sabato 12 giugno 2010

Socci: qualcuno rema contro il Papa? Oremus pro Pontifice nostro Benedicto

La lotta solitaria di Ratzinger
contro pedofili e gerarchie vaticane
di Antonio Socci

Ma com’è possibile che a creare problemi al Papa, a non capirlo, a non seguirlo, ad esporlo a situazioni assurde, siano proprio coloro che dovrebbero aiutare la sua missione?
Ormai l’elenco degli “incidenti” sta diventando interminabile. Lasciamo da parte quelli storici (fra i quali i quali risaltano il boicottaggio e l’opposizione aperta al Motu proprio per il ritorno dell’antica liturgia e la disastrosa gestione curiale della revoca della scomunica ai tradizionalisti). Consideriamo solo gli ultimi casi. Anzitutto l’orrendo martirio del vescovo Padovese. Ieri sul Corriere, Vittorio Messori denuncia la «noncuranza dell’Occidente» e l’ennesimo alibi turco del «pazzo isolato», ma dimentica di dire che è stato incredibilmente l’apparato curiale – traendo in inganno il Papa – a gabellare il vero e proprio martirio del vescovo, per un omicidio che non aveva risvolti religiosi, né politici: una questione personale.
E non è stata ancora una volta la Segreteria di stato vaticana a decidere che al funerale di un vescovo così importante, presidente di conferenza episcopale, appena martirizzato, non andasse nessun delegato della Santa Sede?
Ma passiamo dal tragico all’assurdo. È noto che Benedetto XVI aveva deciso di proclamare Giovanni Maria Vianney, il santo Curato d’Ars, patrono dei preti di tutto il mondo. Aveva spiegato in molte occasioni come e perché lo ritiene un modello per tutti i sacerdoti (in sostanza il Papa ripete che il prete deve puntare alla santità, non all’efficienza). Perfino la sua omelia di ieri, per la chiusura solenne dell’Anno sacerdotale esordiva proprio così, parlando del santo Curato.
Eppure, diversamente dagli annunci, la proclamazione, che doveva avvenire appunto ieri, con un Motu proprio pontificio, non c’è stata. A questo punto si è creato un giallo: perché il santo all’ultimo momento è stato spazzato via nonostantela volontà del Papa? Le cinque risposte che sono state date sono una più ridicola e inquietante dell’altra.

Il prete digitale

La prima la rende nota l’agenzia francese I-Media: il curato d’Ars non sarebbe «abbastanza rappresentativo del sacerdozio del XXI secolo, né abbastanza universale». Questa sciocchezza è l’esatto opposto di quanto pensa il Pontefice. Come può aver prevalso sul giudizio del Papa? Seconda: questo santo non rifletterebbe «completamente la figura del prete di oggi, all’epoca della comunicazione». Qui c’è da scompisciarsi dal ridere. Il modello da inseguire sarebbe dunque il “prete digitale”? E allora dove buttiamo san Francesco, san Tommaso d’Aquino e Gesù stesso che non usarono il computer, internet, la tv e il cellulare?
Terza. Padre Lombardi, della sala stampa vaticana ha dichiarato che quella proclamazione era circolata come generica voce di stampa. È avvilente che il buon gesuita sia costretto dalla Segreteria di stato a dire queste assurdità. Perché tutti sanno bene che non era una voce, ma una notizia ufficialissima che addirittura l’Ufficio delle cerimonie liturgiche della Santa Sede aveva diramato e che ancora il 9 giugno è stata pubblicata dall’Osservatore romano.
La quarta risposta l’ha riportata Andrea Tornielli nel suo blog: «Oltretevere si sussurra della protesta di alcuni episcopati non europei, che avrebbero preferito una figura meno legata al Vecchio Continente». Incredibile. Se Dio ha suscitato in Europa un sacerdote santo come il Vianney deve chiedere il permesso a questi episcopati?
Infine- aggiunge Tornielli- «c’è anche chi ipotizza che alla marcia indietro possa aver contribuito . alche ritardo “tecnico” negli uffici vaticani». E qui si torna alla vecchia storia dei ritardi nelle traduzioni dei documenti del Papa (perfino delle encicliche), di ciò che sta nel sito vaticano eccetera. In sostanza: qualcuno rema contro il Papa?
Un’altra vicenda. Il Papa, ormai in ogni occasione, torna a martellare sulla questione dei preti pedofili. L’ha fatto la settimana scorsa parlando ai vescovi italiani e di nuovo ieri nell’omelia solenne: « proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più».
Perché nessuno sembra voler seguire il Papa? Bagnasco giorni fa parlò in termini critici di alcuni vescovi, ma, a queste parole generiche, non sono mai seguiti i fatti. Casi clamorosi, sanciti da solenni condanne della Santa Sede, come quello dell’ex-prete di Firenze, non i sono ancora stati seguiti da vere e solenni richieste di perdono alle vittime da parte della Chiesa fiorentina. Perché? Perché solo a Roma, in San Pietro, è stata fatta una veglia di preghiera per le vittime? Ieri il Papa ha usato anche parole forti chiedendo ai vescovi di «usare il bastone del pastore … Proprio l’uso del bastone» ha spiegato il Pontefice «può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale».
Più chiaro di così. Oltretutto il Papa incita a «usare il bastone» anche per «proteggere la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti».
Certamente vi è compreso il falso misticismo, il controllo e il dominio delle coscienze … C’è da riflettere. Anche per tutta la Chiesa. Perché il Papa aggiunge: «Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede».
Ma quanti sono i vescovi che si preoccupano della retta dottrina e di quello che si insegna nelle parrocchie, nei loro seminari, sulla stampa cattolica? Sembrano in genere più preoccupati dell’otto per mille e di essere ben recensiti sulla stampa che di custodire i dogmi della fede.
Giovedì, davanti a 17 mila sacerdoti che hanno dato testimonianze bellissime, Benedetto XVI, è tornato su altre piaghe che ha chiamato «clericalismo» e «teologia dell’arroganza», la quale «non nutre la fede e oscura la presenza di Dio nel mondo».
Già nel discorso del 26 maggio dopo aver invitato alla santificazione, ha denunciato lo stravolgimento del concetto di «gerarchia» che non può essere «potere», ma «servire». Denunciando poi gli «abusi di autorità» e il «carrierismo». Ho letto un’accorata e giusta riflessione di un vescovo, monsignor Negri, su questo discorso. Ma che meravigliosa ventata di rinnovamento vivrebbe la Chiesa se tutto l’episcopato seguisse l’umile e grandioso isegnamento del Papa che può essere paragonato al grandi papi riformatori del Medioevo.

