venerdì 30 agosto 2013

Se tocchi la Messa crolla il papato


Prendiamo e pubblichiamo dal blog "Radicati nella fede
l'editoriale del mese di settembre 2013.



SE TOCCHI LA MESSA CROLLA IL PAPATO

  Gran parte del cattolicesimo cosiddetto “conservatore” sta commettendo un errore gravissimo: per salvare ciò che resta della presenza cattolica nel mondo, per rendere più forte la missione della Chiesa nella società secolarizzata, per tentare un sussulto di orgoglio cattolico di fronte alla stanchezza dilagante di molti settori ecclesiali, sta puntando tutto sul Papa. Inoltre gestisce questa attenzione sul Papa esattamente come fanno giornali, televisione e siti internet, che esaltano la figura umana del pontefice sottolineando con orgoglio l'attenzione popolare sulla sua persona. Si comportano esattamente come fa il mondo senza fede o non preoccupato della fede, che parla dei raduni oceanici intorno al vicario di Cristo, dei suoi gesti eclatanti, delle scelte controcorrente che sembra fare.

 No, non è dal Papa che occorre partire, per salvare la vita cattolica tra di noi, non è proprio dal Papa, bensì dalla Santa Messa, dalla Santa Eucarestia.

 Per spiegarci ricorriamo ad un autore spirituale tra i più importanti del '900, Dom Chautard, abate della Trappa di Sept-Fons. In un suo testo in cui spiega la vocazione cistercense, Les cisterciens Trappistes, l'ame cistercienne, ad un certo punto l'abate benedettino racconta di un suo colloquio con il primo ministro francese Clemenceau, il famoso “Tigre”. Si era negli anni delle soppressioni degli ordini religiosi, e Dom Chautard era incaricato del delicato compito di salvare la presenza monastica in Francia. Così si trovò a colloquio con il radicale e anticlericale “Tigre”.

 Crediamo molto utile tradurre e trascrivere ciò che l'abate riferisce del loro parlare:

 “Mi accingerò - è Dom Chautard che parla a Clemenceau - a rispondere alla vostra domanda: Che cos'è un Trappista? Perché vi siete fatto Trappista? E per non allargarmi oltre misura, mi accontenterò di questo argomento: una religione che ha per base l'Eucarestia, deve avere dei monaci votati all'adorazione e alla penitenza.

 “L'Eucarestia è il dogma centrale della nostra religione. Lo si è chiamato il dogma generatore della pietà cattolica.

 “Non lo è il papato, come sembrate credere.
 “Il papato non è che il porta parola di Cristo. Grazie ad esso i fedeli custodiscono intatto il dogma e la morale insegnata da Gesù Cristo. Esso è la protezione che ci mantiene sulla strada tracciata in modo preciso dal nostro divino fondatore. Ma è solo Cristo che resta Via, Verità e Vita.
 “Ora, il Cristo non è un essere scomparso dove non sappiamo, né un essere lontano al quale pensiamo. Egli è vivente; abita in mezzo a noi; è presente nell'Eucarestia. Ed è per questo che l'Eucarestia è la base, il centro, il cuore della religione. Da là parte ogni vita. Non da altrove.

 “Voi non ci credete. Ma noi ci crediamo, noi. Crediamo fermamente, risolutamente, nel fondo del nostro essere, che nel tabernacolo di ognuna delle nostre chiese, Dio risiede realmente sotto l'apparenza dell'Ostia.

 E' chiaro, il dogma centrale del cristianesimo è la Santa Eucarestia, tutto parte da lì, non da altrove... e se diminuisce la fede nel dogma centrale, nella Santa Eucarestia, tutto crolla nel cristianesimo, nella Chiesa. E non è stato forse così in questi anni? Pensiamo alle nostre chiese, con dentro Cristo “abbandonato”. Si è fatto di tutto per nascondere il tabernacolo, e quando non lo si è nascosto in qualche antro secondario, con la scusa che lì i fedeli avrebbero adorato meglio, quando lo si è lasciato centrale nella chiesa, lo si è coperto con tutto e di più: con i tavoli per celebrare la nuova Messa e con tutto un ciarpame di cose che rivelano solo, oltre il cattivo gusto, il disordine mentale del cattolicesimo di questi anni, che non ha certo fatto dell'Eucarestia il dogma centrale della fede. Pensiamo alla quasi scomparsa nelle chiese della genuflessione e del raccoglimento: in chiesa bisogna custodire il silenzio, sempre, perché Dio è presente nel tabernacolo: è Lui che fa vera la nostra preghiera, e non il nostro agitarci e il nostro fare baccano.

 Ma Dom Chautard nel suo lungo discorso a Clemenceau, arriva a parlare della Messa, ascoltiamolo:
 “La Messa, è il sacrificio divino del Calvario che si riproduce ogni giorno in mezzo a noi. Tutti i giorni, il Cristo offre a Dio la sua morte per le mani del prete, esattamente come in cielo nella Messa di gloria egli presenta a suo Padre le cicatrici gloriose delle sue piaghe per perpetuare l'efficacità redentrice della croce. Tutti i giorni, alla Messa, il Cristo rinnova l'opera immensa della redenzione del mondo.

 “E a questo avvenimento, il più grande che possa accadere sulla terra, più importante che il rumore degli eserciti, più salutare che la più feconda delle scoperte scientifiche, voi pensate che potremmo assistervi senza un fremere di tutto il nostro essere... non ci si abitua alla Messa. O allora che sarebbe la nostra fede?
(…) All'Amore crocifisso, noi cerchiamo di rispondere con un amore crocifiggente... Voi vi scandalizzate del nostro genere di vita; lo trovate contro natura. Sì, lo sarebbe se noi non avessimo la fede nell'Eucarestia. Ma crediamo al divino Crocifisso e l'amiamo; e vogliamo vivere come lui, noi che per la comunione partecipiamo alla sua vita.

