lunedì 31 dicembre 2012

"la Misericordia inizia con la denuncia del peccato": Editoriale di “Radicati nella fede” n° 1 Gennaio 2013


LA FALSA ALTERNATIVA
DELLA MEDICINA DELLA MISERICORDIA
Editoriale di “Radicati nella fede” n° 1 Gennaio 2013

Pare che oggi sia scomparsa dalla Chiesa la condanna del peccato.

 Non diciamo che non si dichiari più che questo o quello sia peccato; diciamo solo che lo si fa così timidamente e dolcemente da sembrare, anche per la Chiesa, una questione non grave. Sì, generalmente oggi si fa così. Se si dice ancora che un'azione è peccato, parte subito tutta un’opera di addolcimento dell'accusa, per non spaventare il peccatore, per accoglierlo comunque, dicendo subito che la misericordia vince. Ma la misericordia di Dio la si comprende bene solo se si coglie tutta la gravità del peccato. Oggi ormai ha vinto questa linea nella Chiesa, disastrosa dal punto di vista della cura delle anime, disastrosa per la pastorale, come si suol dire oggi.

 Non è solo il mondo ad aver fatto il disastro morale di oggi, troppo comodo incolpare solo quelli di fuori! Siamo noi che non abbiamo più parlato con chiarezza della gravità del peccato, del peccato mortale, del pericolo dell'anima che muore in stato di impenitenza finale. Siamo noi che abbiamo “scherzato”, parlando di peccato e di misericordia (quasi fosse questa una concessione preventiva al tradimento di Dio), non aiutando le anime nel ravvedimento e nel vivere secondo Dio. Vivere nel peccato vuol dire perdere la vita. Non abbiamo più detto che il peccato dispiace a Dio, che rovina l'esistenza quaggiù e chiude il Paradiso. Non abbiamo più parlato di dolore del peccato, di contrizione, e poi ci stupiamo che non ci si confessi più!

 Il nuovo corso è iniziato quando si è cominciato a dire che la Chiesa (“moderna”) preferisce la medicina della misericordia a quella della condanna. Si è addirittura fatto un Concilio per dire che non si voleva condannare più l’errore. Si è d'autorità deciso, per esempio, di tacere sul male “religioso” del '900, il comunismo ateo con tutti i suoi errori ed orrori.

 Invece la Chiesa, nel passato, non distinse mai la misericordia dalla condanna del peccato! Sono entrambe azioni necessarie nell'opera di Dio, nell'opera di salvezza delle anime: la condanna seria del peccato apre l'anima alla possibilità del dolore che salva; la misericordia dona la grazia del perdono, a chi la domanda.

 Terminiamo con una pagina di J. H. Newman, dell'Apologia pro vita sua, dove, parlando dell'Infallibilità della Chiesa, la introduce così:

 Anzitutto, la dottrina del maestro infallibile deve iniziare da una vibrata protesta contro lo stato attuale dell'umanità. L'uomo si è ribellato al suo Creatore. Questa ribellione ha provocato l'intervento divino; e la denuncia della ribellione dev'essere il primo atto del messaggio accreditato da Dio. La Chiesa deve denunciare la ribellione come il più grave di tutti i mali possibili. Non può scendere a patti; se vuole essere fedele al suo Maestro, deve bandirla e anatemizzarla. [...]

 La Chiesa cattolica pensa sia meglio che cadano il sole e la luna dal cielo, che la terra neghi il raccolto e tutti i suoi milioni di abitanti muoiano di fame nella più dura afflizione per quanto riguarda i patimenti temporali, piuttosto che una sola anima, non diciamo si perda, ma commetta un solo peccato veniale, dica una sola bugia volontaria o rubi senza motivo un solo misero centesimo.”

 Ecco come il beato Newman, erroneamente considerato come precursore del Vaticano II, fa eco alla grande Tradizione della Chiesa, che anche sugli aspetti morali è di semplice ed estrema chiarezza. Altro che le elucubrazioni pastorali di oggi che hanno prodotto parrocchie dove la maggioranza dei fedeli vive strutturalmente in peccato mortale.

 Ascoltiamo Newman, ascoltiamo la Chiesa: la Misericordia inizia con la denuncia del peccato, dicendone tutta la sua gravità.

giovedì 27 dicembre 2012

quodammodo?


La falsa accusa di eresia a chi critica le nuove
ed ambigue dottrine del pastorale Vaticano II
di Paolo Pasqualucci

 

Criticare le nuove ed ambigue dottrine del pastorale Concilio Ecumenico Vaticano II significa forse comportarsi da protestanti, da eretici? No, di certo. Eppure lo si è affermato e si è tornati a ripeterlo, anche in sedi autorevolissime. È ormai celebre l’articolo apparso di recente sull’Osservatore Romano del 29 novembre 2012, a p. 5, a firma di S. E. l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Fede, a proposito della “ermeneutica della riforma nella continuità” invocata – come sappiamo – da S. S. Benedetto XVI quale unica legittima chiave di lettura del Concilio: “Quest’interpretazione è l’unica possibile secondo i principi della teologia cattolica, vale a dire considerando l’insieme indissolubile tra Sacra Scrittura, la completa e integrale Tradizione e il Magistero, la cui più alta espressione è il Concilio presieduto dal Successore di San Pietro come Capo della Chiesa visibile. Al di fuori di questa unica interpretazione ortodossa esiste purtroppo una interpretazione eretica, vale a dire l’ermeneutica della rottura, sia sul versante progressista, sia su quello tradizionalista. Entrambi sono accomunati dal rifiuto del Concilio; i progressisti nel volerlo lasciare dietro di sé, come fosse solo una stagione da abbandonare per approdare a un’altra Chiesa; i tradizionalisti nel non volervi arrivare, quasi fosse l’inverno della Catholica”.

Non so se sia giusto mettere sullo stesso piano le due opposte interpretazioni critiche del Concilio. I “tradizionalisti” ne vogliono sanare le ambiguità ed espellerne gli errori, ponendo implicitamente anche il problema della validità del Concilio. Sarebbero comunque lieti di vedere un Concilio riveduto e corretto dal Papa sulla base della dottrina di sempre della Chiesa. I “progressisti” non si pongono certo il problema della validità del Concilio, né quello di ambiguità ed errori da eliminare perché in contraddizione con la dottrina di sempre, che per loro non esiste, visto che concepiscono tutto il Cristianesimo in chiave storico-evolutiva. Per loro, il Concilio non è certo da riformare né tantomeno da invalidare. Criticano invece i compromessi cui la mens progressista impostasi in Concilio ha dovuto sottostare, auspicando che in sede di attuazione pratica tali compromessi vengano finalmente a cadere del tutto, per far emergere nella sua compiutezza la “Chiesa dello Spirito” insufflata nelle parti ammodernanti dei documenti conciliari; la Chiesa visionaria dei fautori della Nuova Pentecoste, Chiesa di un Nuovo Avvento, senza gerarchie e totalmente ecumenico-comunitaria, aperta a tutte le istanze della Modernità, anche sul piano etico e dei costumi. Chiesa di Satana, giova ricordarlo, per i Cattolici rimasti fedeli all’insegnamento perenne della Chiesa.

Ai rilievi di Mons. Müller ha già risposto in maniera egregia il prof. Roberto de Mattei su questo stesso sito, il 5 dicembre 2012. Da parte mia vorrei solo aggiungere qualcosa. In primo luogo, ricordare che gli eretici in genere contrappongono all’insegnamento della Chiesa una loro versione personale del Cristianesimo. E questo stanno facendo oggi i “progressisti” (o neomodernisti). Coloro che sono oggi costretti dall’amarissima e perdurante crisi della Chiesa a criticare il Vaticano II in nome della Tradizione, non hanno né intendono avere una loro versione personale del Cristianesimo, da proporre in alternativa all’insegnamento attuale della Gerarchia, al quale invece oppongono, ove non vi si accordi, la Tradizione ossia l’insegnamento della Chiesa consolidato da quasi venti secoli di immutabile magistero. In secondo luogo, che il Concilio insegna apertamente cose nuove e in documenti non dogmatici ma pastorali. Ciò sicuramente rende lecito l’esame della conformità di queste novità con la dottrina tradizionale della Chiesa da parte del credente che se ne senta la capacità. Vediamo quest’ultimo punto.

