sabato 6 marzo 2010

Macellai!

Lettera di San Pio da Pietrelcina a Padre Agostino - 7 aprile 1913:


«Mio carissimo Padre, venerdì mattina ero ancora a letto, quando mi apparve Gesù. Era tutto malconcio e sfigurato. Egli mi mostrò una grande moltitudine di sacerdoti regolari e secolari, fra i quali diversi dignitari ecclesiastici, di questi chi stava celebrando, chi si stava parando e chi si stava svestendo dalle sacre vesti. La vista di Gesù in angustie mi dava molta pena, perciò volli domandargli perché soffrisse tanto. Nessuna risposta n'ebbi. Però il suo sguardo mi portò verso quei sacerdoti; ma poco dopo, quasi inorridito e come se fosse stanco di guardare, ritirò lo sguardo ed allorché lo rialzò verso di me, con grande mio orrore, osservai due lagrime che gli solcavano le gote. Si allontanò da quella turba di sacerdoti con una grande espressione di disgusto sul volto, gridando: "Macellai! E rivolto a me disse": "Figlio mio, non credere che la mia agonia sia stata di tre ore, no; io sarò per cagione delle anime da me più beneficiate, in agonia sino alla fine del mondo. Durante il tempo dell'agonia, figlio mio, non bisogna dormire. L'anima mia va in cerca di qualche goccia di pietà umana, ma ahimè mi lasciano solo sotto il peso della indifferenza. L'ingratitudine ed il sonno dei miei ministri mi rendono più gravosa l'agonia. Ahimè come corrispondono male al mio amore! Ciò che più mi affligge e che costoro al loro indifferentismo, aggiungono il loro disprezzo, l'incredulità. Quante volte ero li per li per fulminarli, se non fossi stato trattenuto dagli angioli e dalle anime di me innamorate... Scrivi al padre tuo e narragli ciò che hai visto ed hai sentito da me questa mattina. Digli che mostrasse la tua lettera al padre provinciale..." Gesù continuò ancora, ma quello che disse non potrò giammai rivelarlo a creatura alcuna di questo mondo»

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede


Vista l’attualità della questione sulla Messa in rito tradizionale, pensiamo di affrontare “di petto” il problema, immergendoci nello studio della questione liturgica.

Tra molti un testo di riferimento prevale per importanza. E’ il libro di un grande autore, Michael Davies, morto nell’anno 2004 a sessantotto anni, di origine gallese, uno dei migliori storici britannici. Tra i molti libri di sua pubblicazione, ce n’è uno, “La riforma liturgica anglicana”, che ha avuto sei edizioni inglesi, e una in francese. Si attende ardentemente che venga pubblicato in Italia. Questo libro è un validissimo aiuto per sacerdoti e laici che vogliono capire tutta l’importanza del problema del rito della Santa Messa.

La tesi sviluppata è questa: il protestantesimo in Inghilterra entrò e si diffuse non innanzitutto attraverso la predicazione e l’insegnamento ma attraverso una riforma liturgica che portò in pochi anni clero e popolo nell’eresia. Riportiamo qui sotto per intero il riassunto di copertina dell’edizione francese del libro di Davies, che bene riassume il contenuto dell’opera: “Quando nel 1509 il re Enrico VIII sale al trono, è ardentemente cattolico e non tarderà d’altronde a ricevere dal papa il titolo di “Difensore della fede”. L’Inghilterra, chiamata tradizionalmente “il dotario di Maria”, conosceva ai tempi un’epoca di rinnovamento religioso, malgrado inevitabili abusi qua o là. Ma nel 1559, sotto il regno di sua figlia Elisabetta, quando fu votata la legge d’uniformità, il cattolicesimo era definitivamente distrutto. Una nuova forma di cristianesimo, l’anglicanesimo, l’aveva rimpiazzato, prima di diffondersi in tutto il mondo anglosassone.

Ora, questo cambiamento imprevisto e in massa di tutto un popolo non ha avuto come causa principale la predicazione di un Riformatore,come fu il caso di Lutero in Germania o di Calvino in Svizzera. Esso fu opera abilissima dell’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer.

Quest’ultimo, già segretamente protestante, concepì un disegno audace di modifica radicale della fede del popolo inglese unicamente trasformandone la liturgia. Cranmer stimò che, attraverso la liturgia vissuta ogni giorno, avrebbe raggiunto con più certezza le mentalità che non attraverso qualsivoglia discorso. L’anglicanesimo è frutto di un libro, apparentemente insignificante, il “Book of Common Prayer”(libro della preghiera comune).

La storia della riforma inglese racconta questa straordinaria scommessa, che conobbe successi e sconfitte, avanzamenti e indietreggiamenti, ma che finì per riuscire grazie al carattere prodigiosamente equivoco del testo cranmeriano, che i “conservatori” potevano accettare senza che i “progressisti” lo rigettassero.

                                                                                                                                             (continua)

venerdì 5 marzo 2010

Celibato ecclesiastico (2)

Celibato clericale 2

Concludiamo, con questo secondo capitolo, le riflessioni sull’origine del celibato, o continenza, per i membri della classe clericale. Già ci siamo occupati della disciplina della Chiesa occidentale, constatando che non si può affermare - come molti fanno - che l'astensione sessuale sia stata decretata nel IV secolo al Sinodo di Elvira o addirittura nel XII secolo, al secondo Concilio Lateranense. In realtà, i Padri di quelle solenni riunioni non fecero che confermare decisioni e prassi precedenti: nella Chiesa, sin dalle origini, era dato per scontato che il servizio all'altare dovesse accompagnarsi con l'astensione dall'esercizio della sessualità.


Come dicevamo, ci basiamo sul denso saggio del cardinale Alfons Stickler che inizia il suo studio sul celibato tra i cristiani orientali - in effetti, di questi ora ci occupiamo - con le parole seguenti: «Di fronte a un atteggiamento ritenuto sin dall'inizio più liberale, si è mosso il rimprovero alla Chiesa latina di essere divenuta sempre più stretta e severa nella sua disciplina celibataria. Quale prova di questa asserzione, ci si appella alla prassi della Chiesa orientale che avrebbe conservato l'originale disciplina della Chiesa primitiva. Per questo motivo - dicono alcuni - anche la Chiesa latina dovrebbe tornare alla disciplina originale, soprattutto di fronte al grave peso che il celibato costituisce oggi per la situazione pastorale nella Chiesa universale».

In realtà, come sono andate davvero le cose in Oriente? E come si è giunti all'attuale situazione, immutata da secoli, secondo la quale solo i vescovi sono tenuti alla continenza assoluta se erano già sposati, mentre i preti e i diaconi possono usare del matrimonio, purché sia il primo e sia stato contratto prima dell'ordinazione? Stickler cita testimoni importanti come il vescovo Epifanio di Salamina, nell'isola di Cipro, nato nel 315 e morto nel 403 e i cui scritti sulla disciplina della Chiesa sono tra i più autorevoli. Nella sua opera principale, Panarion, Epifanio afferma a chiare lettere che «Dio ha mostrato il carisma del nuovo sacerdozio per mezzo di uomini che hanno rinunciato all'uso del matrimonio o che da sempre hanno vissuto come vergini». E questa è, aggiunge Epifanio, «la norma stabilita dagli apostoli, secondo sapienza e santità». In un'altra opera, il vescovo ribadisce che così si fa dove vengono osservate le disposizioni della Chiesa. Se in qualche luogo ci sono sacerdoti che continuano a generare figli, «ciò non avviene in osservanza della norma, ma è una conseguenza della debolezza umana». Ci sono già, come si vede, i segni di un disordine che, dopo tre secoli, condurrà alla «resa» la Chiesa d'Oriente

C'è pure la testimonianza di un santo grande e famoso, Girolamo, il traduttore in latino della Scrittura, ordinato sacerdote in Asia nel 379 e vissuto quasi sempre in Oriente, morendo poi in Palestina. Girolamo ricorda spesso la prassi di ordinare soltanto chierici vergini o continenti, disciplina che vige, ricorda, anche «nelle Chiese d'Oriente e dell'Egitto». A Nicea, dove nel 325 si tenne il primo Concilio ecumenico della storia, si stabilì il divieto per i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, e in genere per tutti i chierici, di tenere donne nella loro casa. Unica eccezione, la madre, le sorelle, le zie e altre femmine al di sopra di ogni sospetto a causa dell'età avanzata. Come fa notare Stickler, «tra le donne per le quali è permessa la convivenza, non figurano le spose». Per secoli, dubbi sulle vere intenzioni dei Padri di Nicea sono stati avanzati sulla base dell'episodio di un vescovo dell'Egitto, tal Paphnuzios, il quale avrebbe chiesto all'assemblea - e ottenuto da essa - di lasciare alle Chiese particolari la decisione sull'obbligo o no di astensione dal sesso. Ebbene, com'è ormai dimostrato in modo inequivocabile, questo episodio è apocrifo. Esistette forse un Paphnuzios eremita del deserto, ma non fu mai Padre al Concilio di Nicea.

È dunque accertato che la disciplina dei cristiani orientali era, nei primi secoli, omogenea a quella degli occidentali: la Chiesa, in questo indivisa, esigeva dai suoi ministri verginità, celibato, continenza. Ma un simile obbligo, tanto contrastante con l'istinto naturale e dunque così difficile da osservare, esigeva un'autorità, un'organizzazione, un controllo costante, un Magistero energico e centrale: tutte cose che difettavano alle Chiese d'Oriente. Di fronte, poi, al dilagare degli abusi, gli imperatori di Bisanzio - che, a causa del cesaropapismo vigente, avevano autorità nelle questioni ecclesiali - tendevano a scegliere la via più tranquillizzante per il potere politico,emanando norme che autorizzavano il chierico a tenere con sé la moglie dopo l'ordinazione. Scrive Stickler: «Mentre per i vescovi si riusciva a mantenere in quasi tutto l'Oriente l'antica tradizione di completa continenza, l'uso sempre più invalso dell'uso del matrimonio da parte dei sacerdoti, dei diaconi e suddiaconi, purché contratto prima dell'ordinazione, veniva giudicato non più arrestabile. Ciò significa che ci si arrendeva alla situazione di fatto».

La Chiesa d'Oriente, insomma, giudicò come male minore il legalizzare ciò che pure andava contro una disciplina che, come più volte essa stessa aveva affermato, risaliva addirittura agli apostoli. La «resa» avvenne nel 691, nel secondo Concilio Trullano, detto così per la cupola, troùllos in greco, della sala del palazzo imperiale di Costantinopoli dove fu celebrato. Significativo il luogo: nel cuore del palazzo, cioè, di un Cesare cui non interessavano le questioni teologiche o le pratiche ascetiche, bensì la regolarizzazione di una miriade di situazioni disordinate e ambigue. Sotto quel «trullo» si presero decisioni che valgono ancor oggi in Oriente. Si dispose innanzitutto che i vescovi non potevano coabitare con le loro mogli. In ogni caso - e sino ad oggi - i vescovi sono scelti soprattutto tra i monaci, votati sin da piccoli alla verginità. Quanto ai sacerdoti, diaconi, suddiaconi, si concedeva che potessero usare del matrimonio «eccetto nei tempi in cui prestino servizio all'altare e celebrino i sacri misteri, dovendo essere continenti durante questo tempo». Osserva Stickler: «Questa disposizione significava un ritorno alla prassi dei sacerdoti dell'Antico Testamento, tenuti all'astinenza solo quando era il loro turno per il servizio nel tempio di Gerusalemme. Prassi che la Chiesa antica aveva sempre rifiutato, con chiare ragioni». E prassi, aggiungiamo, basata sul fatto che allora il servizio all'altare era, in Oriente, limitato alla domenica.