 Carissimi, ma è ancora questa la fede realmente vissuta nella maggioranza delle nostre chiese. La Messa è ancora intesa così? Come il sacrificio divino del Calvario? Chi parla con questa chiarezza della Messa? Al di là dei cosiddetti “tradizionalisti”, c'è ancora qualcuno che si esprime in questo modo parlando dell'Eucarestia?

 È avvenuto uno spaventoso mutamento nella fede e nel vissuto di quasi tutti i cattolici, e si chiama protestantizzazione: come dicevano i Cardinali Ottaviani e Bacci a Paolo VI nel loro Breve esame critico: “il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.”

 Anche qui è ribadito ciò che è stato detto da Dom Chautard: il centro del cattolicesimo è l'Eucarestia, è la Messa; il Concilio di Trento fissando definitivamente i canoni del rito aveva eretto una barriera per salvare l'integrità del magistero...

 Così è drammaticamente avvenuto che toccando i canoni del rito tutto è andato insieme, nulla sta più in piedi nel “nuovo” cattolicesimo. Martin Lutero lo aveva detto, non perdete tempo ad attaccare il papato, combattete la Messa cattolica e il papato crollerà con essa.
 Per questo, per amore alla Chiesa tutta, della sua dottrina e della sua disciplina, per amore del Papa Vicario di Cristo in terra, siamo chiamati semplicemente a custodire il rito della Messa così come fissato da Trento e da San Pio V. Non c'è nulla di più urgente perché la Chiesa, il Papa, possano vivere.

giovedì 29 agosto 2013

10/11 ottobre 2013: Presentazione degli Atti del 3° convegno sul “Summorum Pontificum”

10/11 ottobre 2013: Presentazione degli Atti del 3° convegno sul “Summorum Pontificum”

Roma – Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Largo Angelicum) – Aula 11
Saluti e introduzione: P. Vincenzo M. Nuara O.P.
Modera: Don Marino Neri
Intervengono: S.E.R. Il Sig. Card. Raymond Leo Burke
Prof. Giovanni TurcoDott. Sandro Magister
 
11 OTTOBRE 2013 ORE 15,30
ROMA – BASILICA DI SAN CLEMENTE
SOLENNE PONTIFICALE IN RITO ROMANO ANTICO
CELEBRANTE: S.E.R. IL SIG. CARD. RAYMOND LEO BURKE
 
Scarica qui la locandina dell’evento in formato pdf
 

mercoledì 28 agosto 2013

dum Romae telefonatur, Saguntum expugnatur


Il patriarcato di Mosca:
“Gli Usa soliti giustizieri internazionali”

IL METROPOLITA HILARION

Il metropolita Hilarion esprime forti preoccupazioni per gli sviluppi della crisi in Siria. “Gli americani sacrificano cristiani e musulmani”


Mentre sembra sempre più vicino un intervento militare occidentale contro il regime di Bashar al-Assad, accusato dagli Usa di aver usato armi chimiche contro la popolazione, la Chiesa ortodossa russa esprime "forte preoccupazione" per i possibili sviluppi della crisi. "Ancora una volta, come nel caso dell'Iraq, gli Stati Uniti si comportano da giustizieri internazionali", ha denunciato il metropolita Hilarion di Volokolamsk, presidente del Dipartimento per le relazioni  esterne del Patriarcato di Mosca.

Parlando con l’agenzia missionaria AsiaNews, il rappresentante della Chiesa ortodossa russa ha criticato duramente la posizione degli Stati Uniti, che "in maniera assolutamente unilaterale, senza alcun avallo delle Nazioni Unite, vogliono decidere loro il destino di tutto un Paese con milioni di abitanti".
 
"Ancora una volta - ha avvertito Hilarion - migliaia di vittime saranno sacrificate sull'altare di un'immaginaria democrazia". Tra queste, secondo il metropolita, vi saranno prima di tutto "i cristiani, della cui sorte nessuno si preoccupa". Proprio loro "rischiano di diventare gli ostaggi principali della situazione e le principali vittime delle forze estremiste radicali, che con l'aiuto degli Stati Uniti andranno al potere". "La comunità internazionale - ha concluso -  deve fare di tutto per evitare che gli avvenimenti possano avere un tale sviluppo".

 http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/russia-russia-russia-27419

Siria – Le atrocità dei ribelli contro i cristiani. La tragica denuncia di un sacerdote siriano

