne è protagonista l’uomo di fede. Come a dire che la morte di Gesù non sarebbe servita a nulla, se non vi avesse assistito qualcuno.

È quindi il carattere soprannaturale e divino della cerimonia, completamente predominante nella concezione cattolica, che viene, per così dire, ridotto, a favore della dimensione umana, ancor più con riformatori come Zwingli e Carlostadio che ne assolutizzano il carattere memorialistico, negando ogni reale presenza divina nella particola. Questa orizzontalità, forse non completamente slegata dal pensiero antropocentrico degli umanisti, porta con sé, un po’ come l’architettura classicheggiante di un Brunelleschi, la ricerca di semplicità esteriore, che diviene freddezza, nell’addobbo dell’altare, nelle luci e nelle immagini. Una grande consequenzialità, ancora una volta, guida Lutero nell’istituire un legame fra Cena e semplicità, concezione sacrificale e solennità.

Scrive infatti: “Così quanto più la Messa è vicina e somigliante a quella prima messa che Cristo compì nella cena, tanto più è cristiana. Orbene, la messa di Cristo fu semplicissima, senza nessuna pomposità di paramenti, di gesti, di canti, di cerimonie: se fosse da offrire come un sacrificio, parrebbe che Cristo non l’avesse istituita in forma completa” . I tedeschi della Controriforma, ben più delle altre popolazioni cattoliche, risponderanno con la ricchezza e la pomposità dello stile barocco, con gli immensi altari centrali “ad Deum” e l’adozione, più che in passato e più che altrove, di altari laterali con sfondo dorato, del colore, cioè, che meglio di ogni altro poteva trasmettere l’idea della Divinità realmente presente; altri elementi architettonici, come il baldacchino e le balaustre, verranno usati abbondantemente per enfatizzare la centralità e la sacralità dell’altare, non tavola, ma Golgota. Una qualche opposizione ci fu, comunque, anche fra gli stessi seguaci della riforma.

Nel trattato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa”, del 1520, infatti, Lutero propone di “eliminare... le vesti, gli ornamenti, i canti, le preghiere, la musica, le luci e tutto quell’apparato abbagliante”; sei anni dopo invece, nel volumetto citato, “Messa Tedesca...” scrive: “Conserviamo dunque i paramenti della Messa, l’altare, le luci finché si perdono da sé...”. Evidentemente il popolo rimaneva in parte legato alle tradizioni, ai suoi aspetti più visibili, e si ritenne più efficace e indolore una applicazione graduale delle innovazioni. Che comunque non furono sempre percepite, se è vero che ancora oggi, viaggiando nella Germania protestante, si incontrano chiese estremamente semplici e spoglie ed altre dove, per quanto possa sembrare incongruente con lo spirito protestante, rimangono ancora numerose immagini e statue di santi e Madonne. Il confronto fra i due passi sopra citati dimostra anche che il progetto di eliminare i “canti” e “la musica”, presente nel testo del 1520, era già stato abbandonato almeno a partire dal 1526. In un primo tempo infatti il monaco riformatore ritiene che “canti” e “musica” nuocciano alla semplicità e alla sobrietà del rito, come inutili orpelli, finché, scrive Ernesto Buonaiuti, non “sente istintivamente di dover fare qualcos’altro per ravvivare il culto e renderlo atto a riscaldare il cuore della massa credente. Ed ecco che egli scopre improvvisamente in sé delle inattese qualità poetiche e si dà a scrivere, dal 1523, canti sacri..." . La sua primitiva convinzione, che sopravvive solo nella personale avversione per l’organo, è però accolta da alcuni collaboratori e successori, come Zwingli, Calvino, Zwick: si va dalla riduzione delle parti cantate e della musica, al canto esclusivo di melopee salmodiche più o meno elaborate, dalla condanna della polifonia alla soppressione e distruzione degli organi .

La riforma liturgica non è dunque qualcosa di isolato e limitato, ma diventa, è bene ribadirlo, anche linguistica, culturale, musicale e soprattutto architettonica.

