sabato 4 dicembre 2010

inverno conciliare

Se il gelo del mondo fosse causato dalle tenebre del Vaticano II? Cosa leggere per capirne di più

Da alcuni anni uno spettro si aggira nel mondo cattolico. Uno spettro che inquieta molti, benché assuma la forma di una semplice e inevitabile domanda: e se la scristianizzazione incalzante dell’occidente fosse anche il frutto di una crisi della chiesa? E se la crisi della chiesa avesse a che fare con il Concilio Vaticano II, con alcuni suoi documenti un po’ ambigui, oppure, quantomeno, con la sua estesa interpretazione?

La domanda, a ben guardare, dovrebbe essere spontanea: non è più possibile infatti non accorgersi del gelo, del buio, della disumanizzazione che ci circonda. Nello stesso tempo non è più lecito non rendersi conto di quanto il sale sia divenuto insipido. Di quanto sia divenuto arduo, anche per chi si sforza di rimanere cattolico, trovare un vescovo del livello di monsignor Caffarra, o di monsignor Negri, o di monsignor Crepaldi; oppure, un sacerdote vivace e appassionato come padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria; oppure, un semplice parroco di paese che ami la liturgia, il decoro della casa di Dio e il confessionale.

Giustamente monsignor Nicola Bux ha appena dato alle stampe un bel testo intitolato “Come andare a messa e non perdere la fede” (Piemme). Perché il problema non è solo che la fede, fuori, nel mondo, non c’è più, e neppure il fatto che i credenti vengano derisi dagli atei di professione e dai nichilisti di ogni tipo: il problema vero è che questi stessi nemici della fede, come coloro che invece la conservano ancora gelosamente, non trovano nessuno con cui veramente confrontarsi, a cui lanciare in volto i loro dubbi, le loro fatiche, o persino la loro luciferina ribellione. Non è colpa solo dei media il fatto che a rappresentare un pensiero cattolico sul più importante quotidiano italiano sia chiamato il cardinal Martini. Il problema è la scarsità, nella chiesa di oggi, di uomini di Dio, di uomini di fede intelligenti, appassionati; dirò più, dopo tante esperienze personali: di uomini, punto e basta. Ma questa realtà, questo tradimento piuttosto generalizzato, che confonde e avvilisce anche chi vorrebbe stare, con la sua miseria, accanto al Maestro, anche nell’ora del Getsemani, non può non avere una radice, una causa.

All’epoca della Controriforma, gli uomini di chiesa più santi capirono che vi erano da fare due cose: condannare fermamente le eresie di Lutero; riformare la chiesa stessa, ammettendo errori, vizi, tradimenti, viltà di molti… Oggi penso debba accadere la stessa cosa: non si può continuare con il mantra del Concilio Vaticano II “primavera della chiesa”, “profezia” o altre amenità. Se c’è

l’inverno, bisogna finalmente accorgersene, e mettersi il cappotto. Ecco perché ritengo una benedizione di Dio, un segno dei tempi, l’opera di stimate personalità della chiesa che si interrogano sul Vaticano II e sulla sua attuazione: penso a “Iota unum” di Romano Amerio, ristampato recentemente; agli scritti di monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga; a “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, di un insigne teologo come monsignor Brunero Gherardini (con prefazione del neo cardinale Albert Malcolm Ranjith, uomo di fiducia di Benedetto XVI).

