sabato 29 ottobre 2011

Regnare Christum volumus

La festa di Cristo Re

nella storia, nella liturgia, nella teologia

di Daniele Di Sorco





1. Uno spostamento apparentemente irrilevante.


Col motu proprio Summorum Pontificum il Papa Benedetto XVI ha definitivamente chiarito che il Messale romano tradizionale, detto di S. Pio V, non è mai stato abolito e che pertanto qualunque sacerdote può utilizzarlo nella sua integralità. La Pontificia Commissione Ecclesia Dei, in una risposta del 20 ottobre 2008, ha ribadito che “l'uso legittimo dei libri liturgici in vigore nel 1962 comprende il diritto di usare il calendario proprio dei medesimi libri liturgici”. Com'è noto, nel calendario universale del rito romano antico la festa di Cristo Re è assegnata all'ultima domenica di ottobre, mentre il Messale romano riformato, approvato da Paolo VI nel 1969, la colloca all'ultima domenica dell'anno liturgico.
Non mancano coloro che, in nome di una maggiore uniformità tra le “due forme dell'unico rito romano”, insistono per una revisione del calendario che garantisca per lo meno la coincidenza delle feste maggiori (revisione che de facto è stata già compiuta per il rito ambrosiano antico, non però de iure, visto che le norme del diritto richiedono per qualunque modifica liturgica, anche relativa a riti diversi dal romano, l'espressa approvazione della Santa Sede). I più, tuttavia, considerano questo spostamento della festa di Cristo Re come irrilevante: dopo tutto, la ricorrenza è rimasta, anche se leggermente modificata nel titolo (non più "Cristo Re" simpliciter, ma "Cristo Re dell'universo"), e il fatto che sia assegnata ad una data piuttosto che ad un'altra non ne altera la sostanza. Alcuni, sebbene legati al rito antico, giungono a preferire la scelta del nuovo calendario: la festa della regalità di Cristo, infatti, costituisce il perfetto coronamento dell'anno liturgico, mentre non si vede il motivo di collocarla in una posizione apparentemente priva di significato come la fine del mese di ottobre.
Di fronte a tanta variabilità di opinioni, cercheremo, in questo articolo, di ricostruire la genesi storica della festa di Cristo Re, di delinearne - per quanto ci è possibile, in qualità di non specialisti - la portata teologica, e infine di dimostrare perché, a nostro avviso, lo spostamento in questione è tutt'altro che irrilevante.


2. Istituzione della festa.

La festa di Cristo Re fu istituita da Pio XI l'11 dicembre 1925 mediante l'enciclica Quas primas. Si trattava di una festa del tutto nuova, priva - al contrario di altre feste, per esempio quella del Sacro Cuore - di precedenti nei calendari locali o religiosi. D'altronde, se nuova era la festa, non nuova era l'idea della regalità attribuita alla figura di Cristo, che non soltanto la Scrittura, i Padri e i teologi, ma anche l'arte sacra e il senso comune dei fedeli concordemente affermano. Perché il Papa abbia avvertito il bisogno di istituire una ricorrenza specifica dedicata a questo mistero, risulta chiaro dal testo della stessa enciclica: “Se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l'umana società”.
Quale peste?
Quella - risponde il Papa nel paragrafo successivo - del laicismo: “La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso”.

Quindi, se il fine generico della festa - nelle intenzioni del Pontefice - era quello di divulgare nel popolo cristiano “la cognizione della regale dignità di nostro Signore” (regalità in senso lato), il fine specifico era quello di porre l'accento proprio su quella specificazione della regalità che il laicismo nega, vale a dire la regalità sociale. Che sia questo l'autentica ratio della festa, emerge non soltanto dal contenuto dell'enciclica, ma anche da una semplice constatazione di carattere liturgico: tutte le feste, infatti, celebrano - direttamente o indirettamente - la regalità, genericamente intesa, di nostro Signore; ma non esisteva, fino al 1925, alcuna ricorrenza espressamente dedicata al suo regno sulle società di questo mondo.
Tale conclusione è confermata dall'indole dei testi liturgici della festa, promulgati dalla S. Congregazione dei Riti il 12 dicembre dello stesso anno.

Nel Breviario, l'inno dei Vespri afferma:
Te nationum praesides
Honore tollant publico,
Colant magistri, iudices,
Leges et artes exprimant.
Submissa regum fulgeant
Tibi dicata insignia:
Mitique sceptro patriam
Domosque subde civium

(traduzione nostra: “Te i governanti delle nazioni esaltino con pubblici onori, Te onorino i maestri, i giudici, Te esprimano le leggi e le arti. Risplendano, a Te dedicate e sottomesse, le insegne dei re: sottometti al tuo mite scettro la patria e le dimore dei cittadini”).

Nell'inno del Mattutino si legge:
Cui iure sceptrum gentium
Pater supremum credidit
(“A Te [Redentore] il Padre ha consegnato, per diritto, lo scettro dei popoli”).
E ancora:
Iesu, tibi sit gloria, qui sceptra mundi temperas
(“A Te, o Gesù, sia gloria, che regoli gli scettri [= le autorità] del mondo”).

Stessi concetti ribaditi dall'inno delle Lodi:
O ter beata civitas
Cui rite Christus imperat,
Quae iussa pergit exsequi
Edicta mundo caelitus!
(“O tre volte beata la società, cui Cristo legittimamente comanda, che esegue gli ordini che il cielo ha impartito al mondo!”).