LA RIVOLUZIONE ARTISTICA

Non che Lutero abbia contrapposto “una sua nuova concezione architettonica a quella già esistente, ma automaticamente con la sua predicazione vennero posti in particolare rilievo determinati spazi architettonici (pulpito, altare), mentre altri diventavano inutili (cappelle laterali) o venivano utilizzati non più in ordine alla finalità per cui erano stati originariamente previsti, ad esempio il coro come luogo privilegiato riservato al clero” . Le differenze liturgiche si cristallizzano in differenze fisiche, materiali.

L’edificio cattolico è concepito come Domus Dei: tutto deve parlare di Lui, la grandiosità, la luminosità, la stessa posizione dell’edificio, spesso rivolto ad Oriente verso il “Sol Iustitiae” della parusia, e la sua pianta a croce; è Cristo stesso ad abitarla, nel Tabernacolo, rendendola Casa di Dio proprio per una presenza stabile e continua. In essa si rinnova, tramite il sacerdozio gerarchico, il sacrificio della Croce: “l’abside, con la cattedra episcopale e i seggi per il clero, è l’affermazione architettonica della gerarchicità della Chiesa; la centralità dell’altare sotto l’arco trionfale e sotto la solennità del ciborio è la dottrina plasticamente resa del primato del culto e perciò del sacrificio augusto su tutti gli altri interessi della comunità” .

La chiesa protestante è invece essenzialmente la casa dell’uomo-credente, del popolo, dell’assemblea egualitaria che si riunisce per la Cena del Signore. Scompare il tabernacolo, segno della Presenza divina; scompaiono spesso reliquie, santi e Madonne, abitatori della simbolica città di Dio, la Gerusalemme Celeste; non servono più, a rigore, la pianta a croce, la posizione ad Oriente, l’abside, il coro, il ciborio... Paradigmatiche a questo proposito la chiesa del Paradiso, il tempio di Rouen (1601), di Amsterdam (1630) e i settecenteschi templi di Wadenswill, Horgen e Kloten: sono infatti le prime costruzioni veramente aderenti allo spirito liturgico dei riformatori, che per lo più si erano dovuti servire di edifici cattolici preesistenti, limitandosi a singole modifiche e alla reinterpretazione degli spazi, come, ad es., l’esclusione dell’abside. “Un’ordinanza della chiesa di Hesse del 1526 esorta «tutti i fedeli a partecipare alla preghiera e alla lettura... e alla Cena del Signore. Questi atti non saranno più compiuti nel coro, ma in mezzo alla chiesa...»” .

Anche l’altare perde il vecchio significato e la vecchia forma: diviene mensa, solitamente semplice tavola, non più sopraelevata, distaccata da scalinate e balaustre, bensì posizionata in modo da creare un rapporto più diretto, partecipativo, comunitario, fra celebrante e popolo (a questo fine si abbandona anche la divisione in navate, che potrebbe impedire una visuale completa). Evidentemente a questi mutamenti materiali viene dietro l’attenuazione, la scomparsa o il mutamento dei valori simbolici da essi espressi; valori che tentano di esprimere l’ineffabile grandezza del Mistero e del sacro della creazione e del rito. L’edificio propriamente protestante, senza abside, senza tabernacolo, a pianta rettangolare circolare o ellittica, deve ricordare una casa umana, il salone dell’Ultima Cena e non assume quindi più il triplice significato di immagine dell’universo, dell’uomo, tempio vivente della divinità, e di Dio stesso, come sostenevano ad es. S. Massimo Confessore e Onorio d’Autun. Costui, nel suo “Specchio del mondo” - richiamandosi anche alla frase evangelica “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò” (Gv. 2,19) - sostiene che, come la Chiesa-comunità dei fedeli è il Corpo mistico di Cristo, così la chiesa-edificio ne rappresenta la fisicità: il coro è la testa, il transetto le braccia, la navata il busto e l’altare, centro di irradiazione e di convergenza di tutte le linee architettoniche, rappresenta il cuore.