Un quadro completo

Penso, soprattutto, allo straordinario lavoro del professor Roberto de Mattei, “Il Concilio Vaticano II, una storia mai scritta”, edito in questi giorni da Lindau. Si tratta di un volume di oltre 600 pagine densissime, puntuali, in cui finalmente si analizza un grande evento della chiesa, insieme a ciò che lo ha determinato, alle attese, alle delusioni e alla ricezione che ha avuto. Un quadro completo, non ideologico, che senza dubbio mancava e che contribuisce a parer mio a riportare il discorso Vaticano II nel giusto alveo, confutando il mito di un Concilio “superdogma”, sempre e immancabilmente “profetico”. Il Vaticano II, ricorda de Mattei, si auto qualificò come “pastorale” e “fu privo di un carattere dottrinale definitorio”: proprio questa sua caratteristica lo rende soggetto, almeno per alcuni documenti, ché non tutti hanno lo stesso valore, a differenti interpretazioni, che non sarebbero invece possibili per definizioni dogmatiche, di per sé infallibili e irreformabili. Non essendoci qui lo spazio per illustrare un testo così ricco, basti un assaggio: l’autore parte dal pre Concilio, da una crisi che i più avveduti vedevano già in azione. Nota però come la gran maggioranza dei vescovi, invitata a esprimere i propri “vota” in vista del Concilio, avesse chiesto riforme moderate e la chiara comprensione e condanna degli errori del proprio tempo: comunismo e marxismo in primis (e poi esistenzialismo ateo e relativismo morale). Ma i “vota” dei vescovi, anticipa de Mattei, sarebbero stati ostacolati dalle “rivendicazioni di una minoranza”, che in nome dell’“aggiornamento” dimenticò, talora, che l’aspetto pastorale non può finire per soffocare quello dottrinale; che la carità nell’annuncio non significa il silenzio sui mali del presente (vedi il silenzio sul comunismo); che sminuire la Verità, “scandalo e follia”, a causa della sua sapidità, del suo gusto talora amaro e inquietante, non la rende più digeribile e appetibile, ma al contrario, finisce per nasconderne la lucentezza, la bellezza e la forza intrinseca.

Francesco Agnoli su "Il Foglio" del 02/12/2010

giovedì 2 dicembre 2010

omelia di Mons.Bernard Fellay in occasione della Festa di Tutti i Santi

Ecône, 1° novembre 2010

Cari membri della Fraternità,

in questo giorno siamo nella gioia per due motivi. Innanzi tutto per la festa liturgica che celebriamo, quella di Tutti i Santi. La Chiesa vuole ricordare oggi tutti i suoi figli che già gioiscono della beatitudine eterna nella visione beatifica. È una festa straordinaria poiché in essa si vede realizzato il compimento, la ragion d’essere della Chiesa e della sua missione, nella speranza che un giorno anche noi giungeremo a questo fine.

Pensare al Cielo ci riempie di gioia, e oggi la Chiesa ci chiede veramente di pensare al Paradiso, al fine per cui Dio ci ha creati. Nel Martirologio vi sono 365 giorni in cui sono menzionati alcune migliaia di Santi, ma nella patria celeste ve ne sono molti di più e questo genera in noi una grande speranza, poiché il Cielo è la nostra patria.

Tale festa poi ci procura anche un’altra gioia poiché celebriamo un anniversario; quello dei quarant’anni di fondazione della nostra cara Fraternità Sacerdotale San Pio X, nata proprio in questo giorno. Non si tratta certo di un caso, poiché sappiamo bene che per la Divina Provvidenza il caso non esiste. Proviamo ad approfondire le ragioni; il perché la Fraternità è stata fondata proprio nella festa di Tutti i Santi.

La Chiesa Militante sulla terra e Trionfante in Cielo

Quando si parla di Tutti i Santi si pensa certamente a ciascuno di essi preso individualmente, ma anche all’insieme che essi compongono; si pensa a un corpus. Quest’insieme ha un nome: la Chiesa trionfante. Si potrebbe dire che è la parte definitiva della Chiesa, quella che costituisce il fine della Chiesa terrena; il suo compimento in Cielo, la sua perfezione definitiva. Vi è fra le due un legame poiché si tratta sempre della stessa Chiesa che noi chiamiamo «militante» sulla terra e «trionfante» in Cielo. La stessa Chiesa, che si trova però quaggiù secondo un modo diverso, poiché essa si situa nel tempo, ed ha anche un modo d’agire differente. Al di fuori del tempo, nella visione di Dio, sparisce tutto l’aspetto della lotta contro il peccato, contro il demonio, nostro pane quotidiano sulla terra. I Santi si consacrano interamente all’adorazione di Dio e delle sue perfezioni nella visione beatifica tramite la luce della gloria. Ma qui sulla terra la Chiesa deve combattere. Il suo fine è il Cielo.

