venerdì 1 novembre 2013

Magistrale e profetica omelia d'Ognissanti del Padre Serafino Lanzetta FI

Omelia del
Padre Serafino Lanzetta FI
per
la Solennità di Tutti i Santi
 
Firenze, Chiesa di Ognissanti,
1° novembre 2012
 
“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”: è questa, cari fratelli e sorelle, la beatitudine  cuore, potremmo così dire, chiave di queste otto beatitudini che rappresentano come l’apice della vita cristiana, di quel cuore che riposa in Dio, di quel cuore che vede Dio, che ama Dio e che fa di Dio il proprio tutto. La Santità, cari fratelli, che oggi celebriamo, la santità vissuta, incarnata in tanti uomini di Dio è proprio questo: Dio visto da un cuore puro.
 
Oggi però nella nostra società e nella nostra cultura è necessario spesso affrontare un dilemma, che probabilmente è anche nostro: come fare per poter coniugare l’unicità di Cristo,  la superiorità del Cristianesimo rispetto tutte le altre religioni e quella paura, che ci attanaglia, che ci fa pensare in cuor nostro che se crediamo questo fino in fondo diventiamo intolleranti, incapaci di dialogo, o come si direbbe oggi fondamentalisti? Da un lato vediamo la Verità di Cristo e che le religioni dinnanzi a Cristo sono come neve che si scioglie al sole, perché Gesù è il Dio che si è incarnato, dall’altro vivendo in una cultura fondamentalmente debole anche noi pensiamo che il dialogo, il rispetto implichi il relativismo e non usciamo da questo dilemma.  Come fare, cari fratelli? è semplicemente intolleranza e mancanza di rispetto e di dialogo dire che Gesù è l’unico? I Santi che oggi celebriamo ci aiutano a capire proprio che non c’è un dilemma, è un falso problema. Bisogna perciò coniugare Fede e Carità, Ragione e Amore che fanno da fondamento. Solo nella misura in cui riusciamo a coniugare queste due ali dello spirito dell’uomo e del cuore credente, Ragione e Amore, Fede e Carità, abbiamo allora la sintesi della realtà: la Verità della Fede e la Carità nei confronti dei fratelli, di tutti gli uomini di buona volontà. Le Fede che crede in Gesù Unico Signore, Unico Salvatore non è una visione unilaterale di Dio, non è la convinzione nostra di un Dio che è uno e trino, perché così la tradizione cristiana ha sempre insegnato.
La Fede è conoscenza della Verità, ma la Fede stessa è alimentata dalla Carità, non è unicamente conoscenza della verità, e questo che oggi maggiormente spaventa, una verità fredda, quasi matematica che mi impedisca di accorgermi anche di chi non è come me, di chi non pensa come me. La Verità che è Cristo non è un calcolo matematico, non è un teorema è una persona che ha un cuore, è una persona che ci fa amare: la fede pertanto promana dalla Carità e porta alla Carità. La Fede si compie nell’Amore e questo rapporto di Fede e Amore è possibile perché anche lo spirito dell’uomo è costituito da due dimensioni fondamentali, la ragione e l’amore.  
Possiamo citare un grande monaco cistercense del XII secolo, discepolo di Bernardo di Chiaravalle, prima benedettino e poi dopo aver conosciuto Bernardo divenne cistercense,  Guglielmo di Saint-Thierry il quale studia e spiega in modo molto bello la natura dell’amore che perfezione la ragione. L’amore, differentemente da quanto si pensa, non è soltanto sentimento; l’amore richiede la ragione, la ragione è il presupposto dell’amore e altresì il suo compimento. Guglielmo di Saint-Thierry identificando la carità con la vista posseduta dall'anima per vedere Dio, afferma che l’anima ha due occhi che sono «l'amore e la ragione. Se uno dei due opera senza l'altro, non andrà lontano». Se l’anima opera con la sola ragione alla fine si accorge sì di un Dio, dell’esistenza di Dio, creatore e causa di tutto, ma non riesce ad andare oltre, a descrivere questo Dio, a vederne il suo intimo, a vedere il suo cuore. L’amore completa la ragione e ci svela già che Dio, causa di tutto ciò che esiste, non è un principio, è Padre, ha un cuore, è colui che genera, è Colui che ha un Figlio e questo Figlio è la pienezza e procede dal Padre. E dal Padre e dal Figlio in virtù dell’amore che i due si scambiano procede lo Spirito Santo. Dunque amore e ragione, se uno dei due opera senza l’altro non potrà guardare: «possono però molto soccorrendosi a vicenda, diventando un solo occhio» dell’anima. Quindi ci insegna Guglielmo di Saint-Thierry che  il compito della ragione è proprio quello di istruire l’amore, mentre il compito dell’amore è quello di illuminare la ragione così che la ragione divenga essa stessa amore e  l’amore oltrepassi i confini della ragione. Il rapporto quindi fra l’uomo e Dio è essenzialmente un rapporto di Amore.  Cito ancora una lettera di Guglielmo di Sant-Thierry il quale dice rivolgendosi a Dio «Tu ci ami in quanto fai di noi tuoi amanti e noi ti amiamo in quanto riceviamo il tuo Spirito. Il tuo Spirito è il tuo amore che penetra e possiede le intime fibre dei nostri affetti [...] Mentre il nostro amore è affectus, il tuo è effectus, un'efficacia che ci unisce a te grazie alla tua unità, allo Spirito santo che ci hai donato»
 