Così pure nell'orazione, dove Cristo viene definito “universorum Rege” (non Re di un generico e imprecisato universo, come afferma la nuova liturgia nelle traduzioni volgari, ma Re di tutti, ossia di tutti gli uomini), si dice che il Padre ha voluto in lui instaurare ogni cosa (ivi compreso l'ordinamento sociale), e si auspica che “cunctae familiae gentium” (diremmo, in linguaggio moderno, “ogni società umana”) si sottomettano al suo soavissimo impero.

Dei testi della Messa, ci limiteremo a ricordare le letture scritturistiche. Nell'epistola, S. Paolo insegna l'assoluta e completa dipendenza di ogni cosa, nessuna esclusa, da Cristo “in omnibus primatum tenens” (Col. 1, 18).
Dal Vangelo, poi, apprendiamo che il regno del Signore dev'essere inteso non solo in senso trascendente (regalità spirituale) ma anche immanente (regalità temporale o sociale). Quando infatti Pilato pone a Gesù la fondamentale domanda: “Ergo rex es tu?” si riferisce senza dubbio al concetto di regalità che egli, come romano e come pagano, possedeva, vale a dire al regno su questo mondo.


3. Regalità spirituale e regalità temporale.

Né deve trarre in inganno il fatto che Gesù risponda che il suo regno non è di questo mondo. Si noti, anzitutto, la scelta dei termini: il regno non è “di questo mondo”, ossia non è secondo le modalità dei regni terreni, come Gesù stesso precisa nello stesso passo: “Se il mio regno fosse di questo mondo, le mie guardie avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei: ma il mio regno non è di questo mondo”, e come la Chiesa ha sempre interpretato. Ma ciò non significa che non sia un regno su questo mondo. È ancora Gesù che, poco dopo, lo specifica: “Tu lo dici: io sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è per la verità, ascolta la mia voce” (Gv. 18, 33-37).
La differenza, quindi, sta nel modo, non nell'oggetto. Gesù dichiara di essere venuto nel mondo per regnare su di esso, non però al modo dei monarchi terreni, che regnano per autorità delegata, direttamente e valendosi (in modo legittimo) della forza, ma al modo del Monarca eterno ed universale, che regna per autorità propria, indirettamente e pacificamente (“Rex pacificus vocabitur”, come ricorda la prima antifona dei Vespri, tratta da Isaia).
“L'origine di questa regalità è celeste e spirituale, anche sei poteri regali sono esercitati nel mondo” (S. Garofalo, Commento al Vangelo di Giovanni, in La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali e commentata, Torino, Marietti, 1960, vol. III, p. 273).

Lo scopo della festa, vale a dire la celebrazione della regalità sociale di Cristo, ne illumina anche la collocazione nel calendario. Esistono diversi motivi per cui essa fu assegnata all'ultima domenica di ottobre.
Il primo e più importante è quello delineato dal Papa nell'enciclica: “Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti”. In altre parole, la festa di tutti i Santi, che regnano per partecipazione, viene fatta precedere dalla festa di Cristo, che regna per diritto proprio.
La ricorrenza della regalità di Cristo, inoltre, costituisce il coronamento di tutto l'anno liturgico, e pertanto viene posta verso la sua fine.
È lecito domandarsi: perché non proprio alla fine?
Probabilmente - è l'unica spiegazione veramente plausibile - per non confondere la regalità escatologica (di ordine spirituale), che la liturgia tradizionale ricorda nell'ultima domenica dell'anno liturgico mediante la pericope evangelica sulla fine del mondo, con la regalità sociale, che costituiva l'oggetto specifico della nuova festa.
Vi è poi un altra ragione, non esplicitata nell'enciclica, ma ragionevolmente presumibile. Il mese di ottobre era il mese dedicato alle missioni e nella sua penultima domenica si pregava specialmente per la propagazione della Fede tra i pagani. Quale modo migliore, per concluderlo, che ricordare il fine ultimo delle missioni, vale a dire il regno sociale di Cristo su tutti i popoli?
L'intenzione del Pontefice espressa nell'enciclica, l'indole dei testi liturgici, la collocazione originaria della festa: tutti questi elementi consentono di concludere in modo sicuro che la ricorrenza di Cristo Re fu istituita al preciso scopo di ricordare la regalità sociale di nostro Signore e di costituire così un efficace antidoto al laicismo dilagante.
Occorre, a questo punto, vedere che cosa si intenda per “regalita sociale di Cristo”. Cercheremo di farlo senza esorbitare dai limiti di una trattazione che non è e non intende essere specialistica.
Il fondamento dogmatico della regalità di Cristo genericamente intesa è l'unione ipostatica, “per mezzo della quale la natura assunta dagli uomini è unita alla seconda Persona della SS. Trinità: per tale ragione, dunque, Egli non solo è stato costituito Mediatore dal primo momento della sua Incarnazione, ma è anche divenuto, per questo ammirabile avvenimento, Re di tutta la creazione, in ragione della propria divinità” (P. Radó, Enchiridion liturgicum, Romae-Friburgi-Barcinone, 1961, vol. II, p. 1309).
Lo afferma chiaramente il Papa nella citata enciclica: “In questo medesimo anno, con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l'impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli”.
L'origine della regalità di Cristo in quanto uomo - prosegue Pio XI - è duplice: egli infatti è re non solo per diritto (nativo) di natura, poiché la sua umanità appartiene alla Persona del Verbo divino, ma anche per diritto (acquisito) di conquista, “in forza della Redenzione”, cioè per aver riscattato col suo Sangue il genere umano dal peccato. “Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell'unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature”.
L'estensione del Regno del Verbo incarnato è universale, come universali sono la creazione e la redenzione donde esso promana. Perciò si estende indiscriminatamente a tutte le cose.