1. Per la prima volta nella storia della Chiesa, un Concilio ecumenico si propone di insegnare delle “novità”. Nell’art. 1 della Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, si trova la famosa dichiarazione secondo la quale, “questo Concilio Vaticano rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [haec Vaticana Synodus sacram Ecclesiae traditionem doctrinamque scrutatur, ex quibus nova semper cum veteribus congruentia profert]”(DH 1). Il Concilio dichiara, dunque, di insegnare “nuovi elementi” o “cose nuove” (nova) tratte dallo “scrutare” o “rimeditare” la Tradizione e la Scrittura. Non dice di riproporre l’identica tradizione e dottrina in modo nuovo (nove), come si usava dire una volta, quando si parlava di progresso estrinseco del dogma ovvero di un approfondimento e di una miglior conoscenza di qualche verità di fede, che restava tuttavia assolutamente immutata quanto al suo concetto. La sostituzione di nove con nova poteva naturalmente far nascere molte apprensioni, ragion per cui il testo precisò esplicitamente che era intenzione del Concilio “trarre le cose nuove” sempre in armonia con quelle vecchie, con il Deposito della Fede. Ma già l’idea di “trarre cose nuove” dalla “tradizione sacra e dalla dottrina della Chiesa”, non era di per sé del tutto rivoluzionaria?

È a mio avviso significativo che quest’ammissione dell’esistenza di n o v i t à nell’insegnamento del Concilio sia fatta nel “proemio” di un testo ampiamente innovatore come quello sulla “libertà religiosa”, il cui concetto, secondo i suoi critici, sembra mutuato quasi integralmente dal principio laico della stessa, in passato sempre vigorosamente respinto dal Magistero. Come hanno ampiamente dimostrato Mons. Gherardini ed altri studiosi, nessuna delle “novità” proposte dal Concilio è fornita del sigillo della definizione dogmatica. E le novità non le troviamo di sicuro in quei passi conciliari nei quali si riaffermano dogmi precedenti o si rinvia all’infallibilità del Magistero ordinario della Chiesa. Come hanno notato a più riprese gli studiosi competenti, la “congruentia” delle “cose nuove” proposte con le “vecchie” non è ancora dimostrata dai riferimenti del Concilio ai dogmi del passato o ad insegnamenti del Magistero ordinario infallibile o dalle dichiarazioni di principio di fedeltà al dogma. Tale “congruentia” deve esser dimostrata puntualmente, caso per caso, paragonando il nuovo al vecchio che esso viene specificamente a sostituire. Per fare degli esempi: confrontando tra loro la nuova definizione della Chiesa di Cristo, quella del famoso “subsistit in” di Lumen Gentium 8, con la vecchia, quale appariva, da ultimo, nello schema di costituzione dogmatica De Ecclesia mandato al macero dai Progressisti; il nuovissimo principio della creatività liturgica con quello che il Magistero preconciliare ne aveva sempre pensato; la nuova definizione dell’Inerranza biblica con la vecchia; la nuova definizione della collegialità con la vecchia ossia con tutto l’insegnamento precedente della Chiesa in proposito, e così via.

2. Il fedele è legittimato ad indagare la “congruentia” delle “novità” professate da un Concilio ecumenico solo pastorale. Stabilito questo punto fondamentale, e cioè che il Concilio insegna consapevolmente “cose nuove”, dobbiamo chiederci: il semplice fedele è autorizzato o no, a confrontare tutte queste “novità” con l’insegnamento tradizionale della Chiesa, commentato e spiegato dai teologi ortodossi, per vedere se le novità siano tutte “in costante armonia con esso”? Se si risponde di no, allora si impone di fatto al fedele di credere sulla parola all’esistenza di questa “armonia”: di credere sulla parola senza discutere, come se ci trovassimo in presenza di un Concilio dogmatico, infallibile sulle verità di fede e sui costumi allo stesso modo del Tridentino o del Vaticano I. Ma negare ai fedeli il diritto di confrontare la nuova pastorale e la nuova dottrina del non dogmatico Vaticano II con l’insegnamento p e r e n n e della Chiesa, ciò costituisce una patente contraddizione, poiché implica attribuire al Vaticano II un carattere dogmatico negato espressamente dal Concilio stesso, nelle ben note Notificationes apposte in calce alle due costituzioni “dogmatiche” Dei Verbum sulla divina Rivelazione e Lumen Gentium sulla Chiesa, in quest’ultima unitamente ad un’importante Nota explicativa praevia. Proprio in appendice a queste due costituzioni, titolate dogmatiche, si è dovuta apporre una Notificatio sulla nota teologica degli insegnamenti conciliari, che fa capire come esse non siano affatto dogmatiche. In effetti, “dato il fine pastorale del presente Concilio”, esse non definiscono alcun dogma né condannano alcun errore!

Come semplice credente, non ho il diritto – tanto per fare un esempio – di verificare la dottrina dell’Incarnazione della Costituzione pastorale Gaudium et spes 22 con quella sempre insegnata dalla Chiesa? Quando mi trovo di fronte ad una frase come questa: “Infatti con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”, la mia prima impressione è quella di un testo che dice una cosa strana, mai sentita prima e nello stesso tempo ambigua. Ambigua, poiché non si capisce perché l’Incarnazione debba esser avvenuta “in ogni uomo” e che cosa voglia effettivamente dire “in certo modo” (il famoso quodammodo). Trovo poi che nell’ articolo 432 del Catechismo della Chiesa cattolica e nella prima Enciclica di Giovanni Paolo II (Redemptor hominis 13) l’inciso “in certo modo” è stato tolto. Cosa devo concluderne, allora? Il Papa e il CCC ci forniscono l’interpretazione autentica della frase in questione. Perciò il senso della frase è proprio quello di dire che l’Incarnazione non si è limitata al Cristo incarnatosi nell’ebreo Gesù di Nazareth, individuo storicamente esistito, ma si è effettivamente avuta “in ogni uomo”.

Ne risulta, comunque, che, con o senza il quodammodo, il pastorale Vaticano II, un Concilio che avrebbe dovuto in teoria limitarsi ad esporre le verità di fede in modo più consono alla mentalità moderna, m o d i f i c a il concetto dell’Incarnazione di Nostro Signore, includendovi “ogni uomo”! Questa dunque una delle grandi e straordinarie novità. Che sia negativa per il dogma, non c’è bisogno di esser teologi per capirlo. Non possiamo non chiederci: come avrebbe potuto il Verbo, consustanziale al Padre secondo la divinità, unirsi alla natura peccaminosa di ciascuno di noi? E il dogma dell’Immacolata Concezione avrebbe ancora senso? E quello del peccato originale? E in quale “uomo” si sarebbe incarnato il Figlio di Dio? Solo negli uomini e nelle donne della sua generazione? E gli altri? Tutto l’impianto di GS 22 non implica forse l’idea che questa “incarnazione in ogni uomo” ha significato ontologico, costituendo una vera e propria impronta divina perenne nella natura di ciascuno di noi? L’implica senza dirlo apertamente, contribuendo in tal modo all’ambiguità di un discorso che getta nella confusione la dottrina ortodossa dell’Incarnazione, rendendola incerta e divinizzando l’uomo.