“I terroristi islamici hanno rapito 200 donne cristiane: saranno stuprate fino alla morte”. La tragica denuncia di un sacerdote siriano di Padre Nader Jbeil
Cari Amici,
A fallen chandelier lies on debris in Im Al-Zinar church that was damaged during clashes between Syrian Rebels and the Syrian Regime in Bustan al Diwan, Homsvi scrivo con grande rammarico e con il cuore profondamente ferito per l’ondata di violenza provocata dai terroristi mussulmani che trafigge giornalmente la Siria e che ha colpito anche il Libano.
Ne è la prova il recente attentato a Beirut, dove con un’autobomba piazzata dai ribelli islamici sono morti più di quaranta civili e altri cinquecento sono stati feriti.
La paura e l’orrore era visibile negli occhi di noi tutti. Tutto ciò si inserisce in quella drammatica spirale di sangue dove centinaia di innocenti ogni giorno perdono la vita.
Questa amici carissimi è solo una goccia nell’oceano di violenza che ogni singolo giorno sono costretti a subire i nostri fratelli cristiani.
In Siria, la notte di Ferragosto ad Homs, nel villaggio cristiano di Marmarita dove c’è un santuario dedicato alla Madonna, i terroristi islamici di Jabhat al Nusra, per la sua posizione strategica hanno occupato l’antico castello trasformandolo nel loro nascondiglio e vi hanno consumato un nuovo massacro.
Atrocità indescrivibili contro civili innocenti divenuti vittime sacrificali nel vortice della violenza compiuta da “bestie” assetate di sangue, trentacinque cristiani uccisi, non si conta il  numero di feriti, e più di duecento donne (soprattutto ragazze) rapite, letteralmente trascinate e ridotte in schiavitù nel villaggio di Der al Zor, roccaforte dei terroristi di Jabhat al Nusra.
Il destino di ognuna di loro è segnato dalla violenza e dalla crudeltà che subiranno, saranno torturate e stuprate, fino a quando la “morte” le libererà da tanta malvagità.
La violenza continua nella città di Damasco dove anche ieri i terroristi islamici hanno bombardato il quartiere cristiano e dato alle fiamme l’ennesima chiesa, attacchi sempre mirati per colpire al “cuore” dei cristiani rimasti nella loro patria a difendere quello che di più sacro ha ogni essere umano il diritto alla propria dignità e a professare liberamente il proprio “credo”.
L’obiettivo è annientare a qualunque costo, i luoghi che da duemila anni sono la “culla” del cristianesimo, e sottomettere tutti alla legge dell’islam, come è già successo in Afghanistan.
Non c’è più un posto sicuro per i nostri fratelli “cristiani”, giorno dopo giorno c’è solo dolore e pianto di mamme disperate a cui uccidono figli e rapiscono figlie, anziani che silenziosamente vivono questo orrore impotenti davanti a tanta crudeltà e devastazione, padri inermi perché non possono difendere le proprie famiglie e dar loro un sicuro rifugio.
Amici, le immagini delle continue atrocità a cui assisto ogni giorno, sono impresse nella mia mente, e il mio cuore è gonfio di angoscia, vi chiedo di unirvi a noi nella fervente e incessante preghiera al cuore Immacolato di Maria, nostra mediatrice presso Dio perché il seme della pace abiti in ogni cuore.
Per questo chiedo ancora il vostro sostegno, avete già fatto tanto, ma vi chiedo di fare ancora di più, abbiamo bisogno di ogni più piccolo aiuto che ognuno di voi ci possa dare, aiuti economici e aiuti materiali, vi prego non lasciate inascoltato il mio grido che è la voce di migliaia di grida strazianti di chi ormai vive solo tra dolore e lacrime e ha perso tutto.
Che il Signore benedica voi e le vostre famiglie.
Vostro fratello in Cristo.
Padre Nader Jbeil
Direttore Radio Sawt el Sama
00961 76 800 054
http://www.associazionelatorre.com/2013/08/siria-le-atrocita-dei-ribelli-contro-i-cristiani-la-tragica-denuncia-di-un-sacerdote-siriano/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=siria-le-atrocita-dei-ribelli-contro-i-cristiani-la-tragica-denuncia-di-un-sacerdote-siriano

lunedì 26 agosto 2013

error magnus in principio, maximus in fine: pregiudizi, visita irrituale, domande capziose, abuso di potere nella vicenda del Francescani dell'Immacolata

 
 
A chi mi chiama "esagerato" vorrei far notare quanto sono viscide le domande poste ai Francescani dell'Immacolata a dicembre scorso (nota: grazie alle proteste di una minoranza di ribelli, è stato ugualmente avviato a luglio 2013 il commissariamento):

http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2013/08/guerra-contro-la-liturgia-tridentina-un.html


Rispondiamo alle domandine:

8. Ritieni che l’introduzione definitiva della forma extraordinaria nell’Istituto è un bene?
La "forma extraordinaria" (cioè la Messa "Tridentina") non è mai stata abolita (lo ha messo nero su bianco perfino Benedetto XVI): dunque è liturgia di tutta la Chiesa. Al punto che i sacerdoti, per celebrarla, non devono chiedere nessun permesso ai superiori.

Questa domanda dunque insinua che la liturgia della Chiesa Cattolica "non sarebbe un bene" per un istituto cattolico.

- Aiuta la comunione tra i membri?
Questa domanda insinua che la liturgia della Chiesa (quella celebrata da padre Pio, don Bosco, sant'Alfonso e tutti gli altri, e mai abolita) "non aiuterebbe" la comunione tra i membri di un istituto.

- Risponde alle esigenze dell’evangelizzazione?
Questa domanda insinua che l'evangelizzazione sarebbe un mestiere e che la liturgia "tridentina" sarebbe uno strumento non adatto alle esigenze di chi fa quel mestiere.

Andateglielo a dire a padre Pio. Oppure chiedetevi di che razza di "evangelizzazione" si parla, visto che non può essere sostenuta dalla liturgia "mai abolita". Oppure chiedetevi se l'Eucarestia, "fonte e culmine" della vita della Chiesa, sarebbe uno strumento non adatto all'evangelizzazione.

- Risponde alle esigenze di spiritualità dell’uomo contemporaneo?
Questa domanda insinua che la Chiesa sarebbe un supermarket religioso che deve a tutti i costi inseguire le richieste della clientela e della moda.

- Risponde ai desideri del Superiore Generale?
Questa domanda insinua che la liturgia di tutta la Chiesa potrebbe essere contraria ai desideri del Superiore Generale. Ma allora in tal caso sarebbe il Superiore Generale a sbagliare: si vuole forse ottenere che i frati si lamentino del Superiore?

Nel caso specifico è una domanda retorica: notoriamente il Superiore Generale p. Manelli era favorevole alla liturgia tridentina.