Quanto alla sua natura, poiché il mondo consta di realtà trascendenti e di realtà immanenti, è invalso l'uso di distinguere tra regalità spirituale e regalità temporale. Delle due, è la prima ad avere la preminenza, poiché il temporale è per sua natura ordinato allo spirituale.
Si legge infatti nell'enciclica: “Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire”. Tuttavia - prosegue il Sommo Pontefice - “sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio”.
Ora, se la regalità temporale di Cristo, al pari di quella spirituale, si esercita su tutte le cose, essa riguarda non soltanto l'individuo (regalità individuale), ma anche l'insieme degli individui, vale a dire la società (regalità sociale). Ne consegue che le istituzioni sociali hanno nei confronti di Cristo gli stessi doveri dell'individuo singolarmente considerato: devono riconoscerlo, adorarlo e sottomettersi alla sua santa Legge. “Né v'è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli”, precisa l'enciclica.
Sarebbe dunque in errore chi pensasse che l'obbligo morale di aderire alla divina Rivelazione riguardi soltanto il singolo, mentre la società, nelle sue istituzioni, potrebbe e dovrebbe limitarsi al solo diritto naturale (o addirittura ai soli cosiddetti "diritti umani"). Di qui l'esortazione, rivolta dal Papa ai capi delle nazioni, “di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all'impero di Cristo insieme coi loro popoli”.


4. La "nuova" festa di Cristo Re dell'universo.

Uno dei capisaldi del pensiero moderno è la riduzione della religione alla sola dimensione privata, senza alcuna influenza diretta sulla vita pubblica. Si tratta del "laicismo" (che oggi molti preferiscono chiamare "laicità") di cui parla l'enciclica, già individuato e condannato dai Pontefici precedenti. La festa di Cristo Re - nelle intenzioni di Pio XI - doveva fungere da rimedio a questa pericolosa tendenza e ricordare al popolo cristiano che la regalità di Cristo si estende anche alle realtà temporali. Ci domandiamo: tali concetti emergono con la stessa chiarezza anche nella versione attuale, riformata nel 1969, della festa?
Procederemo, anche in questo caso, con l'analisi dei testi liturgici e della collocazione del calendario.

Nella Liturgia delle Ore, l'inno dei Vespri è lo stesso (Te saeculorum Principem), ma da esso sono state soppresse proprio quelle strofe, citate sopra in questo articolo, che parlano esplicitamente della regalità sociale
(“Te nationum praesides...” e “Submissa regum fulgeant...”).
Nella seconda strofa, inoltre, il riferimento al laicismo
(“Scelesta turba clamitat: / Regnare Christum nolumus” = “La folla empia grida: Non vogliamo che Cristo regni”)
è stato rimpiazzato da una frase generica e indefinita
(“Quem prona adorant agmina / hymnisque laudant cælitum” = “Ti adorano prone le schiere celesti e ti lodano con inni”).

Completamente diverso l'inno dell'Ufficio delle Letture (il vecchio Mattutino), privo anch'esso di qualunque riferimento alla dimensione sociale e temporale del Regno di Cristo. Le letture tratte dall'enciclica Quas primas, che il Breviario antico assegnava al secondo Notturno, sono state rimpiazzate da un brano di Origene, di carattere marcatamente spirituale.

Così pure si cercherebbe invano un'allusione o un accenno alla necessità che Cristo regni sulla società civile nel nuovo inno delle Lodi mattutine.
La nuova orazione ricalca lo schema della vecchia, modificandone però completamente il senso. Non si domanda più che la società umana, disgregata dalla ferita del peccato, si sottometta al soavissimo impero di Cristo, ma che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, serva e lodi Dio senza fine. La regalità sociale e temporale dell'antica formula, resa necessaria dalla disgregazione del peccato, lascia il posto alla regalità individuale e spirituale della nuova, nella quale peraltro non vi è alcun accenno esplicito all'impero di Cristo.
Inoltre, sebbene l'originale latino parli ancora di Cristo “universorum Rex”, le versioni moderne hanno tradotto questa espressione con “Re dell'Universo” (cfr. inglese "King of the Universe", francese "Roi de l'Universe", spagnolo "Rey del Universo"), indebolendone ulteriormente la dimensione immanente, concreta, storica del suo Regno.

Le stesse considerazioni valgono a proposito del nuovo titolo della festa (“Cristo Re dell'Universo”) nei libri liturgici in lingua moderna.

La Messa si articola, come di consueto nel nuovo rito, in tre cicli scritturistici.
Il primo (anno A) ha carattere eminentemente escatologico, è incentrata cioè sulla pienezza del regno spirituale di Cristo alla fine dei tempi e non contiene alcun cenno alla regalità sociale.
Il secondo (anno B) prevede il vangelo del formulario tradizionale, ma nella seconda lettura l'epistola di S. Paolo è stata sostituita da un brano dell'Apocalisse che ribadisce la natura spirituale del Regno di Cristo.
Il terzo (anno C) denota una situazione simile ma inversa: l'epistola è quella del formulario antico, mentre il vangelo parla del regno ultraterreno e spirituale che Gesù assicura al buon ladrone. Nel secondo e terzo ciclo scritturistico, quindi, la regalità sociale è presente, ma in misura meno esplicita, e diremmo quasi irriconoscibile, che nel formulario tradizionale.
Del tutto scomparso il testo dell'antico graduale, tratto dal salmo 71, che, alludendo al Messia, affermava: “Dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum” (espressioni ebraiche che denotano l'interezza del mondo immanente).
E ancora: “Et adorabunt eum omnes reges terrae, omnes gentes servient ei” (altro chiaro riferimento all'ossequio dei governanti e della società).