Ancor più, esso è anche immagine di tutto il Corpo di Cristo, definito nella Bibbia “pietra di scandalo”, “la pietra che i costruttori hanno scartato”, “pietra” da cui sgorgarono il cibo e la bevanda “spirituale” per gli ebrei nel deserto (I Cor, 10,4). Per questo viene riverito, baciato, incensato. È il centro del mondo, come stanno a significare la semisfera perpendicolare del ciborio e quella del catino absidale, simboli dell’immensità della volta celeste sopra la terra: non così può essere per l’altare-tavola luterano, e soprattutto zwingliano, la cui centralità non è autonoma, ma dipende dall’essere il supporto dell’assemblea, vero centro e cuore del rito . Sono i riformatori stessi, come Carlostadio e Zwingli, a comprendere il profondo legame fra credenze ed esteriorizzazione, didascalismo visivo, e quindi a promuovere la distruzione di cori, altari, chiese intere, e la costruzione di nuove, di cui le più antiche e tipiche sono “Fleur-de-lys”, “Paradis” e “Terraux”, a Lione .

In questo quadro si inseriscono anche le tendenze iconoclaste variamente diffusesi nel mondo protestante, dalle posizioni moderate di Erasmo, alla forte avversione per le immagini di Zwingli, Calvino e Carlostadio. Quest’ultimo, proprio a Wüttenberg, la città delle 95 tesi, “inaugurò la “messa evangelica” abbattendo e bruciando le immagini” e dando così inizio ad un movimento iconoclasta “serpeggiante in tutta l’Europa del nord” . Benché l’atteggiamento di Lutero fosse alquanto più prudente, “quasi ovunque il primo sintomo visibile dell’incipiente grande trasformazione del cristianesimo fu il ripudio dei santi, espresso in forma di sistematica distruzione delle loro immagini su tela, su tavola o scolpite in pietra, intraprese per iniziativa della pubblica autorità, o di una folla inferocita reduce dai sermoni del cristianesimo riformatore” .

Ripudio dei santi, è bene ricordarlo, che nasce dal terribile pessimismo antropologico luterano, secondo il quale l'uomo non è capace di compiere alcunché di buono, ma è solo e soltanto un peccatore, senza libertà, conteso tra Satana e Dio.

LA COSIDDETTA MESSA DI S. PIO V (o messa latina)

La questione liturgica fu posta all’attenzione dei padri conciliari riuniti a Trento in diverse occasioni e sotto varie angolature. Ma l’aspetto essenziale del “carattere sacrificale della messa” fu definito solo nella XXII sessione, il 17 settembre 1562. In sostanza non si faceva che riproporre la dottrina che Lutero aveva rifiutato, secondo cui nel “divino sacrificio, che si compie nella messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offrì una volta in modo cruento sull’altare della croce”, trattandosi “di una sola e identica vittima” che “lo stesso Gesù offre ora per ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. Si ribadiva la liceità del canone a bassa voce, della messa privata, offerta per i vivi e per i morti, e la non convenienza (“non expedire”) dell’uso esclusivo del volgare.

Quasi ripercorrendo fedelmente le critiche luterane, al capitolo V si passa agli aspetti esteriori, si afferma l’importanza di “luci, incensi, vesti... per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande”, inducendo attraverso “segni visibili... alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo sacrificio”. Al capitolo VIII pur escludendo l’uso del volgare nel rito, si chiede però ai pastori di “spiegare e far spiegare durante la celebrazione delle messe qualche cosa di quello che ivi si legge”, condannando implicitamente, ma chiaramente, la consuetudine dei sacerdoti, di tralasciare l’esegesi biblica; altrove si proscrivono la frivolezza di alcune “musiche in cui, o con l’organo, o col canto, si mescola qualcosa di lascivo e di impuro”, e “quelle richieste di elemosina che sembrano piuttosto esazioni insistenti e indecorose”.

Soprattutto, in conformità con lo spirito generale del Concilio, anche in questa sessione si danno indicazioni in generale sul comportamento del clero, sottolineando l’importanza per il popolo dell’ “esempio di coloro che si sono dedicati al divino maestro” . Non può sfuggire infatti che il protestantesimo aveva aderito in buona parte per la trascuratezza e l’indegnità degli stessi sacerdoti e che “l’anticlericalismo e l’odio verso i preti divenne un movente molto forte dei movimenti evangelici e della guerra contadina del 1525” . Il compito specifico dell’attuazione pratica delle prescrizioni conciliari finì così per essere delegato al papa Pio V. Al suo nome è infatti legato il messale rimasto “in uso sostanzialmente fino al nostro secolo” . In realtà il messale detto di S. Pio V non fu che la ripresa, con rare correzioni, del messale in uso nella Curia romana”: “non si trattava di un nuovo rito, ma del ripristino di antiche tradizioni” .