Allora, cari fratelli e sorelle, possiamo risolvere questo apparente dilemma, dicendo che la Verità ha un cuore, un cuore che è la Carità, e la Carità è alimentata e guidata dalla Verità, solo Colui che è insieme Verità e Carità è la Pienezza e Costui è Cristo, il Logos che ha un cuore trafitto sulla Croce per noi. Ecco la santità della vita, che diventa unità . Il santo non è  sollecitato da dilemmi o continuamente pervaso da dubbi. L’anima del vero cristiano non è un’anima che crede e dubita, che dubita e crede, come purtroppo  ultimamente è stato detto. Il dubbio è si una precarietà dell’intelligenza, ma non appartiene alla Fede, non è il nemico della Fede, non è lo scacco della Fede. Il santo, colui che fa unità nella sua vita, colui che vede la realtà nella sua unità perché crede e ama il Cristo, allora vive in pienezza e dà a tutti l’orientamento giusto per poter vivere in questo momento di forte relativismo in cui tutto sembra buono e dunque niente alla fine è veramente buono. Dobbiamo perciò guardare ai santi e guardando ai santi impariamo che cosa è la santità: potremmo dire che la santità è proprio questo Amore di Dio in noi, l’Amore di Dio che si incarna nella vita. E questa incarnazione dell’amore ragionevole e della ragione che ama è possibile perché Dio si è fatto uomo. Allora la santità, cari fratelli, è unità, la santità è Dio. Dio è il Santo. Quando Dio abita in un’anima, in un uomo, allora lì c’è la santità  e perché Dio abiti nell’uomo, perché Dio abiti nella mia vita, perché io divenga santo, è necessario che io viva alla presenza di Dio, che io coltivi questa presenza di Dio nella mia vita, dunque ho bisogno al di sopra di tutto della preghiera, la preghiera è l’anima della santità, senza la preghiera non impariamo a camminare ogni giorno sulla via della santità di Dio.
 Qui mi piace citare un passaggio di una lettera di sant'Ignazio di Loyola che dice in modo molto chiaro a tutti noi come si fa a vivere questa presenza di Dio che è preghiera: «Si procuri la presenza di Dio in tutte le cose, nelle conversazioni e nelle passeggiate, nel guardare, nel gustare, nell'ascoltare e nel riflettere, in una parola in tutto quello che stiamo facendo. Questa maniera di meditare, che ci fa trovare Dio in tutto, è più facile di quella che ci eleva a cose divine (che magari sono) più astratte e che esigono dello sforzo per potersele rappresentare. Questo salutare esercizio, quando ci prepariamo per farlo bene, ci attira, (ci fa vedere il) Signore anche nel breve tempo della nostra orazione. Esercitiamoci pure ad offrire spesso al Signore i nostri lavori e le nostre fatiche, pensando che le accettiamo per amore suo, sacrificando i nostri gusti per servire in qualche maniera la sua divina Maestà e venire in aiuto di tutti quelli, per la salute dei quali Gesù Cristo ha subito la morte» .
La santità è la ricerca della presenza di Dio, e questa presenza di Dio è orazione, è parola che si dice a Dio, è la ricerca della ragione del cuore, del cuore e della ragione, di Dio al di sopra di ogni cosa e questo, cari fratelli, è pienezza. Questo è il compimento. Dunque  la santità si alimenta nella nostra vita  con l’orazione, l’orazione ci conduce alla carità e la carità è il compimento della carità. In conclusione cito Luis di Granata, un domenicano spagnolo, contemporaneo di Sant’Ignazio di Loyola il quale scrive così: «La via più breve che ci conduce alla divina carità consiste nell'elevare il nostro cuore a Dio con affetti forti e con desideri infiammati del suo amore, conversando con Lui, in una confidenza rispettosa, tenendoci sempre raccolti alla sua presenza». Dobbiamo, cari fratelli e sorelle, allora quest’oggi in particolare, aspirare anche noi alla santità la quale non è qualcosa di astruso, qualcosa di elitario, riservato a pochi eletti: questo è gnosticismo. La santità è dono di Dio e Dio che è Padre ama donarsi a tutte le sue creature per renderle suoi figli; allora Dio vuole donare a tutti la santità e noi dobbiamo impegnarci per andare a Dio attraverso la Santità. Riusciamo a vedere  allora insieme Ragione e Amore e Fede e Carità  a Dio. Procuriamo di pregare ogni giorno, di vivere alla presenza di Dio, e questo ci riempie e ci porta alla Carità alla Santità. Sia lodato Gesù Cristo.
Tratto da http://chiesaognissanti.it/Chiesa_Ognissanti/multimedia/Voci/2012/11/1_Ragione_e_amore_per_vedere_Dio_nella_sua_pienezza.html
La trascrizione è nostra
 