Lo spostamento della festa di Cristo Re verso una dimensione essenzialmente spirituale e trascendente è confermato dalla sua nuova posizione nel calendario. Essa non è più posta in riferimento ai Santi che regnano con Cristo e alle missioni che diffondono il suo regno temporale, ma si trova alla fine dell'anno liturgico, nella posizione che la liturgia romana assegna tradizionalmente al ricordo della fine del mondo e del giudizio universale. Il che, se da un lato spiega l'indole del ciclo scritturistico A, dall'altro rafforza l'idea che nella nuova liturgia il Regno di Cristo a cui si allude con la corrispondente festa non è primariamente, come intendeva Pio XI, quello sociale, storico, temporale, che del resto avrà fine con la sua venuta escatologica, ma piuttosto quello trascendente, spirituale, eterno, che troverà il suo perfetto compimento nella Parusia.


5. Conclusione.

Sulla base di tutti questi elementi, è possibile affermare che, nel nuovo rito, la festa di Cristo Re ha subito un sorprendente allontanamento dal significato voluto al momento della sua istituzione. E non ci sembra azzardato ravvisare, in questo, un certo influsso del pensiero moderno, penetrato negli ultimi decenni anche in ambiente ecclesiastico, che se da un lato accetta - come espressione del pluralismo - la regalità di Cristo sui singoli, dall'altro la rifiuta sulle istituzioni sociali.
C'è da auspicare, pertanto, che almeno nel rito antico alla festa di Cristo Re siano mantenuti, non soltanto il suo formulario, ma anche la sua collocazione originaria. Spostarla al termine dell'anno liturgico, infatti, ne accentuerebbe la dimensione escatologica a discapito di quella sociale, e finirebbe in qualche modo per alimentare la credenza, oggi assai diffusa anche nel mondo cattolico, secondo cui la società civile - intesa nel suo complesso e nelle sue istituzioni - avrebbe il diritto e persino il dovere di prescindere dal soavissimo giogo del Regno di Cristo. “Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l'intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l'autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza” (Pio XI, enciclica Quas primas).


venerdì 28 ottobre 2011

segno dei tempi: nessuno si è filato Assisi III

Traduciamo per i nostri lettori l'analisi di Rorate caeli circa l'irrilevanza mediatica di Assisi III:  ciò che più si temeva, vale a dire la distorsione mediatica di certe immagini che potevono indurre molte anime all'indifferentismo, sembra essere stato evitato per varie circiostanze esterne (in Italia la risonanza mediatica dei funerali del giovane motociclista Simoncelli e le notizie delle alluvioni in Liguria e Lunigiana hanno oscurato l'evento) all'estero dalla sostanziale indifferenza con cui i media hanno trattato la notizia. Ecco cosa scrive Rorate caeli (la traduzione è nostra):


E’ evidentemente vero: come un commentatore ha notato nel suo paese, se non in alcuni quotidiani italiani (e la RAI, la rete di Stato italiano, che ha contribuito a filmarlo), l'incontro di Assisi ha prodotto solo alcune note generiche delle agenzie di stampa riprodotte dai quotidiani nazionali o locali.In most mainstream sources, it was ignored. Nella maggior parte delle fonti ufficiali, è stato ignorato. Ciò dovrebbe essere visto:
thing good, and perhaps the result of a successful effort to downplay the event
(1) come qualcosa di buono, e forse il risultato di uno sforzo riuscito di minimizzare l'evento?
or (2) as something not particularly good, in the way it feeds the ongoing notion that the Papacy (and all it represents) is becoming increasingly irrelevant (as in the repeated meme that the Vatican now feels as inconsequential as the Republic of Venice right before its fall to Napoleonic troops)?
o (2) come qualcosa di non particolarmente buono, nel senso che si alimenta l'idea che il Papato in corso (e tutto ciò che rappresenta) sta diventando sempre più irrilevante (secondo il ritornello che il Vaticano si sente ora insignificante come la Repubblica di Venezia prima della sua resa alle truppe napoleoniche)?
Regardless of anything said or done in Assisi yesterday, events such as the one that took place there tend to be portrayed or seen in the secularized world as confirming what they see as the irrelevance and empty self-importance of faith in general - for many adult men and women, an assembly of religious leaders may look more purposelessly pathetic or pity-inducing than inspiring or scandalous.
Indipendentemente da qualsiasi cosa detta o fatta ieri ad Assisi, gli eventi come quello che vi si svolgevano tendono ad essere ritratti o visti nel mondo secolarizzato come una conferma dell'irrilevanza e vuota autoreferenzialità della fede in generale - per molti adulti uomini e donne, un'assemblea di capi religiosi può sembrare irragionevolmente patetica o inspirare compassione più che produrre ispirazione o alcunché di scandaloso. Perhaps the time has come for the ecclesiastical hierarchy to leave behind some frivolous notions of the second half of the 20th century, including the promotion of an amorphous "peace movement". Forse è giunto il momento per la gerarchia ecclesiastica di lasciarsi alle spalle alcune nozioni frivole della seconda metà del 20 ° secolo, compresa la promozione di un amorfo "movimento per la pace".
[Image: Ludovico Manin, last Doge of the Most Serene Republic of Venice.] 

giovedì 27 ottobre 2011

Primatus est ad aedificationem non ad destructionem Ecclesiae (Roberto Grossatesta)

Leggiamo sul numero 1 (78) del 2011 de "La Tradizione catolica" quest'interessante articolo che pubblichiamo oggi mentre si sta svolgendo la Giornata interreligiosa di Assisi.