Se poi, procedendo sempre con il dovuto metodo, il semplice credente confronta GS 22.2 con l’insegnamento anteriore della Chiesa, cosa trova? Forse qualche spunto che l’anticipi? Come hanno spiegato i teologi ortodossi, trova solo qualche espressione dei Padri della Chiesa, dal significato prevalentemente simbolico, che potrebbe prestarsi all’equivoco, se interpretata in modo errato. In realtà, che nel pensiero dei Padri non ci sia posto alcuno per un concetto del genere, risulta da come intendono in generale l’Incarnazione nel suo rapporto all’uomo. L’uomo resta sempre un peccatore da salvare e la possibilità della salvezza gli è offerta proprio dall’Incarnazione dell’Unigenito in Gesù di Nazareth, in quest’unico individuo, la cui missione terrena è stata quella di “chiamare i peccatori non i giusti” (Mc 2, 17), affinché potessero salvarsi l’anima grazie alla Chiesa da Lui stesso fondata.

Invece, situata la celebre frase di GS 22.2 nel contesto di tutto l’articolo, un’analisi diligente dimostra che essa giunge a coronamento di tutto un ragionamento annunciante l’ “altissima missione dell’uomo”, al quale il Cristo avrebbe “restituito la somiglianza con Dio resa deforme dal peccato originale”, in tal modo “svelando l’uomo a sé stesso” e innalzando la natura umana in generale ad una “dignità sublime”, in ogni uomo. A parte il fatto, come ha ricordato lo scomparso teologo tedesco prof. Johannes Dörmann, che il peccato originale ci ha fatto perdere la “somiglianza con Dio” (Tridentino), tutta questa concezione (che riflette notoriamente la peculiare teologia personale di Henri de Lubac S.I.) fa vedere un antropocentrismo completamente sconosciuto ai Padri della Chiesa. Nella “Lettera teologica” di S. Leone Magno adottata all’unanimità dal Concilio di Calcedonia, che, nell’AD 451, come sappiamo, definì perfettamente le due nature di Cristo, non vi è traccia dell’idea di un’incarnazione “in ogni uomo”. E che un’idea del genere rappresentasse una deviazione dottrinale, lo dimostra il fatto che essa fu combattuta da S. Giovanni Damasceno (morto nel 749), la cui critica fu ripresa e teologicamente approfondita secoli dopo da S. Tommaso.

3. Negare la “congruentia” dottrinale di un testo ambiguo del Concilio, non comporta alcun peccato di eresia. In quest’analisi di GS 22, succintamente esposta, mi sono forse comportato da protestante, da eretico? Ho forse fatto trasparire “l’ostinata negazione di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica [ossia come dogma] o il dubbio ostinato su di essa”, come recita la definizione canonica dell’eresia (CIC 1983, c. 751; CIC 1917, c. 1325 § 2)? Niente di tutto ciò, come ognun può vedere. Analizzando con la dovuta diligenza la “novità” contenuta in GS 22.2 sono giunto alla conclusione, testi alla mano, che essa non appare per nulla in armonia con l’insegnamento tradizionale della Chiesa. I testi parlano chiaro. Se poi si dimostrasse che la mia interpretazione è sbagliata, non avrei nulla da obiettare. Resto pertanto disciplinatamente in attesa di una confutazione, puntuale e documentata, secondo le regole del discorso razionale, rifiutando ogni condanna aprioristica, inflitta sul presupposto di un inesistente carattere dogmatico del Vaticano II o di una sua preconcetta armonia con il Magistero di sempre. E se questa confutazione non dovesse venire, allora dovrei concluderne che gli apologeti del Vaticano II non hanno veri argomenti da opporre e nascondono questo fatto dietro la cortina fumogena di accuse di eresia del tutto inconsistenti.

E poiché si è voluto portare il discorso sul piano dell’eresida, mi chiedo: chi è veramente l’eretico o meglio il sospetto d’eresia? Chi ha osato scrivere e chi accetta lo: “Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine [quodammodo] se univit” o chi osa ribattere, testi alla mano, che questo nuovo concetto di Incarnazione non appare per nulla conforme al dogma dell’Incarnazione come insegnato dalla Chiesa cattolica nei secoli? E non deve considerarsi eretico chi nega o mette in dubbio il dogma secondo il quale la Beatissima Vergine è rimasta sempre vergine, anche dopo il parto miracoloso di Gesù Bambino (DS 256/503; 993/1880) ? È vero che in passato Mons. Müller ha manifestato dei dubbi sulla validità di questo dogma, senza mai ritrattarli pubblicamente? E se criticare il non dogmatico Vaticano II è da eretici, anche Benedetto XVI diventerebbe allora imputabile di eresia per aver egli recentemente osato criticare (da un punto di vista sicuramente non “progressista”) la Gaudium et spes e la Dichiarazione conciliare Nostra aetate, la prima perché ci avrebbe dato una nozione tutt’altro che soddisfacente di modernità, la seconda per aver del tutto ignorato le forme “malate e disturbate di religione” presenti nelle religioni non cristiane!

Fonte:
http://www.conciliovaticanosecondo.it/2012/12/22/la-falsa-accusa-di-eresia-a-chi-critica-le-nuove-ed-ambigue-dottrine-del-pastorale-vaticano-ii/

lunedì 24 dicembre 2012

sabato 22 dicembre 2012

il grande digiunatore

"Una bestia feroce che non ha più scampo è sempre pericolosa. E Saruman possiede poteri che immagini memmeno. Attento alla sua voce!" Gandalf a Pipino (J. R. R. Tolkien. Il Signore degli Anelli, I edizione Bompiani, p. 633)

IL GRANDE DIGIUNATORE

Estratto del volume autobiografico del Cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna, dal titolo: "Memorie e digressioni di un italiano cardinale" (Edizioni Cantagalli, Siena, 2007, pp. 640, Euro 23,90).

 ***

XIX digressione
PICCOLA CONTESTAZIONE AL GRANDE DIGIUNATORE

Chi è?

Nessuno mi chieda nome e cognome del Grande Digiunatore: non è un singolo personaggio, sono in parecchi e tutti, a diverso titolo e con diversa pertinenza, entrano a dare figura concreta e situazione storica a un tipo umano generale e astratto. Il primo e più onorato tra essi è senza dubbio il Mahatma Gandhi: mahatma in sanscrito significa “grande anima”; ma poi, nell’arte del digiuno annunciato e ostentato, sono seguite “anime” di tutte le misure. Il Grande Digiunatore non si accontenta di non mangiare per suo estro, nel segreto della sua casa o addirittura in località deserta (come Gesù Cristo): egli fa del suo digiuno un manifesto di propaganda. Non si astiene dal cibo per ragioni sue, ascetiche o sanitarie o di estetica personale: mette la sua rinuncia al servizio di qualche importante causa umanitaria.

Una spontanea antipatia

Sarà perché non ho avuto il dono di un’estrazione borghese (e sono stato abituato a rispettare e a temere la fame) o perché sono incline a non fidarmi facilmente degli eroismi gratuiti, ma il Grande Digiunatore non ha mai riscosso le mie simpatie. È qualcosa di istintivo, e non è detto che gli istinti diano sempre suggerimenti encomiabili. Perciò ho cercato dentro di me quali siano i motivi razionalmente enunziabili di questo stato d’animo di ripulsa: in chi è illuminato dalla fede è normale l’abitudine di verificare se ci sia – e quale sia – la ragione oggettiva dei suoi atti e dei suoi comportamenti. Noi credenti siamo abituati a ragionare.