Se vi è una Chiesa sulla terra, se Nostro Signore ha fondato la sua Chiesa, è per salvare le anime, per strapparle dal loro pietoso e miserevole stato di peccato. La fede ci insegna che ogni uomo in questo mondo è concepito col peccato originale. Egli è privo di quell’amicizia con Dio che è la grazia. Se conta solo su se stesso è perduto; la sua vita in questa terra sarà solo un susseguirsi di gioie passeggere, di piaceri, di lacrime, di tristezze, di sofferenze, con una fine infelice. Occorre quindi cercare il mezzo dato da Dio per trarre l’uomo da questo stato di miseria, ancor più aggravato in seguito, dai peccati personali. Stato che, se non se ne esce, conduce all’inferno con la privazione di Dio. In questa condizione spaventosa l’uomo si precipita se non coglie il solo mezzo dato da Dio per salvarsi che è la Chiesa fondata da Lui stesso, la Chiesa cattolica romana. Trarre l’uomo da questo stato di miseria, non è semplicemente un’opera di beneficenza, è un combattimento.

L’uomo non è decaduto da solo. Occorre sempre tener presente anche gli spiriti ribelli che sono i demoni. Dio permette che possano avere un certo campo d’azione ed essi cercano di ostacolare il lavoro della Chiesa, che consiste nel far uscire le anime dal peccato. Questa missione è un vero combattimento, un combattimento essenzialmente spirituale, ma che molto facilmente può estendersi nel mondo fisico. Per questo sulla terra la Chiesa, per realizzare il suo fine che è di condurre gli uomini a Dio, di santificarli, di comunicare loro la grazia che li fa santi, deve dedicare la maggior parte delle sue energie e del suo tempo a questo combattimento.

Questa battaglia è visibile nella difesa e nella protezione del tesoro della fede. Essa esige delle condanne, dei divieti, delle punizioni, delle scomuniche. È normale e non può essere altrimenti. Ci troviamo in una vera guerra, molto più grave, molto più decisiva di tutte le guerre umane. Ne va, ancora una volta, della salvezza delle anime! Questa lotta la si percepisce anche nella morale. È necessaria la fede, ma è anche necessaria una vita che corrisponda ai comandamenti di Dio. È dunque compito della Chiesa ripetere agli uomini qual’è la via che conduce a Dio. L’esperienza di tutti i giorni ci dimostra quanto il richiamo alla morale cattolica possa provocare resistenze. Fondamentalmente, il combattimento della fede è molto più profondo, ma a livello umano è quasi sempre attorno alla morale che sarà più virulento.

Coloro che vorrebbero pensare solo al lato gioioso della Chiesa rischiano fortemente di dimenticare ciò che, pur non essendo forse essenziale, è tuttavia assolutamente necessario: il combattimento sulla terra cioè l’ascesi. Nostro Signore ha detto: «Se qualcuno vuole essere mio discepolo, rinunci a se stesso, porti la sua croce tutti i giorni e mi segua» (Lc 9, 23). Questa è la via! In questa festa di Tutti i Santi, la Chiesa ci chiede di elevare i nostri cuori, senza però dimenticare questa battaglia. Ci invita a considerare la ricompensa della beatitudine eterna che Dio darà a coloro che si consacrano a questa lotta per la salvezza della loro anima e di quella del prossimo.

Che cos’è la Fraternità agli occhi del mondo?