Assisi 1986-2011: la continuità evolutiva” di un errore

Perché non si possono accettare
Assisi e ciò che rappresenta


Invitare i rappresentanti delle false religioni ad Assisi per promuovere il loro impegno religioso per la pace, è un implicito riconoscimento della accettabilità da parte di Dio dei loro falsi culti. Tali riunioni oltraggiano Dio e creano turbamento e confusione nei fedeli. «Pertanto nella misura in cui ad Assisi accadesse sostanzialmente ciò che è accaduto 25 anni fa non possiamo che reiterare il nostro nullam partem negli stessi termini utilizzati in quell’occasione».

L’invito di Benedetto XVI a partecipare ad una nuova edizione dell’incontro interreligioso per la pace di Assisi, a venticinque anni dalla sua prima edizione (1986), presenta, con quel nefasto evento, pericolose analogie, sia pure in presenza di maggiori accortezze. È evidente che, malgrado tali probabili accortezze,

ottobre 2011 è innanzitutto una data-anniversario e, come tale, rievoca e celebra, inevitabilmente, ciò che ottobre 1986 ha significato nella storia del post-concilio. Per ribadire – in un momento per certi aspetti diverso da quello di allora - la costanza della nostra opposizione a tutto ciò che possa suonare come avallo del relativismo e del sincretismo religioso, tante volte condannato dallo stesso Benedetto XVI, riproponiamo ai nostri lettori un articolo, dal titolo «ASSISI. Criteri teologici per condannare la giornata mondiale di Preghiera per la Pace», apparso sulla rivista «sì sì no no» proprio nell’ottobre 1986.


È stato detto, con precisione certamente involontaria, che «l’incontro di preghiera» di Assisi è un’«iniziativa personale» di Giovanni Paolo II. In quanto iniziativa “personale” - un’uscita, per intenderci - essa non impegna minimamente il suo mandato di «pastore e maestro di tutti i Cristiani» e neppure attiene alla dottrina, uniformandosi al tema, politico, proposto dall’ONU per questo 1986 proclamato «anno internazionale della pace».

Tuttavia l’iniziativa, in sé e nelle sue implicazioni, appare oltremodo pericolosa per la retta coscienza dei fedeli cattolici. È quel che qui di seguito rileveremo. Il 27 ottobre p.v., dietro invito di Giovanni Paolo II, converranno in Assisi, oltre ai cattolici, «i rappresentanti delle altre religioni del mondo» per «un incontro di preghiera per la pace» .

Coloro che Giovanni Paolo II ha chiamato «rappresentanti delle altre religioni» sono stati sempre più propriamente chiamati dalla Chiesa «infedeli»: «in un senso più generale sono infedeli tutti quelli che non hanno la vera fede; in senso proprio gli infedeli sono i non battezzati e si distinguono in monoteisti (ebrei e maomettani), politeisti (indù, buddisti ecc) ed atei» . E quelle che Giovanni Paolo II ha chiamato «altre religioni» sono state sempre più propriamente chiamate dalla Chiesa «false religioni»: è falsa ogni religione non cristiana «in quanto non è la religione che Dio ha rivelato e vuole praticata. Anzi, è falsa anche ogni setta cristiana non cattolica, in quanto non accetta e non attua fedelmente tutto il contenuto della Rivelazione» .

Premesso ciò, l’«incontro di preghiera» di Assisi, alla luce della Fede cattolica, non può che essere valutato:

1. Un’ingiuria a Dio.

2. Una negazione dell’universale necessità della Redenzione.

3. Una mancanza di giustizia e di carità verso gli infedeli.

4. Un pericolo e uno scandalo per i cattolici.

5. Un tradimento della missione della Chiesa di Pietro.

Ingiuria a Dio

La preghiera, anche di supplica o petizione, è un atto di culto . In quanto tale, deve essere rivolta a Chi
è dovuta e nel modo dovuto.
A chi è dovuta: all’unico vero Dio, Creatore e Signore di tutti gli uomini, al quale il Signore Nostro Gesù Cristo li ha richiamati , consacrando il primo precetto della Legge: «Io sono il Signore tuo Dio […] Non avrai altri dei all’infuori di Me […] non li adorerai né li servirai» .

Nel modo dovuto: corrispondente, cioè, alla pienezza della Rivelazione divina, senza mescolanza di errori: «Viene l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; ché tali sono appunto gli adoratori che il Padre vuole». La preghiera diretta a false divinità, o animata da opinioni religiose contrastanti in tutto o in parte con la Divina Rivelazione, non è un atto di culto, ma di superstizione, non onora Dio, ma Lo offende, oggettivamente almeno, è un peccato contro il primo comandamento.

Chi pregheranno i convenuti in Assisi e in che modo? Invitati in veste ufficiale di «rappresentanti delle altre religioni», «pregheranno ciascuno nella maniera e nello stile che gli è proprio». Lo ha spiegato il Card. Willebrands, Presidente del Segretariato per i non cristiani. Lo ha confermato il 27 giugno u.s. il Card. Etchegaray in una conferenza stampa pubblicata da «La Documentation Catholique» 7/21 settembre 1986 nella rubrica «Actes du Saint Siege»: «Si tratta di rispettare la preghiera di ciascuno, di permettere a ciascuno di esprimersi nella pienezza della sua fede, della sua credenza».

In Assisi, dunque, il 27 ottobre la superstizione sarà largamente praticata e nelle sue specie più gravi: dal “culto falso” degli Ebrei, che, nell’era della grazia pretendono di onorare Dio negando il Suo Cristo, all’idolatria degli induisti e dei buddisti, che rendono culto alla creatura invece che al Creatore.

L’approvazione, quanto meno esterna, della gerarchia cattolica è sommamente ingiuriosa per Dio, supponendo e lasciando supporre che Egli possa riguardare con occhio ugualmente benigno tanto un atto di culto, che di superstizione, tanto una manifestazione di Fede che d’incredulità, tanto la vera religione che le false; in breve: tanto la verità che l’errore.

