sabato 9 luglio 2011

senso religioso o eresia?

Il sito Pontifex ha pubblicato un confronto tra alcuni scritti di Don Luigi Giussani e la Dottrina Cattolica. Lo riprendiamo lodando il coraggio di chi l'ha pubblicato. Oggi non è semplice andare contro certi "miti" dell'odierno mondo ecclesiale  sempre pronto all'esaltazione e all'entusiasmo a fronte di ogni qualsiavoglia movimento che il cadavere della chiesa conciliare produca, illudendosi che sia vita mentre in realtà è decomposizione della Dottrina prima e poi di tutto il resto. Omnia probate, quod bonum est  tenete ci chiede l'Apostolo san Paolo nella prima Lettera ai Tessalonicesi (5, 21) ...





Confronto fra gli scritti di don Luigi Giussani e la Dottrina Cattolica
(prima potete leggere le dichiarazioni di Luigi Giussani ed a seguire la Verità della Dottrina Cattolica)


Giussani - "Perché la Chiesa" (tomo 2) pag. 77-78-79 - All'interno della Chiesa stessa si cominciò a ritenere che la vera ricerca fosse incompatibile con ogni autorità, dalla quale non si poteva farsi imporre a priori come verità gli elementi della fede. Fu questo allontanamento dai dati fondamentali del cattolicesimo che Pio x condannò come eresia chiamandola "modernismo". [...] Ma la conoscenza può evolvere, uno studio maggiore di determinate questioni può mostrare che quella preoccupazione era ingiustificata. [...] la Chiesa non può affatto essere ostile a un sano metodo critico e tanto meno al metodo cosiddetto storico-critico. Neppure l'enciclica antimodernista di Pio x proibisce questo metodo, bensì lo presuppone. Ciò che questi provvedimenti proibiscono è soltanto l'affermazione che il sì della fede soprannaturale dipenda esclusivamente dai risultati di questo metodo.

ed invece la Dottrina dice: SAN PIO X - “PASCENDI DOMINICI GREGIS”

[...] quando parlasi di modernismo, non parlasi di vaghe dottrine non unite da alcun nesso, ma di un unico corpo e ben compatto, ove chi una cosa ammetta uopo è che accetti tutto il rimanente. Perciò abbiam voluto altresì far uso di una forma quasi didattica, né abbiamo ricusato il barbaro linguaggio onde i fanno uso. Ora, se quasi di un solo sguardo abbracciamo l'intero sistema, niuno si stupirà ove Noi lo definiamo, affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si fosse proposto di concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori circa la fede furono sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a far meglio di quel che han fatto i modernisti.

***

Giussani - "Perché la Chiesa" (tomo 2) pag. 77-78-79 - Il nostro 'sì' alla fede riposa non solo sulla testimonianza di molti documenti, ma principalmente sulla testimonianza vivente della tradizione. Da questa sua intima vitalità, dalla piena luce della sua coscienza della rivelazione, la Chiesa emana raggi sempre nuovi. E dove ritiene minacciati i nuclei essenziali della rivelazione cristiana, attraverso le proprie congregazioni, essa pronuncia il severo tuto doceri non potest, il divieto di insegnamento, non in nome della scienza, ma in nome della fede [...]. E' possibile che un dicastero ecclesiastico, come nel caso di Galileo, proibisca in nome della fede una opinione scientifica che solo apparentemente contrasta con talune verità dogmatiche certe, opinione che assurge poi a indiscussa certezza". Credo non sia inutile ripetere che proprio la mancata considerazione della Chiesa come organo vitale, quindi soggetto a crescere nella sua autocoscienza, perciò a correggersi, a modificarsi come consapevolezza dell'immutabile deposito della fede rivelata, sia la fonte dei maggiori equivoci nel giudicare e nel vivere la comunità ecclesiale.

ed invece la Dottrina dice: BEATO PIO IX - “DEI FILIUS”

La dottrina della fede che Dio rivelò non è proposta alle menti umane come una invenzione filosofica da perfezionare, ma è stata consegnata alla Sposa di Cristo come divino deposito perché la custodisca fedelmente e la insegni con magistero infallibile. Quindi deve essere approvato in perpetuo quel significato dei sacri dogmi che la Santa Madre Chiesa ha dichiarato, né mai si deve recedere da quel significato con il pretesto o con le apparenze di una più completa intelligenza. Crescano dunque e gagliardamente progrediscano, lungo il corso delle età e dei secoli, l'intelligenza e la sapienza, sia dei secoli, sia degli uomini, come di tutta la Chiesa, ma nel proprio settore soltanto, cioè nel medesimo dogma, nel medesimo significato, nella medesima affermazione [VINC. LIR. Common., n. 28].

[…]

Se qualcuno dirà che può accadere che ai dogmi della Chiesa si possa un giorno - nel continuo progresso della scienza - attribuire un senso diverso da quello che ha inteso e intende dare la Chiesa: sia anatema.

SAN PIO X - “LAMENTABILI SANE EXITU”

CONDANNA DELLA SEGUENTE ASSERZIONE

63. La Chiesa si dimostra incapace a tutelare efficacemente l'etica evangelica, perché ostinatamente si attacca a dottrine immutabili, inconciliabili con i progressi odierni.

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Giussani - "Perché la Chiesa" (tomo 2) pag. 77-78-79 - Per cui, come affrontando l'esistenza di una persona si tiene in giusta considerazione la sua storia, le condizioni in cui è cresciuta, i momenti della sua maturazione e le contingenze dalle quali potrebbe risultare per la sua personalità un particolare annebbiamento di consapevolezza, così non si deve dimenticare che la Chiesa vive e opera nel tempo disegnando una sua traiettoria di autocoscienza, nella quale lo Spirito di Cristo la assiste indefettibilmente perché possa sempre compiere la sua missione e perciò non definire mai un errore, ma senza esimerla dalla fatica e dal lavoro di una ricerca evolutiva, proprio per la di lei natura di "corpo", divino sì, ma anche umano, cioè incarnato nel tempo e nello spazio.

ed invece la Dottrina dice: SAN PIO X - “LAMENTABILI SANE EXITU”

CONDANNA LE SEGUENTI ASSERZIONI

59. Cristo non insegnò un determinato insieme di dottrine applicabile a tutti i tempi e a tutti gli uomini, ma piuttosto iniziò un certo qual moto religioso adattato e da adattare a diversi tempi e circostanze.

20. La Rivelazione non poté essere altro che la coscienza acquisita dall'uomo circa la sua relazione con Dio.

7. La chiesa, quando condanna gli errori, non può esigere dai fedeli nessun assenso interno che accetti i giudizi da lei dati.

8. Sono da ritenersi esenti da ogni colpa coloro che non tengono in alcun conto delle riprovazioni espresse dalla Sacra Congregazione dell'Indice e da altre Sacre Congregazioni Romane.

22. I dogmi, che la Chiesa presenta come rivelati, non sono verità cadute dal cielo, ma l'interpretazione di fatti religiosi, che la mente umana si è data con travaglio.

BEATO PIO IX - “DEI FILIUS”

Se qualcuno dirà che le discipline umane devono essere trattate con tale libertà che le loro asserzioni, anche se contrarie alla dottrina rivelata, possono essere ritenute vere e non possono essere condannate dalla Chiesa: sia anatema.

SAN PIO X - “PASCENDI DOMINICI GREGIS”

(Dicono i modernisti) Nasce il dogma dal bisogno che prova il credente di lavorare sul suo pensiero religioso, sì da rendere la sua e l'altrui coscienza sempre più chiara. Tale lavorio consiste tutto nell'indagare ed esporre la formola primitiva, non già in se stessa e razionalmente, ma rispetto alle circostanze o, come più astrusamente dicono, vitalmente.

