lunedì 1 marzo 2010
Carambole e falsificazioni modernistiche: dove mettiamo l'altare?
Quando si abbandona la Tradizione si va a finire in un vicolo cieco: eccone un esempio, datato ma significativo. Louis Bouyer già nel 1965 in edizione americana e nel 1967 in edizione francese rivelava "le innocenti astuzie" che ingannarono e ingannano molti ancor'oggi. In Italia fu pubblicato nel 1994 dalle Edizioni di Bose con la presentazione in ultima di copertina di Enzo Bianchi il quale scrisse tra l'altro: "Visti i pessimi risultati dell'architettura delle chiese in Italia nel postconcilio, ci sembra necessario pubblicare questo libro di Louis Bouyer apparso alla fine del Concilio. Adesso è venuta l'ora di parlare di molte cose riguardanti lo spazio della liturgia senza temere di rivedere decisioni che oggi possono risultare avventate o correggibili". Oggi è giunta l'ora di riconoscere con onestà intellettuale che problema non è solo estetico ma di fede. Leggiamo dunque cosa scriveva Bouyer nel suo saggio.
Ed eccoci al problema della disposizione dell'altare.
L'istruzione romana emanata per una prima applicazione della Costituzione conciliare sulla liturgia mette l'accento sul fatto che l'intera chiesa deve essere incentrata sull'altare, e che nelle chiese nuove o restaurate quest'ultimo dovrebbe essere a una certa distanza dal muro perché sia possibile la celebrazione versus ad populum . Queste disposizioni che hanno fatto seguito alla Costituzione, così come lo spettacolo (sic!) televisivo delle prime messe concelebrate sotto la presidenza del papa a San Pietro durante il concilio, sono state sufficienti per dare a molti l'impressione che la gran parte (per non dire il tutto) del rinnovamento liturgico di penda ormai dalla messa "di fronte al popolo". Quanto da noi già detto dovrebbe bastare a dissipare tale illusione.
Certo, questa celebrazione è - come del resto è sempre stata - perfettamente regolare in tutte le chiese che fanno uso della liturgia romana, dal momento che si basa sulla lunga pratica delle basiliche romane. Il fatto che l'altare sia una mensa, come tale non debba mai essere posto completamente contro il muro, non apporta nulla di nuovo alle regole liturgiche, tanto dell'occidente quanto dell'oriente. Ciò risulta assolutamente chiaro, non solo nel Caeremoniale episcoporum, ma ugualmente nel Pontificale romanum, ben più antico, dal modo stesso in cui vi è descritta la consacrazione dell'altare maggiore di una chiesa. E, come dice l’Istruzione quando si rispetta questa antica prescrizione, come peraltro avrebbe sempre dovuto essere, la celebrazione versus ad populum è possibile, se la si desidera. Ma l'Istruzione non dice da nessuna parte né sottintende in alcuna maniera che questa sia per forza sempre e dovunque la miglior forma passibile di celebrazione.
È vero, alcuni pionieri del movimento liturgico, una cinquantina danni fa, soprattutto Lambert Beauduin, monaco di Mont-César e fondatore di Chevetogne, incoraggiarono questa pratica, che figurava pur sempre nelle rubriche moderne, anche se non veniva utilizzata al di fuori di qualche chiesa a Roma. Ma c'è da chiedersi: perché l'hanno fatto?
Essendo stato uno dei primi a incoraggiarla in Francia, credo di vederne abbastanza bene le ragioni: sono sostanzialmente tre. La prima e la più importante fu che a quell'epoca, soprattutto per una messa detta o cantata da un solo presbitero, senza diacono né suddiacono, le rubriche rendevano obbligatoria la lettura dei testi biblici all'altare, anzi da un libro posto sull'altare stesso. Per cercare dunque di ridare a questa parte della messa tutto il suo senso, era necessario disporre l'altare in modo tale che le letture ridiventassero una realtà. È chiaro che esse non hanno senso, che sono una semplice formalità senza vita (se lo dice lui!), fintanto che sono fatte da un lettore che volge le spalle all'uditorio. La celebrazione "di fronte al popolo" era dunque una soluzione facile, e la sola possibile, a quell'epoca. Tuttavia, ora che l'Istruzione ha ristabilito l’uso di leggere la Bibbia in lingua volgare e di leggerla a un leggio o a un ambone, quella giustificazione fondamentale della celebrazione "di fronte al popolo" scompare.
Il secondo motivo consisteva nella necessità di ristabilire l'aspetto fondamentale della messa: si tratta di un pasto, oltre che di un sacrificio. Ora, poiché in questa nostra epoca siamo abituati a consumare i pasti a casa attorno alla tavola della famiglia, poteva essere pedagogico utilizzare così anche l'altare, allo scopo di risvegliare la comprensione dell'eucaristia in quanto pasto comunitario del popolo di Dio.
Tutto questo, però, poteva e può realizzarsi unicamente se il popolo è realmente raccolto attorno alla mensa, e non semplicemente in piedi davanti ad essa, mentre il celebrante è tutto solo dall'altra parte. Altrimenti, è ovvio, niente risulta più estraneo a un pasto! (ah, l’eterogenesi dei fini!). Ecco perché, sin dall'inizio, i pionieri del movimento liturgico hanno detto chiaramente che la celebrazione versus ad populum non era un toccasana (incontentabili), ma poteva avere effetti positivi solo se veniva attuata in moda tale da rendere possibile l'adunarsi di tutti attorno all'altare. Ciò vale tuttora, e viene a ridirci che questo tipo di celebrazione può essere molto adatto soprattutto nel caso di una piccola comunità, e in particolare quando si tratta di gruppi di fedeli a cui si deve insegnare il carattere comunitario della messa.