Poiché anche in quelle Chiese la celebrazione dell'eucaristia divenne, con gli anni, quotidiana, per coerenza si sarebbe dovuto ritornare alla continenza completa, così come praticata in Occidente. Invece, anche qui la Chiesa d'Oriente sembrò arrendersi allo stato di fatto e, malgrado le disposizioni «trullane» siano tuttora in vigore, nessun prete pratica più quell'astinenza sessuale che pure era considerata essenziale per celebrare il Santo Sacrificio.

Anche qui, poi, si aggiunse un falso, come era avvenuto per il presunto Paphnuzios. In effetti, i Padri del Concilio Trullano, alla ricerca di precedenti nella Tradizione che giustificassero la loro disciplina «lassista» , si rivolsero ai Concili africani, quegli stessi che abbiamo citato nella prima parte e che invece affermavano chiaramente il legame tra stato clericale e celibato o continenza, datandoli addirittura all'età apostolica. Come sentenzia la deliberazione dell'assise di Cartagine, nel 390, che non lascia dubbi: «Conviene che tutti coloro che servono ai divini sacramenti siano continenti in tutto, affinché custodiscano ciò che hanno insegnato gli apostoli e ciò che tutto il passato ha conservato». Approfittando del fatto che gli atti di quei Concili erano in latino, lingua conosciuta da pochi in Oriente, si manipolarono le frasi adatte e questa falsificazione fu portata come conferma della Tradizione alle decisioni del Concilio Trullano.

Abbiamo già visto quale risposta sia stata data dalla Tradizione occidentale, e a lungo pure da quella orientale, all'obiezione, anche oggi continuamente riproposta, secondo la quale (stando alla lettera paolina a Timoteo e a Tito) i candidati agli Ordini sacri devono essere sposati una sola volta. Questo perché, spiegano i Padri, se non avessero saputo stare senza moglie in caso di vedovanza, «si dovrebbe temere per la loro capacità di osservare la continenza nel sacerdozio».

Nei secoli, e oggi ancora, viene poi riproposta un'altra possibile difficoltà scritturale contro celibato e continenza, quella di 1 Corinzi 9, 5, dove Paolo, retoricamente, chiede: «Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?». Questa è la traduzione della Cei; ma è, va pur detto, ambigua se non errata. Così rileva, in effetti, il cardinale Stickler. «L'originale greco non parla semplicemente di una gunaika che potrebbe significare anche moglie. Di certo non senza intenzione san Paolo aggiunge la parola adelfèn, ossia "donna sorella", per escludere ogni confusione con la consorte».

Naturalmente, la verginità sacerdotale (originaria sin dall'infanzia o ritrovata che sia, nella rinuncia alla pratica sessuale) è un mistero legato direttamente al Mistero del Cristo e sia la teologia che la mistica hanno qui da fare, e hanno fatto nei secoli, riflessioni profonde. (…).

Vittorio Messori

giovedì 4 marzo 2010

Celibato Ecclesiastico


A margine del Convegno “Il celibato sacerdotale: teologia e vita” organizzato dalla Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce, in programma questi giorni a Roma, pubblichiamo un articolo di Vittorio Messori dal titolo Celibato Clericale n. 1 (Emporio cattolico, Sugarco Editore 2006, p. 126-131). l’autore sintetizza brillantemente il lavoro del Card. Alfons M. Stickler, Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 72. Il discorso sul celibato sacerdotale in questi ultimi decenni è stato condotto sbrigativamente e sommariamente: il card. Stickler pubblicando il suo libro nel 1994 contribuì non poco a diradare le nebbie modernistiche tanto che oggi non è più “teologicamente scorretto” come ricorda Messori parlare del celibato come di una tradizione di origine apostolica. Anche papa Benedetto XVI sembra andare in questa direzione quando afferma: "Il fatto che Cristo stesso, sacerdote in eterno, abbia vissuto la sua missione fino al sacrificio della croce nello stato di verginità costituisce il punto di riferimento sicuro per cogliere il senso della tradizione della Chiesa latina a questo proposito" (Sacramentum Caritatis, 24).

Celibato Clericale n. 1 . I vent’anni successivi al Vaticano II hanno registrato il più alto numero di abbandoni dell’esercizio del sacerdozio nella storia della Chiesa. La grande maggioranza di coloro che hanno preso questa decisione si sono poi sposati, che avessero o no ottenute le dispense canoniche. C’erano stati altri esodi di massa, ma con caratteristiche e motivazioni diverse: le conseguenze della Riforma protestante nel Cinquecento e della Rivoluzione francese tra Sette e Ottocento. Anche allora, comunque, il celibato legato al sacerdozio era stato contestato, in quanto giudicato non come una conseguenza fondata e legittima della prospettiva evangelica, bensì come semplice prodotto di una decisione ecclesiastica, per giunta tardiva e limitata all'Occidente.

Ma la questione dell'origine del celibato è davvero come ci è stata spesso presentata da coloro che lo contestano? Devo confessare di avere avuto molti dubbi di fronte ai toni polemici e definitivi di qualcuno. Ora, questi dubbi mi sono mutati in convinzioni precise, dopo avere letto la settantina di ense pagine stampate dalla Libreria Editrice Vaticana con il titolo Il celibato ecclesiastico e il sottotitolo La sua storia e i suoi fondamenti teologici. Ne è autore il cardinale Alfons Maria Stickler, defunto da non molto salesiano austriaco, teologo di straordinaria erudizione e che non casualmente fu bibliotecario e archivista di Santa Romana Chiesa. Lontano da ogni polemica, basandosi costantemente e pacatamente sui testi, lo studioso mostra l'infondatezza di molto di ciò che viene spesso affermato «negli stessi ambienti ecclesiastici, alti e bassi», come precisa.

Poiché, anche solo per una sintesi sommaria, lo spazio di un capitolo non è sufficiente, si parlerà in questo della disciplina del celibato nella Chiesa occidentale e, nel prossimo, nella Chiesa orientale. A giustificare lo spazio che dedichiamo al tema, c'è quanto nota il cardinale Stickler sin dalla prefazione del libro: «Per ciò che si riferisce alla storia del celibato ecclesiastico in Occidente e in Oriente si hanno oggi dei risultati importanti, maturati proprio in questi ultimi tempi, che o non sono ancora entrati nella coscienza generale o vengono taciuti se sono atti a influenzare questa coscienza in una maniera non desiderata ». Siamo alle solite: quanto non è «teologicamente corretto», cioè in linea con una prospettiva contestatrice della Tradizione, è rimosso da certa intellighenzia clericale.

Innanzitutto, va chiarito che da secoli siamo abituati a parlare di celibato, cioè di rinuncia al matrimonio da parte dei candidati al sacerdozio, soprattutto in riferimento ai seminari nati con il Concilio di Trento. In realtà, bisognerebbe usare il termine più ampio di continenza. Cioè, la continenza da osservare non solo rinunciando al matrimonio, ma anche non usando del matrimonio se già ci si è sposati. In effetti, nella Chiesa antica, la maggioranza del clero era composta di uomini maturi che, col consenso della moglie, accedevano agli Ordini sacri, lasciando la famiglia, alle cui necessità materiali provvedeva la comunità dei credenti. Questo si inquadrava nella parola con cui Gesù promette «il centuplo su questa terra e nell'aldilà la vita eterna» a coloro che, per amor suo e del Regno, «hanno abbandonato casa, genitori, fratelli, moglie, figli».

Ebbene, capita spesso di leggere, anche in autori seri, che l'obbligo di questo abbandono della consorte, e sovente dei figli, con susseguente impegno alla continenza perfetta, sarebbe stato deciso soltanto verso l'anno 300 al Concilio, o meglio Sinodo, ispanico di Elvira, presso Granada. Un canone di quel Concilio, il 33, dice in effetti: «Si è d'accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici impegnati nel servizio dell'altare, che devono astenersi dalle loro moglie non generare figli. Chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale».

Osserva il cardinale Stickler: «Non è possibile vedere in questo canone una disposizione nuova. Essa appare invece chiaramente quale reazione contro l'inosservanza di un obbligo tradizionale ben noto, al quale si annette ora anche la sanzione: o osservanza dell'impegno assunto della rinuncia alla famiglia o rinuncia all'ufficio clericale. Una novità in materia, con per giunta una retroattività della sanzione contro diritti già acquisiti, avrebbe causato una tempesta di proteste centro un'evidente violazione del diritto in un mondo,come quello romano, tutt'altro che digiuno di leggi. Ciò ha percepito chiaramente Pio XI quando, nella sua enciclica sul sacerdozio, ha affermato che questa legge scritta suppone una prassi precedente». In realtà, ad Elvira non si fece che ribadire quanto già da tempo immemorabile si praticava, seguendo la Tradizione.

C'è, infatti, un equivoco in cui cascano storici dilettanti o, talvolta, anche professionisti, qualora vogliano dimostrare a ogni costo tesi prefissate che stiano loro a cuore. Si identifica, cioè, lo jus, il diritto - il sistema giuridico di un popolo o di un gruppo, sistema basato anche su norme orali e su consuetudini - ,con la lex, la legge data per iscritto e promulgata in forma legittima. In realtà, il diritto, lo jus, solo lentamente, magari dopo secoli, diventa un sistema scritto di leges. È dunque abusivo dire - come capita spesso di ascoltare - che solo all'inizio del 300, e per giunta in un Sinodo minore, regionale, in una cittadina remota, la Chiesa avrebbe imposto la continenza ai suoi chierici. Una novità di tale peso, tra l'altro, sarebbe stata sancita come en passant, tra molte altre disposizioni minori tra le quali, ad esempio, il divieto di accendere lumi sulle tombe dei parenti?

Che non si trattasse affatto di innovazione lo dimostrano gli atti di molti altri Sinodi o Concili, come quello africano, tenuto a Cartagine nel 390, in piena comunione con tutte le altre Chiese locali, e dove si approvò all'unanimità la seguente dichiarazione: «Conviene che tutti coloro che servono ai divini sacramenti (vescovi, sacerdoti, diaconi) siano continenti in tutto, affinché custodiscano ciò che hanno insegnato gli apostoli e ciò che tutto il passato ha conservato». Dunque, ci si riferisce esplicitamente a una Tradizione indiscussa, che viene semplicemente confermata e che si fa risalire addirittura all'epoca degli apostoli e, dopo di essi, a una prassi ininterrotta. In effetti, non solo non risultano opposizioni al decreto, ma Stickler riporta molte testimonianze di conferma e di approvazione da parte della Chiesa di Roma, dalla quale dipendeva - in uno scambio continuo - la Chiesa africana.

