Intervista a Don Régis de Cacqueray
Le Chardonnet, aprile 2010
A cinque anni dall’elezione di Benedetto XVI e a sei mesi dall’inizio dei colloqui dottrinali fra Roma e la Fraternità San Pio X, la questione romana rimane più che mai di attualità. Prima di esaminare la questione di ciò che la Romanità è o non è, abbiamo quindi chiesto a Don Régis de Cacqueray, Superiore del Distretto di Francia, di fare il punto per mezzo di alcune domande che possono porsi i lettori di Le Chardonnet.
Don Régis, quale dev’essere la reazione dei fedeli cattolici dopo questi ultimi cinque anni di pontificato? Si deve sempre parlare di uno stato di crisi in seno alla Chiesa?
Vi sono degli effetti e vi sono delle cause. Il Vaticano II ha comportato una perdita della fede e una desacralizzazione che si sono estese in tutti i domini. Nel suo libro Lettera aperta ai cattolici perplessi (1976), Mons. Lefebvre ha descritto bene tutte quelle conseguenze che si sono fatte sentire nella vita quotidiana dei cattolici. E per essere esatti non bisogna dimenticare che questa lucida descrizione è stata fatta molto prima del Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger, apparso solo otto anni dopo, nel 1984. Ma la vera differenza tra Mons. Lefebvre e il cardinale Ratzinger sta nel fatto che Mons. Lefebvre non si è accontentato di constatare queste conseguenze; in un altro suo libro, Lo hanno detronizzato (1987), egli ha anche analizzato le cause profonde che hanno prodotto tali conseguenze. Sono le cause ad essere le più importanti, poiché da esse possono sempre scaturire una quantità di conseguenze sempre nuove, sempre peggiori. Ora, il cardinale Ratzinger queste cause non le ha mai analizzate, e v’è proprio da temere che, divenuto papa, dopo cinque anni di pontificato, non abbia acquisito una maggiore lucidità sull’argomento.
Ne sono testimonianza tutti i suoi discorsi regolarmente pubblicati ne L’Osservatore romano e nei quali si riafferma continuamente il triplice principio della libertà religiosa (tratto dalla dichiarazione Dignitatis humanae), della laicità degli Stati (tratto dalla costituzione Gaudium et spes) e dell’ecumenismo (tratto dal decreto Unitatis redintegratio), principi che sono in contraddizione formale con l’insegnamento costante e unanime del magistero pontificio anteriore al Vaticano II. Sono questi principi che costituiscono la radice di tutte le conseguenze attuali e – Dio ce ne scampi – forse anche delle future. Fin tanto che il Papa e i vescovi rimarranno attaccati a questi principi lo stato di crisi persisterà nella Chiesa.
Sembra che Lei giudichi molto severamente il Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger. All’indomani delle consacrazioni di Ecône, in un discorso indirizzato alla Conferenza Episcopale Cilena, nel luglio del 1988, non ha egli reagito quanto meno con forza contro la contestazione progressista? Questo discorso, che presentava tutte le caratteristiche di una vera arringa a favore di una certa continuità nella Tradizione, non preannunciava già il discorso del 22 dicembre 2005, che condanna l’ermeneutica della rottura?
Questo discorso del 1988 [1] costituisce, insieme a Rapporto sulla fede, ciò che a buona ragione si può chiamare «la tesi Ratzinger»: un Concilio ottimo stravolto da gente molto male intenzionata [2]. La falsa tesi del cardinale Ratzinger è che il Vaticano II è buono e dunque non va riformato; bisogna solo rivederne l’applicazione (o la «ricezione», come dicono in molti), ponendo fine a dei semplici abusi. Questa tesi è falsa, poiché, come dimostra molto bene l’articolo del Courrier de Rome del novembre 1988 (p. 4), «certi testi del Concilio sono realmente separati dalla Tradizione e in alcun caso possono essere conciliati con essa. Non si tratta solo, come pensa il cardinale Ratzinger, di “numerose presentazioni che danno l’impressione che col Vaticano II sia cambiato tutto e che ciò che lo precede non abbia più valore”. No. Vi sono dei testi del Concilio che costituiscono un cambiamento rispetto a ciò che c’era prima, tali che impongono una scelta: o il Vaticano II o la Tradizione. Testi come Nostra Aetatae, per le religioni non cristiane, Unitatis redintegratio, per l’ecumenismo, Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, portano effettivamente e con ragione a chiedersi, come fa il cardinale Ratzinger, “se la Chiesa odierna è realmente quella di ieri o se è stata rimpiazzata con un’altra, senza peraltro essersi preoccupati di avvertire i cattolici”».