mercoledì 30 ottobre 2013

"Chi cerca veramente Dio, in questa Chiesa rivoluzionaria, resta terribilmente solo."



Prendiamo dal blog "Radicati nella fede" e pubblichiamo
l'editoriale del mese di novembre 2013.


Rivoluzione e Tradizione

 Cosa fare quando tutto sembra immerso in una confusione tremenda? Cosa fare quando non sembra sussistere nulla di certo?


 L'uomo è fatto per vivere di fronte a Dio, e in Dio trovare la propria consistenza e pace. Un tempo la Chiesa Cattolica comunicava questa pace. Era il mondo, quello lontano da Dio, ad essere in continua agitazione, ma la Chiesa no. La Chiesa era la stabilità.

 Era il mondo senza Dio ad essere immerso in una continua Rivoluzione e questa Rivoluzione continua era amata dalle anime instabili e disperate che, scontente della vita, cercavano affannosamente un’impossibile novità che appagasse il loro vuoto interiore.

 La Chiesa no; sempre uguale a se stessa, composta e pacifica nella stabilità di Dio, avanzava nel mare della storia ed era il vascello sicuro per le anime che non amavano la Rivoluzione riconoscendola falsa e ingannevole.
 

 Era il mondo moderno che, non volendo dipendere più da Dio e da nessuna autorità, criticava la Chiesa accusandola di non cambiare mai! Non credendo in Dio, il mondo moderno non capiva la stabilità della Chiesa, perché in fondo non capiva la stabilità di Dio.
 

 Così, in mezzo a tutte le terribili rivoluzioni, la Chiesa con i suoi santi, con la grazia soprannaturale dei suoi sacramenti, con la verità immutabile rivelata da Dio e trasmessa dalla Tradizione e dalla Scrittura, camminava nel mondo, strappando tutte le anime che poteva alla Rivoluzione che uccide, per portarle nel suo seno, nella stabilità della grazia che edifica.
 

 Tanti venivano colpiti dalla meravigliosa pace che emanava dalla Chiesa Cattolica, pace che convinceva e convertiva, pace che è tra i più grandi segni di Dio.
 

 Quante conversioni anche nel mondo protestante verso la Chiesa Cattolica: i protestanti si erano adattati alla modernità sempre più atea e indifferente, ma questa modernità non dava pace e molti così tornavano alla Chiesa Cattolica. Descrive molto bene questa situazione Carlo Lovera di Castiglione nel suo famoso testo su ”Il movimento di Oxford”. Parlando della crisi dottrinale scoppiata dentro la chiesa anglicana a metà dell'800 così dice: “...dei fedeli, gli uni non sapevano più che pensarne, altri parteggiavano per i novatori, molti guardavano oltre i confini della Chiesa Stabilita, verso i Cattolici Romani, per i quali la serenità della fede e dell'immutabile dottrina, si rifletteva nel possesso della verità pieno di sicurezza e di pace.” (Carlo Lovera di Castiglione, Il movimento di Oxford, Morcelliana 1935, pag. 220).
 