Negazione dell’universale necessità della Redenzione

C’è un unico Mediatore tra Dio e gli uomini: Gesù Nostro Signore, Figlio di Dio e vero uomo. Gli uomini, per natura, sono «filii irae»; per mezzo di Lui, invece, sono riconciliati col Padre e solo per la Fede in Lui possono avere l’ardire di accostarsi a Dio con tutta confidenza. A Lui è stato dato ogni potere in cielo e in terra e nel Suo nome ogni ginocchio deve piegarsi in Cielo, sulla terra e negli inferi.

Nessuno va al Padre se non per mezzo di Lui e non c’è nessun altro Nome sotto il Cielo nel quale l’uomo possa salvarsi. Egli è la Luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo  e chi non Lo segue cammina nelle tenebre. Chi non è per Lui è contro di Lui e chi non Lo onora oltraggia anche il Padre che Lo ha inviato (come fanno precisamente gli Ebrei). A Lui il Padre ha rimesso il giudizio degli uomini; anzi chi crede in Lui non è giudicato, ma chi non crede è già stato giudicato, perché non ha creduto nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio. Lui e il Padre che lo ha mandato.

Egli, inoltre, è il Principe della Pace, essendo le divisioni, i conflitti, le guerre amaro frutto del peccato, dal quale, l’uomo si libera non per virtù propria, ma in virtù del Sangue del Redentore.

Che parte avrà Nostro Signore Gesù Cristo in Assisi nella preghiera dei «rappresentanti delle altre religioni » non cristiane? Nessuna, rimanendo per loro o un’incognita, o pietra d’inciampo, segno di contraddizione.

L’invito, dunque, rivolto loro a pregare per la pace del mondo suppone ed inevitabilmente lascia supporre che ci sono uomini - i cristiani - che debbono accedere a Dio per mezzo di Nostro Signore Gesù Cristo e nel Suo Nome, ed altri – il resto del genere umano – che possono accedere a Dio direttamente e in nome proprio prescindendo dal Mediatore; uomini che debbono piegare le ginocchia dinanzi a Nostro Signore Gesù Cristo, ed altri che ne sono esentati; uomini, che debbono cercare la pace nel regno di Nostro Signore Gesù Cristo, ed altri, che possono ottenere la pace fuori del Suo regno ed anche opponendosi ad esso. È quel che d’altronde si desume anche dalle dichiarazioni dei succitati cardinali: «Se per noi cristiani è Cristo la nostra pace, per tutti i credenti la pace è un dono di Dio»; «Per i cristiani la preghiera passa per il Cristo». «L’incontro di preghiera» di Assisi, dunque, è la negazione pubblica dell’universale necessità della Redenzione.


Mancanza di giustizia e di carità verso gli infedeli

«Gesù Cristo non è facoltativo» (Card. Pie). Non ci sono uomini che sono giustificati per la Fede in Lui ed altri che sono giustificati prescindendo da Lui: ogni uomo o si salva in Cristo, o si perde senza Cristo. Né ci sono fini ultimi naturali, per i quali l’uomo possa optare in alternativa al suo unico fine soprannaturale: se, sviato com’è dal peccato, non trova in Cristo la Via per conseguire il fine per il quale è stato creato, non gli resta che l’eterna rovina.

La vera Fede, non la “buona fede”, dunque, è la condizione soggettiva di salvezza per tutti, anche per i pagani: essendo necessaria di necessità di mezzo «in mancanza di essa (anche se incolpevole), è assolutamente impossibile di operare la salute eterna (Eb 11, 6)».

L’infedeltà volontaria – spiega san Tommaso – è una colpa e l’infedeltà involontaria è castigo. Gli infedeli, infatti, che non si perdono per il peccato d’incredulità, cioè per il peccato di non aver creduto in Cristo, del quale mai nulla seppero, si perdono per gli altri peccati, che non possono venir rimessi a nessuno senza la vera Fede.

Nulla, dunque, è più importante per l’uomo dell’accettazione del Redentore e dell’unione col Mediatore: è questione di vita o di morte eterna. È questo che gli infedeli hanno il diritto  di sentirsi annunciare dalla Chiesa cattolica conforme al comando divino. Ed è questo che ha sempre annunciato agli infedeli la Chiesa cattolica, pregando, non con loro, ma per loro.

Che accadrà ad Assisi? Non si pregherà per gli infedeli, presumendoli così implicitamente e pubblicamente non più bisognosi della vera Fede. Si pregherà, invece, insieme con loro o, secondo la sottigliezza rabbinica della Radio Vaticana, si starà insieme con loro per pregare, presumendo così implicitamente e pubblicamente che la preghiera dettata dall’errore è accetta a Dio quanto la preghiera «in spirito e verità» . «Si tratta di rispettare la preghiera di ciascuno» ha spiegato il Card. Etchegaray nella succitata dichiarazione.

Il che significa che gli infedeli, che converranno in Assisi e che – si badi bene – non sono quei «nutriti in silvis», che «mai nulla seppero della fede», di cui ipotizzano i teologi quando dibattono il problema della salvezza degli infedeli, saranno “rispettosamente” lasciati «nelle tenebre e nell’ombra di morte».