Il Messale Romano fu promulgato nel 1570, con lo stesso spirito e le stesse preghiere che Lutero aveva considerato inaccettabili. L’unica, grande novità era contenuta nella Bolla “Quo Primum Tempore” dello stesso anno, nella quale si concedeva “l’indulto perpetuo di poter seguire in qualunque chiesa, senza scrupolo veruno di coscienza o pericolo di incorrere in alcuna pena” il nuovo messale. La novità consisteva nell’estendere il rito romano a tutte le diocesi e agli ordini religiosi che non possedessero un proprio messale da oltre duecento anni: “poiché nella Chiesa di Dio uno solo è il modo di salmodiare, così sommamente conviene che uno solo sia il rito di celebrare la Messa”. Come nel campo giuridico il Concilio aveva provveduto a ristabilire e precisare i rapporti gerarchici, restituendo ai vescovi prerogative e potere sugli inferiori, così sul piano del rito Pio V diede vita ad una unità liturgica, espressione di uno spirito antitetico rispetto a quello protestante. L’esistenza, infatti, di una Chiesa docente, di una fede dogmatica, uguale per tutti, in cui la lex credendi determina la lex orandi, tende di per sé , più o meno, a unificare il rito, laddove la credenza nel libero esame e il soggettivismo protestante comportavano, già a detta di Lutero, una sostanziale libertà, che diviene subito confusione e anarchia, nella realizzazione delle cerimonie.

Il Messale Romano imposto all’orbe cattolico da Pio V consacrava dunque la Liturgia di Roma, “rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella sua sobria e piuttosto austera forma”, e alla cui configurazione avevano contribuito in particolar modo papa Damaso (366 - 384) e S. Gregorio Magno (590 - 604). Sarebbe rimasta pressoché invariata fino a Pio XII, con l’introduzione della nuova Liturgia della Settimana Santa . Come già Lutero, anche per i protagonisti della Controriforma esiste un rapporto profondo fra arte e liturgia: solo che questi ultimi, diversamente da Lutero, ma soprattutto dall’iconoclastico Calvino, si rivolsero all’arte per farne l’alleata e il mezzo espressivo più evidente di convinzioni teologiche. “L’immagine sacra poteva contemporaneamente arrivare alla mente attraverso i suoi contenuti catechistici, al sentimento mediante la bellezza della forma, alla devozione per il suo inserimento nel contesto liturgico” (biblia pauperum). È soprattutto nella rappresentazione dell’Ultima Cena, dell’Istituzione dell’Eucarestia, fonte ed origine della Messa, che possiamo scorgere i frutti di questa alleanza, la volontà di ribadire attraverso il linguaggio delle immagini la teologia sacrificale affermata dal Concilio di Trento. A partire dalla Controriforma infatti la rappresentazione dell’Ultima Cena si sforza di acquisire una maggiore sacralità e a risaltare con più evidenza la sua connessione, spirituale, col sacrificio della croce.

Grande appare così la distanza fra la celeberrima, ma anteriore, opera di Leonardo da Vinci o del Veronese, e l’Istituzione dell’eucarestia commissionata a Federico Barocci e posizionata, non a caso, dietro l’altare. In essa infatti “l’artista sostituisce all’evento storico descritto nei vangeli - la cena intorno al tavolo - la raffigurazione di un rito: gli apostoli inginocchiati e Cristo che, con gesto sacerdotale, solleva l’ostia dalla patena e sembra pronunciare le parole consacratorie. L’intenzione è chiaramente quella di suggerire una continuità tra questa prima comunione eucaristica e la S. messa celebrata nella stessa cappella Aldobrandini” . Una tale interpretazione era già stata, è vero, del Beato Angelico, ma a quest’epoca il significato si fa nuovo, assume quasi una sfumatura polemica nei confronti della concezione protestante della messa come semplice cena. Un altra rappresentazione esemplare, ancor più evidente nel suo significato è la “Messa Miracolosa di S. Gregorio Magno” di Cesare Aretusi e Gabriele Fiorini: sull’altare vi è il messale aperto su un disegno della crocifissione e dietro, in posizione frontale rispetto agli astanti, è rappresentato Gesù che tiene in mano la Croce. Si crea così un collegamento spontaneo e ineludibile fra Eucarestia e Crocifissione, legame negato da Lutero, e tra Eucarestia e presenza reale del Corpo e sangue di Cristo, estraneo alla visione esclusivamente memorialistica e simbolica di Zwingli e Calvino.