 “La serenità della fede e dell'immutabile dottrina, si rifletteva nel possesso della verità pieno di sicurezza e di pace”: come è dolce questo parlare. E' la dolcezza stessa di Dio che dona nella Chiesa quella serenità che ogni cuore cerca.
 

 Ma ora tutto è cambiato... sono giunti giorni terribili che la retorica buonista dei cristiani ammodernati non può nascondere: la Rivoluzione dal mondo ateo è entrata nella Chiesa e sta consumando tutto. Non c'è più stabilità, la Chiesa sembra entrata in una perenne Rivoluzione che tutto cambia continuamente: confusione nei riti, confusione nella dottrina, confusione nella morale, confusione nella disciplina. Non sai se la verità di oggi durerà domani. Tanti, preti e fedeli, corrono affannosamente per non restare indietro, per adattarsi come possono a questa estenuante confusione.
 

 Chi cerca veramente Dio, in questa Chiesa rivoluzionaria, resta terribilmente solo.
 

 Che fare in questo clima asfissiante? e che cosa non fare?
 

 Innanzitutto occorre non farsi prendere dall'agitazione, occorre non reagire da rivoluzionari: sarebbe come curare il male, che è appunto la Rivoluzione, con la stessa malattia. Lo spirito rivoluzionario, anche quando pretende di salvare il bene, non sarà mai la soluzione.
 

 Bisogna invece stare veramente fuori dalla Rivoluzione, vivendo integralmente il cattolicesimo in quella stabilità che era sua, prima che la Rivoluzione invadesse tutto.

 Nella confusione nera, nelle tenebre, urge decidere di fronte a Dio di vivere da cattolici, stabilmente. Per questo bisogna riconoscere un luogo che ti comunichi la pace della fede nel possesso della verità rivelata. Un luogo dove è celebrata la Messa tradizionale: eleggerlo come riferimento per la propria vita, lasciandosi educare da questo luogo. Non vivere da agitati in una lotta perenne ma vivere da cattolici nella liturgia di sempre, nella dottrina di sempre, nella grazia di sempre secondo i sacramenti di sempre; e così operare tutto il bene che il Signore ci permette di compiere.
 

 Lo dice padre Calmel: “Ciò che sarà sempre possibile nella Chiesa, ciò che la Chiesa assicurerà sempre, nonostante i tentativi diabolici della nuova Chiesa post-vaticanesca, è questo: tendere alla santità realmente, potersi istruire, in un gruppo reale anche se molto piccolo, sulla dottrina immutabile e soprannaturale, sotto un'autorità reale e conservando la sicurezza che resteranno sempre dei veri sacerdoti e dei Vescovi fedeli, che non avranno dimissionato (forse anche senza accorgersene) nelle mani delle commissioni e della collegialità.” (R. T. Calmel, Breve apologia della Chiesa di sempre, Editrice Ichthys, pag. 51).
 

 Carissimi, se vivremo così, le tenebre terribili di oggi resteranno fuori dai nostri cuori.
 

 Preghiamo perché la Madonna ci ottenga questo rifugio, e noi cerchiamo di esserne sempre più degni.


Un altro magistrale articolo di Gnocchi e Palmaro

"L'ospedale da campo dei follower"

Non è necessario essere così vecchi per avere un’idea di che cosa fosse un Cronicon e, magari, averci anche data un’occhiata. Era il diario in cui ogni sacerdote annotava i fatti salienti della parrocchia che gli era stata affidata in cura. Alcuni brillavano come piccoli gioielli letterari, perché i vecchi preti, finito il breviario, non avevano da stare dietro alla tv, a Facebook o a Twitter. Pregavano, studiavano, leggevano e, se avevano del talento per la scrittura, lo riversavano nelle cronachette quotidiane del loro gregge. In ogni caso, ciascuno a suo modo, tramandavano memoria del memorabile, tra cui non mancavano mai di annotare quante comunioni avessero distribuito.
 
Oggi, invece, si fa il censimento dei follower di Twitter. Ma  una cosa è contare le comunioni di un gregge di cui si conosce pecora per pecora e un’altra cosa è contare i clic di un universo sconosciuto. Una cosa è unirsi al Corpo Mistico di Cristo cibandosi fisicamente della sua carne e del suo sangue e un’altra cosa è sentirsi parte di una community senza la necessità di mostrare il proprio corpo. 
 