Autorizzati a pregare in veste di «rappresentanti delle altre religioni» e secondo le loro erronee credenze religiose, essi sono anzi incoraggiati a perseverare in peccati, quanto meno materiali, contro la Fede (infedeltà, eresia, etc.). Invitati a pregare per la pace nel mondo, definita un «bene fondamentale», «supremo», sono dirottati dai beni eterni verso un bene temporale, verso un fine secondario naturale, quasi non avessero un fine ultimo soprannaturale, esso sì, fondamentale e supremo, da conseguire: «Cercate il Regno di Dio e la sua giustizia e il resto vi sarà dato in sovrappiù». Per tutto ciò l’«incontro di preghiera» di Assisi, è una mancanza, quanto meno esterna, di giustizia e di carità verso gli infedeli.

Pericolo e scandalo per i cattolici

 La vera Fede è indispensabile alla salvezza. I cattolici, pertanto, hanno il dovere di evitare ogni pericolo prossimo per la Fede. Tra i pericoli esterni c’è il contatto, non giustificato da vera necessità, con gli infedeli. Tale contatto è illecito per diritto naturale e divino, ancor prima che per diritto ecclesiastico ed anche quando il diritto ecclesiastico non lo proibisce (ad esempio nella vita civile): «Haereticum hominem devita - Evita l’uomo eretico».

La Chiesa, poi, nella sua materna premura, ha sempre proibito tutto ciò che potesse essere per i cattolici non solo un pericolo per la Fede, ma anche un motivo di scandalo.

Quanto alle false religioni, la Chiesa ha sempre negato loro il diritto al culto pubblico; le ha tollerate, se necessario, ma la tolleranza «dice sempre ordine ad male da permettere per una qualche ragione proporzionata»; in ogni caso ha sempre evitato e proibito tutto ciò che includesse una qualche approvazione esterna dei riti acattolici.

Che cosa accadrà ad Assisi? I cattolici e gli infedeli vi «saranno insieme per pregare» (anche se «non per pregare insieme», secondo l’indegno giochetto di parole di cui sopra).

Il che vuol dire semplicemente che pregheranno insieme ad Assisi, ma da sedi separate e sempre insieme, ma a turno, nella cerimonia conclusiva nella Basilica Superiore di San Francesco. E ciò non per tutelare la Fede dei cattolici o per evitarne almeno lo scandalo.

Bensì perché si possa pregare «ciascuno nella maniera e nello stile che gli è proprio», per «rispettare la preghiera di ciascuno» e «permettere a ciascuno di esprimersi nella pienezza della sua fede, della sua credenza». Il che comporta l’approvazione almeno esterna 1) di quei falsi culti, ai quali la Chiesa cattolica ha sempre negato ogni diritto; 2) di quel soggettivismo religioso, che essa ha sempre condannato sotto il nome di indifferentismo o latitudinarismo e che «cerca di giustificarsi con le pretese esigenze della libertà, misconoscendo i diritti della verità oggettiva, che ci si manifesta sia col lume della ragione sia con quello della Rivelazione» . Ora l’indifferentismo religioso, che è «una delle più deleterie eresie» e che mette «sullo stesso piano tutte le religioni» e induce inevitabilmente a considerare irrilevante la verità della credenza religiosa ai fini della bontà della vita e della salvezza eterna: «Si finisce col considerare la religione come un fatto del tutto individuale, in cui ci si adatta alle disposizioni dei singoli, che si formano la loro religione, e col concludere che tutte le religioni sono buone, anche se tra loro contraddittorie». Ma con questo siamo fuori dell’atto di Fede cattolica. Siamo all’illuministico «atto di fede del Vicario savoiardo» di Rousseau, che è un atto d’incredulità nella divina Rivelazione. Questa, infatti, è un fatto reale, una verità accreditata da Dio con segni certi, perché l’errore in tal campo avrebbe per l’uomo conseguenze gravissime . Ora «in presenza di un fatto reale o di una verità evidente non si può essere tolleranti fino al punto di approvare l’atteggiamento di chi li considera inesistenti o falsi. Ciò comporterebbe che non crediamo affatto o non siano pienamente convinti della verità della nostra posizione o che siamo (giudichiamo di essere) in presenza di una materia assolutamente indifferente o banale, oppure che riteniamo verità od errore posizioni puramente relative».

E poiché l’«incontro di preghiera» di Assisi comporta appunto tutto questo, è occasione di scandalo per i cattolici ed un serio pericolo per la loro Fede. In forza dell’ecumenismo, essi si troveranno infine unificati, sì, con gli infedeli, ma nella «comune rovina».

 Tradimento della missione di Pietro e della Chiesa

Annunciare a tutte le genti:  1. che vi è un unico vero Dio, che si è rivelato per tutti gli uomini in Nostro Signore Gesù Cristo; 2. che c’è un’unica vera religione, nella quale unicamente Dio vuole essere onorato, perché è Verità e Gli ripugna tutto ciò che nelle false religioni – dottrine erronee, precetti immorali, riti sconvenienti – si oppone alla verità; 3. che vi è un Mediatore unico tra Dio e gli uomini, nel Quale l’uomo può sperare di salvarsi, perché tutti gli uomini sono peccatori e permangono nei loro peccati se privi del Sangue di Cristo; 4. che vi è un’unica vera Chiesa, che di questo Sangue divino è «conservatrice eterna» e che pertanto «bisogna credere che nessuno può salvarsi fuori della Chiesa Apostolica Romana, che questa è l’unica arca di salvezza, che perirà nel diluvio chi non vi entra» almeno con votum (desiderio), esplicito o implicito nella disposizione morale di compiere tutta la volontà di Dio, «se l’ignoranza è davvero invincibile»; annunciare questo, dicevamo, è la missione propria della Chiesa.

«Andate e ammaestrate tutte le genti; battezzatele nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto quanto Io vi ho comandato» ; «Andate per tutto il mondo, predicate l’Evangelo ad ogni creatura. Chi crede e sarà battezzato sarà salvo; chi invece non crederà sarà condannato» .