Come stabilire una relazione tra questa verità e la Fraternità? In definitiva non è poi così difficile. Quando si considera la Fraternità ci si può chiedere che cos’è essa per le persone del mondo: una banda di litigiosi, di ribelli, di scomunicati, di scismatici… in breve di malcontenti che turbano la Chiesa… o qualcosa di simile; sempre pronti a lamentarsi, a brontolare, ad attaccare e a criticare. Spesso è così che si considera la Fraternità. Ed è vero che nel corso di questi quarant’anni della sua esistenza essa ha combattuto numerose battaglie in questa guerra per la fede. Questo prova come la Fraternità faccia parte della Chiesa militante, in un’epoca in cui si vuole dimenticare proprio questo aspetto battagliero della Chiesa. È sorprendente constatare oggi, soprattutto da dopo il Concilio, come si cerchi di far sparire questo aspetto militante. Non se ne vuole più parlare, si vuole presentare una Chiesa gentile, simpatica con tutti, con tutte le religioni, con tutti gli uomini, con tutti i peccatori, come se non vi fosse più che un solo demone rimasto: la Fraternità San Pio X! Solo con essa si vuole mantenere lo stato di guerra! È davvero alquanto impressionante vedere un tale contrasto.

Della croce, non se ne vuole più parlare, o se se ne parla ancora, si rimuove il Crocifisso. Si mantiene ancora una croce ma quella del Resuscitato, quella che non serve più a niente perché Cristo è risuscitato. Alleluia! Tutto va bene. Non si vuole più parlare del valore della sofferenza, della necessità del combattimento. Il peccato? Figuratevi, non vi sono più peccatori! In ogni caso tutti vanno in Paradiso. È presto fatto. È semplice. Tutti sono buoni, tutti si salvano. Siate dei buoni protestanti, siate dei buoni pagani, e andrete in Cielo! È questo il messaggio che più o meno passa un po’ dappertutto. Si fa fatica a vedere che cos’è la Chiesa militante. Quando oggi si guarda ad essa ci si può ben chiedere perché si chiami ancora militante. Perché milita, che so, per i diritti delle donne o per i poveri? È questa la Chiesa militante?

Da parte nostra, è certo che quest’aspetto della «battaglia per la Messa» e per la «difesa della fede» è ben visibile, fin dal nostro stesso vocabolario, perché se si fa una ricerca nei nostri sermoni spesso si trovano queste idee di combattimento, di battaglia, di guerra. Ma noi siamo quasi i soli a parlarne e mostrare palesemente l’aspetto della Chiesa militante.

Al tempo stesso è importante ricordare che non ci battiamo solo per il piacere della disputa. Potremmo dare l’impressione di disobbedire solo per affermare la nostra opinione personale ma non è assolutamente così. Noi cerchiamo altro; cerchiamo la salvezza; cerchiamo Dio. Se ci lanciamo in questa battaglia è perché vogliamo piacere a Dio; perché vogliamo la sua gloria e con questo la nostra salvezza.

Senza Mons. Marcel Lefebvre, niente Fraternità

Guardiamo un po’ più da vicino questa nostra Fraternità. Vi è qualcosa di evidente: parlare della Fraternità, parlare di ciò che essa fa, parlare delle sue intenzioni, significa parlare necessariamente di una persona, del nostro caro e venerato Fondatore, Mons. Marcel Lefebvre. Se non ci fosse stato, non vi sarebbe alcuna Fraternità, noi non esisteremmo. Quest’opera della Chiesa esiste perché egli ne fu il fondatore, e non solo questo: tutta la nostra battaglia per la Chiesa è retta dalle sue linee direttrici, da uno spirito che abbiamo ricevuto da Mons. Lefebvre. È chiaro che egli è stato un uomo suscitato dalla Divina Provvidenza per questa epoca. Perciò Dio l’ha dotato di un numero impressionante di talenti e di doni. Innanzi tutto, gli ha permesso di comprendere che nella Chiesa vi era un problema, una crisi; poi di capire dov’era il problema, qual era la causa di questa crisi. Dio gli ha anche donato la capacità di mostrare i mezzi per uscirne e quale ne era l’antidoto. La Fraternità, dopo quarant’anni, vive di queste indicazioni dateci da Mons. Lefebvre.

La cosa più straordinaria è che le indicazioni che ci ha lasciate – sia per spiegare ciò che accade nella Chiesa, sia per mostrare quali sono i mezzi che bisogna utilizzare per uscirne – questa visione della Chiesa è talmente profonda che quarant’anni dopo si può leggere ciò che diceva e applicarlo come se lo stesse dicendo adesso. Ciò significa che tale visione è talmente elevata che in qualche modo supera il tempo; vale per la nostra epoca e non di meno è sufficientemente al di sopra degli elementi particolari e contingenti di un’epoca da poterci mostrare ciò che occorre fare. Posto il problema, ecco la soluzione!