L’enfasi sui dieci milioni di follower raggiunti su Twitter da papa Francesco non contribuisce a tenere separati i piani. Anzi, finisce per sostituire il concetto di conversione con quello di successo, l’unico che il mondo sia in grado di capire e di promuovere. I mezzi di comunicazione, che sono naturaliter mondani, non possono permettersi di trattare merce che comporti fatica come il cambiamento radicale di vita. Tutto deve essere facile e alla portata di tutti: se la chiesa cattolica vuole esserci, deve diventare un fenomeno che possa essere trattato come tutti gli altri. La pax mediatica non si estende oltre i confini e le leggi della mediasfera.

Ma l’idea che al cattolico sia consentito avere con il mondo un rapporto pacificato è un’illusione che non si può neppure definire pia. Si fonda sulla convinzione che non esisterebbe un’ostilità mondana nei confronti di Cristo. Anzi il mondo attenderebbe solo l’annuncio del Vangelo che, fino a oggi, l’inadeguatezza della Chiesa e della sua tradizione avevano reso impossibile. Questo equivoco nasce dal superamento della classica distinzione di due concetti di mondo che convivono in tutti i Vangeli e nella tradizione. C’è un mondo oggetto dell’amore di Dio che deve essere amato dal cristiano. Ma c’è poi la parola mondo usata da Cristo per indicare il regno del nemico, che ha nell’angelo ribelle il suo principe incontrastato. Un cattolicesimo che si dimentichi di questa natura del mondo non è più, a rigore, un vero cattolicesimo. Diventa una religione della “buona volontà”, destinata a sciogliersi in tv in maniera indolore, perfetta per una prima serata da grandi ascolti.
 “Il dialogo della Chiesa con il mondo di cui oggi tanto si parla” scriveva il domenicano Roger Thomas Calmel nel 1967 “non potrà mai essere quello di due interlocutori su un piano di parità, in qualsiasi modo si intenda il mondo. Le prime cose che colpiscono nell’incontro fra la Chiesa e il mondo sono la trascendenza della Chiesa e la sua irriducibilità (…). Ne risulta quindi che l’incontro della Chiesa col mondo non potrà mai assomigliare a quello di due cortesi compagni che inizino un dialogo da pari a pari, una sera d’estate, sotto gli alberi di un giardino pubblico. Il solo incontro autentico e salutare della Chiesa con il mondo è quello dei confessori senza macchia, dei dottori inflessibili, delle vergini fedeli e dei martiri invincibili, ricoperti dalla tunica scarlatta intinta nel sangue dell’Agnello (…). Dobbiamo separarci dal mondo quando non possiamo fare come vuole il mondo senza offendere Cristo”. 
 
Parole che suonano strane, specialmente se ci si appresta ad allestire un ospedale da campo dove non si può andare tanto per il sottile. Ma, anche quando si prestano i soccorsi, tanto più se lo si fa per le anime, bisogna porre attenzione al luogo in cui si alzano le tende. Non tutti gli accampamenti sono uguali. A questo proposito viene in soccorso la dottrina tomista delle tre città. Vi à la città di Dio, la chiesa, essenzialmente soprannaturale, senza peccato benché costituita di peccatori. Il suo compito fondamentale è annunciare il Vangelo, celebrare il Santo Sacrificio, salvare le anime. Ovviamente ciò non significa che la Chiesa non porti un beneficio anche nell’edificazione della civiltà, e dunque non vi è opposizione fra la missione essenziale e primaria della Chiesa, la salus animarum, e la promozione di una civiltà più umana”.
 
La seconda è la città di Satana, composta dalle tre concupiscenze che l’uomo si porta dentro e dall’azione di Satana. Questa città è in perenne sviluppo, e reitera senza posa i suoi assalti su due differenti livelli. Innanzitutto, sul piano religioso, nella più intima essenza dell’uomo, attraverso i suoi falsi sacerdoti e i suoi falsi dogmi. E poi sul piano della società politica, dove si impegna per plasmare i costumi, cambiare le leggi, trasformare l’autorità che governa i cittadini.
 
C’è infine la città umana, nella quale si alternano le culture e le civiltà che si dipanano lungo i secoli. Questa città ha un’organizzazione, delle leggi, dei costumi, un’autorità che sono migliori o peggiori a seconda dell’influsso esercitato dalle due città perenni. La città degli uomini entra costantemente nella sfera di attrazione delle due città supreme, subendo l’imperiosa avanzata del principe del mondo. Tuttavia, la città di Satana non riesce mai a imporsi in tutto il territorio dell’uomo. In qualche chiesetta sperduta ci sarà sempre un sacerdote che celebra santamente la messa, in un piccolo appartamento una vecchietta solitaria sgranerà sempre con fede incrollabile il suo rosario, in un angolo nascosto del Cottolengo una suora accudirà sempre un bambino considerato da tutti una vita senza valore. Anche quando tutto sembra perduto, la chiesa, città di Dio, continua a irradiare su quella degli uomini la sua luce.
 