Spettacolo squallido

In realtà lo spettacolo che vediamo nella realtà – anche in queste settimane – è ben diverso e squallido: cordate di potere al lavoro per piazzare fedelissimi nelle varie sedi episcopali e negli alti incarichi di Curia.
Benedetto XVI però non si stanca di far capire quanto sia vano e triste vivere così la Chiesa. Di recente ha detto: «Nessuno è realmente capace di pascere il gregge di Cristo, se non vive una profonda e reale obbedienza a Cristo e alla Chiesa, e la stessa docilità del Popolo ai suoi sacerdoti dipende dalla docilità dei sacerdoti verso Cristo; per questo alla base de ministero pastorale c’è sempre l’incontro personale e costante con il Signore». Come insegnano il Curato d’Ars e altre meravigliose figure di sacerdote, anche del nostro tempo (come padre Pio) che però, guarda caso, di solito, hanno dovuto soffrire a causa di ecclesiastici in posizioni di potere. Molti sono confusi e non capiscono cosa sta accadendo alla Chiesa. Ebbene, quella Di Benedetto XVI è una vera, grande rivoluzione, l’unica possibile per i cristiani: tornare all’inizio, a Gesù Cristo.

da "Il Foglio" del 12 giugno 2010

venerdì 11 giugno 2010

Il tuo bastone e il tuo vincastro


"Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza": il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore" (Benedetto XVI, Omelia per la Santa Messa di chiusura dell'Anno Sacerdotale, 11 giugno 2010)

Si annunciano tempi duri per l'eresia? Speriamolo!

Dio ci liberi dagli scandali

Buona Festa del Sacro Cuore a tutti!


Benedetto XVI rispondendo alle domande di alcuni sacerdoti durante la veglia conclusiva dell'anno sacerdotale in piazza San Pietro, sottolineando in modo particolare che il mondo contesta celibato perché ai suoi occhi scandaloso, si è espresso così a questo proposito: "Un grande problema del mondo di oggi è che non si pensa più al futuro di Dio, sembra sufficiente solo il presente ... Il senso del celibato come anticipazione del futuro è aprire le porte, mostrare la realtà del futuro, che va vissuto già come presente e vivere così la testimonianza della fede, credere che Dio c'è e io posso fondare su di lui la mia vita. Conosciamo le critiche mondane al celibato: è vero che per il mondo agnostico, dove Dio non c'entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra che va considerato come realtà il Signore, il suo mondo futuro, che diventa così realtà nel nostro tempo, e questo dovrebbe scomparire. Può sorprendere questa critica continua contro il celibato, in un mondo in cui diventa moda il non sposarsi, ma questo non sposarsi è una cosa totalmente e fondamentalmente diversa dal celibato, perché basato sulla volontà di vivere da soli e per sé stessi, mentre il celibato è un sì definitivo". "Se scompare questo, va distrutta la radice della nostra cultura. Vogliamo andare avanti e rendere presente questo scandalo della fede. Sappiamo che accanto a questo scandalo che il mondo non vuole vedere ci sono anche gli scandali dei nostri peccati, che oscurano il grande scandalo. Ma c'è tanta fedeltà, il celibato è un grande segno della fede. Preghiamo Dio che ci liberi dagli scandali secondari".
 
Preghiamo davvero che il Sacro Cuore ci conceda di essere liberati dagli scandali, da tutti gli scandali, anche da quelli che riceviamo dalle parole improvvide, mondane e modaiole di certi arcivescovi!

giovedì 10 giugno 2010

il sacerdote deve tendere alla santità

Reginaldo Garrigou-Lagrange o.p.



SACERDOTE CON CRISTO SACERDOTE E VITTIMA

CAPITOLO II
L'UNIONE DEL SACERDOTE CON CRISTO SACERDOTE

Per il suo sacerdozio, qualunque sacerdote deve intimamente unito a Cristo.

Tutti i fedeli, come viatori, son tenuti, ossia obbligati ad osservare sempre meglio il massimo precetto dell’amor di Dio. Tale precetto infatti non si limita ad un nato grado di carità; per esempio a dieci talenti; ma è detto, senza alcuna limitazione: «Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l'anima tua. tutte le tue forze, e con tutto il tuo spirito: e il tuo prossimo come te stesso » (1). E il viatore deve sempre crescere nella carità, perchè si avvicina a Dio con l'aumentare dell'amore, come se facesse dei passi sulla via dell'amore (2).

Tale perfezione di carità è compresa in questo precetto, non come materia, chè non la si può raggiungere subito, ma come fine al quale tutti devono tendere, ognuno nel proprio stato, chi nel matrimonio, chi in religione, come fratello converso o come religiosa, chi come sacerdote (3). Ed il viatore che non volesse progredire nella carità, commetterebbe già un peccato contro il massimo comandamento, che è formulato senza alcuna limitazione. Non tenderebbe più al fine e si comporterebbe come se l’avesse raggiunto, mentre in realtà non vi sarebbe ancora arrivato. Se tutti i fedeli sono tenuti, per quest’obbligo generale fondato sul supremo precetto, a tendere alla perfezione della carità, vale a dire alla perfezione cristiana, perché la carità ci unisce a Dio e dirige tutte le altre virtù, il sacerdote vi è tenuto con un obbligo speciale perchè ha ricevuto una speciale vocazione.
Si insegna comunemente che il sacerdote anche secolare, deve tendere alla perfezione propriamente detta, in forza della sua ordinazione e del suo ministero, anzi gli si richiede una santità maggiore, per la celebrazione della messa e la santificazione delle anime, di quella che non si richieda ad un religioso che non sia anche sacerdote, per esempio ad un converso o ad un monaco.
Ciò viene confermato da tre argomenti : 1) L'ordinazione sacerdotale; — 2) Il ministero riguardante il Corpo sacramentale di Cristo; — 3) Il ministero riguardante il Corpo mistico di Cristo. Questo è di fede almeno secondo il magistero ordinario ed universale della Chiesa espresso nel Pontificale.
1) L'ORDINAZIONE. Vi si fa menzione nel Pontificale romano, a proposito della ordinazione del presbitero: “Il Signore scelse i settantadue per insegnare con la parola e con l'esempio che i ministri della Chiesa devono essere perfetti nella fede e nelle opere ossia radicati nel duplice amore di Dio e del prossimo” (4).
Ciò appare evidente dai requisiti richiesti per accedere alla ordinazione, e dai suoi effetti.
Fra tali requisiti sono necessari lo stato di grazia, l’idoneità, ed una rettitudine di vita maggiore di quella richiesta per entrare nella vita religiosa. A tale proposito S. Tommaso (5): «Gli ordini sacri esigono come condizione preliminare la santità, ma lo stato religioso è una particolare forma di vita adatta a conseguirla». Perciò, secondo la tradizione, si vede che per entrare in religione basta il grado di principiante, ossia la vita purgativa, mentre per l'ordinazione sacerdotale il grado conveniente è quello dei proficienti, vale a dire la vita illuminativi, all’episcopato poi conviene il grado dei perfetti, o la vita vita unitiva (6). Nell'art. 8 S. Tommaso dice: « Per mezzo dell'ordine sacro l'uomo è deputato al ministero più alto, quale è quello di servire allo stesso Cristo nel sacramento dell'altare, e per esso si richiede una santità interiore più grande di quella che si richieda anche per lo stato religioso», per esempio in un fratello converso, in una religiosa o in un novizio professo.
Anche dagli effetti dell’ordinazione risulta chiaro che il sacerdote deve tendere alla perfezione in modo speciale. Infatti nell’ordinazione si riceve il carattere sacerdotale, come incancellabile partecipazione al sacerdozio di Cristo per validamente consacrare ed assolvere. Un santo laico, come S. Benedetto Giovanni Labre avrebbe potuto pronunciare le parole della consacrazione e non produrre la transustanziazione, né dare l'assoluzione; lo stesso accadrebbe ad un angelo e persino alla Beata Vergine Maria (sebbene ella abbia dato qualcosa di più al Verbo: ossia la natura umana ed abbia offerto con Lui una immolazione non incruenta, ma cruenta). Inoltre nel momento della ordinazione si riceve la grazia sacramentale dell’ordine per esercitare santamente, sempre più santamente le funzioni sacerdotali. Perciò S. Tommaso dice (7): « quelli che sono investiti del divino ministero acquistano una dignità regale e devono essere perfetti nella virtù», come si legge anche nel Pontificale (8). L'ordinazione sacerdotale è certo assai più sublime della professione religiosa. Tale grazia sacramentale è una modalità della grazia abituale e dà diritto a ricevere grazie attuali per celebrare in modo sempre più santo: «Eccoti sacerdote e consacrato per celebrare, bada ora di offrire nel tempo opportuno il sacrificio a Dio con fedeltà e devozione e di mostrarti a tutti irreprensibile. Non hai alleggerito il tuo peso, ma sei ora legato con un vincolo più stretto di disciplina, sei tenuto ad una maggiore perfezione di santità. Il sacerdote deve ornato di tutte le virtù e dare agli altri esempio di vita santa» (9).