Le ragioni della contestazione

La prima e meno elevata causa del mio malanimo è che il Grande Digiunatore, quando decide di privarsi del suo pranzo, un poco guasta anche il mio. Su questo argomento la mia sensibilità è acuta: il solo pensiero che una creatura umana, un figlio di Dio, un mio fratello (sia pure un po’ alla lontana) si astenga a lungo da cibi che pure sono di sua facile disponibilità (e perciò istante dopo istante interpellano naturalmente la sua crescente voracità) mi sconvolge. Una volta appresa la notizia della sciagurata iniziativa, anche l’onesto piatto di tagliatelle, che stava aspettandomi con l’abituale amicizia, perde la sua bonarietà bolognese, mi guarda male, sembra colpevolizzarmi. Ma che c’entro io, nella mia pochezza, con le grandi battaglie dei superuomini? Ma c’è qualcosa di più grave. Le iniziative tipiche del Grande Digiunatore sono in fondo di natura ricattatoria: si tenta con esse di estorcere, attraverso una forma specifica di violenza psicologica e morale, un consenso, una complicità, un adeguamento comportamentale; in certi casi addirittura un provvedimento legislativo e di governo. E questo non è accettabile. L’eventuale valore della tesi, che così si vuole imporre, non attenua affatto l’odiosità del procedimento. Né il convincimento soggettivo maturato in buona fede può costituire una scusante.

Nel mondo contemporaneo il ricatto è un uso abbastanza diffuso, con una fenomenologia molteplice e disparata. Sul ricatto vive l’industria dei rapimenti e delle devastazioni minacciate; di prospettive ricattatorie si serve talvolta l’adolescente che ha deciso di farsi regalare il motorino dai genitori riluttanti; ricatta anche l’uomo politico che preannuncia un’inutile o dannosa crisi parlamentare se non vede soddisfatta una sua pretesa. E così via.

Poco o tanto, sono sempre azioni abominevoli, perché insidiano la libertà di decisione dell’uomo, che si vede se non costretto almeno sospinto a pensare, a parlare, ad agire, contro il suo parere e la sua volontà; e soprattutto contro la ragione. La terza rimostranza è ancora più intrigante. Il Grande Digiunatore non si abbassa mai a spiegare ai “piccoli”, che rapporto ci sia tra la sua “laica” penitenza e la bontà della causa che egli intende promuovere. Egli si sacrifica nobilmente a favore di qualche mèta che gli sta a cuore, ma ritiene superfluo chiarire l’intrinseca relazione tra il suo digiuno e il traguardo che intende conseguire.

La sua è dunque una richiesta di assenso e di condivisione, sollecitata non con la forza di argomentazioni ineccepibili, ma con un metodo che esula da qualsivoglia razionalità. Anzi, la pressione per convincere, esercitata sugli animi, tende a debilitare le menti attraverso la nebbia delle emozioni e della pietà. Dal Grande Digiunatore io mi sento dunque attaccato e offeso nella mia logica sostanziale. E ciò che programmaticamente va contro il dono divino della ragione non può essere tollerato.

La cosa è tanto più abnorme in quanto spesso (non sempre) il Grande Digiunatore è un devoto della conoscenza puramente naturale (e non ammette per principio che si dia altra luce); e quindi del razionalismo più rigoroso. Ma forse qui è il caso di ricordare l’osservazione di Chesterton: «Coloro che usano la ragione non la venerano, la conoscono troppo bene; coloro che la venerano non la usano».

giovedì 20 dicembre 2012

bonzi e bose

 
chi loda, approva o consiglia azioni peccaminose, pecca mortalmente.........
 
«Uccidersi per protesta a volte è giusto». Così titolava domenica 16 dicembre La Stampa un lungo articolo a firma di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, dedicato al fenomeno delle autoimmolazioni di giovani tibetani per protesta contro l’oppressione del regime cinese. La sintesi operata nel titolo rende pienamente ragione del contenuto dell’articolo che, anzi, in diversi punti ha affermazioni ancora più gravi. Per Bianchi infatti, il monaco tibetano che si dà fuoco è un «martire» che «compie un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti: non mira unicamente alla propria rinascita, ma al rinnovamento del mondo». «Vale la pena – diceva ancora Bianchi – di lasciarci interrogare da questi monaci disposti a consumare la propria vita tra le fiamme come incenso», ricordando che i monaci suicidi «con la loro vita e la loro morte vogliono affermare la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male».

Parole pesanti, scritte con la solita arte della doppiezza di cui Bianchi è maestro, ovvero lasciando intendere un messaggio eterodosso ma stando sempre attento a non fare affermazioni che confermino l’impressione. Così ad esempio fa un ritratto dei monaci suicidi che ricorda chiaramente il sacrificio di Gesù, ma negando che voglia «tracciare un parallelo con il servo sofferente di cui parla il libro di Isaia, con l’atteggiamento di Gesù di fronte ai suoi persecutori o con i martiri cristiani».

Ieri, sempre dalle colonne de La Stampa, intervistati da Andrea Tornielli, hanno replicato a Bianchi sia il cardinale Renato Raffaele Martino, già presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e Osservatore permanente alle Nazioni Unite, che Vittorio Messori. Martino ha spiegato che «per noi cristiani è inconcepibile il suicidio. Anche se questo darsi la morte può avere fini nobili. Il Catechismo della Chiesa cattolica insegna che il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare la propria vita ed è contrario all’amore del Dio vivente. Se è commesso per servire da esempio (cosa sostenuta da Bianchi per dare ancora più valore al gesto, ndr), si carica anche della gravità dello scandalo». Questo dovrebbe almeno chiarire ai cattolici così infatuati del buddhismo al punto da presentarlo – come lascia intendere Bianchi - come la realizzazione del cristianesimo, che si tratta in realtà di un pensiero e di una pratica antitetica a quella cattolica.

Peraltro, pur con tutta la solidarietà che si può dare al popolo tibetano per le sofferenze inflittegli dal regime comunista cinese, è giusto ricordare – come fa Messori – «che fino al 1950 (anno dell’annessione da parte della Cina, ndr) il Tibet era la più dura delle teocrazie sacrali. Il Dalai Lama aveva i suoi feudatari, che erano i lama: possedevano tutta la terra, avevano potere di vita e di morte. Ogni famiglia era obbligata a mandare almeno un figlio in monastero, con conseguenze a dir poco spiacevoli in caso di disobbedienza. Insomma, il Tibet prima del dominio cinese non era certo un modello per i diritti umani». Il che dovrebbe anche chiarire che l’indipendenza dalla Cina che giustamente il Tibet rivendica, non ha molto a che vedere con la libertà come la intendiamo in Occidente.

Ma l’uscita di Enzo Bianchi sui monaci tibetani non è un episodio isolato che si possa attribuire magari a una errata comprensione del mondo buddhista. In realtà la passione del priore di Bose per i suicidi – che lui definisce martiri – è decisamente antica: 7 maggio 1998, in Pakistan il vescovo cattolico di Faisalabad, John Joseph, si spara un colpo di pistola alla testa davanti al Tribunale della sua città. Motivo: la condanna a morte di un laico della sua diocesi in applicazione della famigerata Legge sulla blasfemia. Per l’episcopato pachistano e per la Santa Sede è una situazione imbarazzante, un fatto senza precedenti, all’inizio si pensa – e si spera – che sia un omicidio mascherato, poi la realtà non lascia scampo: si è proprio suicidato.

L’Osservatore Romano esprime questo imbarazzo dedicando solo un breve necrologio al vescovo, ma sulla prima pagina di Avvenire campeggia un commento di Enzo Bianchi che saluta il nuovo martire e definisce il tragico evento come «una modalità rarissima nel martirio cristiano».