Un cattolico cresciuto all’ombra di questa dottrina, semplice ed efficace, dovrebbe sapere che la persecuzione del mondo nei confronti della chiesa è ingiusta, ma non irragionevole. Anzi, è proprio la pacificazione a risultare impossibile. Non fosse altro che per l’incessante, drammatica e universale richiesta di uniformarsi all’uomo della croce: un affronto imperdonabile e una richiesta incomprensibile per l’orgoglioso mondo moderno.
 
Ma, se anche questa continua a essere natura della chiesa, non si può dire che il compito sia svolto con efficacia. È quanto meno fondato il timore che il numero dei follower di Twitter sia inversamente proporzionale alla forza e alla chiarezza del messaggio. Una severa predicazione dei Novissimi, una minacciosa descrizione di un inferno tutt’altro che vuoto, la dolorosa via maestra che passa attraverso la porta stretta, l’asprezza del dogma, il rigore della ragione non sembrano materia per tanti clic di approvazione. Cattolici, diversamente credenti e non credenti preferiscono di gran lunga baloccarsi con un’idea giocosa della misericordia, quasi che ognuno possa continuare a essere com’è e fare ciò che fa senza che gliene venga mai chiesto conto. Una simile concezione della misericordia può riscaldare il cuore di un don Rodrigo, non certo quello dell’Innominato. Ed è certamente più twettabile di quella che, per esempio, insegnava padre Pio quando diceva: “Io ho più paura della misericordia di Dio che della sua giustizia. La giustizia di Dio è conosciuta: si sa quali sono le leggi che la governano e, se uno pecca ed offende la giustizia divina, può far appello alla misericordia, ma se abusa della misericordia a chi ricorre?”. Eppure, non si può dire che padre Pio non avesse seguito. Ma il consenso camminava lungo altre strade rispetto a quelle della rete. Chi va con il sofferente impara a soffrire, chi va con il blogger impara a bloggare. 
 
La tentazione di un cristianesimo facile, senza fatica e senza sacrificio, sembra fatta su misura per uomini d’allevamento tirati su in un mondo in cui anche l’altro pilastro della formazione, la scuola, da decenni è stato minato. La perfetta radiografia di quest’altro disastro si trova in “Togliamo il disturbo”, là dove Paola Mastrocola prende in esame il “donmilanismo”, che ha la sua chiave di volta nella “Lettera a una professoressa” del prete di Barbiana. “L’idea più terribile, secondo me, si trova nel finale. Il libro si chiude con un sogno, il sogno di insegnanti nuovi e democratici che finalmente dicano ai loro allievi: ‘A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano di raccontarci come avete fratto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A geografia la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete dei sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie’. Vuol dire lasciare le persone come sono! Ognuno si tenga le ‘nozioni’ che ha già, che gli vengono dalla famiglia in cui è nato: ognuno abbia, dunque, la vita che già la sorte gli ha dato. Vuol dire una scuola che non aggiunge, non eleva, non sfida. Ma si adegua, si fa uguale, si camuffa. E inevitabilmente si abbassa. E così penalizza proprio i più deboli. Tutti bassi, ma tutti uguali. Bassezza comune, mezzo gaudio?”.
 
Così, l’abbattimento del gradino su cui stava la cattedra ha finito per snaturare il normale rapporto tra maestro e allievo. Il “tu” sostituito al “lei” ha fatto del docente un semplice pari del discente. Il declassamento del linguaggio formale a parlata quotidiana ha portato al mutamento dei contenuti insegnati. L’idea che l’istruzione e l’educazione iniziali di ogni studente fossero già sufficienti ha condotto alla convinzione di bastare a se stessi e alla negazione di qualsiasi necessità di migliorare.
 