- È richiesta dal Concilio Vaticano II?
Questa domanda insinua che ciò che non sarebbe esplicitamente "richiesto" dal Vaticano II, sarebbe da proibire.

Si può facilmente obiettare che il Vaticano II non ha "richiesto" di "girare gli altari" verso il popolo, né di imporre la "comunione sulle mani", eccetera, eppure tali cose vengono strenuamente difese in nome del Vaticano II. Dunque, per rispondere a quella domanda, occorre prima risolvere l'ambiguità di cosa abbia esattamente "richiesto" il Vaticano II, e quale livello di obbligatorietà abbia un concilio "pastorale".

- Risponde alla “mens” del Santo Padre?
Questa domanda, posta a dicembre 2012 (con Benedetto XVI felicemente regnante), insinua che il Santo Padre Benedetto XVI, nel promulgare il motu proprio Summorum Pontificum per liberalizzare la liturgia "tridentina", non rispondeva alla "mens" del Santo Padre Benedetto XVI.

 9. Ritieni che l’introduzione della forma extraordinaria nell’Istituto sia voluta dal Papa? Dal Superiore Generale? Dal Consiglio Generale? Dal Capitolo della tua Comunità?

Sono tutte autorità alle quali il frate è tenuto a ubbidire.

Questa domanda insinua dunque che il frate potrebbe ritenere di agire diversamente da quanto "voluto" dalle autorità. Si vogliono forse indurre i frati a lamentarsi dei superiori?

10. Ritieni che l’introduzione della forma extraordinaria nell’Istituto soddisfi la tua spiritualità?

Questa domanda insinua che lo scopo della liturgia della Chiesa sarebbe il "soddisfare" dei gusti personali. Come se Nostro Signore, istituendo l'Eucarestia, avesse detto «fate come vi pare, in memoria di Me».

11. Se dovessi scegliere tu tra le due forme (Ordinaria e extraordinaria), per tutti i membri dell’Istituto, quale e perché sceglieresti?

Questa domanda tenta di capire le percentuali di favorevoli e contrari esigendo però di conoscere i motivi di coscienza ("per tutti i membri", "perché sceglieresti"), motivi che solo il direttore spirituale e confessore è tenuto a sapere.

12. Qual è secondo te l’Organo di Governo preposto dalle Costituzioni dei F.I.per l’introduzione della forma extraordinaria nell’Istituto?
Questa domanda serve per delegittimare chi non desse la risposta che al momento opportuno si riterrà "giusta".

13. Il Superiore Generale unitamente al Consiglio Generale, con la «Normativa liturgica per il Vetus Ordo» del 21 novembre 2011, allegata al presente questionario, secondo te hanno agito andando al di là delle decisioni del Capitolo Generale del 2008 e creando qualche malcontento nell’Istituto, o hanno attuato nell’Istituto quanto previsto e dal Motu proprio Summorum Pontificum?

Questa domanda esige che il singolo frate e la singola suora, oltre a conoscere il Motu Proprio, siano sufficientemente documentati sulle motivazioni di coloro ai quali devono ubbidienza.

Vien da chiedersi come mai sia stata allegata la "Normativa" anziché il Motu Proprio stesso...

14. Se il Superiore Generale e il Consiglio Generale, con la «Normativa liturgica per il Vetus Ordo» del 21 novembre 2011 fossero andati al di là di quanto stabilito nel Capitolo Generale del 2008 quale dovrebbe essere secondo te l’atteggiamento dei membri dell’Istituto?
- obbedire ciecamente, perché...
- disubbidire, perché...
- ritenere la Normativa non vincolante, perché...
- chiedere la convocazione di un Capitolo Generale straordinario, perché...

Questa domanda serve per poter delegittimare chi risponde. Infatti:
- "obbedire ciecamente" non va bene, nemmeno se sono religiosi
- "disubbidire" non va bene, proprio perché sono religiosi
- "ritenere non vincolante" non va bene, perché i religiosi devono ubbidire (e non in base alle proprie "ritenute" opinioni)
- "chiedere la convocazione" non va bene, perché dà l'idea che un singolo frate con la luna di traverso esiga di convocare "Capitoli Generali straordinari" di tutto l'Istituto.

Insomma, ogni risposta suggerita è sbagliata.

È evidente la malafede delle autorità ecclesiastiche che hanno compilato il questionario.

Comincia ora ad affacciarsi la domanda scottante: è stato così che fecero «sbroccare» Lefebvre?

Vogliono esasperare di proposito la situazione allo scopo di affibbiare l'etichetta di "ribelli" a chi non si vaticansecondizza

Per capire le porcate commesse da certi alti papaveri ecclesiastici, bisogna leggere l'appello inoltrato dai Francescani dell'Immacolata il 29 maggio scorso e che come unico risultato ha avuto il... commissariamento dell'Istituto.