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Giussani - "Perché la Chiesa" (tomo 2) pag. 77-78-79 - Concludiamo questa riflessione sulla comunicazione del divino nella Chiesa con l'espressione di Newmann: "Dunque, la facoltà di svilupparsi è una prova di vita, se non altro per i suoi tentativi di imporsi, per tacere dei suoi successi. Infatti, una semplice formula, o non riesce a svilupparsi, o si sviluppa distruggendosi. Soltanto una idea viva si fa molteplice, pur sempre restando una". [...] Abbiamo anche visto come sia molto probabile che vada riconsiderato il nostro modo solito di pensare ai dogmi, il cui formularsi e definirsi rappresenta la pertinenza più alta e profonda alla vita e alla storia che si possa concepire.

ed invece la Dottrina dice: SAN PIO X - “PASCENDI DOMINICI GREGIS”

E poiché questo sentimento, siccome quello che ha per obbietto l'assoluto, porge infiniti aspetti, dei quali oggi l'uno domani l'altro può apparire; e similmente colui che crede può passare per altre ed altre condizioni, ne segue che le formole altresì che noi chiamiamo dogmi devono sottostare ad uguali vicende ed essere perciò variabili. Così si ha aperto il varco alla intima evoluzione dei dogmi. Infinito cumulo di sofismi che abbatte e distrugge ogni religione!

E questa, non pur possibile, ma necessaria evoluzione e mutazione dei dogmi non solo i l'affermano arditamente ma è conseguenza legittima delle loro sentenze. Infatti fra i capisaldi della loro dottrina vi è ancor questo, tratto dal principio dell'immanenza vitale: che le formole cioè religiose, perché tali siano in verità e non mere speculazioni dell'intelletto, è mestieri che sieno vitali e che vivano della stessa vita del sentimento religioso.

BEATO PIO IX - “DEI FILIUS”

La dottrina della fede che Dio rivelò non è proposta alle menti umane come una invenzione filosofica da perfezionare, ma è stata consegnata alla Sposa di Cristo come divino deposito perché la custodisca fedelmente e la insegni con magistero infallibile. Quindi deve essere approvato in perpetuo quel significato dei sacri dogmi che la Santa Madre Chiesa ha dichiarato, né mai si deve recedere da quel significato con il pretesto o con le apparenze di una più completa intelligenza. Crescano dunque e gagliardamente progrediscano, lungo il corso delle età e dei secoli, l'intelligenza e la sapienza, sia dei secoli, sia degli uomini, come di tutta la Chiesa, ma nel proprio settore soltanto, cioè nel medesimo dogma, nel medesimo significato, nella medesima affermazione.

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Giussani - "Il senso religioso" pag. 15

Domandiamoci allora: qual è il criterio che ci permette di giudicare ciò che vediamo accadere in noi stessi? Due sono le possibilità: o il criterio in base al quale giudicare ciò che si vede in noi è mutuato dal di fuori di noi, o tale criterio è reperibile dentro di noi. Nel primo caso ricadremo nell'evenienza alienante che abbiamo descritto prima. Se anche avessimo svolto un'indagine esistenziale in prima persona, rifiutando perciò di rivolgerci ad indagini già svolte da altri, ma prelevassimo da altri i criteri per giudicarci, il risultato alienante non cambierebbe. Faremmo ugualmente dipendere il significato di ciò che noi siamo da qualcosa che è fuori di noi. A questo punto però si potrebbe intelligentemente obiettare che, poiché l'uomo prima di esserci non c'era, non è possibile che possa darsi da sé un criterio di giudizio. Questo viene comunque "dato". Ora, che questo criterio sia immanente a noi - dentro di noi - non significa che ce lo diamo da soli: è attinto dalla nostra natura, vale a dire ci viene dato con la natura (dove la parola natura è evidentemente sottesa dalla parola Dio, indizio cioè dell'origine ultima del nostro io). Solo questa può essere considerata un'alternativa di metodo ragionevole, non alienante. Il criterio per giudicare quella riflessione sulla propria umanità deve dunque essere immanente alla struttura originaria della persona.

ed invece la Dottrina dice: SAN PIO X - “PASCENDI DOMINICI GREGIS”


Ma difatto l'immanenza dei vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall'uomo in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza inferiamo che Dio e l'uomo sono la stessa cosa; e perciò il panteismo. […]

Così infatti essi (i modernistti) discorrono. Nel sentimento religioso, si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore; la quale mette l'uomo in contatto immediato colla realtà stessa di Dio, e tale gl'infonde una persuasione dell'esistenza di Lui e della Sua azione sì dentro, sì fuori dell'uomo, da sorpassar di gran lunga ogni convincimento scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza, e tale da vincere qualsivoglia esperienza razionale; la quale se da taluno, come dai razionalisti, è negata, ciò dicono intervenire perché non vogliono porsi costoro nelle morali condizioni, che son richieste per ottenerla. Or questa esperienza, poi che l'abbia alcuno conseguita, è quella che lo costituisce propriamente e veramente credente. Quanto siamo qui lontani dagli insegnamenti cattolici! Simili vaneggiamenti li abbiamo già uditi condannare dal Concilio Vaticano. Vedremo più oltre come, con siffatte teorie, congiunte agli altri errori già mentovati, si spalanchi la via all'ateismo.

BEATO PIO IX - “DEI FILIUS”

Se qualcuno dirà che la Rivelazione divina non può rendersi credibile per segni esterni, e che perciò gli uomini devono procedere verso la fede solo attraverso l'interiore esperienza o l'ispirazione privata di ciascuno: sia anatema.

Se qualcuno dirà che unica e identica è la sostanza, o l'essenza, di Dio e di tutte le cose: sia anatema.

Se qualcuno dirà che le cose finite, sia materiali, sia spirituali, o almeno le spirituali, sono emanate dalla sostanza divina; ovvero che la divina essenza per la sua manifestazione ed evoluzione diventa ogni cosa; ovvero infine che Dio è ente universale od indefinito, il quale determinando se stesso costituisce l'universo delle cose, distinto in generi, specie ed individui: sia anatema.

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Giussani - "Il senso religioso" pag. 16

Tutte le esperienze della mia umanità e della mia personalità passano al vaglio di una "esperienza originale", primordiale, che costituisce il volto nel mio raffronto con tutto. Ciò che ogni uomo ha il diritto e il dovere di imparare è la possibilità e l'abitudine a paragonare ogni proposta con questa sua "esperienza elementare". In che cosa consiste questa esperienza originale, elementare? Si tratta di un complesso di esigenze e di evidenze con cui l'uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. La natura lancia l'uomo nell'universale paragone con se stesso, con gli altri, con le cose, dotandolo - come strumento di tale universale confronto - di un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l'uomo dice o fa da esse dipende. Ad esse potrebbero essere dati molti nomi; esse possono essere riassunte con diverse espressioni (come: esigenza di felicità, esigenza di verità, esigenza di giustizia, ecc...). Sono comunque come una scintilla che mete in azione il motore umano; prima di esse non si dà alcun movimento, alcuna umana dinamica. Qualunque affermazione della persona, dalla più banale e quotidiana alla più ponderata e carica di conseguenze, può avvenire solo in base a questo nucleo di evidenze ed esigenze originali.

Giussani - "Il senso religioso" pag. 19-20

Ecco perché il criterio fondamentale con cui si affrontano le cose è il criterio oggettivo con cui la natura lancia l'uomo nell'universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare di cui tutte le madri allo stesso modo dotano i loro figli. E' solo qui, in questa identità dell'ultima coscienza, il superamento dell'anarchia. L'esigenza della bontà, della giustizia, del vero, della felicità costituiscono il volto ultimo, l'energia profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le razze accostano tutto, al punto che essi possono vivere tra loro un commercio di idee oltre che di cose, possono trasmettersi l'un l'altro ricchezze a distanza di secoli, e noi leggiamo con emozione frasi create migliaia di anni fa dagli antichi poeti con un'impressione di suggerimento al nostro presente, come talvolta non deriva dai rapporti quotidiani. Se c'è una esperienza di maturità umana è proprio questa possibilità di addentrarsi nel passato, di accostarsi al lontano come fosse vicino, come fosse parte di sé. Perché ciò è possibile? Perché questa esperienza elementare, come dicevamo, è sostanzialmente uguale in tutti, anche se poi sarà determinata, tradotta, realizzata in modi diversissimi, apparentemente persino opposti. Direi allora: se si vuole diventare adulti senza essere ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati, ci si abitui a paragonare tutto con l'esperienza elementare. [...] La sfida più audace a quella mentalità che ci domina e che incide in noi per ogni cosa - dalla vita dello spirito al vestito - è proprio quella di rendere abituale in noi il giudizio su tutto alla luce delle nostre evidenze prime [...].