I quattro assi lungo cui si è mossa la devastazione della scuola replicano la forma, il contenuto e il metodo grazie al quale è stata riformata la liturgia cattolica. Basta pensare all’abbattimento delle balaustre e al trasferimento degli altari nelle navate in forma di semplice tavolo, al sacerdote rivolto verso il popolo invece che verso Dio in qualità di semplice presidente dell’assemblea, al ripudio della lingua latina per quella vernacolare, all’irruzione della teologia del cosiddetto “mistero pasquale” che ritiene ogni uomo già salvo definitivamente, bastevole a se stesso e quindi nella condizione di non dover adorare Dio, ma di celebrare la propria festa. Forse, non è un caso se, all’origine della rivoluzione nella scuola in Italia ci sia un sacerdote.
 
A un mondo che, tanto nel vivere civile quanto in quello religioso, langue per mancanza di sacrificio e di riverenza, bisogna restituire Qualcuno e Qualcosa per cui sacrificarsi e da riverire. Benedetto XVI ci aveva provato ripristinando la Croce al centro dell’altare e la comunione ricevuta in ginocchio e sulla lingua. Non era una scena da ospedale da campo, ma toccava direttamente le anime perché era frutto della consapevolezza che l’uomo è una creatura razionale e, quindi, liturgica. Una creatura che, grazie ai gesti e alle parole avuti in dono, e dunque irreformabili, può elevarsi verso Dio e sfuggire al demonio. Nei “Detti dei padri del deserto” si spiega come il diavolo sia incapace di conoscere i pensieri degli uomini perché è di un’altra natura, ma che li possa indovinare osservando i movimenti dei corpi. Da qui discende l’importanza del comportamento esteriore e la venerazione che il cattolicesimo ha sempre nutrito per chi compia gesti perfetti creando un anello di purezza inviolabile e compiendo un esorcismo destinato a chi gli sta vicino. 
 
Tutto questo costa fatica, esige disciplina e ascesi, chiede di sostare presso la Croce e soddisfare la giustizia divina cooperando alla passione di Gesù. Nasce da ciò che di più drammatico esista nella vita dell’uomo: il peccato inteso prima come offesa a Dio e solo dopo come danno alle creature. Ma se, come insegna la teologia dominante, l’uomo è salvo per il solo fatto di essere al mondo, se il peccato viene derubricato a fatto sociale, se non serve adeguare la ragione a una verità avvolta nel mistero, la fatica non ha più senso. 
 
Dopo tale mutamento di orizzonte, la liturgia, culmen et fons della vita cristiana, assume una valenza prettamente sociale, parla dell’uomo all’uomo e si trasforma in trattato sociale. Non a caso oggi si raccolgono e si trasmettono con una foga persino eccessiva le omelie del pontefice mentre scivolano in secondo piano le sue celebrazioni. È un tic tipicamente moderno. Mentre un tempo lo splendore della liturgia faceva percepire come un’interruzione quasi fastidiosa il tempo pur breve di un sermone, oggi l’accento posto sul discorso fa sentire come invadente qualsiasi pretesa liturgica.
 
La nudità del discorso ha il sopravvento sulla velatura del rito. Ma il discorso, da solo, proprio perché nudo, non è capace di cogliere l’essenziale. La condizione dell’uomo che ha perduto lo stato di grazia con il peccato di Adamo lo rende inabile a tale compito. L’uomo, da solo, non è più in grado di percepire il senso ultimo delle cose e per questo la liturgia, fino a quando non si è arresa al fascino dei lumi, lo ha sempre aiutato rivestendo la materia che ha sotto gli occhi. La velatura diventa così il segno visibile del nimbo di Grazia e santità, divenuto invisibile agli occhi dell’uomo. Non vuole celare l’oggetto alla vista per farne un segreto. L’aspetto materiale delle cose velate è conosciuto, ma da solo non dice niente della loro natura ulteriore. A dirlo è invece il velo che le copre. E, se lo si fende e allo stesso modo si fendono gli altri veli che vi si sovrappongono, è un altro velo che si incontra: l’Ostia stessa, come canta un inno eucaristico molto popolare, “Sotto i veli che il grano compose”.
Forse è di questo splendore, umanamente inutile, ciò di cui ha urgentemente bisogno un mondo che ha smesso di usare l’intelligenza il giorno in cui ha perso il pudore.
Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro

martedì 29 ottobre 2013

l’immagine della Theotokos, della Tutta Santa ed Immacolata Madre di Dio la sempre Vergine Maria gettata a terra da mani empie: preghiamo e ripariamo


 
Dio sia benedetto
Benedetto il Suo santo Nome.
Benedetto Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo.
Benedetto il Nome di Gesù.
Benedetto il Suo sacratissimo Cuore.
Benedetto il Suo preziosissimo Sangue.
Benedetto Gesù nel SS. Sacramento dell’altare.
Benedetto lo Spirito Santo Paraclito.
Benedetta la gran Madre di Dio, Maria Santissima.
Benedetta la Sua santa e Immacolata Concezione.
Benedetta la Sua gloriosa Assunzione.
Benedetto il Nome di Maria, Vergine e Madre.