2) IL MINISTERO RIGUARDANTE IL CORPO SACRAMENTALE DI CRISTO, mostra anche meglio l'obbligo speciale del sacerdote di tendere alla perfezione. In primo luogo perché il sacerdote celebrando fa le veci di Cristo, è come un altro Cristo. Perciò egli deve unirsi con la mente e con il al sommo sacerdote, che è stato insieme santissima ostia, in modo da essere ministro conscio del suo ufficio e da celebrare degnamente e santamente. Sarebbe ipocrisia, almeno indirettamente volontaria a causa della negligenza, avvicinarsi all'altare senza la ferma volontà di progredire nella carità. È infatti dovere di ogni fedele, di qualsiasi condizione di vita, il progredire nella carità, secondo il massimo comandamento, che è senza, limitazione di sorta «Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore...».
Di questa santità richiesta per la celebrazione messa, o che almeno conviene ad essa in modo assai dente, si parla molto bene nella Imitazione di Cristo (10): «Il sacerdote, rivestito dei sacri paramenti, fa le veci di Cristo per supplicare e pregare Dio umilmente per sé e per tutto il popolo. Porta davanti e dietro il segno della croce, in continuo ricordo della Passione di Cristo. Davanti sulla pianeta, porta la croce per osservare con diligenza gli esempi di Cristo e cercare di seguirli con fervore: è segnato alle spalle con la croce perché sopporti pazientemente per amor di Dio tutte le traversie che gli vengono dagli uomini».

3) IL MINISTERO RIGUARDANTE IL CORPO MISTICO DI CRISTO, ossia, il fatto che il sacerdote deve santificare le anime altrui per mezzo della predicazione della parola divina, del ministero della confessione e della direzione, è una nuova conferma di questa dottrina (11).
È necessario mettere in evidenza parecchie CONSEGUENZE (12):
1) il sacerdote deve considerarsi come ordinato soprattutto per offrire il sacrificio della Messa: nella sua vita tale sacrificio è qualcosa di bene più alto dello studio, o delle opere esteriori di apostolato. Lo studio deve essere ordinato ad acquistare una cognizione sempre più profonda del mistero di Cristo, supremo sacerdote, e l'apostolato deve derivare dall'unione del sacerdote con Cristo, sacerdote principale. Anzi la celebrazione della messa è così intimamente congiunta alla perpetua oblazione di Cristo sempre vivente e sacerdote principale, da superare il ministero degli angeli, custodi delle anime, e viene subito dopo la missione unica della Beata Vergine Maria, che diede al Figlio di Dio la natura umana, e offrì con Lui la sua cruenta immolazione sul Calvario.
I teologi si sono chiesti: in qual modo il ministero dell'uomo sacerdote può superare quello degli Angeli che hanno una natura più sublime della nostra? Molti hanno così risposto: L'’aquila, pur essendo di una specie inferiore all'uomo, ha le ali ed una vista più acuta di quella dell'uomo. Come l'aquila supera l'uomo per le ali e la vista, così il sacerdote che celebra ed assolve supera gli angeli. S. Efrem nella sua opera De sacerdotio (13) dice: Supera la ragione e l'intelletto... il dono della sublime dignità sacerdotale. Il sacerdote si trova a suo agio tra gli angeli… Giacchè tratta familiarmente con lo stesso Signore degli angeli, ed ottiene facilmente, quasi per suo diritto, ciò che vuole, non appena lo chieda».
Perciò l'autore della Imitazione dice (14): «Se tu avessi anche la purità degli angeli. e la santità di Giovanni Battista non saresti degno di ricevere, né di amministrare questo sacramento... Grande è questo mistero, grande è la dignità dei sacerdoti, ai quali è concesso ciò non è dato agli angeli!».
2) Praticamente ne consegue: nel momento della consacrazione il celebrante deve unirsi umilmente ed intimamente al Sacerdote principale. Se si abbassa nella più grande umiltà, in modo che apparisca Cristo, allora viene glorificato ed onorato come facente veramente le veci di Cristo. «Egli deve crescere, io essere abbassato (Gv. 3, 30). E come la umanità di Cristo, spogliata della propria personalità, è stata glorificata ed onorata per la sua unione ipostatica con la persona del Verbo, così il celebrante, non consacrando affatto in nome proprio, viene elevato alla gloria più sublime, perché diviene come un altro Cristo. Se l'umanità di Cristo avesse lasciato la persona sona divina del Verbo, e preso quella umana, proprio per questo avrebbe perduto il valore infinito dei suoi meriti: lo stesso avverrebbe per analogia se il celebrante operasse non in nome di Cristo, ma in nome proprio, perderebbe cioè tutta la sua dignità e non consacrerebbe (15). La unione della dignità e della umiltà del sacerdote è espressa dalle parole di S. Paolo nella II ai Cor. (4, 7): Ora noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, onde la sublimità della virtù sia di Dio e non da noi ». E ugualmente tale unione è espressa dalle parole della liturgia : «O Dio, esaltazione degli umili, che innalzasti alla gloria dei santi il beato Francesco da Paola, concedi, ti preghiamo...».
Il sacerdote esercita pienamente il suo sacerdozio solo mediante la consacrazione e la elevazione del Corpo di Cristo e del suo preziosissimo Sangue.
Da ciò risulta evidente che il celebrante deve unirsi sempre più intimamente a Cristo per la fede viva, illuminata dai doni dello Spirito Santo, per la fiducia illimitata, e l'amore ogni giorno più puro e perfetto.

Diversi modi di celebrare la messa.

Bisogna avere sempre presente alla memoria che Cristo è il sacerdote principale nel Sacrificio della Messa, ed il celebrante deve tendere ad una unione attuale e sempre più intima con Lui. Vi sono però dei modi assai diversi di celebrare, ossia: vi è la messa sacrilega, la messa affrettata, la messa esteriormente corretta, ma senza spirito di fede, la messa celebrata degnamente e piamente, e la messa dei santi. Tutto questo mi è stato detto in un breve colloquio, dal fondatore della congregazione della ««Fraternità sacerdotale » e vale la pena di meditarlo.