Stesso significato assumono l’immagine usuale del Cristo raffigurato in piedi sull’altare, il cui sangue sgorgante dalle piaghe confluisce nel calice, e la nuova consuetudine di posizionare direttamente sull’altare la scultura del corpo di Cristo, deposto dalla croce e affiancato di solito da un grande calice eucaristico. Quasi che la messa dovesse essere celebrata sull’orlo del sepolcro aperto, davanti al cadavere. Ne è un esempio notevole il “Cristo morto” di Baccio Bandinelli, collocato sull’altare di S. Croce, a Firenze, nove mesi dopo la pubblicazione del Decreto tridentino sull’Eucarestia. Alla polemica conciliare contro l’iconoclastia protestante seguono l’interessamento di diversi pastori alla questione artistica in genere. Nel 1594 viene pubblicato il “Trattato sulle sante Immagini” del Molano; nello stesso anno l’arcivescovo di Bologna, Gabriele Paleotti, compone un “Discorso intorno alle Immagini sacre e profane” cui segue, nel 1624, il “De Pictura sacra” di Federico Borromeo. L’opera forse più importante, e di più ampi orizzonti, rimane però le “Istructiones Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae” di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, del 1572.

A costui, infatti, si deve la diffusione di una norma che sarà gravida di conseguenze e sul piano della fede e su quello puramente artistico e architettonico: quella di conservare obbligatoriamente l’eucarestia in un tabernacolo posto sull’altar maggiore. “L’uso di conservare una parte dell’eucarestia dopo la messa è antico quanto il cristianesimo”, ma il luogo apposito “poteva essere nella sacrestia o nella chiesa stessa; oppure, indifferentemente, la riserva era posata sull’altare, oppure sospesa (colombe) o infine, conservata nelle cosiddette torri eucaristiche, o anche in nicchie o edicole murali” . Il riformismo protestante più estremo, che attribuisce all’ostia un valore puramente simbolico, non può che criticare radicalmente la riserva eucaristica. D’altra parte Lutero, che credeva nella presenza reale, negava però il perdurare di questa al di fuori della comunione e della messa.

L’adorazione del SS. Sacramento in chiesa e nelle processioni, svincolata dal rito e affermatasi sempre di più dopo l’istituzione della festa del Corpus Domini, nel 1264, gli appariva assurda ed idolatrica. Si capisce allora come da parte cattolica imporre la conservazione, peraltro non nuova, dell’ostia nel tabernacolo dell’altare centrale, equivalesse a sottolineare la fede in una Presenza Reale costante, capace di favorire anche l’adorazione extra-liturgica. “Fu subito chiaro - scrive Carlo degli Esposti - che posto in quel punto centrale e visibilissimo della chiesa e con la possibilità di aumentare a piacimento le dimensioni, il tabernacolo rappresentava certamente la presenza reale di Gesù Cristo nel luogo sacro” .