Per scegliere quasi a caso, papa Siricio, nel 385, afferma solennemente che «i sacerdoti e i diaconi che anche dopo l'ordinazione praticano le loro mogli, agiscono contro una legge irrinunciabile che lega i chierici maggiori sin dall'inizio della Chiesa». E a coloro che obiettano che, stando all'Antico Testamento, i sacerdoti e i leviti potevano usare del loro matrimonio al di fuori dei turni del servizio nel Tempio, il papa ricorda che i sacerdoti del Nuovo Testamento devono prestare il loro servizio ogni giorno e, pertanto, dal momento della loro ordinazione sacra devono vivere in una continua e perfetta continenza.

In un'altra lettera, lo stesso pontefice precisa che questa ed altre disposizioni in materia non sono novità, bensì punti della fede e della disciplina che non devono essere trascurati. Già nel 386, un Sinodo romano, che radunava 80 vescovi, rispondeva a un'obiezione che - tra l'altro - viene ancora oggi continuamente riproposta e che voleva provare la continuazione, alle origini, dell'uso del matrimonio con le parole di Paolo, nella lettera a Timoteo e a Tito, parole secondo le quali deve essere stato sposato una volta sola chi è candidato agli ordini sacri. Si replicava che questo era stato stabilito «a causa della continenza futura del chierico». Chi, cioè, restato vedovo, non aveva saputo vivere da solo e si era risposato, faceva sorgere seri dubbi sulla capacità di assoggettarsi alla castità richiesta a chi servisse all'altare. Così, questa norma paolina, anziché una prova contro la continenza clericale, diventava una prova a suo favore, per di più richiesta da un apostolo con l'autorità indiscussa di Paolo.

A queste e a molte altre testimonianze di una prassi di continenza sessuale indiscussa sin dalle origini e semplicemente riproposta dalla Chiesa riunita in Concili e Sinodi, il cardinale aggiunge la voce dei maggiori Padri dell'Occidente, da Ambrogio a Girolamo, da Agostino a Gregorio Magno. Se ne deduce senz'ombra di dubbio che «dalla prassi occidentale accertata dai testi consegue che la continenza per i tre ultimi gradi del ministero clericale (vescovi, sacerdoti, diaconi) si manifesta quale obbligo che risale agli inizi della Chiesa e che è stato accolto e trasmesso come patrimonio della Tradizione orale. Dopo il tempo delle persecuzioni, e a causa delle conversioni sempre più numerose che esigevano molte ordinazioni,avvengono anche trasgressioni dell'obbligo, contro le quali però i Concili e i romani pontefici procedono per mezzo di disposizioni scritte ».

Verso l'epoca costantiniana, dunque, lo jus diventa lex, ma quest'ultima non sancisce cose nuove, bensì mette per iscritto una Tradizione che - stando a tutti i documenti - è indiscussa e ininterrotta sin dai tempi del Nuovo Testamento. Mai, sin da quando ne appare menzione scritta, la continentia clericorum è presentata come un'innovazione. Ne conclude Stickler: «Chi volesse affermare il contrario, non solo peccherebbe contro un metodo storico cogente ma taccerebbe di bugiardi tutti i testi unanimi che abbiamo ascoltato, poiché di ignoranza della Tradizione non li si potrebbero accusare ».

Per finire con questa sintesi (assai ristretta per ragioni di spazio) della questione nella Chiesa occidentale e prima di passare, nel prossimo capitolo, alla Tradizione orientale: come dicevamo molti, che mettono in discussione l'obbligo del celibato, affermano che questo spunta soltanto ad Elvira e soltanto come disposizione di una Chiesa locale. Ma altri, addirittura, affermano che di continenza clericale,estesa chiaramente alla Chiesa universale, si può parlare soltanto dal 1139 con una disposizione del secondo Concilio Lateranense.

In realtà, le cose non stanno affatto così: quel Concilio stabilì che i matrimoni contratti da vescovi, sacerdoti, diaconi, come anche quelli di coloro che avevano emesso voti per la vita religiosa, non erano solamente illeciti ma anche invalidi. Il cardinale Stickler non ha così difficoltà a concludere: «Questa disposizione conciliare ha causato un fraintendimento ancor oggi molto diffuso: e, cioè, che il celibato ecclesiastico sarebbe stato introdotto soltanto allora, nel XII secolo. In realtà si è reso invalido ciò che già da sempre era illecito. Dunque, questa sanzione è piuttosto una nuova conferma di un obbligo esistente da molti secoli».

D'altro canto, la coscienza profonda della Chiesa è stata sempre consapevole della indispensabile connessione tra Ordini sacri e continenza, tanto da non recedere neanche davanti a crisi drammatiche. Nel XVI secolo, Roma resistette anche alle fortissime pressioni di imperatori e di re per recuperare molti preti passati alla Riforma, conservando loro le mogli. Una commissione romana studiò la questione e giunse alla conclusione del non possumus: tutta la Tradizione lo impediva, chi voleva essere reintegrato doveva rinunciare alla famiglia e praticare la continenza. Non solo: il Concilio di Trento rinnovò l'appello alla fedeltà al celibato, creò i seminari per favorirlo e rifiutò di considerarlo una legge puramente ecclesiastica, tacendo così intendere che la sua origine stava nel Nuovo Testamento stesso.

È significativo che i Valdesi, preoccupati soprattutto di restare fedeli alla Chiesa delle origini, abbiano stabilito il celibato peri loro pastori, i barba (gli zii, come li chiamavano), e vi abbiano rinunciato a malincuore e tra polemiche solo nel XVI secolo, per aderire alla Riforma.

mercoledì 3 marzo 2010

lamentabili (tesi n. 64)

«LAMENTABILI SANE EXITU»



SUPREMA SACRA INQUISIZIONE ROMANA ED UNIVERSALE



64.ma tesi condannata e commento di Mons. Francesco Heiner


Progressus scientiarum postulat ut reformentur conceptus doctrinae christianae de Deo, de Creatione, de Revelatione, de Persona Verbi Incarnati, de Redemptione.

Il progresso della scienza esige che si riformino i concetti della dottrina cristiana su Dio, su la Creazione, su la Rivelazione, su la Persona del Verbo e su la Redenzione.

Antitesi: Il progresso della scienza non esige punto che si riformino i concetti della dottrina cristiana su Dio, su la Creazione, su la Rivelazione, su la Persona del Verbo e su la Redenzione.


Nella Tesi che intraprendiamo a commentare si pretende che debba farsi un essenziale cambiamento delle vedute e dei concetti finora in uso delle dottrine principali del Cristianesimo, per metterle d'accordo con i postulati della scienza del moderno progresso. Occorrerebbe specialmente di fare un tal cambiamento della dottrina finora invalsa su Dio, su la Creazione, su la Rivelazione, su la Persona di Cristo e su la Redenzione. In altre parole la Chiesa Cattolica dovrebbe abbandonare i suoi principali dommi, ovverosia le verità fondamentali del Cristianesimo, e trasformarle in tali dottrine da soddisfare alle esigenze della scienza moderna: di modo che anche cotesti Modernisti siano in grado di accettarli. L'odierno Cristianesimo dovrebbe quindi spogliarsi del suo carattere soprannaturale e rientrare nel numero delle scienze naturali, specialmente filosofiche. Sottoposto per tal modo al controllo della umana intelligenza o della scientifica disquisizione dovrebbe conformarsi allo stato eventuale del progresso della coltura. Questo per vero è un pretender troppo dalla Cristianità e dalla Chiesa in nome del progresso scientifico! Del resto queste esigenze modernistiche non sono affatto nuove, benché espresse ora con maggior audacia o meglio arroganza che non si facesse per lo innanzi. Specialmente nel così detto periodo razionalista si tentò con tutti i. mezzi che erano alla portata della scienza e della burocrazia civile, di provocare un indebolimento o abbassamento del Cristianesimo, tendente, come si è detto nella Tesi precedente, a negare le verità fondamentali del medesimo.

Secondo ciò che vorrebbero gli attuali Modernisti, il progresso della fede cristiana, dovrebbe cancellare alcune antiquate dottrine del Cristianesimo, rimpiazzandole con altre più elevate e più conformi ai risultati delle scienze moderne; ovvero si dice che la Chiesa dovrebbe ormai abbandonare il complesso delle sue dottrine teologiche ed i suoi dommi, che non vanno più d'accordo col nostro pensiero moderno. O almeno, secondo si esprime la nostra Tesi, dovrebbe cercare di adattare il senso di certe dottrine, come quelle relative a Dio, alla Creazione e via dicendo, al pensiero ed al sentimento dell'uomo moderno.

Così potrebbe certamente parlare un Protestante. Secondo lui non v'è dubbio che la Religione dell'avvenire non sarà altro che la religione della personalità, una religione della morale spirituale, pervenuta al suo apici; religione dello spirito perfezionantesi e perfezionata, un ritorno dello spirito religioso su se medesimo. Ecco conme la discorre un laico in una novissima opera intitolata: L'avvenire del Protestantesimo (Berlino, 1906).

È chiaro che un vero Cattolico credente non ammetta per niente coteste dottrine modernistiche. Per lui la Chiesa è l'unica infallibile, depositaria, maestra ed interprete della fede insegnatale da Cristo. Tale istituzione fu fatta una volta per sempre dal fondatore stesso del Cristianesimo, che volle per tal modo manifestare agli uomini la sua sapienza ed il suo amore. Come da principio non tutti i fedeli poterono essere degli Apostoli, così molto meno con l'andar del tempo non tutti potevano essere maestri e con certezza infallibile giudicare e definire il vero e e giusto senso degli articoli di fede. A ciò era necessaria un perenne Magistero, che per divino incarico ed infallibile autorità proteggesse ed annunziasse il patrimonio delle divine verità, e mantenesse sul retto sentiero l'insaziabile tendenza dell'umana intelligenza per adattare le verità rivelate alla nuova condizione del pensiero e della scienza.

Anche dal punto di vista del ragionevole pensiero, osserva a questo riguardo anche 1'istesso Loisy «Non v'è luogo di meravigliarsi che la Chiesa si presenti come la maestra infallibile de' suoi fedeli, che senza di lei andrebbero smarriti. La sua attitudine è appunto così facile a comprendersi, come quella de' teologi protestanti, che vedendo l'impotenza dell'individuo a formulare per gli altri come per sè stesso un simbolo di fede, e non conoscendo altro principio religioso all'infuori dell'individualismo si rifuggono entro una sola idea, che essi vogliono credere unicamente evangelica ed accessibile di per sè a tutte le anime. Ma la loro ipotesi ha l'inconveniente di essere gratuita, e non praticabile, mentre l'ipotesi (!) cattolica è una istituzione reale, che continua l'Evangelo reale. Non è senza motivo che Lutero aveva conservato un domma, e che il Protestantesimo organizzato tende, malgrado esso, all'ortodossia » .