Nella messa sacrilega il cuore del celebrante è lontano da Dio, lontano da Cristo, sacerdote principale, e questa celebrazione indegna costituisce un peccato gravissimo. Tale messa conserva tuttavia il suo valore infinito da parte della vittima immolata e del principale offerente; perciò in essa è infinito il valore dell'adorazione, riparazione, della impetrazione, del ringraziamento, in virtù dell'atto teandrico del principale offerente che sempre vivente, intercede per noi.
Ma se i fedeli sono a conoscenza dello stato dell’anima di un tale sacerdote, ne deriva uno scandalo enorme, le cui conseguenze non possono essere misurate. « Corruptio optimi pessima »; così viene falsificata la vita sacerdotale; da questo derivano una falsa carità, una falsa prudenza, l'ipocrisia, i falsi consigli, i pessimi esempi. S. Caterina da Siena, in un suo Dialogo parla spesso di tale scandalo, e dice che la Chiesa le è apparsa come una vergine dalle labbra corrose dalla lebbra. Questi sacrilegi esigono riparazione da parte del sacerdote colpevole, e talvolta tale riparazione viene offerta a Dio da sante anime contemplative che soffrono moltissimo per ottenere la conversione dei sacerdoti miseramente caduti.

La messa affrettata, ossia celebrata con la massima rapidità in quindici minuti, e talvolta con una coscienza dubbia, è, a modo suo, già uno scandalo. S. Alfonso de’ Liguori, da vescovo, proibì questo modo di celebrare la messa nella sua diocesi e scrisse su questo argomento.
Tali sacerdoti hanno perduto il giusto senso della gravità e della serietà della loro vita; ciò è avvenuto perchè per essi non è la messa che ha la massima importanza, bensì la vita esteriore, l'attività esterna, lo pseudo apostolato: infatti la loro vita interiore si riduce quasi a nulla, e al loro apostolato manca l'anima.
Quale differenza tra queste messe e quelle di cui parlava S. Giovanni Fisher, martire inglese, quando diceva ai luterani del suo tempo: «La Messa è il sole spirituale, che sorge ogni giorno per diffondere luce e calore in tutte le anime».
Tali messe affrettate sono invece uno scandalo, perchè vi si recitano meccanicamente, senza alcuno spirito di fede, il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus. Non si pronunciano nemmeno materialmente le parole, per la fretta eccessiva. E le preghiere del Messale vengono pronunciate come parole di nessuna importanza, mentre il loro significato è così profondo, che soltanto in cielo lo comprenderemo appieno..
È un miserabile verbalismo, del tutto opposto alla contemplazione. Se vi sono parole che debbono essere dette con consapevolezza e penetrazione contemplativa, sono proprio queste del Messale: Il Kyrie, il Gloria, íl Credo, il Sanctus, e invece vengono recitate macchinalmente, per finire più presto. Similmente si genuflette rapidamente, senza nessun senso di adorazione. Tali messe così affrettate possono fare un gran male a quelli che si avvicinano alla Chiesa cattolica e cercano un vero sacerdote a cui possano aprire la loro coscienza per trovare la verità. Il Signor von Hügel, che scrisse la vita di S. Caterina da Genova dice: «Certi ecclesiastici non hanno senso religioso più delle mie scarpe»..
Dopo tali messe affrettate si sopprime generalmente il ringraziamento o lo si riduce quasi a nulla.

Poi vi sono le messe esteriormente corrette, ma celebrate senza spirito di fede. Il sacerdote presta sufficiente attenzione al rito esterno, alle rubriche, anzi talvolta è un rubricista, ma celebra come un, funzionario ecclesiastico e non mostra di avere alcun senso religioso. Conosce sì le rubriche e le osserva, ma è evidente che non pensa affatto al valore infinito della messa, né al principale offerente del quale è ministro. Tale celebrante è «un altro Cristo » solo in modo esterno; in forza del carattere che dà validità alla messa, ma non si manifesta in lui una anima sacerdotale: è evidente che fin dal momento della ordinazione non si è avuto in lui un aumento di grazia santificante e di quella sacerdotale. Questa grazia. era un tesoro da far fruttificare, e non si vedono i suoi frutti, invece piuttosto appare la sua sterilità.
E talvolta chi celebra così la messa crede di far bene quello che fa, perchè osserva attentamente le rubriche, ma non aspira a nulla di più alto. Dice il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus, le parole della Consacrazione e della Comunione senza spirito di fede.
Questi sacerdoti, se muoiono in stato di grazia. dopola morte devono assai soffrire in purgatorio per l’incuria loro, e desiderare delle messe celebrate per essi molto bene a scopo di riparazione.

La messa celebrata degnamente e piamente è invece è quella detta con spirito di fede, confidenza in Dio, amore per Lui e per le anime. Si sente in essa il soffio e l’impulso delle virtù teologali che ispirano la virtù di religione. Allora il Kyrie eleison è una vera preghiera d'implorazione, il Gloria in excelsis Deo è adorazione dell'Altissimo; il Vangelo del giorno è letto con fede profonda; le parole della consacrazione sono proferite in unione attuale con Cristo, principale offerente e con una certa cognizione dell'irradiamento spirituale di tale oblazione ed immolazione sacramentale in tutto il mondo e fino nel purgatorio. E l'Agnus Dei è detto chiedendo davvero la remissione dei peccati; il Communio infine è quello che deve essere, ogni giorno sostanzialmente più fervoroso e più fecondo di quello del giorno precedente, per il quotidiano aumento della carità, prodotto dall'Eucaristia. La distribuzione della comunione ai fedeli non è meccanica, ma è una elargizione ad essi di vita sovrabbondante, perchè posseggano sempre più copiosamente la vita soprannaturale. Il sacrificio della Messa viene terminato dalla contemplazione semplice e viva del Prologo del Vangelo secondo Giovanni. Poi si fa il ringraziamento particolare, che in alcuni giorni di festa, può prolungarsi come orazione mentale, se vi è tempo. È infatti proprio il momento più propizio per una intima orazione mentale, perchè abbiamo Cristo sacramentalmente presente in noi e l'anima nostra è sotto il suo influsso attuale, purché rimanga nel raccoglimento.

Cosa si deve dire della messa dei santi? Il sacrificio eucaristico celebrato da S. Giovanni Evangelista in presenza della Beata Vergine Maria era una vera continuazione sacramentale del sacrificio della Croce, la cui memoria era vivissima nella mente della Madre di Dio e del suo figlio spirituale. La messa di S. Agostino dopo le ore di contemplazione espressa nel De civitate Dei o nel De Trinitate, doveva essere una unione intima con Cristo sacerdote.
Lo stesso dicasi della messa di S. Domenico, di San Tommaso, di S. Bonaventura, che hanno scritto preghiere di ringraziamento ancora in uso; e di quella di S. Filippo Neri, che era spesso rapito in estasi dopo la consacrazione per l'intensità della sua contemplazione e dell'amore per Gesù sacerdote e vittima.
Molti fedeli che videro celebrare S. Francesco di Sales, ebbero sempre per lui una grandissima venerazione. Il santo curato d'Ars diceva : «Se comprendessimo che cosa è la messa, moriremmo!». «Il sacerdote dovrebbe essere santo per celebrarla degnamente. Quando saremo in cielo, vedremo che cosa è la messa e come l'abbiamo celebrata spesso senza la riverenza, l'adorazione ed il raccoglimento dovuti».
Come è detto nella Imitazione (16) i santi uniscono sempre l'oblazione personale dei loro dolori a quella di Cristo, sacerdote e vittima. Il Padre Carlo de Foucauld, celebrando la messa fra i maomettani in Africa, si offriva per essi, intendendo preparare così la loro futura evangelizzazione.
La messa dei santi è come una prolusione, o un preludio, quasi un inizio del culto eterno, che già viene espresso alla fine del prefazio dalle parole: «Sanctus, Sanctus, Sanctus».