Diveniva anche, da un punto di vista artistico e consequenzialmente al suo ruolo, il luogo privilegiato per esplicare l’estro e la capacità creativa; specie nei casi in cui si presentasse sotto forma di edificio miniaturizzato, di splendida “Domus Dei” con colonne, cupole, fregi e decorazioni. Altrimenti, l’altra tipologia del tabernacolo prevedeva “un luogo della riposizione più basso e meno ornato”, paragonato al Sepolcro, e “sormontato da un luogo dell’esposizione, quasi sempre un aereo padiglione, sorretto da colonne, chiamato anche a dare evidenza all’intero complesso” . Da qui, dunque, alla controversia sulla presenza reale e sulla liceità dell’adorazione, nasce la caratteristica essenziale dell’architettura e dell’arte sacra di età barocca; a questa centralità corrisponde, sul piano della religiosità popolare, un incremento della devozione Eucaristica al di fuori della Messa, nelle processioni del Corpus Domini, nell’adorazione delle cosiddette “Quarantore”, il tempo trascorso da Gesù nella tomba, nella pia pratica dei sette Sepolcri, la sera del Giovedì santo. Queste devozioni assumono un ruolo fondamentale nella vita del popolo, dopo la Controriforma.

Lo coinvolgono nella lunga preparazione degli addobbi; nella disposizione dei damaschi sulle colonne, di veli e drappi colorati a mo’ di padiglione nelle volte della navata centrale; di composizioni floreali che in questi particolari momenti dell’anno cambiano il volto stesso dell’altare e della chiesa. Anche la città, in occasione delle processioni eucaristiche, specie del Corpus Domini, si rinnova, si veste a festa. Tappeti fioriti, luminarie, drappi svolazzanti dalle finestre delle case salutano il corteo, aperto da un grande carro con raffigurazioni allegoriche, dalle confraternite con i propri gonfaloni, dagli ordini religiosi, da trombettieri e tamburini; dal baldacchino solenne sotto il quale viene portato il SS. Sacramento, seguito dal popolo e dalle autorità politiche in una dimensione sociale di armonia e compenetrazione fra vita religiosa e vita civile.

DOPO LA RIFORMA DEL 1970 (Novus ordo missae)

Il Messale di san Pio V, con il suo corollario di devozioni e di manifestazioni artistiche e popolari, rimarrà pressoché invariato fino a Pio XII, con l’introduzione della nuova Liturgia della Settimana Santa, e, come si ricordava, alle riforme realizzate dalla Commissione di Annibale Bugnini. Di fronte a quest'ultime, come si è detto, vi fu lo sconcerto di parecchi cattolici, ma l'approvazione, al contrario, di molte comunità protestanti, che vedevano rimosse, senza veri motivi teologici, alcune sostanziali differenze tra il loro culto e quello cattolico, consacrate dal Concilio di Trento.

Il Novus Ordo Missae, infatti, come dichiarato anche da Jean Guitton, si avvicina in diversi punti alla cena protestante, in quanto pone l'accento più sul carattere memorialistico del rito, che su quello sacrificale; abolisce di conseguenza la celebrazione ad Deum, sostituita con quella versus populum, e la comunione in ginocchio; elimina l'uso del latino, il canone a bassa voce, la messa anche in assenza dei fedeli, il canto gregoriano, “luci, incensi, vesti... per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande”… Infine, privilegiando la liturgia della Parola rispetto all'Eucarestia, il tabernacolo viene accantonato, e nel contempo muta completamente l'aspetto fisico ed artistico dell'edificio chiesastico. Proprio come le prime chiese veramente protestanti, disadorne, tristi e spoglie, quelle di Rouen, Wadenswill, Horgen e Kloten, anche le chiese cattoliche costruite dopo la riforma del 1970, e improntate ad essa, diverranno più simili ad un "teatro totale" che ad un tempio, ad una casa di uomini che alla Domus Dei.

E' inevitabile, in quest'ottica, che l'altare perda la sua centralità, legata all'idea della Messa come sacrificio: non è più di pietra, "la pietra che i costruttori hanno scartato", e non è più il "centro del mondo", delimitato dalle balaustre, sormontato dalla cupola, simbolo del cielo, e dal baldacchino. E' il "centro di gravità", insomma, che perde importanza, e con esso, spesso, ciò che vi gira intorno: il senso del sacro, del mistero e del bello. Alla luce di quanto si è detto, dunque, si comprende la necessità di ridare cittadinanza da un rito, quello latino, o di San Pio V, capace di esprimere con forza e fascino, le verità di fede cattoliche, secondo un patrimonio di secoli di storia. A questo patrimonio liturgico appartiene anche il canto gregoriano, ingiustamente abbandonato da troppi anni.