V'ha pertanto de' Cattolici, e tra essi purtroppo di coloro i quali in buona fede si cullano nella convinzione che possano difendere e proteggere il cattolicismo, e farlo comprendere e renderlo anche accettevole con lo spiegare o commentare le definizioni ed i simboli di fede, non secondo la spiegazione ammessa dalla Chiesa, ma secondo il loro proprio convincimento. Con ciò essi credono di rischiarare di nuova luce la dottrina Cattolica, con la quale la Chiesa dovrebbe cambiare o riformare il senso, che finora dette alle sue dottrine ed ai suoi dommi.

È chiaro per ogni cattolico ragionevole che la Chiesa non può annuire a tali dottrine, tutte proprie delle tendenze riformiste provenienti dal campo evoluzionista, senza negare se stessa e cooperare alla propria distruzione.

Il Concilio Vaticano condannò già formalmente cotesti errori allorquando emanò la seguente proposizione: "Se alcuno dirà possibile ad accadere, che ai dommi proposti dalla Chiesa si possa una volta, secondo il progresso della scienza, attribuire un senso diverso da quello che intese ed intende la Chiesa, sia anatema" (Concilio Vaticano I, Sess. IV, Can. 3).

Queste assurde tendenze dei così detti Riformisti o Modernisti furono altresì proscritte dai vescovi inglesi nella già citata loro lettera Pastorale del 29 dicembre 1900. Ecco come essi scrivevano: «Ben conosciamo che una causa di questo errore, comune tanto in Inghilterra che altrove, ha il suo fondamento nella falsa supposizione che la maniera più efficace per raccomandare ai noi Cattolici la nostra religione consiste nel diminuire il numero delle dottrine soprannaturali della fede, e far sperare e intravedere che i dommi da loro combattuti possano man mano comprendersi o conformarsi alle opinioni da essi professate. Ma non è punto permesso di falsificare la divina verità o di trattare il deposito della fede come un tesoro meramente umano, del quale ognuno possa disporre e trattare a proprio talento » .

Nello stesso modo si esprime Papa Leone XIII nella sua memorabile lettera al Card. Gibbons, Arcivescovo di Baltimora, in data 22 gennaio 1899, che incomincia con le parole: Testem benevolentiae nostrae. Così dice il Pontefice: « il fondamento delle nuove opinioni accennate si può ridurre a questo; che affine di trarre più facilmente alla dottrina cattolica coloro, che ne dissentono, debba la Chiesa acconciarsi alquanto più alla civiltà del secolo progredito, ed allentata l'antica severità. accondiscendere alle recenti teorie ed alle esigenze dei popoli. Molti pensano che ciò debba intendersi non solo nella disciplina del vivere, ma eziandio delle dottrine, che costituiscono il deposito della fede. Imperocchè pretendono essere opportuno per cattivarsi gli animi dei dissidenti, che alcuni capi di dottrina, quasi di minore rilievo, o si tralascino o si temperino in guisa da non ritenere lo stesso senso, che la Chiesa pur tenne costantemente. Or non è d'uopo di lungo discorso per dimostrare con quanto riprovevole consiglio ciò si pensi: se pure non si dimentichi la ragione o l'origine delle dottrine, che la Chiesa insegna. Al quale scopo così parla il Concilio Vaticano: "Nè la dottrina della fede, che Dio rivelò, fu quasi una invenzione di filosofi, proposta a perfezionare alla umana ragione, ma come un divino deposito fu data alla Sposa di Cristo da custodire fedelmente, e dichiarare infallibilmente qual senso dei sacri dommi si deve sempre ritenere, cui una volta dichiarò la Santa Madre Chiesa, né mai da tal senso si dovrà recedere sotto colore e nome di più elevata intelligenza”.

Né punto scevro di colpa deve riputarsi il silenzio con cui a ragion veduta si passano inosservati, e quasi si pongono in dimenticanza, alcuni principi della dottrina cattolica. Imperocchè di tutte le verità, quante ne abbraccia l'insegnamento cattolico, unosolo e lo stesso è l'autore c il Maestro, l'Unigenito Figlio che è nel seno del Padre (Gv. I, 18). E che tali verità siano acconce a tutte le età ed a tutte le genti chiaramente si raccoglie dalle parole, che l'istesso Cristo disse agli Apostoli: “Andate ed ammaestrate tutte le genti”. Non avvenga pertanto che veruna cosa si distrugga della dottrina ricevuta da Dio, o per qualunque fine si trascuri: imperocchè chi di tal guisa opera, anziché ricondurre alla Chiesa i dissidenti, cercherà di strappare dalla Chiesa i credenti. Ritornino, giacché nulla meglio desideriamo, ritornino pur tutti quanti vagano lungi dall'ovile di Cristo: ma non per altro sentiero se non per quello che lo stesso Cristo additò » .

Quindi è pernicioso ed erroneo lo asserire che la scienza ed il progresso dovrebbero indurre nuove spiegazioni ed idee nei simboli della fede e nelle loro definizioni, e per tal modo trasformarli. Così pure è condannata la tendenza di tutti quei Cattolici, che in questa maniera si sforzano d'indurre una conciliazione o avvicinamento delle due confessioni, cattolica e protestante, a detrimento però del domma cattolico.

Com'è noto tali tentativi o proposte si fanno sovente dai Protestanti in buona fede, ma in fatto ignoranti di conoscenza della natura della Chiesa Cattolica e del suo divino magistero. Essi interpretano il domma a modo loro e pensano di poter trasformare se non demolire il complesso delle dottrine cattoliche per mezzo della storia della scienza, con cui credono si debbano ridurre alla loro «antica semplicità», o al senso o concetto loro primitivo. Tali idee furono ultimamente espresse in un celebre opuscolo del noto protestante di Berlino sig. Harnack, all'occasione di un discorso da lui pronunziato nel genetliaco dell'Imperatore di Germania, ai 27 di gennaio 1907. Il sig. Harnack in tale fausta ricorrenza emetteva apponto un voto di un ravvicinamento futuro tra il Protestantismo ed il Cattolicismo, nel modo che noi abbiamo accennato di sopra, e conchiudeva .il suo discorso, con l'augurio che il Protestantismo e Cattolicismo abbiano con gli stessi diritti a fiorire nel giardino di Dio. Però nessuno, benché piccolo scolaro cattolico, ignora che la Chiesa non può senza annientarsi né transigere né cambiare alcun che, basato sul diritto divino e sulla soprannaturale rivelazione: e ciò perchè ad essa manca in proposito la possibilità di far concessioni alle nuove cognizioni e bisogni del tempo moderno. Essa potrebbe invece, supposta la circostanza di bravissime e sufficienti ragioni, riformare ed abrogare completamente le sue leggi disciplinari, basate sopra un diritto tutto suo proprio, senza che si cambi per ciò la sua natura, o si ponga in contradizione con se medesima: ma non mai e poi mai può sacrificare anche Cina delle sue dommatiche definizioni senza cessare di essere la Chiesa fondata da Gesù Cristo. La condizione dei Protestanti è tutt'altra. Melantone poteva sicuramente scrivere: «Gli articoli di fede devono cambiarsi ed accomodarsi alle circostanze». Un Cattolico non potrebbe mai dire altrettanto senza trovarsi in opposizione con la sua fede. Perciò quando il sig. Harnack scrive: «Lo studio della storia della Chiesa ha addimostrato che noi non comprendiamo più immediatamente i pensieri e le parole de' nostri antenati, e che non le usiamo più in quel senso in cui essi lo usarono» : ciò dal suo punto di vista può esser giusto. Però la Chiesa Cattolica comprende ed usa oggi i pensieri e le parole stesse de' nostri antenati nei loro dommi o professioni di fede nel senso medesimo ond'essi furono ereditati dagli Apostoli per il tramite de' Padri e de' Dottori della Chiesa, conservandoli inalterati fino a' giorni nostri. È pur certo che se si tratta di accidentalità o di formalità, ovvero di leggi disciplinari e simili, la Chiesa può ben cambiarle ed adattarle alle varie circostanze de' tempi. Però la sostanza ed il senso della dottrina è rimasta inalterata.

Quando Lutero cambiava il senso delle antiche dottrine, dando loro un significato essenzialmente differente, come fece per esempio con i concetti Chiesa, Fede, Grazia, Sacramento e simili, con ciò egli apriva un abisso che separava la sua religione, come nuova, dalla Cattolica. Senza ritornare agli antichi concetti tradizionali, un Protestante non sarà mai in grado di ben comprendere la dottrina cattolica. Quindi è impossibile parlare di un interiore «riavvicinamento» delle due confessioni. Harnack, come del resto il Protestantesimo, si pone con le sue opinioni in un punto di vista diametralmente opposto al Cattolicismo. Il Cattolicismo prende la sua religione come gli vien data oggettivamente; mentre il Protestante la considera come alcun che di soggettivo sottoposto al suo privato giudizio. L'infallibile magistero della Chiesa propone al Cattolico ciò che spetta al deposito della Fede da Cristo fondata; invece il Protestantesimo, che rigetta come tale il magistero della Chiesa, esamina da sè ed accetta soltanto come dottrina ciò che ha trovato per propria disquisizione, ed è consentaneo al suo soggettivo giudizio e intelligenza. A questo riguardo sono molto singolari le istruzioni che Lutero dà ai suoi seguaci. «Dobbiamo far bene attenzione a questo riguardo, che il Signore Cristo dà facoltà a tutti i Cristiani di esseri giudici su tutte le dottrine; e dà il diritto di giudicare ciò che è giusto. Noi dobbiamo essere giudici, ed abbiano, la facoltà di giudicare tutto, sopra tutto che ci si presenti, perchè non possiamo fidarci di alcun uomo... Dunque dobbiamo restare liberi giudici per avere la facoltà di giudicare, sentenziare e condannare tutto ciò che decretano il Papa ed il Concilio; non vi è giudice sopra la terra in materie spirituali, su la dottrina cristiana, se no il giudice che l'uomo porta nel suo cuore, sia egli uomo o donna, giovane o vecchio, bambino o bambina, dotto o ignorante: nessun dotto deve toglierti il tuo giudizio giacchè tu lo hai a lui identico».(Postilla, 1523, IX Dom. dopo le Pentecoste) .

Lutero non dlice, e non poteva dirlo, in quale passo del Vangelo, Cristo, «dà il potere a tutti i Cristiani di essere giudici su tutte le dottrine»; giacché la divina Scrittura prova appunto il contrario; ma egli doveva mettersi su questo punto dli vista: poiché altrimenti avrebbe distrutto il suo proprio procedimento soggettivo col rigettare le antiche dottrine cristiane.