(1) Lc. 10, 27; Deut. 6, 5.
(2) Cfr. S. Tommaso, Somma Teol. II-II, q. 184, a. 3 ad 2.
(3) Cfr. la nostra opera: Les trois áges de la vie intérieure, v. I, pag. 267.
(4) Così si esprime S. Tommaso (IV Sent., disc. 24, q. 2). L’argomento è sviluppato dal Card. Mercier, La vie intérieure, Ret. Sacerdot., 1919, pag. 200, 140-167.
(5) Somma Teol. II-II, q. 189, a. 1 ad 3.
(6) Cfr. II-II, q. 184, aa. 7-8.
(7) IV Sent., disc. 24, q. 2.
(8) Cfr. Somma Teol. suppl., q. 35, a. I ad 2; De Ordine, c. III, q. 63. a. 3.
(9) Cfr. Imitazione di Cristo, I. IV, c. 5.
(10) L. IV, c. 5.
(11) Cfr. Les trois áges de la vie intérieure, v. I, pag. 303.
(12) Cfr. P. S. M. Giraud, Prêtre et hostie, 5 ed., 1924, v. I, pag. 270.
(13) Opere, Anversa, ed. 1619, pag. 19.
(14) L. IV, cap. 5.
(15) Cfr. P. S. M. Giraud, op. cit., v. I, pag. 279.
(16) L. IV, cap. 9.



mercoledì 9 giugno 2010

Senza Gesù sta morendo la Chiesa

"Dal Concilio vaticano II in poi il declino è stato inarrestabile" scrive l'autrice dell'articolo che segue: sappiamo che qualche volta vale l'adagio "post hoc non propter hoc", ma questa volta ci tocca dar ragione alla Magli. Un articolo bellissimo commentato dalla grande Caterina così: " …sono d’accordo con questa analisi e ne è prova il fatto che è stata molto deludente la Lettera della CEI ai Sacerdoti che ha puntato il tema esclusivamente sulla questione della pedofilia senza minimamente spingere il sacerdote ad un ripensamento agli ABUSI LITURGICI, alla disobbedienza alle richieste del Pontefice circa il come deve essere celebrata la Santa Messa…nessuna correzione fraterna affinchè i Sacerdoti abbandonino il proprio protagonismo e si facciano autentici SERVITORI della Chiesa, del Cristo, della stessa Gerarchia…
Nessuna correzione fraterna affinchè gli inginocchiatoi riappaiano durante la santa Comunione dei fedeli e con essi l’adorazione all’Eucarestia da riceversi alla bocca per comprenderne l’importanza…
Nessuna correzione fraterna per i confessionali VUOTI privi di sacerdoti troppo impegnati nell’assistenza sociale che toccherebbe fare ai laici…
Nessun invito categorico affinchè ritorni splendente IL CROCEFISSO sull’altare…
Ci mancano vescovi capaci di parlare usando parole e pensieri TEMERARI, sembra che la diplomazia e la burocrazia abbiano preso dimora fra le penne di coloro che potendo lanciare messaggi forti, di fatto scrivono in termini languidi su tematiche cavalcate dall’onda mediatica…
Cari Vescovi della CEI, osate di più… usate il linguaggio DEI SANTI quando ammonivano, istruivano, amavano i fedeli e i sacerdoti attraverso lo scritto illuminato davvero dallo Spirito Santo…
Vogliamo lo stile cateriniano, lo stile di sant’Antonio, di san Giovanni Bosco, di sant’Alfonso Liguori…del santo Montfort, del santo Curato d’Ars….di san Pio X, di Leone XIII, lo stile che davvero INFUOCA gli animi risvegliandoli da questo tepore tenebroso…"

Senza Gesù sta morendo la Chiesa
di Ida Magli

«È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?». Parole del poeta Thomas Eliot, di cui qualche anno fa Luigi Giussani diede questa spiegazione: «La Chiesa ha cominciato ad abbandonare l’umanità perché ha dimenticato chi era Cristo… ha avuto vergogna di Cristo». Bisogna che coloro che si ritengono cristiani facciano proprio questo grido e lo ripetano ovunque con forza perché soltanto chi è fuori dalla Gerarchia può salvare la Chiesa, armato solo delle parole di Gesù, come dimostra la storia del passato, dai movimenti penitenziali alla predicazione popolare, a San Francesco.

Anche nei giorni scorsi è stata fornita con clamore l’ennesima notizia riguardo alla presunta complicità di un vescovo in un caso di pedofilia; eppure non è la pedofilia, il problema più grave della Chiesa attuale, sebbene siano in molti a crederlo e forse la Chiesa stessa. Il pericolo mortale è quello denunciato da Giussani: la mancanza del Gesù vero nella predicazione e nel vissuto della Chiesa; del Gesù che ha parlato alla mente, al cuore degli uomini, non di sessualità, o di diritti, o di poveri, ma di ciò che li definisce «uomini» al di là da questo, della certezza del proprio essere uomini anche senza di questo. Per trovare un modo nuovo di dire ciò che soltanto Gesù nella storia dell’umanità è riuscito a dire, serve un’invenzione geniale, una volontà che non abbia timore di nulla, se si vuole che il cristianesimo torni a essere vitale in Occidente. Le strutture sulle quali si è retta la Chiesa fino a oggi stanno andando in rovina. La crisi è drammatica nelle sue cifre concrete, anche se ci si ostina a non discuterne pubblicamente. Dal Concilio vaticano II in poi il declino è stato inarrestabile. Il numero complessivo dei sacerdoti si è ridotto di due terzi, senza prendere in considerazione poi l’età media che supera i sessant’anni. Le religiose, che hanno rappresentato fin dall’inizio la presenza più diffusa e più fattiva della Chiesa cattolica e il cui rapporto con i consacrati di sesso maschile è stato sempre di tre a uno, in Europa oggi non si presentano quasi più alla porta dei conventi e si cercano in India, in Africa, nelle Filippine (con le conseguenze di «significato» che questo comporta, ma di cui non è politicamente corretto parlare). Negli Stati Uniti il numero delle religiose è passato dalle 180mila degli anni ‘70 alle 68mila odierne, con un’età media di settanta anni e soltanto il 7% sotto i cinquanta, il che significa che si stanno estinguendo. I religiosi sacerdoti sono passati da 23mila a 14mila con una media di ottanta anni e soltanto il 21% sotto i sessanta. Si tratta di strutture fondamentali, del braccio operativo della Chiesa nel mondo, ma è evidente che sono abbandonate perché non rispecchiano più il rigore di «assoluto», quell’essenza del messaggio evangelico di cui ha sete l’uomo contemporaneo. Più la Chiesa si avvicina alle altre religioni e più Gesù si allontana, perché Gesù non somiglia a nessuno e tanto meno può riassumersi nelle opere di bene, che pure sono riconosciute da tutti come un grande merito della Chiesa.