Nel 1988, all’indomani delle consacrazioni, la differenza tra il cardinale Ratzinger e Mons. Lefebvre stava nel fatto che, per il secondo, all’origine dei cambiamenti osservabili nei fatti vi sono gli stessi testi del Vaticano II, mentre per il primo vi sono solo «numerose presentazioni che danno l’impressione che col Vaticano II sia cambiato tutto». Vent’anni più tardi, il discorso del 22 dicembre 2005 non ha smentito quanto rivolto alla Conferenza Episcopale Cilena: scartando l’ermeneutica della rottura («numerose presentazioni che danno l’impressione che col Vaticano II sia cambiato tutto»), occorre ritornare ad una ermeneutica della continuità (la lettera del Concilio buono, fuori da ogni abuso). Occorre cioè ritornare ai testi, compreso quello sulla libertà religiosa, poiché questi testi sono ritenuti conformi alla Tradizione.
Questi due discorsi, del 1988 e del 2005, alimentano l’illusione che si possa rimediare alla crisi della Chiesa ritornando alla lettera avvelenata del Concilio. Illusione persistente e funesta.
Ma, Don Régis, anche se la giovinezza teologica di Joseph Ratzinger ha potuto essere influenzata dalla nuova teologia, oggi tutti parlano di un papa agostiniano. Con Benedetto XVI si può parlare apertamente degli abusi che si commettono nella Chiesa a livello dottrinale e liturgico. Benedetto XVI vuole indubbiamente prendere le distanze da Giovanni Paolo II, non crede che bisognerebbe concedergli un po’ di tempo? Parigi non s’è fatta in un giorno, e tantomeno Roma!
Ci si ricordi dei primi cinque anni di Giovanni Paolo II. Il Papa polacco, da poco eletto, suscitò l’entusiasmo delle forze conservatrici della Chiesa. A sentire tutte le voci che circolavano, a destra e a manca, si trattava del Papa del ritorno alla sana dottrina della Chiesa, il Papa che avrebbe corretto il Concilio Vaticano II «alla luce della Tradizione»; espressione che ha incontrato il successo che si sa in tutti gli ambienti cattolici tradizionali: eravamo al tempo dell’udienza concessa a Mons. Lefebvre. Ma, allo scadere dei cinque anni arrivò la doccia fredda: quando si vide il Papa raccogliersi da pellegrino sulla tomba di Lutero (1983), poi la visita alla sinagoga di Roma e infine lo scandalo di Assisi (1986).
Si può ricordare che Benedetto XVI non ha atteso cinque anni per dissipare certe illusioni che la sua reputazione di teologo conservatore avrebbe potuto suscitare. Quando si valuta il cammino percorso in così poco tempo, si può dire che egli non sta certo dietro a Giovanni Paolo II. Il Papa bavarese si è già recato tre volte in una sinagoga, in Germania nel 2005, negli Stati Uniti nel 2008 e infine a Roma, ultimamente, lo scorso gennaio. La visita ufficiale alla sinagoga di Colonia è stata peraltro uno dei primi gesti del nuovo Papa, ad appena quattro mesi dalla sua elezione. In quella occasione, Benedetto XVI ha chiaramente lasciato intendere che l’opposizione tra Nuovo e Vecchio Testamento deriva da questioni teologiche ancora discusse [3], come se per i Giudei il rifiuto del principio stesso della salvezza, il rifiuto di riconoscere in Gesù Cristo la Persona divina del Verbo Incarnato, costituisse una opzione in fondo legittima. E questa prima iniziativa del 2005 fu seguita dalla visita alla chiesa scismatica di San Giorgio al Fanar, a Istanbul, il 29 novembre 2006, dalla preghiera nella Moschea blu di Istanbul, il 30 novembre 2006, dalla riunione ecumenica di preghiera a Napoli, il 21 ottobre 2007 [4]. Nel corso di quest’ultima riunione, il Papa esordì dicendo: «L’odierno incontro ci riporta idealmente al 1986, quando il venerato mio Predecessore Giovanni Paolo II invitò sul colle di San Francesco alti Rappresentanti religiosi a pregare per la pace, sottolineando in tale circostanza il legame intrinseco che unisce un autentico atteggiamento religioso con la viva sensibilità per questo fondamentale bene dell’umanità». E aggiunse: «Nel rispetto delle differenze delle varie religioni, tutti siamo chiamati a lavorare per la pace».