Dunque, siamo di fronte a una vera e propria affermazione estranea alla dottrina cattolica, che viene spacciata da Bianchi per suprema testimonianza di fede. La questione è che Enzo Bianchi – come del resto già La Bussola Quotidiana ha documentato – continua a portare confusione tra i cattolici, peraltro con l’avallo di numerosi vescovi che lo invitano adoranti nelle loro diocesi a tenere conferenze ed esercizi spirituali. E con il silenzio di chi, in materia di dottrina, dovrebbe pur dire una parola chiara. Bianchi, in fondo, può anche dire quello che vuole, ma se poi tanti cattolici si perdono seguendolo buona parte della responsabilità ce l'ha chi nella Chiesa non esercita l'autorità per indicare la strada giusta.

mercoledì 19 dicembre 2012

flectamus genua

Ecco perché io mi inginocchio!




 
Vi sono ambienti, che esercitano notevole influenza, che cercano di convincerci che non bisogna inginocchiarsi.
 
Dicono che questo gesto non è conveniente per l'uomo maturo, che va incontro a Dio stando diritto, o, quanto meno, non si addice all'uomo redento, che mediante Cristo è divenuto una persona libera e che, proprio per questo, non ha più bisogno di inginocchiarsi.
 
Se guardiamo alla storia possiamo osservare che Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi, era cosa indegna di un uomo libero.
 
L'atto di inginocchiarsi è espressione della cultura cristiana e proviene dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio.
Infatti, l'espressione con cui Luca descrive l'atto di inginocchiarsi dei cristiani (theis ta gonata) è sconosciuta al greco classico.
 
Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo abbiamo da Lui.
 
Secondo Matteo (26,39) e Marco (14,35) Gesù si prostra, pregando al monte degli ulivi; Luca, invece, in tutta la sua opera - Vangelo e Atti degli Apostoli - ci racconta che Gesù pregava in ginocchio.
 
È esemplare, il gesto: il Figlio ripone la sua volontà nella volontà del Padre.
 
L'adorazione è uno di quegli atti fondamentali che riguardano l'uomo tutto intero.
Per questo il piegare le ginocchia alla presenza del Dio vivo è irrinunciabile.
Chi prega in ginocchio riconosce la grandezza di Dio e la propria debolezza.
Diventa piccolo davanti al Tutto Santo e riconosce di aver bisogno di qualcuno che lo rialzi e lo sollevi
Aldo Figliuzzi
Ed ecco due foto che dimostrano come una volta tutto ciò era molto compreso e vissuto dai fedeli (e non come si pensa oggi che la gente non capiva nulla della fede e non aveva consapevolezza di quello che celebrava...)

23 marzo 1919. Carlo I d'Asburgo e la moglie Zita Maria di Borbone-Parma, assistono alla Santa Messa inginocchiati sui binari della ferrovia alla partenza per la Svizzera, prima tappa dell'esilio imposto all'Imperatore austriaco dopo la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale.
(da notare tutti gli uomini presenti in ginocchio!)

Marzo 1945. Nella cattedrale di Colonia (Köln) distrutta dai bombardamenti degli "Alleati", si continua a celebrare la Santa Messa.
Di fronte al Santissimo Sacramento, i fedeli si inginocchiano

martedì 18 dicembre 2012

può la nuova pentecoste somigliare ad un naufragio ?


L'ottimismo conciliare può cambiare la realtà dei fatti?


di Don Christian Thouvenot * - 7 dicembre 2012

Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio
Cinquant'anni fa si apriva il 21° concilio ecumenico della Chiesa, il più importante di tutta la sua storia per il numero dei partecipanti ed anche il più atipico, se non altro per la volontà di « apertura al mondo » che ostentava nella sua seduta inaugurale (11 ottobre 1962).

Un nuovo umanesimo

Una delle caratteristiche del Vaticano II risiede nell'ottimismo radicale e fontale con cui ormai la Chiesa intendeva portare il suo sguardo sull'umanità. Un mese prima dell'apertura, papa Giovanni XXIII aveva assegnato a questo « incontro mondiale » lo scopo di « rendere per tutti l'esistenza terrena più nobile, più giusta, più meritoria » esaltando « le applicazioni più profonde della fraternità e dell'amore » (messaggio Ecclesia Christi lumen gentium, 11 settembre 1962). Più celebre è la fascinazione del papa nella sua allocuzione d'apertura Gaudet Mater Ecclesia, che segna il suo disaccordo di fronte « ai profeti di sventura » per farsi lirico : « Il Concilio che inizia sorge nella Chiesa come un giorno fulgente di luce splendidissima. È appena l’aurora: ma come già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole sorgente! Tutto qui spira santità, suscita esultanza ». Il discorso di chiusura del Concilio, pronunciato da Paolo VI il 7 dicembre 1965, volle tradurre questo formidabile slancio di simpatia della Chiesa rinnovata nei confronti del mondo laico e profano : « ... e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo. » Ormai, « Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. »

Il fumo di Satana

Fu presto necessario disilludersi! L'annunciata primavera di una nuova Pentecoste non ebbe luogo. Meno di dieci anni dopo l'apertura del Vaticano II, papa Paolo VI partecipava il suo smarrimento. Il 29 giugno 1972, nella sua omelia per la festa dei santi Pietro e Paolo dichiarava : « Davanti alla situazione della Chiesa di oggi, abbiamo la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. Vediamo il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto.(…) È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. Predichiamo l’ecumenismo e ci distacchiamo sempre di più dagli altri. Cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli. Come è potuto accadere questo? È intervenuto un potere avverso il cui nome è il diavolo… ». Tuttavia, Paolo VI non voleva vedere in questa drammatica situazione la conseguenza delle riforme e delle novità distruttrici della vita cattolica introdotte dal Vaticano II, ma al contrario : « Noi crediamo all'azione di Satana che oggi si esercita nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio ecumenico, e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé. » Si continuò dunque ad applicare il Concilio, malgrado la crisi senza precedenti che scuoteva tutti i lembi della Chiesa : caduta delle vocazioni, rivoluzione liturgica, crisi degli ordini religiosi…

Il Sinodo del 1985

Vent'anni dopo la chiusura del concilio Giovanni Paolo II riunì un Sinodo per valutarne tutte le conseguenze. E questa fu la conferma di tutte le riforme, di tutte le nuove dottrine alle quali il papa volle dare la loro autentica dimensione. Si trattava di farle penetrare in tutto il popolo cristiano, da cui l'iniziativa di un nuovo Catechismo. Occorreva inoltre imprimere loro un nuovo dinamismo, da cui l'incontro interreligioso di Assisi, fatto inaudito che doveva essere « visto e interpretato da tutti i figli della Chiesa alla luce del concilio Vaticano II e dei suoi insegnamenti» (udienza generale del 22 ottobre 1986). Chi vuol comprendere la vera portata del Vaticano II e della trasformazione che esso ha operato nella religione cattolica deve, secondo il papa, riferirsi a questa riunione, la prima di molte altre: « L’evento di Assisi può così essere considerato come un’illustrazione visibile, una lezione dei fatti, una catechesi a tutti intelligibile, di ciò che presuppone e significa l’impegno ecumenico e l’impegno per il dialogo interreligioso raccomandato e promosso dal concilio Vaticano II ». (Giovanni Paolo II ai cardinali, 22 dicembre 1986).

L'apostasia silenziosa

Ahimè! Malgrado « la nuova evangelizzazione » evocata fin dall'inizio del suo pontificato, malgrado le molteplici Giornate Mondiali della Gioventù e il Giubileo dell'anno 2000, Giovanni Paolo II alla fine della sua vita doveva riconoscere l’esistenza d'una reale « apostasia silenziosa » all'opera in mezzo ai cattolici, soprattutto in Occidente. Non soltanto il mondo non aveva risposto alla corrente « d’affetto e d'ammirazione » traboccante dal Concilio, ma le conseguenze dell'apertura al mondo si rivelavano sempre più amare e sconcertanti. Poco prima che si spegnesse Giovanni Paolo II, colui che doveva succedergli descriveva la Chiesa come « una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti », e di cui Satana gioisce di veder prossima la caduta (cardinal Joseph Ratzinger, Via Crucis del Venerdì Santo 2005, 9a stazione). La nuova Pentecoste somiglierebbe ad un naufragio ?