La Fraternità è una eredità. Anche in questo vi è un legame con la Chiesa. La Chiesa è una tradizione, nel senso che di generazione in generazione viene trasmesso ai posteri ciò che Nostro Signore Gesù Cristo ha affidato agli Apostoli. È questa realmente la tradizione, la trasmissione di un deposito, di un tesoro che si chiama «deposito rivelato», che Dio ha affidato agli uomini per la loro salvezza. Nella nostra Fraternità si sente ripetere esattamente la stessa cosa, un eco fedele, non qualcosa di diverso, perché noi siamo nella Chiesa.

Monsignor Lefebvre diceva, e ha voluto che lo si scrivesse sulla sua tomba: «Ho trasmesso ciò che ho ricevuto» (I Cor 11, 23). Noi abbiamo ricevuto e ancora oggi viviamo di questo tesoro. Se siete qui oggi è perché anche voi avete ricevuto questo tesoro, e se noi oggi contiamo quarant’anni d’esistenza significa che per quarant’anni questa trasmissione si è mantenuta. Quello che facciamo – e Monsignore ha insistito tanto su questo punto – non dev’essere altro che ciò che fa la Chiesa.

Quando ci parlava dello spirito che deve animare la Fraternità; quando gli si chiedeva quale deve essere questo spirito egli rispondeva che essa non vuole avere uno spirito proprio ma quello della Chiesa. Considerando la Chiesa vediamo cos’è che domina in essa e che la muove. Questo stesso spirito deve essere quello che muove la Fraternità. Ora nella Chiesa c’è il combattimento e la difesa della fede. Ma questo non basta. Non è tutto. Voi stessi capite bene come le persone che ci guardano dall’esterno vedono degli elementi negativi: la difesa della fede, la condanna degli errori, il combattimento o anche la guerra… e spesso si fermano là. Bisognerebbe che guardassero un po’ meglio, e vedrebbero che questi elementi sono ben reali, ma non sono il fine né il compimento della Fraternità. Il fine è la santità. È veramente bello e straordinario considerare questa finalità in un’epoca come la nostra, in cui la santità è beffeggiata dappertutto. Epoca in cui le protezioni e gli aiuti che offrivano le leggi degli Stati per la morale e la difesa della legge naturale sono scomparsi. Tutto è saltato, tutto è stato affondato nel marciume… Ebbene in un tale ambiente, in tale naufragio è veramente straordinario vedere che questa piccola Fraternità attaccata da tutti le parti, riesce comunque a far brillare la luce di Dio, che è la luce della fede, dando agli uomini il coraggio di resistere in mezzo a tutto questo, per vivere una vita che piaccia a Dio, una vita nella grazia. È qualcosa di assolutamente straordinario che attiene al miracolo. Oggi vi è veramente di che rendere grazie a Dio. Rendere grazie a Dio per averci dato un Mons. Lefebvre.

Lo scopo della Chiesa è di fare dei santi

In quel piccolo libro che ci disse essere il suo testamento, il suo Itinerario Spirituale, dalla prefazione veniamo a sapere che in tutta la sua vita Monsignore è stato assillato dal desiderio di trasmettere i princìpi della santificazione sacerdotale, della santificazione cristiana cioè dal desiderio di fare dei santi. Questo è esattamente lo scopo della Chiesa: fare dei santi, fare dei santi sacerdoti perché si abbiano dei fedeli santi. Occorre veramente che tutta la Chiesa sia santificata. Per far questo, egli non ha proposto una sua invenzione, ma ha ripreso molto semplicemente ciò che ci dà la Chiesa. Ciò su cui bisogna essere centrati: la Messa che è il fondamento e la fonte di ogni grazia, di ogni santificazione. Questo è veramente il rimedio per la crisi di oggi.