Benedetto S. Giuseppe, Suo castissimo Sposo.
Benedetto Dio nei Suoi Angeli e nei Suoi Santi.

lunedì 28 ottobre 2013

l'inverno della Chiesa... Il nuovo libro della Siccardi


Il 15 ottobre sarà in distribuzione un nuovo libro di Cristina Siccardi dal titolo L’inverno della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, i mutamenti e le cause, pubblicato da Sugarco (pp. 304, € 23,00). L’autrice, partendo da fatti storici e contemporanei fa comprendere come realmente l’Assise abbia deliberatamente cambiato i propri connotati pastorali, i quali hanno minato la stessa dottrina. I mutamenti hanno trovano il loro punto di appoggio proprio nei documenti prodotti nel Vaticano II e non da una loro errata interpretazione.  Quest’opera offre, senza ipocrisie, un panorama realistico di che cosa sia accaduto nel Concilio più discusso della storia e quali siano state e continuino ad essere le sue conseguenze.
Si legge sulla quarta di copertina:
«Signore, da chi andremo?» (Giovanni 6, 67), forse dal Concilio Vaticano II? Sono trascorsi 50 anni dall’apertura del Concilio più studiato della storia e quello meno chiaro della storia: quali sono i suoi frutti? Come sono cambiate in questi decenni le figure del vescovo, del sacerdote, del monaco, del religioso, della suora, del chierichetto, del catechista? Che cosa presentavano gli schemi preparatori del Concilio per decidere di non prenderli in considerazione? Nell’anno della Fede, Papa Francesco e Benedetto XVI hanno dedicato ad essa un’enciclica, la Lumen Fidei. Ma che cosa significa e che cosa comporta possedere la Fede? Il libro offre delle risposte storico-spirituali a tali interrogativi.
In molti, ormai, paragonano la nostra epoca a quella del IV secolo, quando sant’Atanasio pronunciava queste parole: « Oggi, è l’intiera Chiesa che soffre. Il sacerdozio è vilipeso oltre ogni dire e – quel che è peggio! – il santo timore di Dio viene beffeggiato da un’empia irreligiosità. [...] La fede non ha avuto il suo inizio da oggi, ma ci è venuta dal Signore, tramite i suoi discepoli. Che non si abbandoni, dunque, ai nostri giorni, quella tradizione, conservata nelle chiese fin dal principio; né siamo noi infedeli a ciò che ci è stato affidato! ».
« Da alcune descrizioni si ha l’impressione che dopo il Vaticano II tutto sia cambiato e tutto quanto lo precede non sia più valido o lo sia solo alla luce del Vaticano II. [...] Sebbene esso non abbia emanato alcun dogma e abbia voluto considerarsi più modestamente al rango di Concilio pastorale, alcuni lo rappresentano come se fosse per così dire il super-dogma, che rende irrilevante tutto il resto ». (Benedetto XVI)
 
«L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella sua terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio ». (Paolo VI)
 
«Quando il Concilio ha fatto delle innovazioni, esso ha scosso la certezza delle verità insegnate dal Magistero autentico della Chiesa come appartenenti definitivamente al tesoro della Tradizione ». (Mons. M. Lefebvre)
 
«Il Concilio Vaticano II [...] ha proposto insegnamenti autentici non certo privi di autorità. Il suo Magistero è autorevole e supremo. Ma solo chi ignora la teologia [...] potrebbe attribuire un grado di “infallibilità” a tutti i suoi insegnamenti. Laddove essi suscitino dei problemi, il supremo criterio ermeneutico è rappresentato dalla Tradizione, vivente e perenne, della Chiesa». (R. de Mattei)
 
«È la prima volta nella storia della Chiesa che un Concilio divide invece di unire; è la prima volta nella storia della Chiesa che un Concilio crea problemi invece di risolverli. Cercando di inglobare il mondo moderno nella Chiesa, i suoi membri ne sono rimasti umanamente imbrigliati con contraddizioni, dubbi, errori propri della modernità».