In conseguenza di questi principi non è da meravigliare se la confessione protestante con tutti i suoi seguaci, fintanto che non se ne separino, riconosce a ciascuno di loro lo stesso comune diritto, senza badare se siano credenti o no, e di accettare o no il simbolo Apostolico, quale norma di fede. Essa non ha affatto diritto di domandare ai suoi ministri se credono internamente ciò che essi esteriormente predicano, a meno che non voglia rinunziare al suo principio del libero esame: giacché, secondo Harnack, questo appunto è il buon diritto evangelico che essi professano; di poter credere soggettivamente tutt'altro di quello che oggettivamente predicano dalla cattedra alla loro comunità. Intanto egli conosce troppo bene la storia, per essere realmente convinto che si possa fare una esteriore unione, o per meglio dire fusione delle due confessioni, col congiungere per quanto è possibile i sistemi dommatici delle due confessioni e le loro costituzioni in una compatibile unificazione. «Tali tentativi di compromesso, così confessa l'istesso Harnack, hanno sempre più discreditata tutta l'intrapresa e suscitato incancellabili sospetti, che essi non fossero abbastanza sinceri e seri da romperla con la loro fede» . Ma con tutto ciò, domanda l'istesso Harnack, non ha la religione piantate le sue radici nel sentimento, e non desta quasi alcun che d' interiore? Per riunire alcuni che la pensano alla stessa maniera è forse necessario che il sentimento con l'internarsi abbia anche unità e conformità esteriore? Sonoforse le Chiese soltanto delle scuole dottrinali, la cui forza esclusivamente esiste nella solidità dei loro dormi dottrinali? Certamente così risponderà il Cattolico. La Chiesa difatti è una scuola dottrinale, ed ansi una scuola divina ed infallibile, e la sua interiore possanza non consiste soltanto nella sua esterna costituzione, ma specialmente nella unita fermezza ed invariabilità della sua dottrina e dommi. In questo appunto consiste la sua unità morale ed interna, che viceversa produce la comunione degli spiriti e delle anime in seno della Chiesa medesima. Questa comunanza spirituale come la Chiesa Cattolica la intende, non è punto «inflessibile ed esterna», e non la si subisce dai suoi membri quasi fosse un legame; ma è altamente interiore, che ha le sue profonde radici nella completa unità della fede. Il Cattolico riconosce questa unità con piena convinzione e liberamente. In ciò appunto consiste la sua interiorità e schietta cristianità. D'altronde che gioverebbe ad un Cattolico, appartenente soltanto alla Chiesa col corpo, quando non fosse ad essa fermamente legato anche mediante il vincolo della fede?

Conseguentemente, il vero Cattolico non può mettersi d'accordo con coloro, che stanno in aperta contradizione con la natura della sua Chiesa; val quanto dire con la dottrina e fede della medesima. In ciò consiste la differenza essenziale che passa tra il Cattolicismo e il Protestantismo e che rende addirittura impossibile ogni interiore avvicinamento delle due confessioni, con tutta la tolleranza che si possa avere nelle relazioni esteriori. Lo «stato confessionale» del Cattolico è allo stesso tempo il suo «stato di Cristiano»; e nell'approfondirsi in esso dove l'Harnack crede di intravedere il ponte d'unione tra le due confessioni, il Cattolico invece trova il motivo per viemnnaggiormente convincersi della sua confessione, nella quale conosce la sola giusta forma del Cristianesimo. Però il vero Cattolico si addentra nello spirito della sua credenza, e la professa praticamente, e più solido addiviene per lui il vincolo, che alla sua fede cattolica lo unisce. È chiaro per lui che la Chiesa non è soltanto una organizzazione esterna, ma la forma concreta del vero Cristianesimo. Essa è per l'umanità la depositarla e la guardiana delle eterne verità, e la mediatrice dell'opera di redenzione del Salvatore, in cui soltanto il credente può trovare sicuro criterio per le sue azioni morali e la tranquillità dell'anima. È impossibile per un credente Cattolico «di ammettere nella sua religione, soltanto la religione»; essa, sebbene sia per lui qualche cosa di oggettivo, è pure una religione, che egli abbraccia con tutta la convinzione, con la sua ragione, volontà, cuore e sentimento. Egli non è che un tralcio della stessa vite, da cui ricava la sua forza spirituale e la sua vita soprannaturale,

Niente affatto. La Chiesa Cattolica, l'inflessibile maestra di verità, costituita da Cristo, non permette per piacere alla scienza moderna una revisione de' suoi dommi, o riforma de' concetti della dottrina cristiana, riguardanti Dio, la Creazione, la Rivelazione, la Persona del Salvatore e la Redenzione. Essa deve opporsi a ciò per principio, poiché tacendo altrimenti verrebbe a rinnegare tutta la sua natura. La Chiesa non può cambiarsi né con l'accrescere, né col diminuire, né col riformare i suoi concetti dottrinali. Ciò che spetta al «Deposito della fede», di cui l'Apostolo parla (2Tm. I, 14), la Chiesa, in forza del suo divino magistero, deve conservare, sorvegliare e proteggere, contro qualunque attacco che le si faccia sotto la maschera del progresso e della scienza, memore dell'ammonizione dell'Apostolo medesimo che dice «Ma tu attienti a quello che hai. apparato, ed a quello che ti è stato affidato; sapendo da chi tu abbi imparato» (2Tim. III, 14).

Apparisce ben giusta dal fin qui detto la condanna della Tesi anzidetta: e l'Enciclica «Pascendi » proscrive anch'essa questa pretesa dei Modernisti con argomenti che chiaramente dimostrano la sua assurdità.

martedì 2 marzo 2010

Eppur (qualcosa) si muove: Lettera pastorale dell’arcivescovo di Colombo

Riportiamo qui di seguito il testo di una lettera pastorale inviata da S. E. Mons. Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo (Sri Lanka), a tutti i fedeli della sua diocesi il 7 ottobre 2009, festa della Madonna del Rosario.

Cari Fratelli e Sorelle,

ultimamente alcune persone e movimenti di rinnovamento cattolico hanno svolto molteplici esercizi paraliturgici non previsti dal calendario parrocchiale ordinario.
Apprezzando le numerose conversioni, il valore della testimonianza, l’entusiasmo rinnovato per la preghiera, la partecipazione dinamica e la sete della Parola di Dio, in quanto vescovo diocesano e amministratore generale dei misteri di Dio nella Chiesa locale a me affidata, sono il moderatore, il promotore e il custode della vita liturgica dell’arcidiocesi di Colombo. A questo titolo vi invito a soffermarvi sugli aspetti liturgici ed ecclesiologici legati a questa nuova situazione e vi prego insistentemente di rispettare le direttive enunciate nella presente circolare a effetto immediato.

L’Eucaristia è la celebrazione del Mistero pasquale per eccellenza dato alla Chiesa da Gesù Cristo stesso. Gesù Cristo è il principio di ogni liturgia nella Chiesa e per questa ragione ogni liturgia è essenzialmente di origine divina. Essa è l’esercizio della Sua funzione sacerdotale e di conseguenza non è certamente una semplice impresa umana o una pia innovazione. In realtà è inesatto definirla una semplice celebrazione della vita. È molto più di questo. È la fonte e l’apice da cui tutte le grazie divine riempiono la Chiesa.

Questo sacro mistero è stato affidato agli Apostoli dal Signore e la Chiesa ne ha accuratamente preservato la celebrazione nel corso dei secoli, dando vita alla tradizione sacra e a una teologia che non cedono all’interpretazione individuale o privata. Nessun sacerdote, di conseguenza, diocesano o religioso che sia, proveniente da un’altra arcidiocesi o addirittura dall’estero, è autorizzato a modificare, aggiungere o sopprimere nulla nel rito sacro della Messa. Non si tratta di una novità, ma di una decisione presa nel 1963 dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium (22.3), la costituzione dogmatica sulla santa liturgia del Concilio Vaticano II, in seguito reiterata a più riprese in documenti quali Sacramentum Caritatis di Sua Santità Benedetto XVI ed Ecclesia de Eucharistia di Giovanni Paolo II, di venerata memoria.

A tale proposito, bisognerebbe menzionare esplicitamente alcuni elementi:

1. I sacerdoti non sono autorizzati a modificare o a improvvisare la Preghiera eucaristica o altre preghiere immutabili della Messa – anche se si tratta di dare precisazioni su un elemento già presente – cantando ritornelli diversi o spiegazioni differenti. Dobbiamo capire che la liturgia della Chiesa è strettamente legata alla sua fede e alla sua tradizione: “Lex orandi, lex credendi”, la regola della preghiera è la regola della fede! La liturgia ci è stata data solo dal Signore, nessun altro, quindi, ha il diritto di cambiarla.

2. Le manifestazioni del tipo “Praise and Worship” (letteralmente “lode e adorazione”, ma qui si tratta di una corrente musicale di stile gospel, NdT) non sono permesse nel rito della Messa. La musica disordinata e assordante, i battiti di mano, i lunghi interventi e i gesti che perturbano la sobrietà della celebrazione non sono autorizzati. È molto importante che comprendiamo la sensibilità culturale religiosa del popolo dello Sri Lanka. La maggior parte dei nostri compatrioti sono buddisti e per questo motivo sono abituati a un culto profondamente sobrio; da parte loro, né i musulmani né gli indù creano agitazione nella loro preghiera. Nel nostro Paese, inoltre, esiste una forte opposizione alle sette fondamentaliste cristiane e noi, in quanto cattolici, ci battiamo per far comprendere che i cattolici sono diversi da queste sette. Alcuni di questi cosiddetti esercizi di lode e di adorazione assomigliano più a degli esercizi religiosi fondamentalisti che a un culto cattolico romano. Che ci sia permesso di rispettare la nostra diversità culturale e la nostra sensibilità.

3. La Parola di Dio prescritta non può essere cambiata a caso e il salmo responsoriale deve essere cantato e non sostituito da cantici di meditazione. La dimensione contemplativa della Parola di Dio è di importanza capitale. In alcuni servizi paraliturgici la gente oggi ha la tendenza a diventare estremamente verbosa e chiacchierona. Dio parla e noi dobbiamo ascoltarLo; per ascoltare bene, il silenzio e la meditazione sono più necessari dell’esuberanza cacofonica.

4. I sacerdoti devono predicare la Parola di Dio sui misteri liturgici celebrati. È severamente vietato ai laici di predicare durante le celebrazioni liturgiche.

5. La Santissima Eucaristia deve essere amministrata con la massima cura e il massimo rispetto, ed esclusivamente da coloro che sono autorizzati a farlo. Tutti i ministri, ordinari e straordinari, devono essere rivestiti degli ornamenti liturgici appropriati. Raccomando a tutti i fedeli, compresi i religiosi, di ricevere la comunione con rispetto, in ginocchio e sulla lingua. La pratica dell’auto-comunione è vietata e domanderei umilmente a ogni sacerdote che la permette di sospendere immediatamente questa pratica.

6. Tutti i sacerdoti devono seguire il rito della Messa così come è stato stipulato, in modo da non dar luogo di paragonare o opporre le messe celebrate da alcuni sacerdoti alle altre messe dette dal resto dei sacerdoti.

7. Le benedizioni liturgiche sono riservate unicamente ai ministri della liturgia: i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Tutti possono pregare per l’altro. Si raccomanda insistentemente, però, di non utilizzare gesti che possano provocare illusione, confusione o una sbagliata interpretazione.