Già lo si vede, anche se è solo un piccolo inizio, non molto forte nella Chiesa. Attorno alla Messa che si celebra a poco a poco si ricostruisce la Cristianità, in mezzo ad ogni sorta di miserie, di pene, di lacrime. Questo seme germina, cresce lentamente; è ancora impercettibile, ma malgrado tutto si vede che sta accadendo qualcosa. Si coglie, molto semplicemente, la mano di Dio. Mi ricordo che in occasione della prima visita dei tre vescovi della Fraternità al Cardinale Castrillon, appena dopo il pellegrinaggio del 2000, parlando della Fraternità ebbe a dire: «I frutti sono buoni, dunque vi è lo Spirito Santo». Ma cosa si vuole di più? Lo Spirito Santo, lo Spirito che santifica, lo Spirito che si trova solo nella Chiesa e che santifica le anime. Non siamo stati noi a cercare questo elogio.

Oggi chiediamo alla Madonna, a Tutti i Santi e al nostro caro Monsignor Lefebvre, la grazia della fedeltà a questo deposito che ci è stato donato dalla Chiesa. Chiediamo questa grazia perché la nostra bella storia non si fermi ai quarant’anni, ma continui. Infatti non è difficile comprendere, guardando lo stato della Chiesa, che la crisi non è finita. Se da un lato vi sono delle speranze, dall’altro vi è anche la consapevolezza molto chiara che il nostro combattimento nella Chiesa e per la Chiesa non è terminato. Per questo chiediamo veramente a Dio che venga il Suo Regno, che sia fatta la Sua Volontà come in Cielo così in terra. Chiediamo a tutti i Santi del cielo, agli Angeli, di assisterci, di aiutarci, di condurci in questa battaglia per la gloria di Dio, per la nostra salvezza e la gloria della Chiesa.

Così sia.

martedì 30 novembre 2010

Il male minore

“Non facciamo il male perché ne venga un bene” (Rom 3,8). Con queste parole San Paolo stabiliva un principio fondamentale di morale, alla base di ogni vita cristiana. Ma fra due mali si può scegliere il minore? Lo si può consigliare? Per rispondere adeguatamente a queste domande pubblichiamo un testo tratto dal Dizionario di Teologia Morale del Cardinale Pietro Palazzini (Editrice Studium, 1969) alla voce Minor male.

MINOR MALE (scelta del).

1) Scegliere il male minore.

Di due mali scegliere e perciò compiere il minore non è lecito, se si tratta di due mali morali ossia di due operazioni che sono in se stesse viola­zione della legge morale. La tesi è evidente. Un male non diventa bene o lecito, perché c'è un altro male più grande, che si potrebbe scegliere. Il problema morale, proposto nella domanda « Se è lecito o obbligatorio sce­gliere di due mali il minore », suppone una cosa, che in realtà non può esistere, cioè il cosiddetto caso perplesso, nel quale l'uomo sarebbe costretto a scegliere tra due atti peccaminosi, così che se non scelga l'uno, necessariamente debba scegliere l'altro. Un tale caso moralmente è impossibile. Perché l'uomo può sempre astenersi da qualsiasi atto positivo, che importa la scelta di un mezzo. L'uomo può sempre non fare, se fare l'una o l'altra cosa sia sempre peccato; e questo non fare non è peccato in sé (p. es., non procurare l'aborto). Se da questa omis­sione seguono, in virtù di circostanze, gravi danni, p. es. la morte della madre, o della madre e del bambino insieme, l'uomo non è responsabile per questi danni, perché nes­suno è responsabile per le conseguenze della condotta da lui seguita, quando non c'era possibilità d'agire senza peccare. Sce­gliere il m. male è lecito, quando questo m. male non è in sé un male morale (peccato), ma è o un male puramente fisico o un atto od omissione in sé buona o indif­ferente, dal quale o dalla quale però, nel caso concreto, seguirà un effetto acciden­tale cattivo, meno grave però di quello che produrrebbe un altro mezzo; p. es. di due farmaci, che producono tutti e due un effetto cattivo sulla salute, ma che sono ugualmente utili per me, io devo scegliere il meno nocivo, perché ho l'obbligo di non recare nocumento alla mia salute.