Tutto questo non ha niente di sorprendente se si guarda alle dichiarazioni rilasciate dal Papa nell’intervista alla televisione polacca, il 16 ottobre 2005: « Io considero proprio una mia missione essenziale e personale di non emanare tanti nuovi documenti, ma di fare in modo che questi documenti [di Giovanni Paolo II] siano assimilati, perché sono un tesoro ricchissimo, sono l’autentica interpretazione del Vaticano II. Sappiamo che il Papa era l’uomo del Concilio, che aveva assimilato interiormente lo spirito e la lettera del Concilio e con questi testi ci fa capire veramente cosa voleva e cosa non voleva il Concilio» [5].
Una cosa dunque è certa: Benedetto XVI non è prossimo a prendere le distanze da Giovanni Paolo II, quanto meno per quel che riguarda l’essenziale di ciò che provoca la crisi della Chiesa. Per il tramite dei suoi predecessori, è l’eredità di tutto il Concilio che gli s’impone.
Vi è stato, quanto meno, un elemento largamente positivo nel corso di questi primi cinque anni di pontificato: il Motu Proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007.
Indubbiamente questo Motu Proprio autorizza la celebrazione della Messa e dei Sacramenti secondo il Rito tridentino, ma questo a titolo straordinario. Anche se quest’uso potrà diventare frequente nei fatti, esso non corrisponde alla legge ordinaria e comune, che resta sempre il Novus Ordo Missae di Paolo VI. È un po’ quello che è accaduto nel XIX secolo, all’epoca della legge Falloux, con la famosa questione scolastica. Si accordava ai cattolici la libertà di avere delle loro scuole confessionali, ma a condizione che riconoscessero la rettitudine della scuola laica. Tutti i cattolici liberali, come Montalembert, si sono buttati a capofitto nella novità, ma i veri cattolici hanno resistito. Per loro non si trattava di riconoscere di diritto un semplice regime di tolleranza per la fede cattolica, poiché avrebbe significato riconoscere all’errore, non solo un diritto, ma un diritto preponderante. È un po’ la stessa cosa con questa politica liturgica di Benedetto XVI.
D’altronde, è lo stesso Papa che lo dice, egli non si nasconde: questo Motu Proprio mira solo a stabilire un certo regime di tolleranza liturgica. «questo Motu Proprio è semplicemente un atto di tolleranza, ai fini pastorali, per persone che sono state formate in quella liturgia, la amano, la conoscono, e vogliono vivere con quella liturgia. È un gruppo ridotto poiché presuppone una formazione in latino, una formazione in una cultura certa. Ma per queste persone avere l'amore e la tolleranza di permettere di vivere con questa liturgia, sembra un’esigenza normale della fede e della pastorale di un vescovo della nostra Chiesa. Non c'è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia» [6]. Ed è qui che sta propriamente l’errore: contrariamente a ciò che afferma Benedetto XVI, vi è proprio un’opposizione, e un’opposizione radicale, tra la liturgia del Papa San Pio V e quella di Paolo VI. I cardinali Ottaviani e Bacci lo hanno detto con forza nella lettera di presentazione del Breve esame critico presentato al Papa Paolo VI nel 1969: la liturgia rinnovata in seguito al Concilio Vaticano II «rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino».
Nel testo stesso del Motu Proprio si legge, all’articolo 1: «Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve essere considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico». Ci si dice che per la stessa «lex orandi» vi sono due espressioni, di cui una straordinaria rispetto all’altra. Nell’intenzione del Papa è la liturgia di Paolo VI che ha valore di riferimento. Ora, noi sappiamo che la fede del popolo cristiano è regolata dall’espressione della liturgia. È il Messale che condiziona la professione di fede dei fedeli. A cattivo Messale, cattivo credo. E allora, se della «lex orandi» vi sono due espressioni, una buona e l’altra cattiva, si avranno parallelamente due credi: uno buono e l’altro cattivo. E se il cattivo Messale ha valore di riferimento, se costituisce l’espressione ordinaria del credo dei fedeli, questo significa che nell’intenzione del Papa il credo cattivo resta la norma è deve prevalere sul credo buono.
Indubbiamente si riserva un posto alla Messa cattolica, il che non è poco. È finito il regime di persecuzione aperta. E tuttavia questo non è il ritorno alla Tradizione. Nello spirito di Benedetto XVI, se la Messa cattolica è tollerata, lo è a condizione che accetti di coabitare con il Novus Ordo Missae, che resta l’espressione ordinaria della legge liturgica. Con Mons. Lefebvre, noi persistiamo nel credere che la Messa cattolica meriti molto di più che un piccolo posto a fianco della Messa riformata di Paolo VI, la «Messa di Lutero». Per ristabilire il buon credo nella sua totalità, non basta riprendere il Messale buono a fianco di quello cattivo; è necessario riprendere il Messale tradizionale del 1962 come espressione ordinaria della legge della preghiera, con l’esclusione del Messale di Paolo VI.
Nonostante certi vantaggi immediati, non è dunque assolutamente certo che, preso in se stesso, il Motu Proprio di Benedetto XVI sia così ampiamente positivo. Ci troviamo certamente di fronte ad un regime di tolleranza di cui i cattolici potranno di fatto approfittare, per respirare un po’ più agevolmente, e grazie al quale certe anime di buona volontà potranno riscoprire in gran parte il tesoro della tradizione liturgica della Chiesa. Ma bisogna riconoscere che questa situazione non ci può soddisfare pienamente e noi non potremmo approvare, per il presupposto falso che contiene, il principio del liberalismo liturgico.
D’altronde, il Motu Proprio stabilisce, all’articolo 2, che «Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l’uno o l’altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario». Così ogni sacerdote di passaggio può celebrare la nuova Messa in qualsiasi casa dell’una o dell’altra comunità Ecclesia Dei senza che i superiori possano opporvisi. E questa celebrazione della nuova Messa nelle comunità Ecclesia Dei non si limiterà ad essere privata, senza l’assistenza dei fedeli, poiché l’articolo 4 del Motu Proprio prevede anche che «Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all’art. 2, possono essere ammessi - osservate le norme del diritto - anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà». Ecco perché la Fraternità San Pio X non potrebbe accettare una soluzione puramente canonica prima che Roma si decida a rimettere in questione il principio stesso della nuova Messa di Paolo VI.
Tutti questi fatti sono indubbiamente innegabili, ma allora perché i media danno di Benedetto XVI questa immagine illusoria di un papa conservatore?
Non lasciamoci impressionare dai media. Essi devono piacere alla folla, e la folla molto spesso non si eleva al livello della migliore avvedutezza…
Detto questo, è vero che, nei particolari del suo governo, Benedetto XVI si sforza di restaurare un minimo di disciplina. Non si può negare che la fine del pontificato di Giovanni Paolo II abbia dato luogo a numerosi abusi. Il nuovo Papa è un uomo d’ordine ed ha voluto riprendere le redini del potere. Vi è in lui uno stile di governo che va incontestabilmente a favore di un certo rigore, in particolare nel dominio morale. E questo dispiace profondamente ai poteri di questo mondo, che vogliono spingere fino in fondo la rivoluzione. Si cerca di offuscare l’immagine di una Chiesa il cui capo visibile manifesta malgrado tutto una certa resistenza di fronte alla corruzione del mondo moderno.
Ma sul piano della dottrina (che peraltro deve ispirare tutta la morale) i falsi principi che ispirano questo governo rimangono disgraziatamente gli stessi.
Questa dualità che fa muovere la politica di Benedetto XVI tra una fedeltà indefettibile ai principi rivoluzionari del Vaticano II e un ritorno all’ordine sul piano disciplinare, non deve stupirci, poiché si tratta di una costante del modernismo. Pensiamo a ciò che diceva San Pio X nella Pascendi: i modernisti non sono tutti conseguenti allo stesso grado. Certi ammettono i principi, ma vogliono mettere un freno alle conseguenze che ne derivano. Questo sillogismo è paradossalmente logico… nella logica modernista. Questo, diceva San Pio X, «è come il risultato di due forze che si combattono, delle quali una è progressiva, l’altra conservatrice»; la forza che spinge alla conservazione è l’autorità che reprime gli abusi; la forza che spinge al progresso sono gli imperativi del Concilio.
Non teme che un linguaggio così critico possa indisporre la Santa Sede nei nostri confronti?
Vogliamo conservare la nostra fede e piacere a Dio o vogliamo piacere agli uomini? Il Papa e i vescovi sono imbevuti del Concilio, imbevuti di liberalismo e di modernismo: questi sono i fatti. E contro i fatti non v’è argomento, non vi sono «se» o «ma». Coloro che ragionano con dei «se» o dei «ma» sono gli esitanti o i complici, tutti quelli le cui false inquietudini diminuiscono le forze invece di aumentarle. Noi dobbiamo essere forti, forti nella nostra fede. È San Pietro che lo dice: bisogna che resistiamo al diavolo rimanendo «fortes in fide».
Se amiamo veramente la verità, se siamo pronti a difendere la nostra fede, non possiamo non denunciare gli errori, e denunciarli pubblicamente, come San Paolo, nel momento opportuno ed anche inopportuno. San Paolo non ha temuto di contristare i Corinti, ma lo fece per condurli alla penitenza di cui avevano bisogno. «Contristavi vos ad penitentiam».
Ha un’ultima parola per colorire la nostra intervista?
Non dimentichiamo che la Chiesa vive con il ritmo dell’eternità. Mons. Fellay ce lo ha ricordato molto opportunamente: «Ci si dice: “Voi lo sapete, oggi il Papa vi vuole bene, ma chi verrà dopo di lui? Non si sa! Dunque il momento per accettare è adesso o mai più”. Io ho risposto al cardinale che mi faceva questo discorso: “Eminenza, io credo nello Spirito Santo. Se lo Spirito Santo è capace di illuminare il Papa, potrà illuminare anche i successori” E se lui ci vuol bene, forse il prossimo Papa ci vorrà ancora più bene. Ancora una volta, non si può discutere sulla fede, non si ha il diritto di manipolare la fede» [7].
La durata della crisi può sembrarci lunga, ma la perseveranza non implica giustamente una certa lunghezza di tempi? Nostro Signore ce l’ha detto: è con l’esercizio della pazienza che salverete le vostre anime (Lc 21, 19). E San Paolo aggiunge che è attraverso la pazienza che deve provarsi la nostra speranza (Rm 5, 4).
[1] - Questo discorso è stato analizzato nel numero di novembre 1988 del Courrier de Rome, versione francese del quindicinale Si Si No No, che titolava «Il cardinale Ratzinger dimostra lo stato di necessità nella Chiesa». Lo stesso giornale ritornerà in seguito a più riprese sull’argomento: nei numeri di novembre 1989, aprile 1991, settembre 1991, marzo 1992.
[2] - Editoriale di Le Chardonnet, n° di aprile 1989.
[3] - Cfr. Benoît XVI, «Allocution lors de la visite à la synagogue de Cologne, le 19 août 2005», dans DC n° 2343, p. 892 [Benedetto XVI, Saluto di Sua Santità in visita alla sinagoga di Colonia, 19 agosto 2005 - Reperibile sul sito della Santa Sede: Benedetto XVI: Viaggi].
[4] - Saluto di Sua Santità Benedetto XVI nell’incontro con i capi delle delegazioni che partecipano all’incontro internazionale per la pace, 21 ottobre 2007 – Reperibile sul sito della Santa Sede: Benedetto XVI: Viaggi.
[5] - Intervista di Sua Santità Benedetto XVI alla Televisione Polacca, 16 ottobre 2005 – Reperibile sul sito della Santa Sede: Benedetto XVI: Discorsi.
[6] - Intervista concessa dal Santo Padre Benedetto XVI ai giornalisti durante il volo per la Francia, 12 settembre 2008 - Reperibile sul sito della Santa Sede: Benedetto XVI: Viaggi].
[7] - Omelia di Mons. Fellay del 15 agosto 2008 a Saint-Malo, riportata in DICI, n° 181.