Affinché, poi, la Chiesa, potesse nei secoli assolvere con sicurezza questa sua missione, Nostro Signore Gesù Cristo conferì a Pietro, e ai suoi successori, la missione di rappresentarlo visibilmente: «Questo Vicario, dunque, non ha affatto l’incarico di stabilire una nuova dottrina con nuove rivelazioni, o di creare un nuovo stato di cose, o d’istituire nuovi sacramenti: non è questa la sua funzione. Egli rappresenta Gesù Cristo alla testa della sua Chiesa, la cui costituzione è perfetta.

Questa costituzione essenziale, cioè la creazione della Chiesa, è stata l’opera propria di Gesù Cristo, che Lui stesso doveva portare a termine e di cui dice al Padre: “Ho compiuto l’opera che mi desti da compiere”. Non c’è più niente da aggiungervi; ma è necessario soltanto mantenere questa opera, rendere sicura l’opera della Chiesa e presiedere al funzionamento dei suoi organi. Perciò due cose sono necessarie: governarla e perpetuare in essa l’insegnamento della verità. Il Concilio Vaticano I riconduce a questi due oggetti la funzione suprema del Vicario di Gesù Cristo. Pietro rappresenta Gesù Cristo sotto questi due aspetti». Potere, dunque, senza eguali sulla terra il potere di Pietro, ma potere vicario e, come tale, niente affatto assoluto, ma limitato dal diritto divino di Colui che rappresenta: «Il Signore affidò a Pietro le pecore, non di Pietro, ma Sue, affinché le pascesse non per se stesso, ma per il Signore».

Non è quindi nel potere di Pietro di  promuovere iniziative contrastanti con la missione della Chiesa e del Romano Pontefice, quale evidentemente è «l’incontro di preghiera» di Assisi. Non può invitare «rappresentanti» delle false religioni a pregare i loro falsi dei, in luoghi consacrati alla Fede del vero Dio, il Vicario di Colui che ha detto: «Vattene, satana, perché sta scritto: il Signore Dio tuo adorerai e a lui solo renderai culto»; non può autorizzare a prescindere da Nostro Signore Gesù Cristo, il Successore di colui che ebbe il primato per la sua Fede: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente». Non deve essere di inciampo alla Fede dei suoi fratelli e figli il Successore di colui che ha ricevuto il mandato di confermarli nella Fede.


Se non assisteremo, come è probabile, agli scempi di allora (statue di Buddha sui tabernacoli, in presenza del Santissimo; polli sgozzati sugli altari; riti di religioni pagane di fronte alla Presenza Reale di Nostro Signore Gesù Cristo…); se non ci sarà più dato di vedere empie communicationes in sacris con i pagani, poiché i cattolici pregheranno separatamente dai seguaci delle false religioni; se la Santa Sede non perde occasione per ribadire che, in ogni caso, questo incontro non deve essere interpretato come avallo al sincretismo religioso e del relativismo dottrinale… se tutto questo è vero, come speriamo che lo sia, permane, però, il problema dottrinale di fondo: le preghiere elevate alle false divinità - così come il loro incoraggiamento – non sono accette a Dio, indipendentemente dalle intenzioni soggettive dell’orante, in quanto oggettivamente idolatriche. La nostra costernazione non significa amarezza: vorremmo solo risparmiare alla Sposa di Cristo, Nostra Madre, questa ennesima umiliazione, che non può lasciarci indifferenti. Preghiamo ed invitiamo tutti a pregare Maria Santissima, perché interceda presso il suo Divin Figlio e venga risparmiata questa offesa al Suo Corpo mistico.

lunedì 24 ottobre 2011

il Papa ad Assisi per ridurre il danno?


In questi giorni è stato diffuso (casualmente?) un testo, scritto di pugno dal Santo Padre in risposta alle preoccupazioni sull’incontro espresseGli da un vecchio amico, il pastore luterano Peter Beyerhaus (alle volte si trova l’audacia dove meno si crederebbe…). Esaminiamo dunque con attenzione la risposta, chiaramente privata ma altresì disvelatrice, di Benedetto XVI:
«Comprendo molto bene la sua preoccupazione rispetto alla mia partecipazione all’incontro di Assisi. Però questa commemorazione deve essere celebrata in ogni caso e, dopo tutto, mi sembrava che la cosa migliore fosse andarvi personalmente per poter cercare in tal modo di determinare la direzione del tutto. Tuttavia farò di tutto affinché sia impossibile una interpretazione sincretista dell’evento ed affinché ciò resti ben fermo, che sempre crederò e confesserò quello che avevo richiamato all’attenzione della Chiesa con l’enciclica Dominus Iesus».


È un brano impressionante. Ne emerge con chiarezza che ciò che solitamente si dà per scontato, ovvero che il Papa determini la direzione delle cose nella Chiesa, in realtà non lo è affatto: il Papa ritiene di poter soltanto «cercare in questa maniera di determinare la direzione del tutto». Infatti «questa commemorazione deve essere celebrata in ogni caso». Perché ? Il Papa non lo specifica, ma si faccia attenzione al concatenamento del discorso: prima non smentisce affatto l’atteggiamento preoccupato dell’interlocutore, dando anzi l’idea di condividerlo; poi dipinge l’atto in questione come inevitabile anche se Lui non vi fosse andato, ovvero indipendente dalla Sua presenza, e in dipendenza da ciò è il suo andarvi personalmente per cercare di ridurre i pericoli. Dunque un atto, più che voluto, subìto. È l’interpretazione che emerge, in sede confidenziale ma per iscritto, da Benedetto XVI in persona.