2) Consigliare (RACCOMANDARE) un male minore.

Il problema morale va così enunciato: se è lecito consigliare ad una per­sona decisa a fare un peccato, di farne un altro che sia meno grave, p. es. consigliare la fornicazione ad una persona che è decisa a fare un adulterio ; di ubriacarsi invece di fare un omicidio. La retta soluzione del problema è, che non è mai lecito consigliare un peccato, neanche a una persona che è decisa a fare un peccato più grave, perché consigliare un atto è di per sé indurre a commetterlo. Orbene, indurre un altro a commettere un peccato, è peccato. Non mi è lecito far sì che un altro voglia e faccia un peccato. La comparazione con un altro peccato non toglie la malizia del primo. Il fine, prevenire un peccato maggiore, è buono ; ma il fine buono non giustifica il mezzo adoperato, se questo non è già permesso in se stesso. Non è lecito fare un male, per evitare un male maggiore. Quando, però, ciò che facciamo non è consigliare un peccato, benché meno grande, ma sconsigliare di compiere una parte del peccato già deciso (ritrarre da una parte e non dal tutto, perché questo ci risulta impossibile), non facciamo male ma bene ; p. es. dire ad un ladro, che vuol uccidere un proprietario e rubare i suoi tesori, « pren­dete soltanto i tesori », non è consigliare il furto, ma sconsigliare l'omicidio. Il furto era già deciso e non si compie a motivo delle mie parole. L'unico effetto che le mie parole producono per loro propria natura è ritrarre il ladro dall'omicidio già stabilito. Orbene, ritrarre un altro dal suo proposito cattivo è un atto buono e lecito per propria natura. Questo vale anche se il mio atto lo ritrae soltanto da una parte del peccato, perché non è in mio potere (benché in mio volere) di ritrarlo del tutto. La differenza tra il consigliare il m. male e lo sconsigliare una parte del male proposto, sta in questo che nel primo caso si adopera un atto, per natura cattivo, come mezzo ad un fine buo­no; nel secondo caso invece si adopera un atto per natura sua buono come mezzo ad un fine buono. Ma ciò che decide della moralità non è la forma delle parole usate, ma il loro vero significato, il quale talvolta è determinato anche dalle circostanze in cui esse sono pronunziate. Affinché il nostro atto sia davvero uno sconsigliare una parte del peccato, è necessario che la parte rimanente sia già stabilita formalmente o almeno virtualmente nel peccato intero, che l'altro aveva deciso di commettere. Ben.

BIBL. - A. Fumagalli, Del consigliare il minor male, Monza 1943.
 

lunedì 29 novembre 2010

laicità positiva in Belgio


BRUXELLES - Un Ministro del Governo della regione belga della Vallonia ha annunciato la pubblicazione di un decreto che potrebbe trasformare le chiese in moschee o in luoghi dedicati a movimenti filosofici, ha rivelato questo mercoledì la stampa locale. Paul Furlan, del Partito Socialista, Ministro dei Poteri Locali, ha spiegato che “non lasceremo che le chiese si deteriorino, perché spesso si tratta di un interesse a livello di patrimonio”, secondo quanto riferiscono i quotidiani del gruppo Sud Presse. “Il calo della partecipazione religiosa deve esortarci ad aprirle ad altri culti, ai movimenti filosofici, anche a certe manifestazioni culturali”, ha aggiunto. Gran parte di coloro che sono immigrati di recente in Belgio proviene da Paesi in cui la popolazione è a maggioranza musulmana, motivo per il quale, se si applica questo criterio, molte delle chiese che il Governo regionale deciderà di riconvertire si trasformeranno in moschee. Paul Furlan ha proposto che ci sia una chiesa per ogni paese e non una per ogni parrocchia, e ha espresso l'intenzione di fare un inventario degli edifici di culto per determinare quelli che sono ancora utili e in cui c'è una partecipazione di fedeli. (…)

(Agenzia Zenit del 18 novembre 2010)