ed invece la Dottrina dice: SAN PIO X - “PASCENDI DOMINICI GREGIS”

Infatti fra i capisaldi della loro dottrina (modernismo) vi è ancor questo, tratto dal principio dell'immanenza vitale: che le formole cioè religiose, perché tali siano in verità e non mere speculazioni dell'intelletto, è mestieri che sieno vitali e che vivano della stessa vita del sentimento religioso. Il che non è da intendersi quasiché tali formole, specie se puramente immaginative, sieno costruite a bella posta pel sentimento religioso; giacché poco monta della loro origine, come altresì del loro numero e della loro qualità; ma così, che le stesse, fatte se occorre all'uopo delle modificazioni, vengano vitalmente assimilate dal sentimento religioso. E per dirla in altri termini, fa di mestieri che la formola primitiva sia accettata e sancita dal cuore, e che il susseguente lavorio per la formazione delle formole secondarie sia fatto sotto la direzione del cuore. Di qui procede che siffatte formole, perché sieno vitali, devono essere e mantenersi adatte tanto alla fede quanto al credente. Laonde, se per una ragione qualsiasi cotale adattamento venga meno, perdono elle il primitiva significato e vogliono essere cambiate. Or tale essendo il valore e la sorte mutevole delle formole dogmatiche, non reca stupore che i le abbiano tanto in dileggio; mentre al contrario non fanno che ricordare ed esaltare il sentimento religioso e la vita religiosa. Perciò pure criticano con somma audacia la Chiesa, accusandola di camminare fuor di strada, né saper distinguere fra il senso materiale delle formole e il loro significato religioso e morale, e attaccandosi con ostinazione, ma vanamente, a formole vuote di senso, lasciar che la religione precipiti a rovina. Oh! Veramente ciechi e conduttori di ciechi, che, gonfi del superbo nome di scienza, vaneggiano fino al segno di pervertire l'eterno concetto di verità e il genuino sentimento religioso: "spacciando un nuovo sistema, col quale, tratti da una sfrontata e sfrenata smania di novità, non cercano la verità ove certamente si trova; e disprezzate le sante ed apostoliche tradizioni, si attaccano a dottrine vuote, futili, incerte, riprovate dalla Chiesa, e con esse, uomini stoltissimi, si credono di puntellare e sostenere la stessa verità" (Gregorio XVI, Lett. Enc."Singulari Nos", 25 giugno 1834).

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Giussani - "Il senso religioso" pag. 55

Ognuno di noi nasce da una tradizione. La natura ci butta dentro la dinamica dell'esistenza armandoci di uno strumento complesso per affrontare l'ambiente. Ogni uomo fronteggia la realtà circostante dotato per natura di elementi che si trova addosso come dati, offerti. La tradizione è quella complessa dote di cui la natura dunque arma la nostra persona. Non perché abbiamo a fossilizzarci in essa, ma perché abbiamo a sviluppare - fino anche a mutare e profondamente - quello stesso che ci è stato dato. Ma per mutare quello che ci è stato dato dobbiamo inizialmente agire "con" quello che ci è stato dato, dobbiamo usarlo. E' in forza dei valori e della ricchezza che ho ricevuto che io posso diventare a mia volta creativo, capace di sviluppare quello che mi trovo tra le mani, e addirittura è in forza dei valori e della ricchezza che mi è stata data che io posso anche cambiarne radicalmente il significato e l'impostazione.


[...] In caso contrario - omettendo cioè quel vaglio critico - il soggetto o è alienato e fossilizzato nella tradizione o, venduto alla violenza dell'ambiente, finirà per abbandonarla. E' quanto avviene nella coscienza religiosa dei più: la violenza dell'ambiente decide per loro. Insisto, usare criticamente questo fattore della vita non significa collocare dubbi sui suoi valori - anche se così viene suggerito dalla mentalità corrente, - ma significa utilizzare quella ricchissima ipotesi di lavoro attraverso il vaglio di un principio critico che sta dentro di noi, nativo, perché dato originalmente, l'esperienza elementare. Se la tradizione viene usata così criticamente, essa diventa fattore di personalità, materiale per un volto specifico, per una identità nel mondo.


ed invece la Dottrina dice: SAN PIO X - “LAMENTABILI SANE EXITU”

CONDANNA LA SEGUENTE ASSERZIONE

63. La Chiesa si dimostra incapace a tutelare efficacemente l'etica evangelica, perché ostinatamente si attacca a dottrine immutabili, inconciliabili con i progressi odierni.

SAN PIO X - “PASCENDI DOMINICI GREGIS”

Ma, oltre al detto, questa dottrina dell'esperienza è per un altro verso contrarissima alla cattolica verità. Imperocché viene essa estesa ed applicata alla tradizione quale finora fu intesa dalla Chiesa, e la distrugge. Ed infatti dai è la tradizione così concepita che sia una comunicazione dell'esperienza originale fatta agli altri, mercè la predicazione, per mezzo della formola intellettuale. A questa formola perciò, oltre al valore rappresentativo, attribuiscono una tal quale efficacia di suggestione, che si esplica tanto in colui che crede, per risvegliare il sentimento religioso a caso intorpidito e rinnovar l'esperienza già avuta una volta, quanto in coloro che ancor non credono, per suscitare in essi la prima volta il sentimento religioso e produrvi l'esperienza.

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Giussani “Perché la chiesa” (tomo 2) pag. 71

L’autorità suprema del magistero è una esplicitazione della coscienza della comunità intera guidata da Cristo, e quindi è funzionale ad essa, non è una sostituzione magica o dispotica. La verità che viene definita con uno di quei due interventi eccezionali (magistero ordinario e definizione ex cathedra) riguarda sempre qualcosa che già fa parte della vita della Chiesa. L’autorità la individua difendendola, chiarendo quello che risulta da sempre, almeno implicitamente, vissuto; non è, per sua natura, inventiva a prescindere dalla vita e dalla coscienza della comunità.

pag. 73

E’ ovviamente grande oggi l’ignoranza sul metodo con cui nella Chiesa si arrivi alla proclamazione di un dogma, e del significato stesso di quest’espressione: essa – abbiamo visto – sta ad indicare un valore quando è coscienza certa e vissuta della comunità cristiana.

pag. 75-76

Concludiamo l’accento a questo specifico esempio con le parole di Jacques Leclercq: “L’infallibilità pontificia non è che una semplice modalità dell’infallibilità della Chiesa. La dottrina dell’infallibilità della Chiesa è universalmente ammessa nei prossimi tempi cristiani, come un corollario delle promesse di Cristo, una conseguenza dell’assistenza dello Spirito… L’infallibilità della Chiesa si esprime mediante la Tradizione… e quando questa si sviluppa senza urti non c’è bisogno d’altro. Ma quando la Chiesa è lacerata da controversie e la Tradizione non si manifesta più con chiarezza, si rende necessario sapere mediante quale organo l’infallibilità si manifesta in ultima istanza. L’infallibilità pontificia, dunque, non è che una precisazione dell’infallibilità della Chiesa..: è l’infallibilità della Chiesa che si manifesta attraverso il Papa”.

ed invece la Dottrina dice: BEATO PIO IX - “PASTOR AETERNUS”

Capitolo I - Istituzione del Primato Apostolico nel Beato Pietro

Proclamiamo dunque ed affermiamo, sulla scorta delle testimonianze del Vangelo, che il primato di giurisdizione sull’intera Chiesa di Dio è stato promesso e conferito al beato Apostolo Pietro da Cristo Signore in modo immediato e diretto. Solamente a Simone, infatti, al quale già si era rivolto: "Tu sarai chiamato Cefa" (Gv 1,42), dopo che ebbe pronunciata quella sua confessione: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo", il Signore indirizzò queste solenni parole: "Beato sei tu, Simone figlio di Giona; perché non la carne e il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli: e io ti dico che tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: qualunque cosa avrai legato sulla terra, sarà legata anche nei cieli, e qualunque cosa avrai sciolto sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli" (Mt 16,16-19). E al solo Simon Pietro, dopo la sua risurrezione, Gesù conferì la giurisdizione di sommo pastore e di guida su tutto il suo ovile con le parole: "Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore" (Gv 21,15-17). A questa chiara dottrina delle sacre Scritture, come è sempre stata interpretata dalla Chiesa cattolica, si oppongono senza mezzi termini le malvagie opinioni di coloro che, stravolgendo la forma di governo decisa da Cristo Signore nella sua Chiesa, negano che Cristo abbia investito il solo Pietro del vero e proprio primato di giurisdizione che lo antepone agli altri Apostoli, sia presi individualmente, sia nel loro insieme, o di coloro che sostengono un primato non affidato in modo diretto e immediato al beato Pietro, ma alla Chiesa e, tramite questa, all’Apostolo come ministro della stessa Chiesa.