Vale la pena di leggerlo per farsi due risate (amare):

http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2013/08/francescani-dellimmacolata-linascoltato.html

domenica 25 agosto 2013

quando Paolo VI guadò la Chiesa, "guardò attraverso tutte le buone intuizioni, le ingenue attese, le illusioni e le chiacchiere che in quegli anni l’avevano travolta, e vide. Vide la fine del cristianesimo"

«La fede è l’eredità degli Apostoli»
Paolo VI e la proclamazione dell’anno della fede, nel 1967, in occasione dei 1900 anni dal martirio di Pietro e Paolo a Roma. Un anno decisivo che si chiuderà con il Credo del popolo di Dio per «attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al Deposito della fede». «Non possiamo minimamente ignorare che i nostri tempi richiedono questo con forza»
di Gianni Valente
 
     Ci sono momenti, scrive Charles Péguy, in cui cadono tutte le maschere e nulla nasconde più la realtà, che ci appare nuda, così come veramente è. «Sono i soli momenti della vita in cui non si menta; in cui non si simuli affatto; in cui si sia sinceri; letteralmente, assolutamente, totalmente sinceri; in cui si vede il vero, più del vero, il reale, come esso è; in cui non ci si nasconde più niente». Sono questi i momenti in cui «vediamo chiaro, osiamo veder chiaro».
     A Paolo VI, esattamente trent’anni fa, capitò di vivere un momento così. Guardò la Chiesa, che, come testimonia la sua prima enciclica, sapeva bene che era di un Altro, cioè di Cristo (Ecclesiam suam), guardò attraverso tutte le buone intuizioni, le ingenue attese, le illusioni e le chiacchiere che in quegli anni l’avevano travolta, e vide. Vide la fine del cristianesimo. Non delle strutture, delle riunioni, del Vaticano, dei piani pastorali, dei raduni oceanici, che potrebbero continuare come coreografie ad uso di chi cerca ruoli ecclesiastici e consolazioni religiose con cui riempire la vita (e magari ci fa su anche carriera). Quella che vedeva spegnersi era la fede. Il nostro tempo come un lungo sabato santo, come il tempo dell’assenza di Dio, quando anche gli ultimi discepoli si preparano tristi e col cuore spento a tornare ognuno a casa sua.
     Paolo VI vide tutto questo e, nella tragedia in cui la Chiesa versava, tornò a ricordarle e a ripeterle quali erano i suoi unici tesori: la fede degli apostoli, custodita dalla Tradizione (Credo del popolo di Dio), e i poveri, i popoli della fame (Populorum progressio) chiamati per primi a godere della grazia della fede. Ripetere le cose di sempre, un Papa non può e non deve far altro.
     Era il 22 febbraio 1967, quando papa Montini, con l’esortazione apostolica Petrum et Paulum apostolos, indisse un anno giubilare particolare: l’anno della fede. Millenovecento anni prima, i due apostoli Pietro e Paolo erano stati martirizzati a Roma. Uccisi, come ricorda un passo della lettera di san Clemente papa ai Corinzi riportato all’inizio della stessa esortazione apostolica, «a causa della gelosia e dell’invidia», ossia anche per la cattiveria di cristiani. In quell’anniversario, – chiedeva il Papa – tutta la Chiesa era chiamata a far memoria della fede trasmessa in eredità dai due apostoli, nella domanda umile di poter fare della realtà di quella fede la loro stessa viva esperienza, di poter incontrare e sorprendere i gesti di quella stessa Presenza che duemila anni prima aveva attratto gli occhi di poveri pescatori e di grandi peccatori e commosso il loro cuore.
     Quell’anno – oggi lo riconoscono anche gli storiografi più attenti – segnò un crinale, una "svolta" nel pontificato montiniano. Alla fine dell’anno della fede Paolo VI pronunziò in piazza San Pietro una solenne professione di fede, il Credo del popolo di Dio, con cui intendeva «attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al Deposito della fede». Ma i cattolici di allora non colsero l’intuizione tragica e profetica di papa Montini. Gli illuminati dissero che si trattava di pessimismo eccessivo. Per i reazionari si trattava di pentitismo tardivo, visto che secondo loro la catastrofe era stata innescata da quel rinnovamento conciliare di cui Montini era stato il timoniere. Per i chierici di ogni tendenza, la semplice riproposizione dei contenuti tradizionali della fede cattolica era una risposta troppo minimale davanti alle provocazioni della storia e anche alla crisi della Chiesa. Secondo loro occorreva una strategia più complessa: bisognava coscientizzare, ovvero rendere cultura la fede. Per entrare in dialogo e adeguarsi al mondo – dicevano gli uni. Per resistere all’assedio della modernità e combattere – dicevano gli altri. Così l’anno della fede e il Credo del popolo di Dio furono inghiottiti in un gorgo di silenzio.


Inimici hominis, domestici eius
A turbare papa Paolo VI non era tanto l’immoralità del mondo, o la negazione teorica del cristianesimo a quel tempo sfacciata e violenta.
     Già negli anni che precedono il ’67, l’allarme contenuto nei discorsi di Paolo VI è un altro: la Chiesa viene demolita non dall’ateismo moderno, ma dai suoi stessi figli. La malattia è interna, è un cupio dissolvi che sembra aver avvelenato i maestri, i chierici e le accademie ecclesiastiche, prima ancora che il popolo, e li spinge a uno svuotamento dall’interno della natura e del metodo del fatto cristiano. «Vengono alle labbra le parole di Gesù: "inimici hominis, domestici eius", i nemici dell’uomo saranno i suoi di casa!», dirà il Papa il 18 settembre 1968, a nemmeno tre mesi dalla proclamazione del Credo. Ma già nel ’65, all’udienza generale del 4 agosto, il Papa si diceva preoccupato per «le voci provenienti anche dai campi migliori del popolo di Dio, dove ordinariamente la dottrina della Chiesa è alimentata da fervore di studi, è coltivata con fermezza di pensiero», che oggi fanno eco «ad errori antichi e moderni, già rettificati e condannati dalla Chiesa ed esclusi dal patrimonio delle sue verità». L’11 luglio del ’66, parlando a un gruppo di teologi e scienziati riunitisi per aggiornare la modalità di presentazione del dogma del peccato originale, Paolo VI li mette in guardia dall’acconsentire a formulazioni del peccato originale che siano subordinate alla teoria dell’evoluzionismo. Ma è all’udienza generale del successivo 30 novembre che Paolo VI descrivendo «il triste fenomeno che turba il rinnovamento conciliare e sconcerta il dialogo ecumenico», chiarisce nel dettaglio quali siano le cose essenziali del cristianesimo che si tenta di svuotare: «La resurrezione di Cristo, la realtà della sua vera presenza nell’eucaristia, ed anche la verginità della Madonna e di conseguenza il mistero augusto dell’incarnazione». Nell’ottobre ’66 era stato pubblicato il nuovo Catechismo olandese, voluto dall’episcopato d’Olanda, il prototipo di quei catechismi post-conciliari che pensano di rendere interessante il cristianesimo per l’uomo moderno sostituendo alle tradizionali formule di fede discorsi complicati e in talune parti ambigui e reticenti. Il 7 aprile dell’anno successivo, parlando all’assemblea dei vescovi italiani, Paolo VI ribadisce quale sia la priorità: «La prima questione, questione capitale, è quella della fede, che noi vescovi dobbiamo considerare nella sua incombente gravità. Qualcosa di molto strano e doloroso sta avvenendo… anche fra coloro che conoscono e studiano la parola di Dio: viene meno la certezza nella verità obiettiva e nella capacità del pensiero umano di raggiungerla; si altera il senso della fede unica e genuina; si ammettono le aggressioni più radicali a verità sacrosante della nostra dottrina, sempre credute e professate dal popolo…».

