« Datemi un punto d'appoggio e solleverò il mondo. » (Archimede)
La libertà è una leva mediante la quale ci si può sollevare verso l'Alto, ma occorre un punto d'appoggio nella Verità e nel Bene comune: altrimenti tale leva può essere anche usata per spaccare delle teste. L'ha capito anche Mancuso....... Non condividiamo tutto, come non condividiamo in generale il pensiero ereticale di Mancuso. Ma stavolta ci è proprio piaciuto: bravo! Soprattutto la finale è da incorniciare
Il giudizio di Mancuso
su Castellucci
Siamo messi male. Se per sentire una parola di buon senso occorre leggere Vito Mancuso su Repubblica significa che siamo messi malissimo.
Marina Corradi, Davide Rondoni su Avvenire, Luca Doninelli su Il Giornale… i cattolici hanno fatto a gara per difendere Castellucci e le sue blasfemie. Leggiamo invece Mancuso, che alla prima al Parenti c’era, e che certo non è un cattolico (nonostante il suo passato di sacerdote).
Dopo il solito pistolotto in cui si attacca la Chiesa (di dovere per chi prende i soldi da De Benedetti), il seguito:
“…Però non posso fare a meno di chiedermi come si reagirebbe se qualcuno mettesse in scena uno spettacolo con tesi negazioniste sulle camere a gas oppure con tesi filo-mafiose di esaltazione degli assassini di Falcone e Borsellino: varrebbe anche allora l’assoluto della libertà di espressione? Davvero non ci sono limiti alla dissacrazione? Per quanto concerne il profilo artistico, si tratta a mio avviso di un’opera mediocre, con un testo ripetitivo e molto povero, senza movimento né dinamismo. Mi ha impressionato per la sua carica di realismo, ma non mi è piaciuta per l’ assenza di una delle caratteristiche essenziali dell’arte, cioè la dimensione trasfigurante, quella capacità di riprodurre la realtà senza caderne prigionieri, di servire il vero mantenendo la poesia, come nella grande pittura di Michelangelo o Van Gogh, o nel teatro di Eduardo De Filippo.
Quanta immensa e torrenziale poesia c’è in Giobbe, quanti colori e quante malinconie, del tutto assenti nel piatto grigiore di Castellucci. Infine il profilo religioso. A mio avviso non si tratta di un’opera blasfema, perché manca il beffardo tono dissacratorio che caratterizza l’atto blasfemo. Tuttavia c’è un momento in cui vedendola ho provato disagio, quando l’attore più giovane bacia a lungo sulla bocca il Gesù di Antonello da Messina con un bacio che fa pensare solo all’erotismo, per nulla alla devozione. Prima un bacio, poi una serie di pugnalate. Di una cosa sono certo, che non si tratta di un’opera religiosa, come vorrebbe il regista. Perché un’opera si possa definire religiosa, infatti, non è sufficiente che contenga elementi biblici o religiosi, perché altrimenti nessuna lo sarebbe di più dell’Anticristo di Nietzsche. La presenza di riferimenti alla religione ne fa piuttosto un’opera anti-religiosa, dove cioè viene negato il movimento in cui consiste essenzialmente la religione, ovvero la relazione di se stessi con tutti i propri problemi (compresa la decadenza fisica e l’incontinenza) a un senso più ampio e più avvolgente, sentito come salvezza e rifugio rispetto alla disperazione. C’è pietas e tensione etica, ma non c’è religione, né c’è affidamento, e il risultato è solo rabbia e disperazione.
Occorre poi prestare attenzione al titolo, Il concetto di Volto nel Figlio di Dio. Se c’è un valore che l’Occidente ha espresso nella sua storia millenaria, esso è proprio il volto. Se si considera l’arte non occidentale (araba, cinese, giapponese…) emerge all’istante quanto sia secondaria la presenza del volto umano. Al contrario, se si togliessero dai nostri musei i dipinti e le sculture raffiguranti volti umani, non rimarrebbe quasi nulla. La tradizione occidentale scaturita da Atene+Gerusalemme ha fatto del concetto di volto il cardine della propria concezione etica del mondo, ed è da qui che politicamente sono scaturiti i diritti dell’uomo. Vedere qui che di fronte al dolore e alla malattia si squarcia il volto del figlio di Dio e del figlio dell’uomo, il volto di quel Gesù così umano, è assistere al ripudio del valore centrale della nostra tradizione…”.
Da La Repubblica, 26 gennaio 2012
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