Oggi

Ennesimo rilancio, il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Vaticano II vuol ricollocare i suoi insegnamenti e le sue riforme nel cuore della vita della Chiesa, in occasione dell'Anno della Fede. Quest'ultima è presentata come una necessità urgente : « Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità (…), tutte le altre riforme rimarranno inefficaci», dichiara Papa Benedetto XVI (discorso ai cardinali, 22 dicembre 2011). Curiosamente, ciò significa che la fede deve « essere ripensata e vissuta in maniera nuova », – fede nuova della quale papa Giovanni XXIII voleva fosse quella del concilio che convocava cinquant'anni fa ! In effetti, egli « prospettava un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze », così come « la nuova evangelizzazione è iniziata proprio con il Concilio, che il Beato Giovanni XXIII vedeva come una nuova Pentecoste che avrebbe fatto fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza e nel suo estendersi maternamente verso tutti i campi dell'umana attività » (discorso del 20 settembre 2012). Ritorno al punto di partenza…

Cinquant'anni dopo, « l'oggi della Chiesa » sembra essersi inesorabilmente fossilizzato sul concilio Vaticano II, orizzonte ineludibile, unica bussola d'una Chiesa in piena crisi, incapace di uscire da una nuova Pentecoste che nei fatti si rivela essere un disastroso crollo. Dai « fumi di Satana » all’« apostasia silenziosa », nulla sembra doverne turbare l'ottimismo ostentato, sempre in voga. E se, in occasione di questo anniversario, ci si ricordasse della richiesta di un arcivescovo missionario, che non smise di reclamare che lo si lasciasse « fare l'esperienza della Tradizione » ? Non una ulteriore avventurosa esperienza, ma un'esperienza collaudata, perché è stata provata da 2000 anni.
 
* Segretario generale della FSSPX
tratto da: http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2012/12/lottimismo-conciliare-puo-cambiare-la.html
 
 