Su Gesù non si può venire a patti, non si possono instaurare «dialoghi». Gesù non si è difeso, durante il suo processo, non ha «dialogato» con Pilato, sebbene questi lo esortasse a farlo. Non è vero che il dialogo è sempre possibile, come tanti oggi sostengono. È il sistema logico dell’uomo che lo impedisce perché non ammette contraddizioni, perché riconosce nella «forma» ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Nessuno lo sapeva meglio di Gesù, che aveva fondato la sua rivoluzione sulla battaglia contro l’impurità, contro i precetti tabuistici, contro il sacrificio, contro la preghiera rituale, contro tutto quello che «non viene dal cuore dell’uomo» e che assume valore soltanto attraverso la ripetizione. Era impossibile farlo capire né alla sinagoga né a Pilato. Perciò ha taciuto. Ma nel suo grido: «Non ripetete parole» è riassunta l’essenza del suo pensiero, del suo rispetto per l’uomo e per ogni parola che l’uomo pronuncia. Forse qualcuno avrà il coraggio di cominciare da qui.

Da "Il Giornale" 09/06/2010

lunedì 7 giugno 2010

cattolici sempre più perplessi

Intervista a Don Régis de Cacqueray
Le Chardonnet, aprile 2010

A cinque anni dall’elezione di Benedetto XVI e a sei mesi dall’inizio dei colloqui dottrinali fra Roma e la Fraternità San Pio X, la questione romana rimane più che mai di attualità. Prima di esaminare la questione di ciò che la Romanità è o non è, abbiamo quindi chiesto a Don Régis de Cacqueray, Superiore del Distretto di Francia, di fare il punto per mezzo di alcune domande che possono porsi i lettori di Le Chardonnet.

Don Régis, quale dev’essere la reazione dei fedeli cattolici dopo questi ultimi cinque anni di pontificato? Si deve sempre parlare di uno stato di crisi in seno alla Chiesa?

Vi sono degli effetti e vi sono delle cause. Il Vaticano II ha comportato una perdita della fede e una desacralizzazione che si sono estese in tutti i domini. Nel suo libro Lettera aperta ai cattolici perplessi (1976), Mons. Lefebvre ha descritto bene tutte quelle conseguenze che si sono fatte sentire nella vita quotidiana dei cattolici. E per essere esatti non bisogna dimenticare che questa lucida descrizione è stata fatta molto prima del Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger, apparso solo otto anni dopo, nel 1984. Ma la vera differenza tra Mons. Lefebvre e il cardinale Ratzinger sta nel fatto che Mons. Lefebvre non si è accontentato di constatare queste conseguenze; in un altro suo libro, Lo hanno detronizzato (1987), egli ha anche analizzato le cause profonde che hanno prodotto tali conseguenze. Sono le cause ad essere le più importanti, poiché da esse possono sempre scaturire una quantità di conseguenze sempre nuove, sempre peggiori. Ora, il cardinale Ratzinger queste cause non le ha mai analizzate, e v’è proprio da temere che, divenuto papa, dopo cinque anni di pontificato, non abbia acquisito una maggiore lucidità sull’argomento.
Ne sono testimonianza tutti i suoi discorsi regolarmente pubblicati ne L’Osservatore romano e nei quali si riafferma continuamente il triplice principio della libertà religiosa (tratto dalla dichiarazione Dignitatis humanae), della laicità degli Stati (tratto dalla costituzione Gaudium et spes) e dell’ecumenismo (tratto dal decreto Unitatis redintegratio), principi che sono in contraddizione formale con l’insegnamento costante e unanime del magistero pontificio anteriore al Vaticano II. Sono questi principi che costituiscono la radice di tutte le conseguenze attuali e – Dio ce ne scampi – forse anche delle future. Fin tanto che il Papa e i vescovi rimarranno attaccati a questi principi lo stato di crisi persisterà nella Chiesa.

Sembra che Lei giudichi molto severamente il Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger. All’indomani delle consacrazioni di Ecône, in un discorso indirizzato alla Conferenza Episcopale Cilena, nel luglio del 1988, non ha egli reagito quanto meno con forza contro la contestazione progressista? Questo discorso, che presentava tutte le caratteristiche di una vera arringa a favore di una certa continuità nella Tradizione, non preannunciava già il discorso del 22 dicembre 2005, che condanna l’ermeneutica della rottura?

Questo discorso del 1988 [1] costituisce, insieme a Rapporto sulla fede, ciò che a buona ragione si può chiamare «la tesi Ratzinger»: un Concilio ottimo stravolto da gente molto male intenzionata [2]. La falsa tesi del cardinale Ratzinger è che il Vaticano II è buono e dunque non va riformato; bisogna solo rivederne l’applicazione (o la «ricezione», come dicono in molti), ponendo fine a dei semplici abusi. Questa tesi è falsa, poiché, come dimostra molto bene l’articolo del Courrier de Rome del novembre 1988 (p. 4), «certi testi del Concilio sono realmente separati dalla Tradizione e in alcun caso possono essere conciliati con essa. Non si tratta solo, come pensa il cardinale Ratzinger, di “numerose presentazioni che danno l’impressione che col Vaticano II sia cambiato tutto e che ciò che lo precede non abbia più valore”. No. Vi sono dei testi del Concilio che costituiscono un cambiamento rispetto a ciò che c’era prima, tali che impongono una scelta: o il Vaticano II o la Tradizione. Testi come Nostra Aetatae, per le religioni non cristiane, Unitatis redintegratio, per l’ecumenismo, Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, portano effettivamente e con ragione a chiedersi, come fa il cardinale Ratzinger, “se la Chiesa odierna è realmente quella di ieri o se è stata rimpiazzata con un’altra, senza peraltro essersi preoccupati di avvertire i cattolici”».
Nel 1988, all’indomani delle consacrazioni, la differenza tra il cardinale Ratzinger e Mons. Lefebvre stava nel fatto che, per il secondo, all’origine dei cambiamenti osservabili nei fatti vi sono gli stessi testi del Vaticano II, mentre per il primo vi sono solo «numerose presentazioni che danno l’impressione che col Vaticano II sia cambiato tutto». Vent’anni più tardi, il discorso del 22 dicembre 2005 non ha smentito quanto rivolto alla Conferenza Episcopale Cilena: scartando l’ermeneutica della rottura («numerose presentazioni che danno l’impressione che col Vaticano II sia cambiato tutto»), occorre ritornare ad una ermeneutica della continuità (la lettera del Concilio buono, fuori da ogni abuso). Occorre cioè ritornare ai testi, compreso quello sulla libertà religiosa, poiché questi testi sono ritenuti conformi alla Tradizione.
Questi due discorsi, del 1988 e del 2005, alimentano l’illusione che si possa rimediare alla crisi della Chiesa ritornando alla lettera avvelenata del Concilio. Illusione persistente e funesta.

Ma, Don Régis, anche se la giovinezza teologica di Joseph Ratzinger ha potuto essere influenzata dalla nuova teologia, oggi tutti parlano di un papa agostiniano. Con Benedetto XVI si può parlare apertamente degli abusi che si commettono nella Chiesa a livello dottrinale e liturgico. Benedetto XVI vuole indubbiamente prendere le distanze da Giovanni Paolo II, non crede che bisognerebbe concedergli un po’ di tempo? Parigi non s’è fatta in un giorno, e tantomeno Roma!