CR n.1131 del 27/2/2010

RADICATI NELLA FEDE




RADICATI NELLA FEDE
foglio di collegamento delle chiese di Vocogno e Caddo
dove si celebra la messa tradizionale


2008
SET  OTT  NOV  DIC

2009
GEN  FEB  MAR  APR  MAG  GIU
LUG  AGO  SET  OTT  NOV  DIC

2010
GEN  FEB  MAR  APR  MAG  GIU
LUG  AGO  SET  OTT  NOV  DIC

2011
GEN  FEB  MAR  APR  MAG  GIU
LUG  AGO  SET  OTT  NOV  DIC



ripartire da quel venerdì


dalla Via Crucis al Colosseo di Roma del Venerdì Santo 2005

Proprio in quest’ora della storia viviamo nell’oscurità di Dio.
Ma possiamo pensare, nella storia più recente, anche a come la cristianità, stancatasi della fede, abbia abbandonato il Signore.
Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella Sua stessa Chiesa?
A quante volte si abusa del Santo Sacramento della Sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso Egli entra!
Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di Lui!
Quante volte la Sua Parola viene distorta e abusata!
Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote!
Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui!
Quanta superbia, quanta autosufficienza!
Quanto poco rispettiamo il Sacramento della riconciliazione, nel quale Egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute!
Tutto ciò è presente nella Sua Passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del Suo Corpo e del Suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che Gli trafigge il Cuore.
Non ci rimane altro che rivolgerGli, dal più profondo dell’anima, il grido: Kyrie, eleison – Signore, salvaci (cfr. Mt 8, 25). Signore, spesso la Tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti.
E anche nel Tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano.
La veste e il volto così sporchi della Tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirTi ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti.
Abbi pietà della Tua Chiesa: anche all’interno di essa, Adamo cade sempre di nuovo.
Con la nostra caduta Ti trasciniamo a terra, e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarTi da quella caduta; spera che Tu, essendo stato trascinato nella caduta della Tua Chiesa, rimarrai per terra sconfitto. Tu, però, Ti rialzerai. Ti sei rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi. Salva e santifica la Tua Chiesa. Salva e santifica tutti noi.
Quante volte abbiamo, anche noi, preferito il successo alla verità, la nostra reputazione alla giustizia. Dona forza, nella nostra vita, alla sottile voce della coscienza, alla Tua voce. Guardami come hai guardato Pietro dopo il rinnegamento.
I discepoli sono fuggiti, Ella non fugge. Ella sta lì, con il coraggio della Madre, con la fedeltà della Madre, con la bontà della Madre, e con la Sua fede, che resiste nell’oscurità: «E beata Colei che ha creduto» (Lc 1,45). «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
 
                                                                                                        Cardinale Joseph Ratzinger


No, non è Attila a premere alle porte di Roma


Dal Discorso agli uomini di Azione Cattolica di Sua Santità il Papa Pio XII (12 ottobre 1952):


"Ma tutti sanno che, mentre Attila, re degli Unni, scendeva vittorioso in Italia, devastando la Venezia e la Liguria, e si apprestava a marciare su Roma, Leone Papa rincorò Imperatore, Senato e popolo, tutti in preda al terrore; poi partì inerme e andò incontro all'invasore sul Mincio. E Attila lo ricevette degnamente e tanto si rallegrò della presenza del summus sacerdos, che rinunziò ad ogni azione di guerra e si ritirò oltre il Danubio. Questo memorabile fatto avvenne nell'autunno dell'anno 452, onde Noi siamo lieti di commemorarne qui solennemente con voi la decimoquinta ricorrenza centenaria. Diletti figli, Uomini di Azione Cattolica! Quando abbiamo appreso che il nuovo tempio doveva essere dedicato a S. Leone I, salvatore di Roma e dell'Italia dall'impeto dei barbari, Ci è venuto il pensiero che forse voi volevate riferirvi alle condizioni odierne. Oggi non solo l'Urbe e l'Italia, ma il mondo intero è minacciato.

Oh, non chiedeteCi qual è il « nemico », nè quali vesti indossi. Esso si trova dappertutto e in mezzo a tutti; sa essere violento e subdolo. In questi ultimi secoli ha tentato di operare la disgregazione intellettuale, morale, sociale dell'unità nell'organismo misterioso di Cristo. Ha voluto la natura senza la grazia; la ragione senza la fede; la libertà senza l'autorità; talvolta l'autorità senza la libertà. È un « nemico » divenuto sempre più concreto, con una spregiudicatezza che lascia ancora attoniti: Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio : Dio è morto; anzi : Dio non è mai stato. Ed ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo sopra fondamenti che Noi non esitiamo ad additare come principali responsabili della minaccia che incombe sulla umanità: un'economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio. Il « nemico » si è adoperato e si adopera perchè Cristo sia un estraneo nelle Università, nella scuola, nella famiglia, nell'amministrazione della giustizia, nell'attività legislativa, nel consesso delle nazioni, là ove si determina la pace o la guerra.

Esso sta corrompendo il mondo con una stampa e con spettacoli, che uccidono il pudore nei giovani e nelle fanciulle e distruggono l'amore fra gli sposi; inculca un nazionalismo che conduce alla guerra.

Voi vedete, diletti figli, che non è Attila a premere alle porte di Roma; voi comprendete che sarebbe vano, oggi, chiedere al Papa di muoversi e andargli incontro per fermarlo e impedirgli di seminare la rovina e la morte. Il Papa deve, al suo posto, incessantemente vigilare e pregare e prodigarsi, affinché il lupo non finisca col penetrare nell'ovile per rapire e disperdere il gregge (cfr. Io. 10, 12); anche coloro, che col Papa dividono la responsabilità del governo della Chiesa, fanno tutto il possibile per rispondere all'attesa di milioni di uomini, i quali — come esponemmo nello scorso febbraio — invocano un cambiamento di rotta e guardano alla Chiesa come a valida ed unica timoniera. Ma questo oggi non basta: tutti i fedeli di buona volontà debbono scuotersi e sentire la loro parte di responsabilità nell'esito di questa impresa di salvezza.

 da Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XIV, Quattordicesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1952 - 1° marzo 1953, pp. 357 – 362 Tipografia Poliglotta Vaticana

San Vincenzo di Lerino: Regola per distinguere la Verità Cattolica dall’errore

Nella Chiesa Cattolica bisogna avere la più grande cura nel ritenere ciò che è stato creduto dappertutto, sempre e da tutti. Questo è veramente e propriamente cattolico, secondo l'idea di universalità racchiusa nell'etimologia stessa della parola. Ma questo avverrà se noi seguiremo l'universalità, l'antichità, il consenso generale. Seguiremo l'universalità se confesseremo come vera e unica fede quella che la Chiesa intera professa per tutto il mondo; l'antichità, se non ci scostiamo per nulla dai sentimenti che notoriamente proclamarono i nostri santi predecessori e padri; il consenso generale, infine, se, in questa stessa antichità, noi abbracciamo le definizioni e le dottrine di tutti, o quasi, i Vescovi e i Maestri.

- Come, dunque, dovrà comportarsi un cristiano cattolico se qualche piccola frazione, della Chiesa si stacca dalla comunione con la fede universale?
Dovrà senz'altro anteporre a un membro marcio e pestifero la sanità del corpo intero.
- Se, però, si tratta di una novità eretica che non è limitata a un piccolo gruppo, ma tenta di contagiare e contaminare la Chiesa intera?
In tal caso, il cristiano dovrà darsi da fare per aderire all'antichità, la quale non può evidentemente essere alterata da nessuna nuova menzogna.
- E se nella stessa antichità si scopre che un errore è stato condiviso da più persone o addirittura da una città o da una provincia intera?
In questo caso avrà la massima cura di preferire alla temerità e all'ignoranza di quelli, i decreti, se ve ne sono, di un antico concilio universale.
- E se sorge una nuova opinione, per la quale nulla si trovi di già definito?
Allora egli ricercherà e confronterà le opinioni dei nostri maggiori, di quelli soltanto però che, pur appartenendo a tempi e luoghi diversi, rimasero sempre nella comunione e nella fede dell'unica Chiesa Cattolica e ne divennero maestri approvati. Tutto ciò che troverà che non da uno o due soltanto, ma da tutti insieme, in pieno accordo, è stato ritenuto, scritto, insegnato apertamente, frequentemente e costantemente, sappia che anch'egli lo può credere senza alcuna esitazione.

lunedì 1 marzo 2010

Carambole e falsificazioni modernistiche: dove mettiamo l'altare?


Quando si abbandona la Tradizione si va a finire in un vicolo cieco: eccone un esempio, datato ma significativo. Louis Bouyer già nel 1965 in edizione americana e nel 1967 in edizione francese rivelava "le innocenti astuzie" che ingannarono e ingannano molti ancor'oggi. In Italia fu pubblicato nel 1994 dalle Edizioni di Bose con la presentazione in ultima di copertina di Enzo Bianchi il quale scrisse tra l'altro: "Visti i pessimi risultati dell'architettura delle chiese in Italia nel postconcilio, ci sembra necessario pubblicare questo libro di Louis Bouyer apparso alla fine del Concilio. Adesso è venuta l'ora di parlare di molte cose riguardanti lo spazio della liturgia senza temere di rivedere decisioni che oggi possono risultare avventate o correggibili". Oggi è giunta l'ora di riconoscere con onestà intellettuale che problema non è solo estetico ma di fede. Leggiamo dunque cosa scriveva Bouyer nel suo saggio.

Ed eccoci al problema della disposizione dell'altare.
L'istruzione romana emanata per una prima applicazione della Costituzione conciliare sulla liturgia mette l'accento sul fatto che l'intera chiesa deve essere incentrata sull'altare, e che nelle chiese nuove o restaurate quest'ultimo dovrebbe essere a una certa distanza dal muro perché sia possibile la celebrazione versus ad populum . Queste disposizioni che hanno fatto seguito alla Costituzione, così come lo spettacolo (sic!) televisivo delle prime messe concelebrate sotto la presidenza del papa a San Pietro durante il concilio, sono state sufficienti per dare a molti l'impressione che la gran parte (per non dire il tutto) del rinnovamento liturgico di penda ormai dalla messa "di fronte al popolo". Quanto da noi già detto dovrebbe bastare a dissipare tale illusione.

Certo, questa celebrazione è - come del resto è sempre stata - perfettamente regolare in tutte le chiese che fanno uso della liturgia romana, dal momento che si basa sulla lunga pratica delle basiliche romane. Il fatto che l'altare sia una mensa, come tale non debba mai essere posto completamente contro il muro, non apporta nulla di nuovo alle regole liturgiche, tanto dell'occidente quanto dell'oriente. Ciò risulta assolutamente chiaro, non solo nel Caeremoniale episcoporum, ma ugualmente nel Pontificale romanum, ben più antico, dal modo stesso in cui vi è descritta la consacrazione dell'altare maggiore di una chiesa. E, come dice l’Istruzione quando si rispetta questa antica prescrizione, come peraltro avrebbe sempre dovuto essere, la celebrazione versus ad populum è possibile, se la si desidera. Ma l'Istruzione non dice da nessuna parte né sottintende in alcuna maniera che questa sia per forza sempre e dovunque la miglior forma passibile di celebrazione.

È vero, alcuni pionieri del movimento liturgico, una cinquantina danni fa, soprattutto Lambert Beauduin, monaco di Mont-César e fondatore di Chevetogne, incoraggiarono questa pratica, che figurava pur sempre nelle rubriche moderne, anche se non veniva utilizzata al di fuori di qualche chiesa a Roma. Ma c'è da chiedersi: perché l'hanno fatto?