Eppure il canto è una preghiera fondamentale, tanto che i grandi santi ne hanno spesso composto qualcuno: si pensi al "Jesu, dulcis memoria" di san Bernardo, o al "Pange Lingua" di Tommaso, o a canti popolari di immensa dolcezza, come "Tu scendi dalle stelle" e "Quanno nascette ninno", del moralista Alfonso de Liguori. Sant'Agostino, nelle sue "Confessioni", scrive: "Quante lacrime sparsi sentendomi abbracciare il cuore dalla soave melodia degli inni e dei cantici risonanti nella tua casa!". E aggiunge: "Chi canta prega due volte". Col canto, infatti, lo spirito si acquieta e si eleva, chiede e ringrazia, contempla ed esulta, con la totalità della persona, quasi trascinando con sé il corpo, costretto a seguire, ad ergersi in elegante postura e a protendersi, in una tensione analoga a quella dell'anima. L'esperienza religiosa è infatti esperienza d'amore, che nasce interiormente, per poi sfociare all'esterno: "dentro non po' celare, tanto grande è il dolzore", poetava Iacopone da Todi, descrivendo l'amore mistico per Dio. Ma per assorbire l'animo, per raccoglierlo, ed innalzarlo al cielo, proprio come una vertiginosa vetrata gotica o un altare barocco, il canto deve essere sacro: gioioso e giubilante, senza scompostezza, poetico e nobile, senza artificio, dolce e soave, senza affettazione né sentimentalismo.

Per generare vera gioia, che si imprima nell'animo, e non solo emozioni passeggere, deve armonizzarsi con la natura dell'uomo, parlare non solo ai sensi, ma a tutte le facoltà, secondo la loro gerarchia. Deve saper esprimere la forza e la soavità della fede, ma anche la sua semplicità e chiarezza; la storicità degli avvenimenti divini, ed il loro carattere misterioso; la coralità dell'esperienza comunitaria, ma anche l'individualità dell'anima personale. Troppe volte, invece, nelle cerimonie odierne, si cantano facili motivetti - forse con l'illusione di attirare i giovani-, in cui prevalgono il ritmo, la sdolcinatezza delle parole, quando non, addirittura, l'utopia e l'orizzontalità mondana. Sono, spesso, canzoni che si potrebbero cantare in un prato, con la chitarra e gli amici, o sotto il balcone di una ragazza, per una serenata: non preghiere, ma composizioni di cantautori di musica leggera. Parlano di "pace", di un "mondo nuovo", di "onde del mare", di pane, non più "angelicus", e di "strade del mondo". Non vi è più il cielo, né il senso religioso, ma un vago umanesimo, insipido, degno di futuri Templi dell'Uomo. Non canti che affidino il quotidiano all'eterno, il divenire all'Essere, la miseria, degna di misericordia, dell'uomo, alla grandezza e bontà di Dio, ma espressioni di un cristianesimo decadente e perbenista, fatto di boy-scuots e "buone azioni".

Sino al punto di cantare il Padre nostro, preghiera insegnata da Gesù stesso, sull'aria di “Sound of silence”, o di rispolverare, per un congresso eucaristico, la canzone di John Lennon, "Imagine", in cui si augura un mondo senza cielo nè religione. Di essa, forse, piacevano la musichetta, l'idea di pace, senza fondamento né sostanza, e l'atmosfera sognante: come se per contrastare l'illuminismo, il cinismo, il materialismo e la miscredenza odierni, occorresse rifugiarsi in una retorica romantica dei "buoni sentimenti", in un languido infiacchimento dei sensi e della mente, che in realtà nulla ha che vedere con la dolce fortezza delle virtù evangeliche. L'esito? Un popolo che non canta più, e che nello stesso tempo, protestantizzato, ha spesso perso l'idea stessa di cosa sia l'Eucarestia, l'incontro carnale, fisico e spirituale, con Cristo, convinto che la Messa si riduca all'ascolto della Parola e ad un fare memoria di un fatto antico e ormai passato per sempre…



(tratto da La liturgia tradizionale. Le ragioni del motu proprio, Fede & Cultura, I parte)