Ci si ricordi dei primi cinque anni di Giovanni Paolo II. Il Papa polacco, da poco eletto, suscitò l’entusiasmo delle forze conservatrici della Chiesa. A sentire tutte le voci che circolavano, a destra e a manca, si trattava del Papa del ritorno alla sana dottrina della Chiesa, il Papa che avrebbe corretto il Concilio Vaticano II «alla luce della Tradizione»; espressione che ha incontrato il successo che si sa in tutti gli ambienti cattolici tradizionali: eravamo al tempo dell’udienza concessa a Mons. Lefebvre. Ma, allo scadere dei cinque anni arrivò la doccia fredda: quando si vide il Papa raccogliersi da pellegrino sulla tomba di Lutero (1983), poi la visita alla sinagoga di Roma e infine lo scandalo di Assisi (1986).
Si può ricordare che Benedetto XVI non ha atteso cinque anni per dissipare certe illusioni che la sua reputazione di teologo conservatore avrebbe potuto suscitare. Quando si valuta il cammino percorso in così poco tempo, si può dire che egli non sta certo dietro a Giovanni Paolo II. Il Papa bavarese si è già recato tre volte in una sinagoga, in Germania nel 2005, negli Stati Uniti nel 2008 e infine a Roma, ultimamente, lo scorso gennaio. La visita ufficiale alla sinagoga di Colonia è stata peraltro uno dei primi gesti del nuovo Papa, ad appena quattro mesi dalla sua elezione. In quella occasione, Benedetto XVI ha chiaramente lasciato intendere che l’opposizione tra Nuovo e Vecchio Testamento deriva da questioni teologiche ancora discusse [3], come se per i Giudei il rifiuto del principio stesso della salvezza, il rifiuto di riconoscere in Gesù Cristo la Persona divina del Verbo Incarnato, costituisse una opzione in fondo legittima. E questa prima iniziativa del 2005 fu seguita dalla visita alla chiesa scismatica di San Giorgio al Fanar, a Istanbul, il 29 novembre 2006, dalla preghiera nella Moschea blu di Istanbul, il 30 novembre 2006, dalla riunione ecumenica di preghiera a Napoli, il 21 ottobre 2007 [4]. Nel corso di quest’ultima riunione, il Papa esordì dicendo: «L’odierno incontro ci riporta idealmente al 1986, quando il venerato mio Predecessore Giovanni Paolo II invitò sul colle di San Francesco alti Rappresentanti religiosi a pregare per la pace, sottolineando in tale circostanza il legame intrinseco che unisce un autentico atteggiamento religioso con la viva sensibilità per questo fondamentale bene dell’umanità». E aggiunse: «Nel rispetto delle differenze delle varie religioni, tutti siamo chiamati a lavorare per la pace».
Tutto questo non ha niente di sorprendente se si guarda alle dichiarazioni rilasciate dal Papa nell’intervista alla televisione polacca, il 16 ottobre 2005: « Io considero proprio una mia missione essenziale e personale di non emanare tanti nuovi documenti, ma di fare in modo che questi documenti [di Giovanni Paolo II] siano assimilati, perché sono un tesoro ricchissimo, sono l’autentica interpretazione del Vaticano II. Sappiamo che il Papa era l’uomo del Concilio, che aveva assimilato interiormente lo spirito e la lettera del Concilio e con questi testi ci fa capire veramente cosa voleva e cosa non voleva il Concilio» [5].
Una cosa dunque è certa: Benedetto XVI non è prossimo a prendere le distanze da Giovanni Paolo II, quanto meno per quel che riguarda l’essenziale di ciò che provoca la crisi della Chiesa. Per il tramite dei suoi predecessori, è l’eredità di tutto il Concilio che gli s’impone.

Vi è stato, quanto meno, un elemento largamente positivo nel corso di questi primi cinque anni di pontificato: il Motu Proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007.

Indubbiamente questo Motu Proprio autorizza la celebrazione della Messa e dei Sacramenti secondo il Rito tridentino, ma questo a titolo straordinario. Anche se quest’uso potrà diventare frequente nei fatti, esso non corrisponde alla legge ordinaria e comune, che resta sempre il Novus Ordo Missae di Paolo VI. È un po’ quello che è accaduto nel XIX secolo, all’epoca della legge Falloux, con la famosa questione scolastica. Si accordava ai cattolici la libertà di avere delle loro scuole confessionali, ma a condizione che riconoscessero la rettitudine della scuola laica. Tutti i cattolici liberali, come Montalembert, si sono buttati a capofitto nella novità, ma i veri cattolici hanno resistito. Per loro non si trattava di riconoscere di diritto un semplice regime di tolleranza per la fede cattolica, poiché avrebbe significato riconoscere all’errore, non solo un diritto, ma un diritto preponderante. È un po’ la stessa cosa con questa politica liturgica di Benedetto XVI.
D’altronde, è lo stesso Papa che lo dice, egli non si nasconde: questo Motu Proprio mira solo a stabilire un certo regime di tolleranza liturgica. «questo Motu Proprio è semplicemente un atto di tolleranza, ai fini pastorali, per persone che sono state formate in quella liturgia, la amano, la conoscono, e vogliono vivere con quella liturgia. È un gruppo ridotto poiché presuppone una formazione in latino, una formazione in una cultura certa. Ma per queste persone avere l'amore e la tolleranza di permettere di vivere con questa liturgia, sembra un’esigenza normale della fede e della pastorale di un vescovo della nostra Chiesa. Non c'è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia» [6]. Ed è qui che sta propriamente l’errore: contrariamente a ciò che afferma Benedetto XVI, vi è proprio un’opposizione, e un’opposizione radicale, tra la liturgia del Papa San Pio V e quella di Paolo VI. I cardinali Ottaviani e Bacci lo hanno detto con forza nella lettera di presentazione del Breve esame critico presentato al Papa Paolo VI nel 1969: la liturgia rinnovata in seguito al Concilio Vaticano II «rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino».
Nel testo stesso del Motu Proprio si legge, all’articolo 1: «Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve essere considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico». Ci si dice che per la stessa «lex orandi» vi sono due espressioni, di cui una straordinaria rispetto all’altra. Nell’intenzione del Papa è la liturgia di Paolo VI che ha valore di riferimento. Ora, noi sappiamo che la fede del popolo cristiano è regolata dall’espressione della liturgia. È il Messale che condiziona la professione di fede dei fedeli. A cattivo Messale, cattivo credo. E allora, se della «lex orandi» vi sono due espressioni, una buona e l’altra cattiva, si avranno parallelamente due credi: uno buono e l’altro cattivo. E se il cattivo Messale ha valore di riferimento, se costituisce l’espressione ordinaria del credo dei fedeli, questo significa che nell’intenzione del Papa il credo cattivo resta la norma è deve prevalere sul credo buono.
Indubbiamente si riserva un posto alla Messa cattolica, il che non è poco. È finito il regime di persecuzione aperta. E tuttavia questo non è il ritorno alla Tradizione. Nello spirito di Benedetto XVI, se la Messa cattolica è tollerata, lo è a condizione che accetti di coabitare con il Novus Ordo Missae, che resta l’espressione ordinaria della legge liturgica. Con Mons. Lefebvre, noi persistiamo nel credere che la Messa cattolica meriti molto di più che un piccolo posto a fianco della Messa riformata di Paolo VI, la «Messa di Lutero». Per ristabilire il buon credo nella sua totalità, non basta riprendere il Messale buono a fianco di quello cattivo; è necessario riprendere il Messale tradizionale del 1962 come espressione ordinaria della legge della preghiera, con l’esclusione del Messale di Paolo VI.
Nonostante certi vantaggi immediati, non è dunque assolutamente certo che, preso in se stesso, il Motu Proprio di Benedetto XVI sia così ampiamente positivo. Ci troviamo certamente di fronte ad un regime di tolleranza di cui i cattolici potranno di fatto approfittare, per respirare un po’ più agevolmente, e grazie al quale certe anime di buona volontà potranno riscoprire in gran parte il tesoro della tradizione liturgica della Chiesa. Ma bisogna riconoscere che questa situazione non ci può soddisfare pienamente e noi non potremmo approvare, per il presupposto falso che contiene, il principio del liberalismo liturgico.
D’altronde, il Motu Proprio stabilisce, all’articolo 2, che «Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l’uno o l’altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario». Così ogni sacerdote di passaggio può celebrare la nuova Messa in qualsiasi casa dell’una o dell’altra comunità Ecclesia Dei senza che i superiori possano opporvisi. E questa celebrazione della nuova Messa nelle comunità Ecclesia Dei non si limiterà ad essere privata, senza l’assistenza dei fedeli, poiché l’articolo 4 del Motu Proprio prevede anche che «Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all’art. 2, possono essere ammessi - osservate le norme del diritto - anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà». Ecco perché la Fraternità San Pio X non potrebbe accettare una soluzione puramente canonica prima che Roma si decida a rimettere in questione il principio stesso della nuova Messa di Paolo VI.