Se qualcuno dunque affermerà che il beato Pietro Apostolo non è stato costituito da Cristo Signore Principe di tutti gli Apostoli e capo visibile di tutta la Chiesa militante, o che non abbia ricevuto dallo stesso Signore Nostro Gesù Cristo un vero e proprio primato di giurisdizione, ma soltanto di onore: sia anatema.

[…]

Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa.

Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema.

SAN PIO X - “PASCENDI DOMINICI GREGIS”

Più larga materia ci offre ciò che la scuola dei fantastica a riguardo della Chiesa. È qui da presupporre che la Chiesa secondo essi è frutto di due bisogni: uno nel credente, specie se abbia avuta qualche esperienza originale e singolare, di comunicare ad altri la propria fede; l'altro nella collettività, dopo che la fede si è fatta comune a molti, di aggrupparsi in società e di conservare, accrescere e propagare il bene comune. Che cosa è dunque la Chiesa? un parto della coscienza collettiva, ossia collettività di coscienze individuali; le quali, in forza della permanenza vitale, pendono tutte da un primo credente, cioè pei cattolici da Cristo. Ora ogni società ha bisogno di un'autorità che la regga: il cui compito sia dirigere gli associati al fine comune, e conservare saggiamente gli elementi di coesione, i quali in una società religiosa sono la dottrina ed il culto. Perciò nella Chiesa cattolica una triplice autorità: disciplinare, dogmatica, culturale. La natura poi di questa autorità dovrà desumersi dalla sua origine; e dalla natura si dovranno a loro volta dedurre i diritti e i doveri. Fu errore volgare dell'età passata che l'autorità sia venuta alla Chiesa dal di fuori, cioè immediatamente da Dio: e perciò era giustamente ritenuta autocratica. Ma queste sono teorie oggimai passate di moda. Come la Chiesa è emanata dalla collettività delle coscienze, cosi l'autorità emana vitalmente dalla stessa Chiesa. Pertanto l'autorità del pari che la Chiesa nasce dalla coscienza religiosa, e perciò alla medesima resta soggetta: e se venga meno a siffatta soggezione, si volge in tirannide. Nei tempi che corrono il sentimento di libertà è giunto al suo pieno sviluppo. Nello stato civile la pubblica coscienza ha voluto un regime popolare. Ma la coscienza dell'uomo, come la vita, è una sola. Se dunque l'autorità della Chiesa non vuol suscitare e mantenere una guerra intestina nelle coscienze umane, uopo è che si pieghi anch'essa a forme democratiche; tanto più che, a negarvisi, lo sfacelo sarebbe imminente. È da pazzo il credere che possa aversi un regresso nel sentimento di libertà quale domina al presente. Stretto e rinchiuso con violenza strariperà più potente, distruggendo insieme la religione e la Chiesa. Fin qui il ragionare dei : e la conseguenza è, che sono tutti intesi a trovar modi per conciliare l'autorità della Chiesa colla libertà dei credenti. […]

Le teorie, o Venerabili Fratelli, onde promanano tutti questi errori, son quelle appunto che il Nostro Predecessore Pio VI già condannò solennemente nella Costituzione Apostolica "Auctorem Fidei" (Prop. 2). "La proposizione che stabilisce che la potestà è stata da Dio data alla Chiesa, perché fosse comunicata ai Pastori, che sono ministri di lei per la salute delle anime; così intesa, che la potestà del ministero e regime ecclesiastico si derivi nei Pastori dalla Comunità dei fedeli: eretica". Prop. 3. "Inoltre quella che stabilisce il Romano Pontefice esser capo ministeriale; così spiegata che il Romano Pontefice, non da Cristo nella persona del Beato Pietro, ma dalla Chiesa abbia avuta la potestà del ministero, di cui come successore di Pietro, vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa, gode nella Chiesa universa: eretica". […]

Più gravi assai e perniciose sono le loro affermazioni a riguardo dell'autorità dottrinale e dogmatica. Circa il magistero ecclesiastico così essi (i modernisti) la pensano: la società religiosa non può veramente essere una senza unità di coscienza nei suoi membri e senza unita di formola. Ma questa duplice unità richiede, per così dire, una mente comune, a cui spetti trovare e determinare la formola, che meglio risponda alla coscienza comune: alla qual mente fa d'uopo inoltre attribuire un'autorità bastevole, perché possa imporre alla comunanza la formola stabilita. Or nell'unione è quasi fusione della mente designatrice della formola e dell'autorità che la impone, ritrovano i il concetto del magistero ecclesiastico. Poiché dunque in fin dei conti il magistero non nasce che dalle coscienze individuali ed a bene delle stesse coscienze ha imposto un pubblico ufficio; ne consegue di necessità che debba dipendere dalle medesime coscienze e debba quindi avviarsi a forme democratiche. IL proibire pertanto alle coscienze degli individui che facciano pubblicamente sentire i loro bisogni; non soffrire che la critica spinga il dogma verso necessarie evoluzioni, non è già uso di potestà, data per pubblico bene, ma abuso. Similmentene l'uso stesso della potestà fa di mestieri serbare modo e misura. Sa di tirannide condannare un libro all'insaputa dell'autore, senza ammettere spiegazioni di sorta né discussione. Adunque qui pure è da ricercarsi una via di mezzo che salvi insieme i diritti dell'autorità e della libertà. Nel frattempo il cattolico si regolerà in guisa che non lasci pubblicamente di protestarsi rispettosissimo dell'autorità, continuando però sempre ad operare a suo talento. […]

Or, restando tuttavia nella teoria della evoluzione, vuole di più osservarsi che quantunque i bisogni servano di stimolo per la evoluzione, essa nondimeno, regolata unicamente da siffatti stimoli, valicherebbe facilmente i termini della tradizione, e strappata così dal primitivo principio vitale, meglio che a progresso menerebbe a rovina. Quindi studiando più a fondo il pensiero dei , deve dirsi che l'evoluzione è come il risultato di due forze che si combattono, delle quali una è progressiva, l'altra conservatrice. La forza conservatrice sta nella Chiesa e consiste nella tradizione. L'esercizio di lei è proprio dell'autorità religiosa; e ciò, sia per diritto, giacché sta nella natura di qualsiasi autorità il tenersi fermo il più possibile alla tradizione; sia per fatto, perché sollevata al disopra delle contingenze della vita, poco o nulla sente gli stimoli che spingono a progresso. Per contrario la forza che, rispondendo ai bisogni, trascina a progredire, cova e lavora nelle coscienze individuali, in quelle soprattutto che sono, come dicono, più a contatto della vita. Osservate qui di passaggio, o Venerabili Fratelli, lo spuntar fuori di quella dottrina rovinosissima che introduce il laicato nella Chiesa come fattore di progresso. Da una specie di compromesso fra le due forze di conservazione e di progressione, fra l'autorità cioè e le coscienze individuali, nascono le trasformazioni e i progressi. Le coscienze individuali, o talune di esse, fan pressione sulla coscienza collettiva; e questa a sua volta sull'autorità, e la costringe a capitolare ed a restare ai patti.






venerdì 8 luglio 2011

il poco di bene che noi faremo a Roma è molto più grande del tanto bene che faremo altrove

Omelia pronunciata da
S. Ecc. Mons. Alfonso de Galarreta

in occasione delle ordinazioni al seminario di Ecône (Svizzera)

29 giugno 2011
Il testo è ripreso dal sito della
Fraternità in italia


La trascrizione è a cura di DICI, del 7 luglio 2011





Non si deve scegliere tra la fede e la carità, bisogna abbracciarle entrambe!