La Tradizione che ci precede
Addolora Paolo VI soprattutto chi in quest’opera di autodemolizione strumentalizza l’ultimo Concilio ecumenico, interpretandolo come l’atto di nascita di un nuovo cristianesimo e di una nuova Chiesa. Ad un anno esatto dalla sua chiusura (discorso dell’8 dicembre 1966) Montini denuncia l’errore di supporre che il Vaticano II «rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede». Quasi un mese prima, nell’udienza generale, aveva invitato a resistere alla tentazione di credere «che le novità, derivate dalle dottrine e dai decreti conciliari, possano autorizzare qualsiasi arbitrario cambiamento… Bisogna essere profondamente convinti che non si può demolire la Chiesa di ieri per costruirne una nuova oggi; non si può dimenticare e impugnare ciò che la Chiesa ha finora insegnato con autorità per sostituire alla dottrina sicura teorie e concezioni nuove».
Il 12 gennaio 1966 aveva detto: «Gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico della dottrina cattolica» la quale «è assai più ampia… e non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata; ché anzi il Concilio la conferma, la illustra, la difende e la sviluppa con autorevolissima apologia… Non sarebbe quindi nel vero chi pensasse che il Concilio rappresenti un distacco, una rottura, ovvero, come qualcuno pensa, una liberazione dall’insegnamento tradizionale della Chiesa».
La fede, adesione a una testimonianzaDavanti a ciò che vede, Paolo VI sa bene che non basta rintuzzare gli errori dottrinali che serpeggiano tra la leadership cattolica. La confusione dottrinale è il sintomo di qualcosa di più radicale. Sembra quasi che dovunque, nella Chiesa, si vada perdendo la percezione di cosa sia veramente il cristianesimo, la natura e la dinamica della vita cristiana. Non si sa più di cosa si tratta.
     Il Papa decide di approfittare dell’anniversario del martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo per indire l’anno della fede quale risposta alla vertiginosa smemoratezza seguita all’ebollizione conciliare.
     Nell’esortazione apostolica Petrum et Paulum apostolos, che indice l’anno della fede, gli accenni alla crisi dottrinale sono pochi e secondari. L’unica, semplice e minimale richiesta rivolta a tutti i figli della Chiesa è quella di ripetere la professione di fede degli apostoli Pietro e Paolo, di rimanere in questa fede. «Vogliamo inoltre chiedere una cosa piccola ma importante: vogliamo pregare tutti voi singolarmente, fratelli e figli nostri, di fare memoria dei santi Apostoli Pietro e Paolo, che testimoniarono la fede di Cristo con le parole e col sangue, in modo da professare con verità e sincerità la medesima fede che la Chiesa, fondata e resa splendida da loro stessi, accolse devotamente e espose con autorità. D’altronde questa professione di fede, che, avendo per testimoni i beati Apostoli, rendiamo a Dio, conviene certo che sia individuale e pubblica, libera e consapevole, interiore ed esteriore, umile e decisa. Vorremmo inoltre che una tale professione di fede scaturisse dall’intimo del cuore di ogni uomo, e riecheggiasse una sola, identica e traboccante d’amore in tutta la Chiesa. Infatti quale più grato servizio di memoria, di onore, di comunione potremmo noi offrire a Pietro e Paolo che la dichiarazione di quella fede che abbiamo ricevuto da loro stessi quasi in eredità?». Il ripetere le formule che custodiscono la fede apostolica non risponde solo ad una devozione, ma è per Paolo VI un gesto realmente adeguato al momento storico che la Chiesa vive: «Non possiamo minimamente ignorare che i nostri tempi richiedono questo con forza».
     Numerosi discorsi di quel periodo chiariscono e commentano il perché dell’anno della fede di Pietro e di Paolo. All’udienza del primo marzo ’67, pochi giorni dopo l’esortazione apostolica, Paolo VI spiega: «Ci sembra che questo tema offra a noi il filo più sicuro e più diretto per comunicare spiritualmente con quei grandi Apostoli; loro stessi ne hanno lasciato pressante raccomandazione; dice, ad esempio, san Pietro, nella sua prima lettera ai primi cristiani che essi sono "custoditi nella fede per la salvezza"», e anche san Paolo «è preso dall’ansia di garantire l’integrità e la conservazione della fede, e ripete le sue raccomandazioni perché ogni errore sia evitato e respinto e perché il "depositum sia custodito". […] Aderendo alla fede, che la Chiesa ci propone, noi ci mettiamo in comunicazione diretta con gli Apostoli che vogliamo ricordare; e, mediante essi, con Gesù Cristo, nostro primo e unico Maestro; noi ci mettiamo alla loro scuola, annulliamo la distanza dei secoli, che da loro ci separano e facciamo del momento presente una storia vivente, la storia sempre uguale a se stessa propria della Chiesa». La fede, spiega nello stesso discorso papa Paolo VI, ricorrendo alla definizione del Concilio di Trento, «"humanae salutis initium est", è il principio per l’uomo della sua salvezza».
     Anche nell’udienza del successivo 19 aprile il Papa si sofferma a chiarire cosa sia la fede cristiana, distinguendola dalla assimilazione comunemente fatta «col sentimento religioso, con la credenza vaga e generica dell’esistenza di Dio». La fede, dice Paolo VI, è «l’adesione dello spirito, intelletto e volontà, ad una verità» che si giustifica «per l’autorità trascendente di una testimonianza, a cui non solo è ragionevole aderire, ma intimamente logico per una strana e vitale forza persuasiva, che rende l’atto di fede estremamente personale e soddisfacente». La fede è dunque «una virtù che ha le sue radici nella psicologia umana, ma che deriva la sua validità da una azione misteriosa, soprannaturale, dello Spirito Santo, della grazia infusa in noi, in via normale, dal battesimo». È «quella capacità spirituale che ci fa accogliere, come corrispondenti alla realtà, le verità che la parola di Dio ci ha rivelate. È perciò la fede un atto che si fonda sul credito che noi diamo al Dio vivente».
     L’inaugurazione ufficiale dell’anno della fede viene celebrata solennemente sul sagrato della basilica vaticana la sera del 29 giugno 1967, festa dei santi Pietro e Paolo.