Tutti questi fatti sono indubbiamente innegabili, ma allora perché i media danno di Benedetto XVI questa immagine illusoria di un papa conservatore?

Non lasciamoci impressionare dai media. Essi devono piacere alla folla, e la folla molto spesso non si eleva al livello della migliore avvedutezza…
Detto questo, è vero che, nei particolari del suo governo, Benedetto XVI si sforza di restaurare un minimo di disciplina. Non si può negare che la fine del pontificato di Giovanni Paolo II abbia dato luogo a numerosi abusi. Il nuovo Papa è un uomo d’ordine ed ha voluto riprendere le redini del potere. Vi è in lui uno stile di governo che va incontestabilmente a favore di un certo rigore, in particolare nel dominio morale. E questo dispiace profondamente ai poteri di questo mondo, che vogliono spingere fino in fondo la rivoluzione. Si cerca di offuscare l’immagine di una Chiesa il cui capo visibile manifesta malgrado tutto una certa resistenza di fronte alla corruzione del mondo moderno.
Ma sul piano della dottrina (che peraltro deve ispirare tutta la morale) i falsi principi che ispirano questo governo rimangono disgraziatamente gli stessi.
Questa dualità che fa muovere la politica di Benedetto XVI tra una fedeltà indefettibile ai principi rivoluzionari del Vaticano II e un ritorno all’ordine sul piano disciplinare, non deve stupirci, poiché si tratta di una costante del modernismo. Pensiamo a ciò che diceva San Pio X nella Pascendi: i modernisti non sono tutti conseguenti allo stesso grado. Certi ammettono i principi, ma vogliono mettere un freno alle conseguenze che ne derivano. Questo sillogismo è paradossalmente logico… nella logica modernista. Questo, diceva San Pio X, «è come il risultato di due forze che si combattono, delle quali una è progressiva, l’altra conservatrice»; la forza che spinge alla conservazione è l’autorità che reprime gli abusi; la forza che spinge al progresso sono gli imperativi del Concilio.

Non teme che un linguaggio così critico possa indisporre la Santa Sede nei nostri confronti?

Vogliamo conservare la nostra fede e piacere a Dio o vogliamo piacere agli uomini? Il Papa e i vescovi sono imbevuti del Concilio, imbevuti di liberalismo e di modernismo: questi sono i fatti. E contro i fatti non v’è argomento, non vi sono «se» o «ma». Coloro che ragionano con dei «se» o dei «ma» sono gli esitanti o i complici, tutti quelli le cui false inquietudini diminuiscono le forze invece di aumentarle. Noi dobbiamo essere forti, forti nella nostra fede. È San Pietro che lo dice: bisogna che resistiamo al diavolo rimanendo «fortes in fide».
Se amiamo veramente la verità, se siamo pronti a difendere la nostra fede, non possiamo non denunciare gli errori, e denunciarli pubblicamente, come San Paolo, nel momento opportuno ed anche inopportuno. San Paolo non ha temuto di contristare i Corinti, ma lo fece per condurli alla penitenza di cui avevano bisogno. «Contristavi vos ad penitentiam».

Ha un’ultima parola per colorire la nostra intervista?

Non dimentichiamo che la Chiesa vive con il ritmo dell’eternità. Mons. Fellay ce lo ha ricordato molto opportunamente: «Ci si dice: “Voi lo sapete, oggi il Papa vi vuole bene, ma chi verrà dopo di lui? Non si sa! Dunque il momento per accettare è adesso o mai più”. Io ho risposto al cardinale che mi faceva questo discorso: “Eminenza, io credo nello Spirito Santo. Se lo Spirito Santo è capace di illuminare il Papa, potrà illuminare anche i successori” E se lui ci vuol bene, forse il prossimo Papa ci vorrà ancora più bene. Ancora una volta, non si può discutere sulla fede, non si ha il diritto di manipolare la fede» [7].
La durata della crisi può sembrarci lunga, ma la perseveranza non implica giustamente una certa lunghezza di tempi? Nostro Signore ce l’ha detto: è con l’esercizio della pazienza che salverete le vostre anime (Lc 21, 19). E San Paolo aggiunge che è attraverso la pazienza che deve provarsi la nostra speranza (Rm 5, 4).

[1] - Questo discorso è stato analizzato nel numero di novembre 1988 del Courrier de Rome, versione francese del quindicinale Si Si No No, che titolava «Il cardinale Ratzinger dimostra lo stato di necessità nella Chiesa». Lo stesso giornale ritornerà in seguito a più riprese sull’argomento: nei numeri di novembre 1989, aprile 1991, settembre 1991, marzo 1992.

[2] - Editoriale di Le Chardonnet, n° di aprile 1989.

[3] - Cfr. Benoît XVI, «Allocution lors de la visite à la synagogue de Cologne, le 19 août 2005», dans DC n° 2343, p. 892 [Benedetto XVI, Saluto di Sua Santità in visita alla sinagoga di Colonia, 19 agosto 2005 - Reperibile sul sito della Santa Sede: Benedetto XVI: Viaggi].

[4] - Saluto di Sua Santità Benedetto XVI nell’incontro con i capi delle delegazioni che partecipano all’incontro internazionale per la pace, 21 ottobre 2007 – Reperibile sul sito della Santa Sede: Benedetto XVI: Viaggi.

[5] - Intervista di Sua Santità Benedetto XVI alla Televisione Polacca, 16 ottobre 2005 – Reperibile sul sito della Santa Sede: Benedetto XVI: Discorsi.

[6] - Intervista concessa dal Santo Padre Benedetto XVI ai giornalisti durante il volo per la Francia, 12 settembre 2008 - Reperibile sul sito della Santa Sede: Benedetto XVI: Viaggi].

[7] - Omelia di Mons. Fellay del 15 agosto 2008 a Saint-Malo, riportata in DICI, n° 181.