Essendo stato uno dei primi a incoraggiarla in Francia, credo di vederne abbastanza bene le ragioni: sono sostanzialmente tre. La prima e la più importante fu che a quell'epoca, soprattutto per una messa detta o cantata da un solo presbitero, senza diacono né suddiacono, le rubriche rendevano obbligatoria la lettura dei testi biblici all'altare, anzi da un libro posto sull'altare stesso. Per cercare dunque di ridare a questa parte della messa tutto il suo senso, era necessario disporre l'altare in modo tale che le letture ridiventassero una realtà. È chiaro che esse non hanno senso, che sono una semplice formalità senza vita (se lo dice lui!), fintanto che sono fatte da un lettore che volge le spalle all'uditorio. La celebrazione "di fronte al popolo" era dunque una soluzione facile, e la sola possibile, a quell'epoca. Tuttavia, ora che l'Istruzione ha ristabilito l’uso di leggere la Bibbia in lingua volgare e di leggerla a un leggio o a un ambone, quella giustificazione fondamentale della celebrazione "di fronte al popolo" scompare.

Il secondo motivo consisteva nella necessità di ristabilire l'aspetto fondamentale della messa: si tratta di un pasto, oltre che di un sacrificio. Ora, poiché in questa nostra epoca siamo abituati a consumare i pasti a casa attorno alla tavola della famiglia, poteva essere pedagogico utilizzare così anche l'altare, allo scopo di risvegliare la comprensione dell'eucaristia in quanto pasto comunitario del popolo di Dio.

Tutto questo, però, poteva e può realizzarsi unicamente se il popolo è realmente raccolto attorno alla mensa, e non semplicemente in piedi davanti ad essa, mentre il celebrante è tutto solo dall'altra parte. Altrimenti, è ovvio, niente risulta più estraneo a un pasto! (ah, l’eterogenesi dei fini!). Ecco perché, sin dall'inizio, i pionieri del movimento liturgico hanno detto chiaramente che la celebrazione versus ad populum non era un toccasana (incontentabili), ma poteva avere effetti positivi solo se veniva attuata in moda tale da rendere possibile l'adunarsi di tutti attorno all'altare. Ciò vale tuttora, e viene a ridirci che questo tipo di celebrazione può essere molto adatto soprattutto nel caso di una piccola comunità, e in particolare quando si tratta di gruppi di fedeli a cui si deve insegnare il carattere comunitario della messa.

Ma Lambert Beauduin e i suoi primi discepoli erano troppo versati nella tradizione per mettersi a difendere questa prassi con il pretesto chimerico che fosse la prassi primitiva. Sapevano perfettamente che non era così(finalmente un po’ di verità). La raccomandavano semplicemente perché forniva mezzi corrispondenti a una situazione del tutto nuova e a certi adattamenti pedagogici, ed era nel contempo in perfetta conformità con le rubriche dell'epoca.

Si deve anche confessare francamente che Lambert Beauduin e i suoi discepoli, proprio perché volevano che la lettura della Bibbia fosse restituita al suo posto normale nella messa e mostravano che la messa è un pasto comunitario a cui tutti devono partecipare, furono continuamente accusati di protestantesimo mascherato (mica tanto mascherato). Ecco perché finirono per mettere l'accento sul fatto che, celebrando la messa in tal modo, lungi dal propendere verso il protestantesimo, non facevano che ritornare all'antico uso romano, ed erano dunque, se così si può dire, più romani degli stessi romani (e più falsi di tutti).

Non c'è bisogno di dire, fortunatamente, che quell'innocente (!!!) astuzia ha perso ora la sua ragion d'essere (se mai l’ha avuta). Tutti hanno finito per riconoscere, per lo meno in linea di principio, che bisogna ridare alla prima parte della messa il suo carattere biblico, farne un vero servizio della Parola, e fare del sacrificio eucaristico un vero pasto comunitario a cui tutti devono (?!!!!) partecipare. Per far questo, non abbiamo più bisogno di sentirci coperti artificialmente dall'uso locale della Chiesa di Roma. E stato proclamato nel modo più solenne da un concilio ecumenico che quella era la tradizione ufficiale dell'intera Chiesa cattolica (dove di grazia?).

È chiaro, dunque, che il problema se celebrare davanti o dietro l'altare non deve essere considerato una questione di principio, ma solamente una questione di convenienza. Tutto dipende dalle circostanze: si tratta di sapere se sia meglio usare l'altare, nel singolo caso concreto, in un modo piuttosto che nell'altro. Due dei principali motivi che nella generazione precedente potevano giustificare l'insistenza su una prassi caduta in disuso sono ora completamente scomparsi. Resta solo l'aspetto pedagogico, che peraltro non è più così forte come lo era alcuni anni fa, poiché il principio che la messa è un pasto comunitario è accettato ovunque (non proprio ovunque, dove c’è un cattolico no). Questo motivo dovrà perciò intervenire solamente quando le circostanze della celebrazione saranno tali da giocare in favore dell'altare rivolto al popolo, e nella misura in cui una tale pedagogia è ancora necessaria. Ma non è certo la regola generale.

Ogniqualvolta l'altare rivolto al popolo significa semplicemente un altare con il prete da solo (o eventualmente con i suoi ministri) da un lato e il popolo dall'altro, il risultato sarà diametralmente opposto, e i fedeli lo avvertono sempre di più. Anziché unire la comunità incentrata sull'altare, si aumenta, in questo caso, la separazione e la contrapposizione tra clero e laici: l'altare diventa una barriera tra due caste cristiane (siamo rimasti alle caste o agli slogan?). Anziché creare una più grande partecipazione di tutti, non si fa che riproporre l'eredità più nefasta del medioevo: la falsa idea che la liturgia sia riservata al clero, come a un corpo di specialisti privilegiati, compiuta a beneficio degli altri, e non un'azione fatta insieme con il popolo.

Nella maggior parte dei casi, e in linea di massima nelle chiese parrocchiali, proprio dal punto di vista del ristabilimento di una vera celebrazione comunitaria, bisogna dunque dire francamente che porre il presbitero dalla medesima parte dei fedeli per la preghiera eucaristica, in quanto

è capo visibile dell'intero gruppo, resta la soluzione migliore, semplicemente necessario allora che ci sia meno separazione possibile tra il presbitero, i ministri e l'insieme dei presenti. Ciò significa che l'altare non deve mai essere sperduto in un presbiterio inaccessibile, ma essere sempre a poca distanza dalle prime file di fedeli. È bene anzi che per 1'offerta e la comunione costoro possano avvicinarsi all'altare il più possibile. Ci si può arrivare molto facilmente: basta disporre i fedeli in modo tale che, al momento della preghiera eucaristica, possano raccogliersi a semicerchio dietro il celebrante.

Non si dovrebbe dimenticare, inoltre, che il disporsi a pieno cerchio attorno all'altare, anche se in un primo momento può aiutare i cristiani di oggi a comprendere il carattere comunitario dell'eucaristia - e questo è possibile solo quando c'è appena una fila o pochissime file di partecipanti -, non è mai l'ideale (??). Ancora una volta, l'ideale di una chiesa non è quello di una famiglia umana chiusa su se stessa. Ci sarebbe da chiedersi, peraltro, se questo possa mai essere l'ideale di una famiglia veramente sana! La famiglia cristiana deve sempre essere aperta: aperta sulla Chiesa invisibile formata da tutti gli altri cristiani, in questo mondo e nell'altro, aperta sul mondo e, al di là del mondo, sul regno eterno.

Louis Bouyer, “Architettura e liturgia”, Edizione Qiqajon, 1994, pp. 66-70



domenica 28 febbraio 2010

serba ordinem et ordo serbabit te


"L'ordine consiste nella superiorità gerarchica della Fede sulla ragione, della Grazia sul libero arbitrio, della Provvidenza divina sulla libertà umana, della Chiesa sullo Stato; e, per dirla tutta in una sola volta, nella supremazia di Dio sull'uomo. Solamente nella restaurazione di codesti eterni principi nell'ambito religioso e nell'ordine politico e sociale dipende la salvezza delle società umane. Questi principi non possono essere riattivati se non da chi li conosce, e nessuno li conosce se non la Chiesa cattolica" (Juan Donoso Cortès).

Per l'Anno Sacerdotale (2)

Abate Emanuel Andrè o.s.b.

Sacerdozio e Ministero

LIBRO SECONDO
Come il ministero può essere snaturato

CAPITOLO I
IL MINISTERO PUÒ ESSERE SNATURATO

Il ministero ecclesiastico è una creazione di Nostro Signore; ma perché è affidato agli uomini può avvenire che a causa della loro natura soggetta a tante debolezze, non sia conservato nella completa integrità della sua natura.

Nostro Signore è Dio e insieme uomo ed ecco che ci sono stati degli uomini che hanno disgiunto in lui la divinità e l'umanità per poi negare l'una o l'altra e, conseguentemente distruggere questo grande mistero per quanto era .in loro potere, e inaridire il fiume di grazie di cui è la sorgente: San Giovanni dice che questa è un'opera dell'Anticristo: «Ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio» (1 Gv. 4,3). Poiché gli uomini cercano di scindere il mistero dell'Incarnazione e annientarne le conseguenze, non c'è da stupire che la stessa cosa avvenga per il ministero che è una conseguenza e un'imitazione del mistero della divina Incarnazione.

CAPITOLO II
COME IL MINISTERO PUÒ ESSERE SNATURATO

Dal momento che il ministero consiste essenzialmente in tre cose: la preghiera, la predicazione e i sacramenti, evidentemente la sua natura sarebbe mutata, alterata, annientata se accadesse che una di queste tre cose fosse soppressa o alterata. Chi non vede, infatti, che l'opera della salvezza degli uomini sarebbe necessariamente arrestata se cessasse la preghiera, se la predicazione divenisse muta e se i sacramenti non fossero più amministrati? Lo stesso accadrebbe se non solamente le tre cose sparissero insieme, ma anche se solo una di esse venisse a mancare. Andiamo più lontano e affermiamo che, pur sussistendo le tre parti essenziali del ministero, il ministero sarebbe infruttuoso se queste non avessero il posto voluto da Dio, cioè se l'ordine stabilito dal Signore non fosse esattamente conservati e osservato. A chi si daranno i sacramenti e a quale scopo si daranno se non precede la predicazione onde far nascere la fede nelle anime che è il principio delle opere necessarie alla salvezza? E la predicazione avrebbe la potenza che Dio le vuol dare a questo scopo se non fosse preceduta dalla preghiera che attira la grazia dall'alto e sopra il predicatore e sopra l'uditorio?

CAPITOLO III
SEGUITO DEL PRECEDENTE

Nel ministero c'è il corpo e l'anima, per cui mancando d'una delle due cose è snaturato in se stesso.

Il corpo del ministero è cosa abbastanza conosciuta; ma l'anima, lo spirito interiore che deve dargli vita è cosa troppo poco conosciuta. Vi sono molti che credono d'aver compiuto il ministero quando ne hanno compiuto tutte le opere esterne: ma la parte del ministero che si chiama «la preghiera» spesso è considerata l'opera della persona del sacerdote, mentre non è l'opera della persona, ma dello stesso ministero, come abbiamo già osservato (Libro I, Capo IV).