Nell’omelia il Santo Padre ribadisce che «il Concilio ecumenico, testé celebrato, ci ha esortato a risalire alle sorgenti della Chiesa e a riconoscere nella fede il suo principio costitutivo, la condizione prima d’ogni suo incremento, la base della sua sicurezza interiore e la forza della sua esteriore vitalità». Qualche giorno dopo, i pellegrini presenti all’udienza del 5 luglio possono ascoltare nuove parole del Papa sulla fede: «La fede è l’eredità degli Apostoli. È il dono del loro apostolato, della loro carità. […] Il fatto ch’essi, insieme con gli altri apostoli e con gli annunciatori autorizzati del Vangelo, sono gli intermediari tra noi e Cristo, caratterizza il cristianesimo in modo essenziale e genera un sistema di rapporti indispensabili nella comunità dei credenti.
[…] L’Apostolo è maestro; non è semplicemente l’eco della coscienza religiosa della comunità; non è l’espressione dell’opinione dei fedeli, quasi la voce che la precisa e la legalizza, come dicevano i modernisti, e come ancora oggi alcuni teologi osano affermare. La voce dell’Apostolo è generatrice della fede. […] La verità religiosa, derivante da Cristo, non si diffonde negli uomini in modo incontrollato e irresponsabile; essa ha bisogno di un canale esteriore e sociale».
L’Oriente dei grandi Concili
Il viaggio in Turchia, che il Papa visita tra 25 e il 26 luglio, è un ulteriore passo sulle orme della memoria apostolica, secondo l’intenzione dell’anno della fede. Il Papa incrocia gli itinerari che Paolo percorse durante la sua predicazione, «fondando le prime comunità cristiane, in mezzo alle peripezie, a volte drammatiche, raccontate negli Atti degli apostoli», come ricorda il Papa ad Efeso, nella chiesa di San Giovanni. Ma il filo rosso del viaggio è il ritorno nei luoghi in cui furono celebrati i primi grandi Concili che definirono e custodirono la fede apostolica, difendendo il cristianesimo dalle antiche eresie. Tornato a Roma, all’Angelus del 2 agosto il Papa celebra la preminenza dei primi quattro Concili ecumenici svoltisi in Oriente (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia). Un indiretto ridimensionamento della portata dell’ultimo Concilio ecumenico, che alcuni vorrebbero celebrare come l’anno zero della Chiesa. «Questi quattro Concili – dice il Papa – furono e rimangono degni di grande riverenza. Furono essi che diedero alla Chiesa, dopo i primi secoli di vita perseguitata e quasi clandestina, la coscienza della sua compagine costituzionale e unitaria. Furono essi che misero in evidenza e stabilirono in autorità i dogmi fondamentali della nostra fede, sulla Santissima Trinità, su Gesù Cristo, sulla Madonna: e che perciò diedero al cristianesimo la sua dottrina basilare». L’atto di venerazione nei confronti dei primi quattro Concili ecumenici diventa anche spunto per ribadire la comunione di fede con gli Ortodossi nei dogmi fondamentali. Paolo VI, il papa che ha cancellato le scomuniche reciproche tra Roma e Costantinopoli e che più in là si inchinerà a baciare i piedi del vescovo ortodosso Melitone di Calcedonia, durante il viaggio in Turchia approfitta degli incontri con il patriarca Atenagora e con gli ortodossi di Efeso per ripetere che «per ristabilire e conservare la comunione e l’unità, occorre infatti essere attenti a "non imporre niente che non sia necessario"». «La carità» dice ad Atenagora e ai metropoliti del Patriarcato ecumenico, nella cattedrale di San Giorgio «ci deve aiutare come ha aiutato Ilario e Atanasio a riconoscere l’identità della fede al di là delle differenze di vocabolario in un momento in cui gravi divergenze dividevano l’episcopato. […] E san Cirillo d’Alessandria non accettò forse di mettere da parte la sua teologia così bella per fare la pace con Giovanni d’Antiochia, dopo essersi accertato che al di là di espressioni differenti, la loro fede era la stessa?».
I riferimenti umani e materiali della memoria
Alla fine dell’anno della fede Paolo VI scandalizza i chierici con due gesti clamorosi. Il 26 giugno 1968, con un’allocuzione nella Basilica vaticana, annuncia l’autenticità delle reliquie di san Pietro, rinvenute durante i lavori nelle grotte vaticane tra il 1940 e il 1950. «A questa intensità di sentimenti» dice papa Montini «ci aiutano e ci impegnano le tracce storiche e locali da loro lasciate. Non possono essere trascurati da noi romani, e da quanti a Roma muovono i passi, questi riferimenti umani e materiali alla memoria degli Apostoli, "per quos religionis sumpsit exordium", per merito dei quali iniziò la nostra vita religiosa». Il risultato delle indagini sui frammenti ossei ritrovati nella necropoli vaticana viene annunciato con trattenuto entusiasmo: «Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che Noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di san Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a che vi ha dedicato attentissimo studio e lunga e grande fatica».
     Il 30 giugno 1968 una solenne liturgia chiude l’anno della fede, con la professione di fede che Paolo VI stesso definisce Credo del popolo di Dio. È il coronamento dell’anno della fede, «che avevamo dedicato – spiega Paolo VI nell’omelia – alla commemorazione dei santi Apostoli per attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al Deposito della fede che essi ci hanno trasmesso, e per rafforzare il nostro desiderio di farne sostanza di vita nella situazione storica in cui si trova la Chiesa pellegrina nel mondo». Con tale professione Paolo VI intende adempiere il mandato, «affidato da Cristo a Pietro, di cui siamo il successore, sebbene l’ultimo per merito, di confermare cioè nella fede i fratelli. Il nuovo Credo, «senza essere una definizione dogmatica propriamente detta, e pur con qualche sviluppo, richiesto dalle condizioni spirituali del nostro tempo, riprende sostanzialmente il Credo di Nicea». Nel professare il Credo del popolo di Dio, Paolo VI dichiara di aver presente «l’inquietudine che agita alcuni ambienti moderni» e «la passione per il cambiamento e la novità» che ha preso molti cattolici: «è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire – come purtroppo oggi spesso avviene – un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli».