Eccellenze,
cari Confratelli,
cari Ordinandi,
miei carissimi Fratelli,


Eccoci riuniti, un anno ancora, nel seminario di Ecône, la Casa Madre della Fraternità Sacerdotale San Pio X, allo scopo di conferire il diaconato e il sacerdozio, allo scopo di compiere così ciò che costituisce la vocazione e la missione della Fraternità. Si tratta di trasmettere, conservare, vivere il sacerdozio cattolico al fine di assicurare la perennità della Fede e della Chiesa cattolica.

Il sacerdote è un alter Christus, un altro Cristo. Egli agisce in persona Christi, in persona di Cristo. Si tratta quindi veramente del sacerdozio di Cristo in mezzo a noi. Della presenza di Cristo in mezzo a noi. Il sacerdote assicura la continuità dei benefici dell’Incarnazione di Nostro Signore, della sua vita, del suo insegnamento, della sua grazia, della sua Redenzione. Ed è veramente questo l’essenziale. In mezzo a questa crisi – crisi della fede, crisi della Chiesa – è evidente che noi non possiamo astrarcene, ignorare la situazione in cui ci troviamo e soprattutto la situazione della Santa Chiesa. A dire il vero, per l’essenziale non cambia nulla. Per l’essenziale non v’è nulla di cambiato.

Il liberalismo tenta di conciliare il cattolicesimo e il pensiero nato dal 1789

Mons. Lefebvre aveva visto e definito bene qual è il male del nostro tempo, della società e soprattutto il male nella Chiesa. Questo male si chiama molto semplicemente liberalismo. È questa conciliazione, questo tentativo di conciliazione fra la Chiesa e il mondo, fra la fede cattolica e i principi liberali, fra la religione cattolica e il pensiero nato dal 1789. Sta tutto qua, tutto il problema sta qua. Tutto il resto è fatto di giustificazioni teoriche, sottili, sofisticate della teologia modernista per giustificare questo adattamento fatto dal Concilio Vaticano II e dalle autorità nei confronti del mondo uscito dalla rivoluzione, del mondo liberale.

E voglio citarvi alcune frasi di quello che era allora il Cardinale Ratzinger, nelle quali egli afferma con semplicità e chiarezza proprio questo.
Per essere fedele e preciso ve le leggo. Sono molto brevi.

«Il Vaticano II aveva ragione di auspicare una revisione dei rapporti tra Chiesa e mondo. Ci sono infatti dei valori che, anche se sono nati fuori dalla Chiesa, possono trovare il loro posto - purché vagliati e corretti – nella sua visione» (Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, 1985, Ed. Paoline, p. 34).

«Il problema degli anni sessanta era di acquisire i migliori valori espressi da due secoli di cultura liberale» (Intervista a cura di Vittorio Messori, in Jesus, novembre1984, p. 72).

Il Papa attuale, Benedetto XVI, all’epoca cardinale Ratzinger, mostra anche come la costituzione Gaudium et spes sia il «testamento del Concilio», egli ne indica le intenzioni e definisce la sua fisonomia in questi termini:

«Se si cerca una diagnosi globale del testo [della Gaudium et Spes] si potrebbe dire che esso è, insieme con i testi sulla libertà religiosa e sulle religioni del mondo, una revisione del Syllabus di Pio IX, una sorta di contro-Sillabo. Il testo svolge il ruolo di un contro-sillabo nella misura in cui rappresenta un tentativo per una riconciliazione ufficiale della Chiesa col mondo come era divenuto a partire dal 1789» (Les principes de la théologie catholique, cardinal Joseph Ratzinger, 1982, Téqui, p. 427) .

Ecco dei testi e delle affermazioni molto chiare. Si tratta di una confessione di capitale importanza, autorevole e che ci dispensa dal provare queste affermazioni. Se loro stessi confessano che è così non c’è più bisogno che noi lo proviamo. Il Vaticano II è stato esattamente una conciliazione della religione cattolica, della fede della Chiesa col liberalismo, con la rivoluzione e i principi della Rivoluzione francese, e perfino – come dice il Papa altrove – del pensiero della fede col pensiero dei Lumi. Queste affermazioni inducono a diverse riflessioni e richiedono diverse osservazioni.

Poiché, per prima cosa, com’è possibile che vi siano dei valori che toccano in modo così essenziale l’ordine naturale e quello soprannaturale – per convincersene basta guardare alla Chiesa di prima e di dopo il Concilio! - e che possano nascere, tali valori, al di fuori della Chiesa?
Non è dunque la Chiesa la depositaria della Verità?
La Chiesa cattolica non è la vera Chiesa?
E la Verità evolve dunque in base alla storia e al tempo, alle culture e ai luoghi? Non è vero affermare che questi sono valori nati al di fuori della Chiesa.
Già un autore come Chesterton diceva che le idee della Rivoluzione francese sono delle idee cattoliche divenute folli. E noi potremmo dire con più esattezza: sono delle verità cattoliche indebitamente trasposte nell’ordine naturale, delle idee che sono vere nell’ordine soprannaturale, con dei limiti, ma che sono state trasposte direttamente nell’ordine naturale.

Se veramente il Concilio Vaticano II avesse preso i valori liberali e li avesse corretti, purificati ed emendati, allora si sarebbe ritrovata molto semplicemente la verità cattolica di sempre, poiché si tratta di verità cristiane deformate. Voglio dire che il liberalismo è un’eresia cristiana, cattolica, fin dalla sua origine.

D’altra parte, era quanto meno temerario volere questa conciliazione, quando il magistero costante dei papi, per due secoli e mezzo, aveva condannato questi supposti valori: essi sono stati condannati in blocco e in dettaglio. Era stata condannata, non solo la possibilità di una tale conciliazione, ma anche la necessità di affermare una tale conciliazione. È il Syllabus, è Pio IX.

Siamo di fronte ad uno dei peccati originali del Concilio. Molto spesso ci mettono sotto gli occhi il magistero e l’autorità. Spesso è il solo argomento che essi hanno. Quando sono proprio loro che hanno incominciato a sbarazzarsi di un magistero di due secoli e mezzo e proprio per fare esattamente ciò che i papi avevano già condannato.
Questo è più che temerario.

E poi, si cerca una conciliazione col mondo, con un mondo lontano da Dio e opposto a Dio. Guardate il mondo, basta guardarsi attorno per comprendere di che mondo si tratta.
Ora, la Scrittura è molto chiara. San Giovanni ci dice: «Tutto ciò che viene dal mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita» (Cfr. I Gv. 2, 16). E l’Apostolo San Giacomo diceva ai cristiani: «Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio» (Gc. 4, 4).


Lo spirito di indipendenza conduce alla deificazione dell’uomo

Poiché in definitiva qual è l’essenza, la sostanza, il nocciolo di questo pensiero liberale?
I papi e i grandi autori del XIX e del XX secolo hanno già detto tutto. È innanzi tutto il naturalismo, è la negazione dell’ordine soprannaturale, della Rivelazione, della grazia, e di conseguenza e in questo ordine la negazione della Chiesa, di Cristo, di Dio. Il naturalismo coerente sfocia nell’ateismo. E il comunismo è là per ricordarcelo: non s’era mai visto un orrore simile nella storia dell’umanità.
In secondo luogo è lo spirito di indipendenza e di ribellione. Indipendenza nei confronti di tutto: indipendenza dell’intelligenza nei confronti del Vero, della volontà nei confronti del Bene, dell’uomo nei confronti di Dio, nei confronti dell’autorità.
E in terzo luogo è la deificazione dell’uomo. Già San Pio X lo indicava: l’uomo si sostituisce a Dio, si fa dio e ordina la gloria a se stesso e la creazione a se stesso.