Ciò è importantissimo. Il sacerdote che si persuade che potrà adempiere il suo ministero, compiendo riguardo ai fedeli tutto ciò che possono cristianamente desiderare da lui e chiedergli; e dice a se stesso: Se non sono uomo interiore, uomo di preghiera, ciò riguarda me soltanto, e le conseguenze che ne derivano sono soltanto mie; grandemente si sbaglia e questo errore ci sembra essere oggi assai comune.

Il ministero, in questo caso, è un ministero senz'anima, un ministero senza vita e, troppo sovente un ministero di morte: «Ministratio mortis» (2 Cor. 3,7).

CAPITOLO IV
COME IL MINISTERO È SNATURATO
IN QUANTO ALLA SUA PRIMA PARTE: LA PREGHIERA

Abbiamo detto come il sacerdote mancherebbe al suo ministero se considerasse la preghiera un obbligo non del ministero della Chiesa, ma del cristiano che è in lui.

Il sacerdote non può né deve separare in sé stesso il cristiano dal sacerdote, né il sacerdote dal cristiano. Benché sia vero dire ch'egli è cristiano per sé e sacerdote per gli altri, nella realtà non è meno vero che in lui è il cristiano che è sacerdote.

I doveri del cristiano e i doveri del sacerdote sono una cosa sola; come il cristiano e il sacerdote sono in lui una sola persona.

Sarebbe perciò un grande errore il non pensare la preghiera come il massimo, più importante e più indispensabile obbligo del sacerdote. Egli deve la preghiera a Dio, alla Chiesa, alle anime, a sé stesso: a Dio del quale è una creatura; alla Chiesa della quale è ministro; alle anime delle quali è servo; alla sua anima della quale dev'essere, dopo Dio, il salvatore.

Egli la deve perpetua: «Bisogna pregare sempre (Lc. 18,1).

La deve nelle ore canoniche e nella forma canonica.

Nella forma canonica.. Questa generalmente si accetta perché c'è un obbligo formidabile e si sa che si commetterebbe peccato mortale, lasciando una sola ora canonica. Ma che bisogna recitare le ore canoniche nelle ore canoniche generalmente non si sa. Tuttavia che cosa significano le parole del breviario: Ad Matutinum, ad Primam, ad Tertiam, ad Sextam, ad Nonam, ad Vesperas, ad Completorium?

Si dirà che in altri tempi era così. Certamente, ma perché e come mai oggi non è più così?

Attualmente si recita Mattutino alla vigilia, cioè si fa della preghiera della notte e del mattino una preghiera della sera, o meglio, una preghiera del «fra poco».

Perché forse non s'è trovato più facile alzarsi più tardi che di buon mattino?

Si dice: È per avere tempo per la meditazione. Ma forse che i nostri padri non conoscevano la meditazione?

Forse non vi dedicavano del tempo? Siamo perciò più dediti alla meditazione di quanto lo erano i nostri antichi(?).Oh! Un fatto è certo: noi meditiamo meno dei nostri padri e abbiamo addosso una dose di pigrizia e d'immortificazione che certamente i nostri padri non conoscevano.

Le preghiere del giorno che i nostri padri avevano così saggiamente distanziato da tre a tre ore per richiamarci senza posa all'adorazione della SS. Trinità, oggi si recitano in una sola volta; e ciò, si afferma, per essere più liberi.

Più libero! Ma che cos'è questa libertà che si affranca dalla puntualità nella preghiera? E per che cosa si impiegherà questa libertà? A correre e a discorrere? A giocare e a ridere? Ah! La libertà! I nostri padri ne avevano un altro concetto. Essi venivano meno,- .ammirando la definizione che ne aveva dato Sant'Agostino: « Libertas est. Charitas » (De Natura et gratia, Lib. I, Cap. LXV).

La carità! Amare Dio e .il prossimo, amare Dio e pregarlo: amare il prossimo e lavorare alla sua salvezza, questa era la carità secondo i nostri padri.

È dunque vero che oggi s'intende in altro modo la libertà e così il dovere della preghiera. Quasi dappertutto non si fa più la preghiera canonica nelle ore canoniche e ciò non è una delle cause per le quali il ministero produce pochi frutti press'a poco dappertutto?

E se il ministero è così importante a salvare chi per la cui salvezza è stato istituito, non bisogna forse concludere che dal momento in cui non attinge il suo scopo dev'essere considerato come un'istituzione malauguratamente viziata, diciamo la parola, snaturata?

CAPITOLO V
COME IL MINISTERO È SNATURATO
NELLA SUA SECONDA PARTE: LA PREDICAZIONE

Ci sono più modi per snaturare il ministero in ciò che concerne la parola di Dio. Innanzitutto non predicando affatto e meritando in questo modo il nome che lo Spirito Santo in passato diede a certi pastori negligenti quando li chiamò «cani muti, incapaci di abbaiare » (Is. 56,10).

Il Signore chiamava con questo nome le sentinelle d'Israele, uomini ciechi e ignoranti, cani che non sapevano abbaiare.

Uomini dagli occhi aperti soltanto alla vanità, uomini sempre addormentati, amanti dei loro sogni: « I suoi guardiani sono tutti ciechi, non si accorgono di nulla. Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi » (Is. 56,10).

Nulla da aggiungere a queste parole dello Spirito Santo.

Si snatura il ministero, predicando come parola di Dio ciò che non è parola di Dio. Dice il Signore a Geremia: « I profeti hanno predetto menzogne in mio nome; io non li ho inviati, non ho dato ordini, né ho parlato loro. Vi annunziano visioni false, oracoli vani e suggestioni della loro mente»

(14,14). Infine, anche predicando la parola di Dio, le si potrebbe far subire certe alterazioni che l'Apostolo San Paolo aveva dinanzi agli occhi quando chiamava corruttori, falsificatori e alteratori della parola di Dio certi predicatori: «che mercanteggiano la parola di Dio» (2 Cor. 2,17 e 4,2). Spiegando queste parole dell'Apostolo, G. Estio dice: « Mercanteggiano, ossia trattano con inganno la parola di Dio coloro che non la dispensano illibata e pura, come è stata trasmessa, ma la guastano e la falsificano mescolandovi la sapienza del mondo o la dottrina giudaica; sicuramente servendo ad essa cercano non la gloria di Dio, ma il compiacimento dei propri comodi; mentre ingannano gli uomini cercano di piacere loro e per piacergli, adattano la parola di Dio ai loro sentimenti »

(in Cor. IV,2).

Per concludere questo capitolo, diciamo che la parola di I )io dev'essere predicata con lo Spirito. di Dio, e lo Spirito (li Dio non sarà con noi se noi non siamo uomini di preghiera. c :i(') ancora una volta dimostra come il ministero dipende tutto intero dalla preghiera che San Pietro pose prima di tutto: «Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola » (At. 6,4).

CAPITOLO VI
COME IL MINISTERO PUÒ ESSERE SNATURATO NELL'AMMINISTRAZIONE DEI SACRAMENTI

Abbiamo detto (Libro I, cap. VII) qual’è il compito dei sacramenti nell'economia della religione e, conseguentemente nel ministero ecclesiastico. I sacramenti non danno le disposizioni necessarie per riceverli, è evidente perciò che il ministero sarebbe snaturato se chi dà i sacramenti non avesse tutta la sollecitudine necessaria per far nascere queste disposizioni, tutta l'attenzione indispensabile per riconoscerle là dove sono e tutta la fermezza voluta per non date i sacramenti dove non vi sono le disposizioni richieste da Dio stesso.

Con quanta facilità ci si immagina ai nostri giorni di avere le disposizioni a un sacramento poiché si ha la volontà di riceverlo e la bontà di accettarlo! Non so se questo modo di pensare sia proprio di un gran numero di anime, ma è cosa certa che dove esiste è completamente fuori delle condizioni perché il sacramento possa portare qualche frutto.

CAPITOLO VII
CIÒ CHE PUÒ ESSERE IL MINISTERO QUANDO È SNATURATO

Il ministero può fallire al suo scopo per una moltitudine di cause diverse, come l'abbiamo dimostrato con quanto precede; che può essere allora il ministero se non abitudine, empirismo, o una specie di industria?

Ci spieghiamo. L'abitudine è una specie di ministero ecclesiastico che consiste nel rispondere a ciò che è domandato e a fare di volta in volta ciò che si presenta. Ossia, si fa quanto si deve fare, in virtù di un certe ordine materiale, di un'usanza e di un'abitudine che non merita biasimo in se stessa. Ad un ministero così fatto manca poco meno di quanto manca ad un cadavere: l'anima, lo spirito.

L'empirismo... Ahimè quale parola in una materia tanto grave! La parola infelicemente richiama alla memoria quegli uomini che con un solo rimedio s'impuntano a guarire tutti i mali e son detti ciarlatani. Quando nel ministero si segue un metodo analogo a quello dei ciarlatani, vi si mette del buon volere (non diciamo della buona volontà nel senso teologico della parola) : si vuole il bene, ci si dà da fare per i1 bene, ma è un da fare mosso da una volontà poco e male illuminata. Si possono fare dei grandi passi con la speranza che finalmente si imboccherà la buona strada; ma non si sa chiaramente che cos'è la buona strada e quali sono le condizioni per camminarvi con sicurezza.

Noi chiamiamo una specie d'industria un certo ministero ecclesiastico nel quale si fa un grande spreco dello spirito: s'inventano mille modi, si mettono in movimento mille espedienti, s'impiegano mille e mille arti, ma vi è un male in tutto lo spirito che si esplica: la mancanza dello spirito di Dio. (…)

CAPITOLO VIII
LE CONSEGUENZE DEL MINISTERO SNATURATO

Quando il ministero è snaturato, il sacerdote che non riesce a convertire le anime è portato ad affermarsi piuttosto al ministero che a sé stesso. Lontano dal dirsi: non sono un uomo di preghiera; non tratto la parola di Dio come di Dio; non vigilo perché i sacramenti che sono santi siano santamente ricevuti. Ma dirà molto facilmente a sé stesso che i mezzi che gli sono stati affidati sono impotenti, e che, logicamente non può nulla e che non c'è nulla da fare. Dopo ciò egli potrà cadere in una specie di pigrizia spirituale, che gli impedirà di vedere e il male che sta di fronte ai suoi occhi e il bene da farsi, né i mezzi da prendere per far sì che il suo ministero sia utile al prossimo e a sé stesso.

Se il male aumenterà potranno sorgere nell'anima del sacerdote dei dubbi intorno all'opera di nostro Signore nel creare il ministero; e il ministero divenuto impotente tra le sue mani, potrà essere considerato da lui impotente a causa di nostro Signore.

Ancora un passo: il sacerdote dapprima avvilito, poi esitante nella fede, cadrà nello scoraggiamento, potrà perdere la fede e precipitare in colpe che non hanno più nome quando sono le colpe di un sacerdote: «Non peccata, se monstra», dice Tertulliano.

Certamente in tutti questi scalini di discesa c'è una logica, beninteso senza fatalità: che Dio voglia allontanare una sì fatta caduta dal sacerdote!