Un grande papa  in tempi difficili. Come scrisse allora Carlo Falconi, leader dei vaticanisti del tempo, nel suo libro La svolta di Paolo VI, «l’enorme gorgo di silenzio che ha risucchiato la proclamazione del nuovo Credo è drammaticamente minaccioso. Tutta la campagna interventista del quotidiano vaticano, per fingerle un’eco commossa e riconoscente di consenso, è finita nel vuoto. E se non fosse seguita presto la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, convogliando su di sé la più aperta reazione, l’imbarazzo di quel silenzio protestatario avrebbe toccato il limite del sopportabile».
     Tutto l’establishment cattolico, salvo rare eccezioni, lascia cadere nel nulla la lucida intuizione della condizione della Chiesa nel mondo espressa dall’anno della fede e dal Credo del popolo di Dio. Per teologi e intellettuali si tratta di "atti pietistici". All’inizio dell’anno della fede, il teologo olandese Edward Schillebeeckx, commentando l’iniziativa di Paolo VI, afferma che la crisi attraversata dalla fede cristiana è «una crisi di crescita». Il suo collega tedesco Karl Rahner irride la possibilità stessa di poter avere «dopo un anno della geofisica, un anno della fede» e conclude: «Tutto dipende da una riflessione profonda per rendere questa concezione (quella cristiana) credibile per gli spiriti contemporanei». Al Papa che indica di tornare alla Tradizione, di ripetere la dottrina degli apostoli e rimanere in essa, tutti, in fondo, dicono che non basta. La congiura del silenzio che Paolo VI subisce in occasione dell’anno della fede e del Credo del Popolo di Dio manifesta qual è la vera radice dell’incomprensione, della muta ostilità e delle contestazioni sempre più frequenti che il Papa subirà all’interno della Chiesa.
     L’idea che il pontificato montiniano abbia subìto a partire dal ’67-68 un’involuzione deludendo le speranze iniziali diventa tanto diffusa nell’intellighentia clericale da essere evocata a metà degli anni settanta da un relatore ufficiale, lo storico Franco Bolgiani, al convegno ecclesiale su Evangelizzazione e promozione umana, davanti a tutti gli stati maggiori della Chiesa italiana.
     Il 29 giugno 1972, nell’omelia per la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, Paolo VI riconosce: «Credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole e tempeste, di buio, e di ricerche e di incertezze, si fa fatica a dare la gioia della comunione».
     A quei tempi pochi osavano testimoniare pubblicamente la devozione e la solidarietà verso un papa irriso anche nei convegni ecclesiali. Tra questi, il patriarca di Venezia, Albino Luciani. La sua omelia pronunciata il 18 settembre 1977 al congresso eucaristico nazionale di Pescara è un’appassionata scelta di campo, un’esplicita dichiarazione di comunione nei confronti del grande Papa di tempi così difficili: «Il Pietro che abbiamo sentito nel Vangelo vive oggi nella persona di Paolo VI suo successore. Ma di Paolo VI ce ne sono due: quello che abbiamo visto iersera qui a Pescara, che si vede e si ascolta nelle udienze generali e private e quello che descrivono, alla loro maniera, inventando e stravolgendo, certi libri e giornali. Vero, autentico, è soltanto il primo: un grande papa, al quale è toccato di svolgere l’alta missione in tempi difficili…».