lunedì 17 dicembre 2012

tasse e tiranni: criteri fondamentali

“Il cristiano non deve sempre tirarsi indietro, far la parte del moderato, del perennemente condannato alla perplessità, all’astensione e all’impotenza, lasciando così praticamente le fila del movimento della storia in mano a coloro che sono meno dotati di scrupoli; il cristiano, quindi, non deve rifiutare di usare la forza giusta, quando sia necessario in modo assoluto” (R. Pizzorni). Introduzione/attualità In questi ultimi mesi si parla molto del dovere di pagare le tasse, del danno grave che arrecano alla Società gli evasori fiscali. Tuttavia si omette di ricordare che vi sono tasse giuste, che vanno pagate sotto pena di peccato mortale e di reato penale, tasse ingiuste, che si possono evadere senza peccato e senza reato e addirittura tasse intrinsecamente e direttamente perverse, ossia direttamente contrarie alla legge divina, che debbono essere non pagate anche col rischio della propria vita. In quest’articolo cercherò di esporre ...
... un sunto della dottrina cattolica tradizionale a riguardo.
La dottrina cattolica
Se lo Stato esige dall’individuo un sacrificio non necessario al bene comune, come quando impone ai sudditi imposte troppo onerose (se per esempio le imposte dirette superino il 20% ed arrivassero al 50% di ciò che il capofamiglia guadagna) e che non giovano al bene pubblico, esse non obbligano in coscienza.
I moralisti in genere insegnano che l’imposta giusta non deve superare circa il 10 % -20 % del salario: “Bisogna riconoscere che in pratica gli Stati abusano del loro diritto di imporre i tributi, elevandoli a dismisura, senza un’adeguata ragione di bene comune, per cui facilmente i cittadini si convincono della poca giustizia dei tributi [...]. Per questo oggi i teologi parlano di rieducazione dello Stato e dei cittadini alle proprie responsabilità [imporre imposte giuste, e dovere di pagare le imposte giuste, nda]...” (Enciclopedia Cattolica, vol. XII, col. 512, Città del Vaticano, 1954).
È chiaro che non solo i cittadini hanno l’obbligo di pagare le tasse, ma soprattutto lo Stato deve essere rieducato ad imporre tasse giuste quanto alla materia (non oltre il 20%) e quanto al fine (per il bene comune della Nazione); esso deve trattare i contribuenti come cittadini e non come schiavi, se non vuole diventare tirannide (cfr. S. Th., II-II, q. 64, a.1, ad 5um). Ora si costata che soprattutto oggi le tasse sono ingiuste sia quanto alla materia (esse superano di gran lunga il limite del 20%) sia quanto al fine (non mi riferisco solo agli episodi di ruberie da parte dei governanti, ma soprattutto al fatto che oggi le Patrie non esistono più e si tende alla globalizzazione e alla costruzione del Nuovo Ordine Mondiale, che è il nemico delle Patrie e del bene comune dei cittadini). Il governo di tecnici, sotto apparenza di bene, sta instaurando una cleptocrazia e uno stato di polizia ove il benessere comune della Società civile e le vere libertà della persona sono quasi totalmente inesistenti. Se già da qualche decennio la situazione degli Stati è iniziata a degenerare, oramai si può parlare di vera e propria tirannia. Cerchiamo di vedere qual è la giusta attitudine da adottare in questo stato di cose.
Resistenza alle leggi ingiuste
Una legge può essere ingiusta in due maniere:
a) se prescrive una cosa direttamente contraria al diritto divino (es. aborto, divorzio, matrimoni omosessuali ed eutanasia …).
b) Se si oppone al diritto umano (imposte troppo onerose, che sorpassano il 10-20% di quanto guadagna il capo famiglia). Le tasse ingiuste (contrarie al diritto umano) se sono utilizzate dallo Stato anche per un fine cattivo (per la pratica degli aborti) diventano indirettamente contrarie al diritto divino.
In tutti i casi tali prescrizioni “non hanno alcuna forza di legge, perché sono in disaccordo - scrive Leone XIII - con i princìpi della retta ragione e gli interessi del bene pubblico” ([1]) e quindi non obbligano in coscienza. Per quanto riguarda le tasse ingiuste è lecito perciò praticare la ‘compensatio occulta’, ossia possono essere evase, e, se vengono impiegate direttamente per un fine contrario alla legge divina, debbono essere evase (per esempio se arrivasse al cittadino una cartella delle imposte con specificata richiesta di un importo per la pratica degli aborti, bisogna fare l’obiezione di coscienza anche a costo di grave incomodo, pure sotto pena di morte). Se invece le tasse sono impiegate soltanto indirettamente per un fine contrario alla legge naturale e divina (se arriva la richiesta delle tasse con cui lo Stato finanzia anche gli aborti, senza che ciò sia specificato e venga richiesta una somma per questo fine intrinsecamente malvagio) possono essere evase a condizione che non obblighino con grave incomodo (persecuzione, carcere, uccisione).
Si può obiettare: chi ha il diritto di giudicare se una legge è nociva? La risposta è semplice: ogni coscienza retta è normalmente in grado di discernere; nei casi difficili bisogna farsi illuminare da uomini prudenti e competenti, possibilmente ecclesiastici. In breve, la tradizione scolastica, quasi unanimemente, riconosce che la Nazione ha il diritto di resistenza, che può giungere, come extrema ratio, sino alla rivolta e alla deposizione del tiranno.
Liceità della resistenza alla legge ingiusta
Il Padre gesuita Andrea Oddone ha scritto nel 1944-45 che la resistenza passiva è sempre lecita nei riguardi di una legge ingiusta. La resistenza attiva legale, in casi in cui la religione è messa in pericolo, è lecita, anzi occorre ²deplorare - come insegna Leone XIII nell’Enciclica Sapientiae christianae del 1890 - l’attitudine di coloro che rifiutano di resistere per non irritare gli avversari”. La resistenza attiva armata è legittima:
a) se la tirannia è costante;
b) se è manifesta o giudicata tale dalla “sanior pars” della società;
c) se le probabilità di successo sono numerose;
d) se la situazione successiva non si prevede peggiore dell’anteriore ([2]).
Ai nostri giorni il Padre domenicano Reginaldo Pizzorni insegna che l’obbligazione appartiene all’essenza della legge, perché sarebbe inconcepibile una legge non obbligante; però si pone una domanda: “Siamo sempre tenuti a ubbidire alla legge umana?; oppure: è lecita la resistenza alla legge ingiusta?, è ‘un sacro dovere’ la resistenza all’oppressione?” ([3]).
Per i Padri e i Dottori della Chiesa la risposta è unanime. S. Agostino dice: “legge ingiusta, legge nulla” ([4]) ; essa non è più legge sed corruptio legis. Parimenti “un’autorità che non s’ispirasse alla giustizia sarebbe tirannide e la sua legge non avrebbe più un valore intrinseco di giuridicità, ma sarebbe solo una perversione della legge, più che una legge sarebbe un’iniquità, per cui non ha più natura di legge, ma di in-giustizia. Quindi [...] non è assolutamente vincolante, perché nulla che è contro la ragione è permesso” ([5]). In questi casi non solo è lecito non ubbidire, “ma sarà moralmente legittima anche la resistenza, benché i limiti della stessa siano segnati dalla conservazione del bene comune, che deve prevalere sul bene individuale [...]. Pertanto anche delle leggi ingiuste, a meno che non si tratti di leggi contrarie direttamente al bonum divinum, nel qual caso in nessun modo si possono osservare (S.Th., I-II, q. 96, a. 4), possono obbligare per [...] salvare l’ordine e la tranquillità dello Stato. [...]. Non bisogna tuttavia temere tra i sudditi solo lo spirito di ribellione, ma anche quello del servilismo” ([6]).
Per quali motivi, prosegue padre Pizzorni, “la legge è propriamente ingiusta? Per due motivi:
1°) Perché in contrasto col bene umano:
a) sia per il fine, come quando chi comanda impone al suddito leggi onerose (come le tasse sproporzionate), non per il bene comune, ma piuttosto per la sua cupidigia (l’arricchimento dei politicanti);
b) sia per l’autorità, come quando uno emana una legge superiore ai propri poteri [per esempio lo Stato che voglia legiferare in spiritualibus] ; [...]. Perciò codeste leggi non obbligano in coscienza; a meno che non si tratti di evitare scandali o turbamenti [...].
2°) Perché contrarie al bene divino: come le leggi che portano direttamente all’idolatria [...]. E tali leggi in nessun modo si possono osservare; poiché sta scritto: ‘Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini’ (Atti, V, 29)” ([7]).
Nel resistere alla legge ingiusta occorre distinguere la resistenza passiva da quella attiva.
La resistenza passiva consiste nella non esecuzione della legge ingiusta, fino a che non vi si è costretti con la forza; ma nel caso in cui la legge ingiusta comandi qualcosa di peccaminoso, “un atto intrinsecamente cattivo in sé, la resistenza non solo è permessa, ma è sempre obbligatoria; non si possono eseguire ordini criminali” ([8]).
La resistenza attiva, a sua volta, si suddivide in :
a) Resistenza attiva non violenta: consiste in un’opposizione positiva alla legge ingiusta, compiuta sul terreno delle leggi o con mezzi legali, per es. pubbliche riunioni, proteste, petizioni, ricorso ai tribunali. “Occorre non rifugiarsi nell’indifferenza e nell’inerzia di coloro che non sanno o non vogliono organizzarsi e lottare per una causa nobile e giusta, per timore e viltà di affrontare i sacrifici e i maggiori doveri che questa lotta porta con sé [...]. ‘A chi cadrebbe in animo di tacciare i cristiani dei primi secoli di nemici dell’Impero Romano, solo perché non si curvavano dinanzi alle prescrizioni idolatriche, ma si sforzavano di ottenerne l’abolizione?’ (Leone XIII, Lettera ‘Notre Consolation’ ai cardinali francesi , 3 maggio 1892)” ([9]) .
b) Resistenza attiva violenta o a mano armata: “Quando la legge ingiusta cerca di imporsi con la violenza e con la forza, è lecito ai cittadini organizzarsi e armarsi, opporre la forza alla forza” ([10]). Padre Pizzorni continua: “il diritto di resistenza è generalmente ammesso, e, da S. Tommaso in poi, salvo rare eccezioni, è stato ammesso anche da tutti i teologi come ultima ratio, come ultimo ed estremo rimedio, quando tutti gli altri mezzi previsti non sono possibili o si sono dimostrati insufficienti” ([11]).
Tuttavia, occorre specificare che secondo l’Angelico le condizioni richieste per la liceità della resistenza attiva, violenta o a mano armata sono quattro:
1°) la tirannide deve essere costante e abituale, tale da rendersi intollerabile, e ciò vale sia per il tiranno di usurpazione che per quello di governo (De regimine principum I, 7).
2°) La gravità della situazione deve essere manifesta, non solo a una qualsiasi persona privata, ma alla sanior pars populi.
Qualora non vi sia un superiore del re, come l’Imperatore o il Papa che deponeva i tiranni, secondo S. Tommaso è la vox populi o la multitudo, ossia la comunità, che debbono farsi sentire, guidate dal consiglio degli homines virtuosi. Così “quelle persone non agirebbero più come persone private, ma come persone autorizzate dal popolo, la qual cosa è richiesta perché il punire è un atto di giurisdizione che richiede un superiore” ([12]).
3°) Ci deve essere una fondata speranza di riuscita: altrimenti non vi sarebbe ragion sufficiente di insorgere, per il pericolo di inasprire la tirannide. La resistenza armata deve perciò essere ben organizzata, ben concordata e ben condotta.
4°) La caduta del tiranno non deve creare una situazione peggiore di quella in cui si stava prima.
“Il cristiano non deve sempre tirarsi indietro, far la parte del moderato, del perennemente condannato alla perplessità, all’astensione e all’impotenza, lasciando così praticamente le fila del movimento della storia in mano a coloro che sono meno dotati di scrupoli; il cristiano, quindi, non deve rifiutare di usare la forza giusta, quando sia necessario in modo assoluto” ([13]).
La tirannide
Secondo S. Tommaso l’essenza della tirannide si esprime nei comandi rivolti dall’Autorità ai sudditi non in quanto soggetti della società bensì come schiavi (S. Th. , II-II, q. 64, a.1, ad 5um). I commentatori dell’Angelico, ad esempio il Gaetano ([14]) e Suarez ([15]), distinguono tra tiranno d’usurpazione e tiranno di governo.
1°) Il Tiranno d’usurpazione è l’ingiusto aggressore di un potere legittimo. All’inizio del suo operare, egli è senza titolo legittimo, ma dopo un certo tempo può giungere ad imporsi e la Nazione può accettarlo come suo capo legittimo.
2°) Il Tiranno di governo è un sovrano legittimo, regolarmente investito del potere. Ma egli abusa dell’autorità, non governando per il bene comune dei sudditi, bensì per il proprio.
Tirannia e legittimità
Nessuna società potrebbe sussistere senza un capo che comanda e dirige i sudditi verso il bene comune. Dio ha voluto la società, avendo creato l’uomo animale sociale, e perciò necessariamente ha voluto l’autorità, che procede da Dio. L’autorità, la cui missione è la salus populi suprema lex , ha, però, dei limiti. Il ruolo del potere e la sua ragion d’essere è di spingere ognuno verso il bene comune. “Se l’autorità fallisce questa missione perde non soltanto il diritto di comandare, ma la ragion d’essere” ([16]).
Perdita della legittimità
La Scolastica riteneva che l’abuso di potere fosse il caso principale di realizzazione di una tirannia: “Gli scolastici, da S. Tommaso a Suarez, non esitano a dire che la Nazione ha il diritto di destituire, di deporre, di cacciare il tiranno, poiché ha perso il diritto di regnare ed è diventato illegittimo. Ma bisogna che l’abuso sia grave, permanente e universale [...]. Secondo gli scolastici, il potere del principe decaduto ritorna al popolo o alla Nazione che glielo aveva affidato” ([17]).
La resistenza al tiranno
Nell’XI secolo, Manegold da Lautenbach ([18]) equiparava il principe-tiranno “ad un guardiano di porci; se il pastore, invece di far pascere i porci, li ruba, li uccide o li smarrisce, è giusto rifiutargli di pagargli il salario e scacciarlo ignominiosamente” ([19]). «In Manegoldo - scrive Padre Carlo Giacon - vi è tutta una teoria logicamente connessa [...] è legittima l’autorità che governa secondo la legge di Dio [...] e siccome il potere è nel re perché datogli immediatamente dal popolo [e mediatamente da Dio, nda] [...] per cui il popolo è obbligato ad ubbidire e i re a ben governare [...] se il re va contro la legge naturale e divina... da sé rinuncia al diritto di governare [...] giudicato come un pubblico nemico, è legittima la resistenza e la difesa contro di lui» ([20]). S. Tommaso nel De regimine principum insegna che, “se appartiene di diritto alla moltitudine di darsi un capo, essa può, senza ingiustizia, condannare il principe a disparire, o può mettere freno al suo potere se ne usa tirannicamente...” ([21]). Tuttavia per l’Angelico, «anche se alcuni insegnano essere lecita l’uccisione del tiranno per mano di un qualsiasi privato [...], è pericolosissimo permettere l’uccisione privata del tiranno, perché i malvagi si riterrebbero autorizzati a uccidere i re non tiranni, severi difensori della giustizia [...] contro i tiranni eccesivi e insopportabili si può agire solo in virtù di una pubblica autorità» ([22]). La stessa dottrina è insegnata da Bañez ([23]) Billuart ([24]) Bellarmino ([25]) Suarez ([26]). La tradizione scolastica è quasi unanime nel riconoscere il diritto di resistenza, che - in casi estremi - può giungere alla rivolta armata. Juan De Mariana opina che il tirannicidio sia lecito anche privata auctoritate, perché non è da condannarsi colui che, eseguendo la comune volontà, procura di sopprimere il tiranno ([27]). Tuttavia, per il Mariana, non significa che a ciò basti l’iniziativa semplicemente privata, occorre prima una condanna pubblica del tiranno e solo poi, come extrema ratio, l’esecuzione può essere privata, quando non si possa raggiungere l’autorità superiore; allora, fondandosi sulla condanna pubblica, senza un mandato esplicito del potere pubblico e solo con mandato interpretativo e presunto, si esegue il tirannicidio ([28]). Il cardinal Tommaso Zigliara scrive: “i soggetti possiedono il diritto di resistere passivamente, vale a dire di non obbedire alle leggi tiranniche... di resistere alla violenza del potere esecutivo, respingendo la violenza colla violenza, e questa è la resistenza difensiva” (Summa philosophica, tomo III, Lione, 1882, pagg. 266-267) ([29]) .
Conclusione/attualità
Come si vede questi princìpi si confanno alla situazione presente. Tasse smodate, non utilizzate per il bene comune della Nazione, ma indirettamente utilizzate per scopi contrari al diritto naturale e divino. I cittadini, specialmente la classe medio-bassa, vengono trattati più come schiavi che come uomini (il numero elevato di suicidi di persone che non arrivano più alla fine del mese perché oberate di tasse è impressionante). Ora in questo caso secondo S. Tommaso l’essenza della tirannide si esprime esattamente nei comandi rivolti dall’Autorità ai sudditi non in quanto soggetti della società bensì come schiavi (S. Th. , II-II, q. 64, a.1, ad 5um). Quindi ci si trova in uno stato di regime tirannico. Tuttavia se la dottrina cattolica ammette la reazione anche attiva a questo stato di cose in pratica occorre tenere ben presenti le condizioni esposte dagli Scolastici per non “mettere una pezza peggiore del buco” e cadere nel caos anarchico o nella guerra civile costante, che – data l’esasperazione dei cittadini tartassati – purtroppo stanno iniziando a prevalere in questi giorni, con episodi di violenza privata e spontanea, i quali pur se comprensibili, tuttavia, impediscono la reazione ben organizzata, ben concordata e ben condotta e favoriscono l’instaurazione di uno Stato di psico-polizia tributaria.
Di fronte ad un Leviatano così potente e quasi universale come è il potere mondialista odierno ci si sente quasi impotenti per reagire come si dovrebbe. Tuttavia ci resta un’arma che nessuno potrà mai strapparci: la preghiera che ottiene l’intervento della Onnipotenza divina infinitamente misericordiosa, ma anche infinitamente giusta e molto più esigente verso il potente che verso il debole.
d. CURZIO NITOGLIA
12 maggio 2012
 