Ma Lambert Beauduin e i suoi primi discepoli erano troppo versati nella tradizione per mettersi a difendere questa prassi con il pretesto chimerico che fosse la prassi primitiva. Sapevano perfettamente che non era così(finalmente un po’ di verità). La raccomandavano semplicemente perché forniva mezzi corrispondenti a una situazione del tutto nuova e a certi adattamenti pedagogici, ed era nel contempo in perfetta conformità con le rubriche dell'epoca.
Si deve anche confessare francamente che Lambert Beauduin e i suoi discepoli, proprio perché volevano che la lettura della Bibbia fosse restituita al suo posto normale nella messa e mostravano che la messa è un pasto comunitario a cui tutti devono partecipare, furono continuamente accusati di protestantesimo mascherato (mica tanto mascherato). Ecco perché finirono per mettere l'accento sul fatto che, celebrando la messa in tal modo, lungi dal propendere verso il protestantesimo, non facevano che ritornare all'antico uso romano, ed erano dunque, se così si può dire, più romani degli stessi romani (e più falsi di tutti).
Non c'è bisogno di dire, fortunatamente, che quell'innocente (!!!) astuzia ha perso ora la sua ragion d'essere (se mai l’ha avuta). Tutti hanno finito per riconoscere, per lo meno in linea di principio, che bisogna ridare alla prima parte della messa il suo carattere biblico, farne un vero servizio della Parola, e fare del sacrificio eucaristico un vero pasto comunitario a cui tutti devono (?!!!!) partecipare. Per far questo, non abbiamo più bisogno di sentirci coperti artificialmente dall'uso locale della Chiesa di Roma. E stato proclamato nel modo più solenne da un concilio ecumenico che quella era la tradizione ufficiale dell'intera Chiesa cattolica (dove di grazia?).
È chiaro, dunque, che il problema se celebrare davanti o dietro l'altare non deve essere considerato una questione di principio, ma solamente una questione di convenienza. Tutto dipende dalle circostanze: si tratta di sapere se sia meglio usare l'altare, nel singolo caso concreto, in un modo piuttosto che nell'altro. Due dei principali motivi che nella generazione precedente potevano giustificare l'insistenza su una prassi caduta in disuso sono ora completamente scomparsi. Resta solo l'aspetto pedagogico, che peraltro non è più così forte come lo era alcuni anni fa, poiché il principio che la messa è un pasto comunitario è accettato ovunque (non proprio ovunque, dove c’è un cattolico no). Questo motivo dovrà perciò intervenire solamente quando le circostanze della celebrazione saranno tali da giocare in favore dell'altare rivolto al popolo, e nella misura in cui una tale pedagogia è ancora necessaria. Ma non è certo la regola generale.
Ogniqualvolta l'altare rivolto al popolo significa semplicemente un altare con il prete da solo (o eventualmente con i suoi ministri) da un lato e il popolo dall'altro, il risultato sarà diametralmente opposto, e i fedeli lo avvertono sempre di più. Anziché unire la comunità incentrata sull'altare, si aumenta, in questo caso, la separazione e la contrapposizione tra clero e laici: l'altare diventa una barriera tra due caste cristiane (siamo rimasti alle caste o agli slogan?). Anziché creare una più grande partecipazione di tutti, non si fa che riproporre l'eredità più nefasta del medioevo: la falsa idea che la liturgia sia riservata al clero, come a un corpo di specialisti privilegiati, compiuta a beneficio degli altri, e non un'azione fatta insieme con il popolo.
Nella maggior parte dei casi, e in linea di massima nelle chiese parrocchiali, proprio dal punto di vista del ristabilimento di una vera celebrazione comunitaria, bisogna dunque dire francamente che porre il presbitero dalla medesima parte dei fedeli per la preghiera eucaristica, in quanto
è capo visibile dell'intero gruppo, resta la soluzione migliore, semplicemente necessario allora che ci sia meno separazione possibile tra il presbitero, i ministri e l'insieme dei presenti. Ciò significa che l'altare non deve mai essere sperduto in un presbiterio inaccessibile, ma essere sempre a poca distanza dalle prime file di fedeli. È bene anzi che per 1'offerta e la comunione costoro possano avvicinarsi all'altare il più possibile. Ci si può arrivare molto facilmente: basta disporre i fedeli in modo tale che, al momento della preghiera eucaristica, possano raccogliersi a semicerchio dietro il celebrante.
Non si dovrebbe dimenticare, inoltre, che il disporsi a pieno cerchio attorno all'altare, anche se in un primo momento può aiutare i cristiani di oggi a comprendere il carattere comunitario dell'eucaristia - e questo è possibile solo quando c'è appena una fila o pochissime file di partecipanti -, non è mai l'ideale (??). Ancora una volta, l'ideale di una chiesa non è quello di una famiglia umana chiusa su se stessa. Ci sarebbe da chiedersi, peraltro, se questo possa mai essere l'ideale di una famiglia veramente sana! La famiglia cristiana deve sempre essere aperta: aperta sulla Chiesa invisibile formata da tutti gli altri cristiani, in questo mondo e nell'altro, aperta sul mondo e, al di là del mondo, sul regno eterno.
Louis Bouyer, “Architettura e liturgia”, Edizione Qiqajon, 1994, pp. 66-70