Le contraddizioni della pubblicità per l’8 per mille
Anche quest’anno si sta concludendo la campagna pubblicitaria per l’8 per mille alla Chiesa Cattolica, pubblicità commissionata dalla Conferenza Episcopale Italiana. Nulla da dire sul fatto che un organismo della portata di una Conferenza Episcopale possa decidere di utilizzare i mezzi d’informazione per sensibilizzare su un aiuto “materiale” alla Chiesa.
Nulla da dire, perché, da che mondo è mondo, è bene utilizzare tutto ciò che è moralmente lecito per invitare i cristiani a far del bene e per aiutare chi si consacra nel far del bene.
Ciò che però rende perplessi è altro. Mi riferisco al tipo di messaggio che si è voluto utilizzare per la realizzazione della pubblicità. Si tratta di un messaggio esclusivamente impostato sulle opere di misericordia corporale. Bisogna aiutare la Chiesa cattolica perché nella Chiesa cattolica vi è don Tizio che aiuta i poveri, suor Sempronia che dà da mangiare ai barboni, fratel Caio che coordina il collocamento degli immigrati nei campi di raccolta dei pomodori, ecc… e non don Tizio che dona soprattutto la grazia santificante nel confessionale, suor Sempronia che dinanzi al Tabernacolo prega per la conversione dei peccatori, fratel Caio che annuncia il Vangelo agli immigrati. Intendiamoci, il don Tizio che aiuta i poveri, suor Sempronia che aiuta i barboni e fratel Caio che aiuta gli immigrati sono tutte cose bellissime.
Tutte cose che da sempre hanno fatto grande la Chiesa. Tutte cose che costituiscono un dovere per ogni cristiano, tanto è vero che le opere di misericordia corporale sono un dovere non certo un optional per il seguace di Cristo. Cose che però, prese da sole, esclusivizzate, non unite alle opere di misericordia spirituale, finiscono per ridurre il Cristianesimo ad una sorta di manuale di educazione civica e la Chiesa ad una sorta di “ente morale”; dimenticando che la ragion d’essere della Chiesa è prima di tutto quella di salvare le anime donandole Cristo, unica verità e unico salvatore della storia.
Ovviamente il motivo di una scelta di questo genere è facile a capirsi: se si vuole avere successo, e quindi ottenere un maggiore risultato dalla campagna pubblicitaria, bisogna giocoforza utilizzare la tipologia di messaggi più gradita al pubblico. E, da questo punto di vista, è facile intuire che si sia portati a pensare che la maggioranza delle persone gradisca un linguaggio che sia quanto più “politicamente corretto”. Non si deve parlare della verità ma solo dell’amore.
Non si deve parlare della lotta all’errore ma solo di quella contro la povertà. Ora, oltre al fatto che avrei qualcosa da dire sulla convinzione che un simile appiattimento sociologico produca risultati per un marketing di questo tipo, dovendosi rivolgere ad un pubblico che deve essere convinto non per comprare una lavatrice o uno shampoo per capelli, bensì per operare una scelta che coinvolge la propria identità culturale e religiosa; va aggiunto che sembra proprio che una simile campagna pubblicitaria richiami quel famoso modo di dire che recita: «si scrive bianco, ma si deve legge nero». Nel caso specifico si dice “aiuto al prossimo”, ma si deve leggere “amore a Dio”. D’altronde si sa che la maggioranza “bulgara” (ringraziamo Dio!) che ancora si esprime nelle dichiarazioni dei redditi a favore dell’8 per mille alla Chiesa cattolica non si deve certo alla constatazione che la carità la sa fare meglio la Chiesa piuttosto che altri enti, quanto ad una generosità che scaturisce dalle personali convinzioni religiose degli italiani per cui «…proprio perché non riesco ad essere un cristiano assiduo ed osservante almeno voglio fare qualcosa che possa piacere a Dio, d’altronde non mi costa nulla. Di certo lo Stato non può darmi la vita eterna, Cristo sì. Di certo lo Stato non fa miracoli, Cristo sì».
Ma c’è ancora dell’altro… ed è peggio. Si tratta di un paradosso e di un’evidente contraddizione. Si decide di utilizzare un messaggio solo incentrato sulle opere di misericordia corporale per servirsi di un linguaggio politicamente corretto perché non si deve dire che c’è una religione più vera delle altre; e poi, paradossalmente, si finisce col proporre una strana ed ambigua gerarchia. Mi spiego. Un conto è se dico al contribuente di donare l’8 per mille per me perché io ho la possibilità di offrire al prossimo una verità che non è mia ma di Dio; altro è invece se dico al contribuente di donare l’8 per mille per me perché io so fare del bene.
Ora, oltre all’implicito messaggio di presunzione che vien fuori (mai gloriarsi del bene che si fa!), è evidente che se dico al contribuente di donare l’8 per mille per me e non per gli altri è perché deve passare il messaggio che come so aiutare io il prossimo non lo sanno fare gli altri. E questo è quanto meno sorprendente. Insomma, per non rapportarsi alla verità e quindi per evitare classificazioni sul piano dottrinale, si finisce col fare una classificazione inaccettabile, presuntuosa e, diciamola francamente, poco cristiana. Sono i paradossi del politicamente corretto! (Corrado Gnerre)
tratto da Corrispondenza romana del 28 giugno 2011