Dunque si è tentata, si è provata una conciliazione con tali idee sostanzialmente e radicalmente contrarie alla Fede cattolica e molto semplicemente contrarie all’ordine naturale, alla realtà. Certo, trattandosi di un tentativo di conciliazione, essi non hanno riaffermato questi principi tali e quali. Non hanno negato l’ordine soprannaturale, ma l’hanno ridotto e incluso nella natura. Non hanno negato la Chiesa, ma hanno messo la Chiesa al servizio del mondo, il regno dei cieli sulla terra, al servizio del mondo e al servizio di quell’impresa umanista dell’unità del genere umano e della pace, sempre nell’ordine naturale. Guardate ad Assisi, per esempio, ad Assisi III che è presentato così.

Essi non hanno negato Cristo, ma hanno messo Cristo a servizio dell’uomo. Cristo è unito a tutti gli uomini, egli rivela l’uomo all’uomo e, con la sua grazia fa che l’uomo sia un uomo perfetto. Ecco la loro dottrina.
Non hanno affermato l’indipendenza assoluta dell’uomo nei confronti di Dio, ma sono passati dall’ordine oggettivo ad un ordine soggettivo.
Oggettivamente parlando, sì, vi è un dio, vi è una vera religione, vi è una verità. Quindi l’uomo avrebbe l’obbligo morale di aderirvi. Ma in ogni caso, qualunque cosa accada, l’uomo si salva seguendo la sua coscienza, la sua verità, e soprattutto esercitando la sua libertà. Poiché sta lì la dignità ontologica e sacra dell’uomo.
L’esercizio della libertà, non nel senso tradizionale – la libertà di muoversi nel bene – ma il semplice fatto di scegliere tra il bene e il male, è lì che l’uomo trova la sua perfezione e la sua salvezza.

Essi non hanno affermato la divinità dell’uomo, ma hanno operato un ritorno antropologico col personalismo, che ha messo il bene comune, e ogni bene comune, al servizio dell’uomo individualmente, della persona. E in ultima analisi si mette al servizio della persona il bene comune divino, universale, supremo, che è Dio. Poiché Dio è il bene comune supremo.
È per questo che il Concilio afferma che l’uomo è la sola creatura che Dio ama per se stessa. Che Dio ama per se stessa!
E Dio trova la sua gloria nella gloria dell’uomo, non nella gloria che l’uomo rende a Dio, ma nella glorificazione dell’uomo.

E dunque abbiamo il medesimo scopo dei liberali, degli umanisti, dei rivoluzionari. Nessun problema!
Cerchiamo tutta la glorificazione dell’uomo e con essa otterremo anche la gloria di Dio. Così il loro dio è finito e perfezionato dalla gloria dell’uomo.
Niente di meno!

Restaurare tutto in Cristo per rimediare al male presente

Vedete com’è impossibile questa conciliazione. Ed essi ne hanno applicato rigorosamente tutte le conseguenze. Mons. Lefebvre ci diceva: L’hanno detronizzato. Sì, hanno disconosciuto sistematicamente il primato e la regalità di Nostro Signore, i suoi diritti, i diritti di Dio.
Si è per i diritti dell’uomo. Negazione dei diritti di Dio con la dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Essi hanno detronizzato nostro Signore in Se stesso nei suoi diritti, con la libertà di coscienza, con la libertà di pensiero, con la libertà dal peccato, con la libertà di culto, con la libertà religiosa. Egli è stato detronizzato veramente.
Ma essi hanno detronizzato nostro Signore anche nella sua Chiesa, con l’ecumenismo, poiché se Cristo è Re la Chiesa è regina.
E hanno detronizzato nostro Signore nel suo Vicario e nei suoi vescovi, con la collegialità e in ultima analisi con la demolizione di ogni autorità.

Ecco il pensiero con cui il Concilio ha tentato la conciliazione.
E allora, certo, oggi c’è la conciliazione della conciliazione, cioè l’ermeneutica della continuità.
E vi sono perfino di quelli che ci sono vicini o che erano dei nostri, e non sono più dei nostri, che tentano la conciliazione della conciliazione della conciliazione. Tempo perso, la loro impresa è votata da subito allo scacco: bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu. Il bene procede da una causa totalmente buona, integra, il male da qualunque difetto nella causa.

Ma qui si tratta di un difetto essenziale, poiché è l’essenziale del pensiero liberale che è totalmente e radicalmente contrario alla fede cattolica. È la cosa stessa che si cerca di conciliare che è contraria. Non si può fare un cerchio quadrato. È impossibile. Non si può neanche concepirlo. È una questione di buon senso. Si può chiedere a qualcuno di Martigny se si può andare contemporaneamente a Roma, la città eterna, e a Parigi, la città dei Lumi? Chiedetegli se si può prendere la stessa strada per giungere a queste due mete! In Spagna si dice che questo significa accendere un cero a Dio e un altro cero al diavolo. Già l’Apostolo San Paolo l’aveva detto più o meno in questi termini: «Non legatevi con gli infedeli allo stesso giogo» (Cfr. II Cor. 6, 14). Perché quale associazione può esserci tra la giustizia e l’iniquità? Quale conciliazione fra la luce e le tenebre? Quale accordo fra Cristo e il diavolo? Fra il fedele e l’infedele? Fra il tempio di Dio e il tempio degli idoli? Ora, dice San Paolo, il tempio di Dio è la Chiesa. E allora quale conciliazione può esserci? Nessuna.

Se Mons. Lefebvre ci ha indicato con precisione il male, con altrettanta precisione e chiaroveggenza ci ha indicato il rimedio. Ci ha additato il rimedio: Nostro Signore Gesù Cristo. E più precisamente Cristo Sacerdote e Cristo Re. Non v’è salvezza né redenzione possibile, né per gli individui né per le società, al di fuori del sacerdozio e della regalità di nostro Signore Gesù Cristo. Poiché egli ha compiuto la sua missione e col suo sacerdozio e con la sua regalità. «Nessuno può porre altro fondamento che quello che è stato posto dalla mano di Dio, Cristo Gesù», afferma San Paolo (Cfr. Cor. 3, 11). E San Pietro dice nello stesso senso: la pietra che è stata rigettata dagli architetti, è divenuta testata d’angolo per i costruttori. Poiché non v’è salvezza in altro modo, in altra persona se non in Nostro Signore Gesù Cristo. E non v’è altro nome sotto i cieli per il quale gli uomini possano essere salvati se non il nome di Nostro Signore Gesù Cristo. (Cfr. Atti, 4 11-12).

Quando San Paolo, nella lettera agli Efesini, vuol fondare con forza la nostra speranza, ci ricorda come Dio Padre ha dispiegato la sua potenza e la potenza della sua forza risuscitando Nostro Signore dai morti, facendolo sedere alla sua destra e ponendo sotto la sua autorità ogni principato, ogni autorità, ogni dominazione, ogni trono. Al pari di tutto ciò che si può nominare in questo secolo e nel secolo a venire. Dio gli ha sottomesso tutto in questo secolo e nel secolo a venire. Egli l’ha costituito Capo della Chiesa, che è il suo corpo. La Chiesa è la pienezza di Colui che è tutto in tutti. Cristo è tutto in tutti nella Chiesa. E Dio gli ha sottomesso tutto (Cfr. Ef. 1, 20-23).

Nell’epistola ai Corinzi, l’Apostolo è ancora più chiaro dicendo che gli ha sottomesso tutto, che non ha lasciato alcunché che non gli fosse sottomesso. Non ha lasciato alcunché al di fuori del suo imperio, della sua regalità, e dunque oportet illum regnare, bisogna che Egli regni (Cfr. I Cor. 15, 25). È qui che sta l’ideale del sacerdote, del sacerdozio: fondare tutto in Nostro Signore Gesù Cristo, instaurare tutto, restaurare tutto in Cristo, ma anche riunire tutto, ricapitolare tutto, ordinare tutto a Nostro Signore Gesù Cristo.

Tutto sta a voi, voi siete per Cristo e Cristo è per Dio. Ecco il disegno di Dio da tutta l’eternità: restaurare tutto, riunire tutto in Cristo. E al di fuori del suo sacerdozio e della sua regalità la vita dell’uomo è un incubo senza fine. Lo vediamo bene nella società in cui viviamo, non v’è né verità né virtù e, ahimé, non vi è né salvezza, né redenzione, né giustizia. Tutte queste cose ci vengono da Nostro Signore, dal suo sacerdozio dalla sua regalità: Io sono la via, la verità e la vita (Gv. 14, 6).

E dunque, cari confratelli, cari ordinandi, la vita del sacerdote consiste appunto nel sottomettere ogni intelligenza a Nostro Signor Gesù Cristo che è la verità, ogni volontà a Nostro Signore Gesù Cristo che è la vita, e nell’offrire a tutti gli uomini la sola via di salvezza che è Nostro Signore Gesù Cristo.

Perché andare a Roma

Se le cose stanno così, qualcuno potrebbe dirmi: ma allora perché avere contatti con questa gente, perché andare a Roma? Sembrerebbe che per principio non si dovrebbero avere dei contatti, alcun contatto con costoro.
Ebbene! È tutto il contrario: per principio bisogna che noi abbiamo dei contatti e per principio bisogna che andiamo a Roma. Poi evidentemente sarà la prudenza che valuterà le circostanze e ciò che bisognerà fare veramente in un caso concreto. Ma per principio occorre innanzi tutto andare perché siamo cattolici, apostolici e romani. Poi perché se Roma è la testa e il cuore della Chiesa cattolica, noi sappiamo che necessariamente la crisi troverà la sua soluzione, la crisi si risolverà a Roma e per Roma. Di conseguenza, il poco di bene che noi faremo a Roma è molto più grande del tanto bene che faremo altrove.

D’altra parte, caritas Christi urget nos, la carità di Cristo ci spinge (II Cor. 5, 14). Bisogna comprendere quant’è difficile abbandonare l’errore quando si è vissuta tutta la vita nell’errore. È estremamente difficile avere la chiarezza e la forza per rompere con tutta una serie di legami di ordine naturale, con tutta una vita votata a questo, con tutto un insegnamento avallato dall’autorità e le conseguenze che ne derivano. Riconosciamo che la cosa non è facile, ed abbiamo pietà. Poiché in definitiva essi hanno bisogno molto semplicemente di ciò che noi abbiamo già ricevuto gratuitamente, la luce e la grazia. Perché cos’è che abbiamo che non abbiamo ricevuto? (I Cor. 4, 7). Ebbene! Molto semplicemente, essi hanno bisogno di ricevere ciò che noi abbiamo avuto la grazia di ricevere dalla misericordia e dalla munificenza di Dio. La carità ce ne fa un dovere.

Coloro che si oppongono ferocemente e per principio ad ogni contatto con i modernisti mi fanno venire in mente un passo del Vangelo. Quando Nostro Signore non fu accolto in una città, Giacomo e Giovanni – i figli del tuono – gli proposero, se lo voleva, di far cadere il fuoco dal cielo per distruggere quella città. E Nostro Signore, indulgente, passa su questo orgoglio monumentale ma ingenuo degli Apostoli – come se Nostro Signore avesse avuto bisogno di loro per risolvere i problemi! – e risponde loro: Non sapete di quale spirito siete. (Cfr. Lc. 9, 51-56). Sì, non avevano ancora ricevuto lo Spirito Santo che diffonde la carità nei cuori e non sapevano di che spirito erano. Erano caduti nello zelo amaro.

Noi abbiamo creduto alla carità

E qual è questo spirito?
È lo spirito di Nostro Signore Gesù Cristo. Non è troppo complicato, basta guardare a come Nostro Signore ha fronteggiato i suoi nemici, i suoi avversari. Sia San Giovanni che San Paolo ci dicono: è in questo che abbiamo veramente conosciuto l’amore di Dio, che il Padre ci ha amati e Cristo ha dato la sua vita per noi, mentre noi eravamo dei peccatori, mentre eravamo suoi nemici. Ed è soprattutto in questo che si manifesta la carità di Dio, e noi abbiamo creduto a questa carità. Allora, dobbiamo fare lo stesso. (Cfr. Gv. 4, 9-16 e Ef. 2).

Come si è manifestato quest’amore di Nostro Signore? Con la guerra, gli anatemi, le condanne o facendo scendere il fuoco dal cielo? No!
Quest’opera d’amore si è compiuta con l’umiltà, con l’umiliazione, con l’obbedienza, con la pazienza, con la sofferenza, con la morte e ancora perdonando ai suoi nemici sulla Croce. Lungo tutto il corso della sua vita Nostro Signore ha dispiegato tutti i mezzi possibili e ragionevoli per fare ammettere la verità ai farisei e per offrire loro la salvezza e il perdono.
Ecco molto semplicemente ciò che dobbiamo seguire.

Io non vedo come la fermezza dottrinale sarebbe contraria alla docilità, all’ingegnosità e perfino all’arditezza della carità. Non lo vedo.
Non so in che l’intransigenza dottrinale sarebbe contraria all’intimo della misericordia, allo zelo missionario e apostolico della carità.
Non si deve scegliere: o la fede o la carità, si devono abbracciare entrambe.
E ancora, senza la carità sono niente, anche se ho una fede da spostare le montagne. Se non ho la carità sono niente. Se do la mia vita per i poveri e non ho la carità, sono niente (Cfr. I Cor. 13, 3).

Rileggete l’elogio della carità di San paolo nella sua lettera ai Corinti (Cfr. I Cor. 13), applicatelo alla vita di Nostro Signore e saprete senza confusione possibile qual è lo spirito cattolico.
La carità è paziente, la carità è buona, non è invidiosa, la carità non cerca il suo interesse, non tiene conto del male, essa rende il bene per il male, la carità scusa tutto, crede tutto, spera tutto, soffre tutto.
Ecco come noi potremo veramente cooperare alla restaurazione della fede, a questa restaurazione di tutte le cose in Cristo.
E se il rimedio è in Cristo, il sacerdozio e la regalità di Cristo, questo rimedio passa necessariamente per il cuore di nostra madre, la Santissima Vergine Maria.

Nostro Signore è stato e sarà sempre esclusivamente il frutto della Vergine Maria, del cuore di Maria. È lei che è la Madre di Cristo, la madre di Dio, la madre di tutti gli uomini, la corredentrice del genere umano, la mediatrice di tutte le grazie. Colei che distribuisce e dà tutte le grazie. Ella è veramente la regina di tutta la creazione, regina del cielo e della terra. Come dice San Bernardo, noi abbiamo ottenuto tutto tramite la Vergine Maria, dobbiamo dunque andar con fervore, devozione e costanza al Cuore di Maria, al fine di ottenere le grazie che ci sono necessarie, e soprattutto quella vita forte nella fede, nella speranza e nella carità. Poiché dobbiamo amare con forza.

Andiamo quindi veramente e sovente, con una devozione vera e interiore, al Cuore di Maria, a questo Trono della grazia, al fine di ottenere gli aiuti necessari nel tempo opportuno, così da essere in definitiva dei veri cristiani e dei veri sacerdoti di Nostro Signore Gesù Cristo.

Così sia.

Per conservare a questa omelia il suo carattere proprio, è stato mantenuto lo stile orale.


(Trascrizione e titoli DICI del 7 luglio 2011)

giovedì 7 luglio 2011

Quarto quoque anno.....

Rinnovando la nostra gratitudine a Dio e al Santo Padre per il dono del Motu proprio "Summorum Pontificum" in attesa del pieno ristabilimento dei diritti della Liturgia della Chiesa sulle innovazioni moderne, invocando dal Cielo la grazia di poter vedere la fine degli abusi e delle aberrazioni liturgiche di questi nostri tristissimi tempi, continuiamo ad offrire ai nostri lettori alcuni spunti di riflessione. Per l'odierno anniversario proponiamo l'introduzione del libro dell'Abbé Calvet, La santa liturgia (90 pp., euro 10),  versione italiana del testo originariamente edito in Francia, nel 1982, dalle Éditions Sainte Madeleine: La sainte liturgie
«Ecco, appena la voce del tuo saluto
è giunta ai miei orecchi,
il bambino ha esultato di gioia
nel mio grembo»
(Lc 1,44).

Tre miracoli fioriscono continuamente nel giardino della Sposa di Cristo: la sapienza dei suoi dottori, l’eroismo dei suoi santi e dei suoi martiri, lo splendore della sua liturgia. Et hi tres unum sint! Questi tre elementi sono «una cosa sola» perché la liturgia è per sé stessa un canto unico di sapienza e di amore: essa riassume i due ordini dell’intelligenza e della carità e li sublima in preghiera.
Non sorprende quindi che quando l’azione liturgica, soprannaturale o sacramentale, colpisce la vista e l’udito, vi percepiamo il segreto del nostro destino e che un «sacro trasalire» s’impadronisca di tutto il nostro essere, come fu per Giovanni il Battista alla voce di Maria. La voce della Sposa, come ravviva il cuore dello Sposo e santifica l’anima dei suoi figli, così ricopre la sua doppia funzione di culto verso Dio e di santificazione delle anime. Senza dubbio, questo trasalire d’amore non può essere per noi quello che fu per Giovanni Battista, ovvero il segno della trasformazione immediata e totale che fece di lui il più grande tra i figli di donna; tuttavia, toccati dal messaggio liturgico, è un annuncio di salvezza e un sapore di vita eterna che ci trasforma poco a poco. Se ci capita di ascoltare questi accenti di un altro mondo risuonare in una lingua sacra, all’interno di uno di questi templi di pietra che gli antichi elevarono con tanta dignità, in profondo accordo con lo spirito di preghiera, penetreremo in un mondo misterioso dove i gesti e i movimenti compongono un’armonia divina, simile a una debole eco dei cantici della città celeste, i soli che siano capaci di distrarci un po’ dalle cose della terra.
«Sono colpita dalla grandezza delle cerimonie della Chiesa», diceva santa Teresa d’Avila. Se però c’interroghiamo sui segreti della liturgia, sulla sua essenza e la sua relazione con due ordini di grandezza così diversi — la grandezza cosmica nel nostro universo creato e la grandezza soprannaturale del Regno dei cieli — ci accorgiamo che essa ha purtroppo meno rilievo e spazio delle nostre faccende umane.


dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008)

mercoledì 6 luglio 2011

Ex ore infantium!


Per chi comprende l'inglese c'è di che meditare: riportiamo solo una perla tra le tante offerte da questi bambini "E' in onore di Dio, per adorarLo (che noi cantiamo): penso che Dio meriti di essere trattato così; Egli ha dato tutto quello che poteva a noi e noi dobbiamo dare tutto quello che possiamo a Lui"



domenica 3 luglio 2011

otto per mille: mai gloriarsi del bene che si fa!

Le contraddizioni della pubblicità per l’8 per mille

Anche quest’anno si sta concludendo la campagna pubblicitaria per l’8 per mille alla Chiesa Cattolica, pubblicità commissionata dalla Conferenza Episcopale Italiana. Nulla da dire sul fatto che un organismo della portata di una Conferenza Episcopale possa decidere di utilizzare i mezzi d’informazione per sensibilizzare su un aiuto “materiale” alla Chiesa.

Nulla da dire, perché, da che mondo è mondo, è bene utilizzare tutto ciò che è moralmente lecito per invitare i cristiani a far del bene e per aiutare chi si consacra nel far del bene.

Ciò che però rende perplessi è altro. Mi riferisco al tipo di messaggio che si è voluto utilizzare per la realizzazione della pubblicità. Si tratta di un messaggio esclusivamente impostato sulle opere di misericordia corporale. Bisogna aiutare la Chiesa cattolica perché nella Chiesa cattolica vi è don Tizio che aiuta i poveri, suor Sempronia che dà da mangiare ai barboni, fratel Caio che coordina il collocamento degli immigrati nei campi di raccolta dei pomodori, ecc… e non don Tizio che dona soprattutto la grazia santificante nel confessionale, suor Sempronia che dinanzi al Tabernacolo prega per la conversione dei peccatori, fratel Caio che annuncia il Vangelo agli immigrati. Intendiamoci, il don Tizio che aiuta i poveri, suor Sempronia che aiuta i barboni e fratel Caio che aiuta gli immigrati sono tutte cose bellissime.

Tutte cose che da sempre hanno fatto grande la Chiesa. Tutte cose che costituiscono un dovere per ogni cristiano, tanto è vero che le opere di misericordia corporale sono un dovere non certo un optional per il seguace di Cristo. Cose che però, prese da sole, esclusivizzate, non unite alle opere di misericordia spirituale, finiscono per ridurre il Cristianesimo ad una sorta di manuale di educazione civica e la Chiesa ad una sorta di “ente morale”; dimenticando che la ragion d’essere della Chiesa è prima di tutto quella di salvare le anime donandole Cristo, unica verità e unico salvatore della storia.

Ovviamente il motivo di una scelta di questo genere è facile a capirsi: se si vuole avere successo, e quindi ottenere un maggiore risultato dalla campagna pubblicitaria, bisogna giocoforza utilizzare la tipologia di messaggi più gradita al pubblico. E, da questo punto di vista, è facile intuire che si sia portati a pensare che la maggioranza delle persone gradisca un linguaggio che sia quanto più “politicamente corretto”. Non si deve parlare della verità ma solo dell’amore.

Non si deve parlare della lotta all’errore ma solo di quella contro la povertà. Ora, oltre al fatto che avrei qualcosa da dire sulla convinzione che un simile appiattimento sociologico produca risultati per un marketing di questo tipo, dovendosi rivolgere ad un pubblico che deve essere convinto non per comprare una lavatrice o uno shampoo per capelli, bensì per operare una scelta che coinvolge la propria identità culturale e religiosa; va aggiunto che sembra proprio che una simile campagna pubblicitaria richiami quel famoso modo di dire che recita: «si scrive bianco, ma si deve legge nero». Nel caso specifico si dice “aiuto al prossimo”, ma si deve leggere “amore a Dio”. D’altronde si sa che la maggioranza “bulgara” (ringraziamo Dio!) che ancora si esprime nelle dichiarazioni dei redditi a favore dell’8 per mille alla Chiesa cattolica non si deve certo alla constatazione che la carità la sa fare meglio la Chiesa piuttosto che altri enti, quanto ad una generosità che scaturisce dalle personali convinzioni religiose degli italiani per cui «…proprio perché non riesco ad essere un cristiano assiduo ed osservante almeno voglio fare qualcosa che possa piacere a Dio, d’altronde non mi costa nulla. Di certo lo Stato non può darmi la vita eterna, Cristo sì. Di certo lo Stato non fa miracoli, Cristo sì».

Ma c’è ancora dell’altro… ed è peggio. Si tratta di un paradosso e di un’evidente contraddizione. Si decide di utilizzare un messaggio solo incentrato sulle opere di misericordia corporale per servirsi di un linguaggio politicamente corretto perché non si deve dire che c’è una religione più vera delle altre; e poi, paradossalmente, si finisce col proporre una strana ed ambigua gerarchia. Mi spiego. Un conto è se dico al contribuente di donare l’8 per mille per me perché io ho la possibilità di offrire al prossimo una verità che non è mia ma di Dio; altro è invece se dico al contribuente di donare l’8 per mille per me perché io so fare del bene.

Ora, oltre all’implicito messaggio di presunzione che vien fuori (mai gloriarsi del bene che si fa!), è evidente che se dico al contribuente di donare l’8 per mille per me e non per gli altri è perché deve passare il messaggio che come so aiutare io il prossimo non lo sanno fare gli altri. E questo è quanto meno sorprendente. Insomma, per non rapportarsi alla verità e quindi per evitare classificazioni sul piano dottrinale, si finisce col fare una classificazione inaccettabile, presuntuosa e, diciamola francamente, poco cristiana. Sono i paradossi del politicamente corretto! (Corrado Gnerre)