 
[1]) Enciclica Sapientiae christianae, 10 gennaio 1890.
[2]) A. ODDONE, “La resistenza alle leggi ingiuste secondo la dottrina cattolica” in Civiltà cattolica, n.° 95, 1944, pp. 329-336; Ibid., n.° 96, 1945, pp. 81-89.
[3]) R. Pizzorni, Diritto naturale e diritto positivo, in S. Tommaso D’Aquino, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1999, p. 348.
[4]) De libero arbitrio, I, 5; PL, XXXII, 1227.
[5]) R. Pizzorni, op. cit., p. 352.
[6]) Ibidem, pp. 353-354.
[7]) Cfr. S. Th., I-II, q. 96, a. 4.
[8]) R. Pizzorni, op. cit., p. 358.
[9]) Ibidem, p. 359.
[10]) Ibidem, p. 360.
[11]) Ibidem, p. 361.
[12]) Ibidem, p. 365.
[13]) Ibidem, p. 369.
[14]) In Summ. Th., II-II, q. 64, a. 1, ad 3um.
[15]) De virtutibus, disput. XIII, sect. VIII, Opera omnia, éd. Vivès, t. XII, p. 759.
[16]) D. Th. C., vol. 29, col. 1952.
[17]) D. Th. C., vol. 29, col. 1962.
[18]) Cfr. O. Capitani, Papato e Impero nei secoli XI e XII, in «Storia delle idee politiche economico e sociali», diretto da L. Firpo, vol. 2°, tomo II, Il Medioevo, Torino, Utet, 1983; pp. 141-165.
[19]) Liber ad Gebehardum, cap. XXX.
[20]) C. Giacon, La seconda scolastica. I problemi giuridico-politici: Suarez, Bellarmino, Mariana, Milano, Bocca, 1950, vol. 3°, pp. 89-90.
[21]) De regimine principum, Lib. I, cap. 6.
[22]) C. Giacon, ibidem, p. 98.
[23]) In IIam-IIae, q. 64, a. 3, concl. 1, Opera, Salamanca, 1584-1612.
[24]) De jure et justitia, dissert. X, a.2, ad 3um, Liège, 1746-51.
[25]) De concil. auctorit., lib. II, cap. 19, Ingolstadt, 1586-1593.
[26]) Defensio fidei, lib. VI, cap. IV, §15, Colonia, 1614.
[27]) Cfr. De rege et de regis institutione, lib. I, cap. VI, p. 76, Toledo, 1599.
[28]) Cfr. C. Giacon, op. cit., pp. 271-272.
[29]) D. Th. C., vol. 29, col. 1670.
 
 
tratto: