sabato 5 giugno 2010

heri dicebamus

Quebec: La secolarizzazione continua


 "Non passa una settimana senza che si parli di chiusura, vendita di chiese o di demolizione di monasteri", afferma Luc Noppen, specialista in patrimonio urbano presso l'Università del Quebec a Montreal (UQAM) e autore di diversi libri sull'argomento.
L'ultimo edificio religioso che viene venduto è l'imponente monastero del Preziosissimo Sangue, a Trois-Rivières, che sarà trasformato in un condominio da una società privata. Al momento della vendita del loro convento, le suore del Preziosissimo Sangue non hanno richiesto alcuna clausola speciale, come spesso accde per la vendita di una chiesa o monastero. Luc Noppen non si stupisce: solo 10 anni fa la vendita di una chiesa era una cosa eccezionale, "oggi è parte della nostra vita quotidiana". Jocelyn Groulx, Direttore del Consiglio, del patrimonio religioso del Québec, rivela da parte sua che ogni anno sono circa venti le chiese che sono chiuse in Quebec, "per mancanza di fedeli e di denaro per mantenerle, mentre i sacerdoti sono settantenni".
A Roberval, nella regione amministrativa di Saguenay-Lac-Saint-Jean, Saint-Jean-de-Brébeuf, chiuso dal 26 ottobre 2008, sarà analogamente trasformato in un condominio. Altri undici "condomini" saranno pronti nei prossimi mesi. La trasformazione di questo edificio costruito in stile neo-gotico avrà un costo di circa 1 milione di dollari canadesi. Gli imprenditori hanno promesso di "rispettare il carattere religioso del luogo" ... La chiesa, costruita nel 1930, è stata posta sotto il patrocinio dei Martiri canadesi nella cui schiera è annoverato il Padre Jean de Brébeuf , canonizzato 29 giugno 1930.
Ci sono ancora attualmente circa 3000 chiese e un migliaio di monasteri in Quebec, l'eredità di un passato cattolico che un tempo era l'orgoglio degli abitanti di La Belle Province. Questi, tuttavia, abbandonano la Chiesa sempre di più di anno in anno, soprattutto dopo la "Rivoluzione tranquilla" degli anni '60, caratterizzata dalla separazione tra Stato e Chiesa cattolica, una volta presente in tutte le sfere della società. 

Fonte http://www.dici.org/

venerdì 4 giugno 2010

tutto un mondo venne spazzato via dalla mattina alla sera

La grande crisi
di Francesco Agnoli

Da anni sono convinto che la Chiesa cattolica stia attraversando una grande crisi, a partire soprattutto dagli anni Sessanta.
Ma è solo da poco, cioè dall’elezione di Benedetto XVI, che mi trovo in spiacevole compagnia. Di coloro, intendo, che sino a ieri magnificavano una presunta “nuova Pentecoste” della Chiesa, maledicendo i “profeti di sventura” e coloro che non si accodavano al carro degli entusiasti. Ricordo di essermi sentito dire mille volte: oggi i preti sono pochi, ma buoni, non come un tempo…
Nella mia esperienza, rispondevo, accanto a quelli indubbiamente validi, conosco sempre più preti impreparati, tiepidi, conformisti, disubbidienti e che non di rado sono i primi ad amare poco la Chiesa stessa.
Ecco, oggi mi trovo a leggere che gli acritici laudatori del nuovo corso hanno cambiato idea, e, cavalcando l’onda dell’odio anticristiano, dichiarano al mondo che è tutto da cambiare. Qual è la loro ricetta? Cosa propongono e cosa sbandierano ai quattro venti, certi, a sentir loro, di fare il bene della Chiesa? Ripetono cose vecchie, trite e ritrite, le stesse che dicono da cinquant’anni, cioè dall’inizio di questa gravissima crisi: la necessità di aprire al matrimonio dei preti, al divorzio, all’aborto, ai matrimoni gay, alla contraccezione…
Poi, aggiungono, è necessaria più democrazia, abolire il primato petrino, trasformare la Chiesa in un parlamento in cui la Rivelazione sia perennemente ai voti…
Ecco, codesti venditori di monete false vogliono intraprendere la strada machiavellica della “realtà effettuale”, perché la fede, quella che “sposta le montagne” e “vince il mondo”, trasformando la realtà, la hanno persa da tempo. Per questo la loro diagnosi è errata, a differenza di quella di alcune “vigili sentinelle” che, con vero amore per la Chiesa, da anni ne hanno denunciato le ferite, le macchie, i tradimenti.
Tra codeste sentinelle vi è il gesuita Malachi Martin, già stretto collaboratore del cardinal Bea e di papa Giovanni XIII. Proprio in questa veste Martin ebbe a leggere il terzo segreto di Fatima, di cui parlai due giovedì fa, concordando con chi ritiene che esso riguardi la crisi della Chiesa iniziata negli anni Sessanta. Ebbene Martin è autore di un interessantissimo testo, I Gesuiti (Sugarco 1988), che andrebbe rispolverato. Questo libro è dedicato, significativamente, a “Nostra Signora di Fatima” e mette in luce soprattutto la disgregazione di un ordine religioso, quello dei Gesuiti, che aveva dato alla Chiesa una prova secolare di obbedienza, di coraggio e di intelligenza. Martin afferma che negli anni Sessanta molti gesuiti, col beneplacito dei loro superiori, si sono esercitati a fare a brandelli “non solo i fianchi ma anche la sostanza del cattolicesimo”.
Tra costoro ricorda George Tyrrell, Teilhard de Chardin, Pedro Arrupe e Karl Rahner, definito “l’uomo di punta dell’autocannibalismo cattolico” (a cui Giovanni Cavalcoli ha da poco dedicato il suo “Karl Rahner. Il concilio tradito”, Fede & Cultura).
A questi e a tanti altri gesuiti Martin imputa di aver lottato in tutti i modi contro il cattolicesimo romano, propagandando l’alleanza col marxismo, e una nuova visione dell’omosessualità, dell’aborto, del divorzio, dell’autoerotismo, del celibato ecclesiastico e dell’autorità petrina. Alcuni di loro, racconta Martin, nella loro lotta all’Humanae vitae arrivarono a sostenere la necessità, per la miglior riuscita del loro ministero, di avere “rapporti intimi con donne senza che questi implicassero il matrimonio formale o legale”.
Così la Compagnia di Ignazio, che aveva servito tanti papi senza indugio, che aveva dato centinaia di martiri, pronti a farsi uccidere per la fede e per l’unità della Chiesa, si schierò compatto contro Roma e la sua Tradizione. Tanto che Giovanni Paolo I, il papa dei 33 giorni, aveva già pronta, prima di morire, una riforma, o, se non gli fosse stata possibile, una “liquidazione definitiva della Compagnia”.
In un capitolo intitolato “Tempesta sulla città”, Martin propone una interpretazione degli anni del Concilio: una “gloriosa confusione”, una “confusione euforica” si impadronì allora del mondo cattolico, e “tutto un mondo venne spazzato via dalla mattina alla sera”. Un giorno la gente “scoprì all’improvviso che il latino universale della messa non c’era più” e che al suo posto c’erano “una babele di lingue” e “un nuovo rito che assomigliava all’antica messa come una capanna assomiglia ad una dimora palladiana”.
“Gli altari del sacrificio furono tolti”, le statue e gli inginocchiatoi buttati, insieme alla concezione tradizionale del sacerdozio, ai voti di povertà, castità ed obbedienza, e alle tonache. Al posto delle quali comparvero “maglioni a dolcevita, pantaloni larghi, bluejeans”, “barbe, basettoni, capelli raccolti in code di cavalli”.
I riformatori avevano promesso che le innovazioni avrebbero portato a tempi splendidi; in realtà l’ ordine gesuita, che era continuamente cresciuto dopo l’inizio del Novecento, si assottigliò bruscamente, così come la frequenza della gente ai sacramenti, che diminuì in poco tempo del 30% negli Usa, del 60% in Francia ed Olanda, mentre dal 1965 al 1977 dai 12 ai 14 mila preti lasciarono il loro ministero: “la Chiesa cattolica non aveva mai subito delle perdite così disastrose in un tempo tanto breve”.
Tutto in nome dell’ “aggiornamento”, di un “parossismo innovativo” che personaggi come il cardinale gesuita Martini, incapace di leggere storia e segni dei tempi, continuano a predicare in buona, clericale compagnia.

da "Il Foglio" del  3 giugno 2010

martedì 1 giugno 2010

che cosa ha detto veramente Mons. Scicluna

Nel caso dell'Omelia tenuta da Mons. Scicluna la mattina di sabato 29 maggio, all’altare della Cattedra nella basilica di San Pietro, durante l'Adorazione Eucaristica di riparazione per i tristissimi casi di abusi commessi da membri del clero, come di solito succede quando il clima è quello della ricerca ossessiva della frase ad effetto, si è sollevato un gran polverone che ha impedito a molti di apprezzare fino in fondo un'omelia bellissima e profondissima. Si tratta infatti di una straordinaria meditazione che ripropone anche in Vaticano alcune verità "dimenticate" e "scomode", quelle cioè del peccato, del giudizio e dell'inferno: da parte di qualche giornalista sprovveduto si è scambiato per un pensiero espresso da Mons. Scicluna ciò che ha detto il Papa san Gregorio Magno e si è creato il caso "Inferno più duro".  Comunque si è ritornati a parlare dell'inferno e questo è una cosa buona. Mons. Scicluna poi non ha fatto altro che enunciare la dottrina di sempre (vedi per esempio il n. 251 del Catechismo i San Pio X che recitava così: "I beni del paradiso per i beati, e i mali dell'inferno per i dannati, saranno uguali nella sostanza e nella eterna durata; ma nella misura, ossia nei gradi, saranno maggiori o minori, secondo i meriti, o demeriti di ciascuno"). Sembra che qualcuno  scopra l'acqua calda...ma son cose che si son sempre professate e insegnate fino ad certo "aggiornamento"  che si disse necessario... poi, una volta aggiornati, si è cominciato a parlare di inferno "forse vuoto", "sperabilmente vuoto", "davvero vuoto".



OMELIA DELL’ADORAZIONE EUCARISTICA IN SAN PIETRO
di Charles J. Scicluna

La lettura del testo evangelico ci dà una descrizione sintetica ma stupenda del rapporto dolce e tenero di Gesù con i bambini. Questa scena, senz’altro centrale ed emblematica per chi è chiamato ad essere discepolo di Cristo, segna i versetti 36-37 del capitolo 9 di Marco e si ripete al capitolo 10 nei versetti 13-16: “E preso un bambino, lo pose in mezzo, abbracciandolo” (Mc 9, 36). “Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse… e prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro, li benediceva” (Mc 10, 13.16).

La nostra presenza qui, oggi; la vostra presenza presso l’altare della Cattedra, alla presenza di Gesù eucaristia vuole fare eco dell’amore, della cura e della sollecitudine che la Chiesa, sposa di Gesù, ha sempre avuto per i bambini e per i deboli.

Mettiamoci alla scuola dei Padri della Chiesa, facendo tesoro del lavoro di San Tommaso d’Aquino nella “Catena Aurea”. Possiamo così trovare che per Teofilatto, apprezzato commentatore dei Sacri Testi, il bambino è l’immagine eloquente dell’innocenza. Giovanni Crisostomo commenta che il Signore ne apprezza l’umiltà e la semplicità “perché questo piccolo era puro dall’invidia e dalla vanagloria e da ogni desiderio di superiorità” (Hom. in Matt. 58). Beda il Venerabile ne esalta l’assenza di malizia, la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia, la dedizione senza rancore (Comm. in Marc. 3, 39).

Il bambino diventa icona del discepolo che vuole essere “grande” nel Regno dei Cieli. Il Signore Gesù biasima i suoi perché, appena edotti per la seconda volta dell’esigenza della croce (Mc 9, 30-32), si sono persi per strada, lungo la via, in discussioni tra loro su chi fosse il più grande: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Quanti peccati nella Chiesa per l’arroganza, per l’insaziabile ambizione, per il sopruso e l’ingiustizia di chi si approfitta del ministero per fare carriera, per mettersi in mostra, per futili e miseri motivi di vanagloria!

“Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato” (Mc 9, 37).
Accogliere il bambino, aprire il cuore all’umiltà del bambino, accoglierlo nel nome di Gesù, significa assumere il cuore di Gesù, gli occhi del Maestro; implica un’apertura al Padre e allo Spirito Santo. Esclama Teofilatto: “Vedi com’è grande l’umiltà! Essa si guadagna la dimora del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.”
“In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso” (Mc 10, 15).
Accogliere il regno di Dio come un bambino significa accoglierlo con cuore puro, con docilità, abbandono, fiducia, entusiasmo, speranza. Il bambino ci ricorda tutto questo. Tutto questo rende il bambino prezioso agli occhi di Dio e agli occhi del vero discepolo di Gesù.

Quanto, invece, diventa arida la terra e triste il mondo quando questa immagine così bella, quando questa icona così santa, è calpestata, infranta, infangata, abusata, distrutta. Esce dal cuore di Gesù il grido di eco profonda: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite!” (Mc 10, 14). Non siate di inciampo sul loro cammino verso di me, non ostacolate il loro progresso spirituale, non lasciate che siano sedotti dal maligno, non fate dei bambini l’oggetto della vostra impura cupidigia.

“Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare” (Mc 9, 42).

Gregorio Magno così commenta queste terribili parole di Gesù: “Misticamente espresso nella macina da asino è il ritmo duro e tediante della vita secolare, mentre il profondo del mare sta a significare la dannazione più terribile. Perciò chi, dopo essersi portato ad una professione di santità, distrugge altri tramite la parola o l’esempio, sarebbe davvero meglio per lui che i suoi malfatti gli fossero causa di morte essendo secolare, piuttosto che il suo sacro officio lo imponesse come esempio per altri nelle sue colpe; perché, senza dubbio, se fosse caduto da solo, il suo tormento nell’inferno sarebbe di qualità più sopportabile” (1).

Ma il Signore, che non gode della perdita dei suoi servi e non vuole la morte eterna delle sue creature, subito aggiunge rimedio alla condanna, farmaco alla malattia, sollievo al pericolo di eterna dannazione. Le sue sono le parole forti del chirurgo divino che taglia per guarire, amputa per risanare, pota perché la vite porti molto frutto: “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala” (Mc 9, 43). “Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo” (Mc 9, 45). “Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo” (Mc 9, 47).

Diversi santi Padri interpretano “la mano”, “il piede”, “l’occhio” come l’amico caro al nostro cuore con cui condividiamo la nostra vita, a cui siamo legati con legami di affetto, concordia e solidarietà. C’è un limite a questo legame. L’amicizia cristiana si sottomette alla legge di Dio. Se il mio amico, il mio compagno, la persona a me cara è per me occasione di peccato, è per me un inciampo nel mio peregrinare, io non ho altra scelta, secondo il criterio del Signore, se non di tagliare questo legame. Chi negherebbe lo strazio di una tale scelta? Non è forse questa una crudele amputazione? Eppure il Signore è chiaro: È meglio per me entrare da solo nel Regno (senza una mano, senza un piede, senza un occhio), che con il mio amico andare “nella Geenna, nel fuoco inestinguibile” (Mc 9, 43; cfr. Mc 9, 45.47).

Questa immagine così forte delle membra del corpo ci mette senza troppa confusione di fronte allo specchio della nostra coscienza. Il riferimento alla mano, al piede, all’occhio ci ricordano le parole sofferte dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani:
“Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rom 7, 21-25).

L’apostolo delle Genti, fattosi testimone del Vangelo della grazia (cfr. Rom 1, 16a), non si arrende alla nostra propensione al peccato. Esorta i romani con parole di fuoco che invitano alla conversione e alla fedeltà: “Come avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione” (Rom 6, 19).

Il Signore ci insegna quindi un’altra esigenza sublime del discepolato, una medicina preventiva che Gesù eucaristia, fuoco di amore, oggi propone anche a voi giovani impegnati nella formazione al ministero sacro ed ecclesiale: “Ciascuno sarà salato con il fuoco” (Mc 9, 49).
Il fuoco arde, divampa, purifica. È segno eloquente dello Spirito Santo. Nelle parole bellissime del Santo Padre, pronunciate in questa basilica di San Pietro domenica scorsa, solennità di Pentecoste:

“Il fuoco di Dio, il fuoco dello Spirito Santo, è quello del roveto che divampa senza bruciare (cfr. Es 3, 2). È una fiamma che arde, ma non distrugge; che, anzi, divampando fa emergere la parte migliore e più vera dell’uomo, come in una fusione fa emergere la sua forma interiore, la sua vocazione alla verità e all’amore. Un Padre della Chiesa, Origene, in una delle sue omelie su Geremia, riporta un detto attribuito a Gesù, non contenuto nelle Sacre Scritture ma forse autentico, che recita così: ‘Chi è presso di me è presso il fuoco’ (Omelia su Geremia I, III). In Cristo, infatti, abita la pienezza di Dio, che nella Bibbia è paragonato al fuoco. Abbiamo osservato poco fa che la fiamma dello Spirito Santo arde ma non brucia. E tuttavia essa opera una trasformazione, e perciò deve consumare qualcosa nell’uomo, le scorie che lo corrompono e lo ostacolano nelle sue relazioni con Dio e con il prossimo. Questo effetto del fuoco divino però ci spaventa, abbiamo paura di essere ’scottati’, preferiremmo rimanere così come siamo. Ciò dipende dal fatto che molte volte la nostra vita è impostata secondo la logica dell’avere, del possedere e non del donarsi. Molte persone credono in Dio e ammirano la figura di Gesù Cristo, ma quando viene chiesto loro di perdere qualcosa di se stessi, allora si tirano indietro, hanno paura delle esigenze della fede. C’è il timore di dover rinunciare a qualcosa di bello, a cui siamo attaccati; il timore che seguire Cristo ci privi della libertà, di certe esperienze, di una parte di noi stessi. Da un lato vogliamo stare con Gesù, seguirlo da vicino, e dall’altro abbiamo paura delle conseguenze che ciò comporta.

“Cari fratelli e sorelle, abbiamo sempre bisogno di sentirci dire dal Signore Gesù quello che spesso ripeteva ai suoi amici: ‘Non abbiate paura’. Come Simon Pietro e gli altri, dobbiamo lasciare che la sua presenza e la sua grazia trasformino il nostro cuore, sempre soggetto alle debolezze umane. Dobbiamo saper riconoscere che perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente. Chi si affida a Gesù sperimenta già in questa vita la pace e la gioia del cuore, che il mondo non può dare, e non può nemmeno togliere una volta che Dio ce le ha donate. Vale dunque la pena di lasciarsi toccare dal fuoco dello Spirito Santo! Il dolore che ci procura è necessario alla nostra trasformazione. È la realtà della croce: non per nulla nel linguaggio di Gesù il fuoco è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce, senza il quale non esiste cristianesimo. Perciò, illuminati e confortati da queste parole di vita, eleviamo la nostra invocazione: Vieni, Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! Sappiamo che questa è una preghiera audace, con la quale chiediamo di essere toccati dalla fiamma di Dio; ma sappiamo soprattutto che questa fiamma – e solo essa – ha il potere di salvarci. Non vogliamo, per difendere la nostra vita, perdere quella eterna che Dio ci vuole donare. Abbiamo bisogno del fuoco dello Spirito Santo, perché solo l’Amore redime”.

“Ciascuno sarà salato con il fuoco” (Mc 9, 49).
Il sale preserva dalla corruzione e dà sapore. I Santi Padri vedono qui l’immagine della continenza e della saggezza. L’apostolo Paolo esortava i colossesi (Col 4, 6): “Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito con sale, per sapere come rispondere a ciascuno”. Il sale quindi è il Signore Gesù Cristo che ha preservato tutto il mondo dalla corruzione e ha concesso ai suoi, a noi, di essere sale e luce della terra (Matt 5, 13).

“Buona cosa il sale, ma se il sale diventa senza sapore, con che cosa lo salerete? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri” (Mc 9, 49).
È questo l’invito che il maestro Gesù rivolge a tutti noi oggi, in questa solenne adorazione di riparazione e di preghiera di intercessione in sintonia con il Santo Padre Benedetto XVI. Noi sentiamo la chiamata del Signore. Non vogliamo dissipare l’entusiasmo della nostra risposta. Non vogliamo che il nostro sale perda il suo sapore. Ai piedi dell’eucaristia facciamo nostra la preghiera che la Chiesa indirizza a Gesù presente sull’altare durante la santa messa: “Signore Gesù che hai detto ai tuoi apostoli: ‘Vi lascio la pace, vi do la mia pace’, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen” (Messale Romano).

(1) Il testo originale latino della citazione di Gregorio Magno (”Regula pastoralis”, pars I, caput II):
“Indigni autem quique tanti reatus pondera fugerent, si veritatis sententiam sollicita cordis aure pensarent, quae ait: Qui scandalizaverit unum de pusillis istis qui in me credunt, expedit ei ut suspendatur mola asinaria in collo ejus, et demergatur in profundum maris (Matth. XVIII, 6). Per molam quippe asinariam, secularis vitae circuitus ac labor exprimitur, et per profundum maris extrema damnatio designatur. Qui ergo ad sanctitatis speciem deductus, vel verbo caeteros destruit, vel exemplo; melius profecto fuerat, ut hunc ad mortem sub exteriori habitu terrena acta constringerent, quam sacra officia in culpa caeteris imitabilem demonstrarent, quia nimirum si solus caderet, utcumque hunc tolerabilior inferni poena cruciaret”.

domenica 30 maggio 2010

il Concilio e la crisi della vita devota (2)

LA CRISI DELLA VITA DEVOTA E LE RESPONSABILITÀ DEL CONCILIO


2. RESPONSABILITÀ DEL CONCILIO


Dobbiamo addossare al Vaticano II anche la colpa dell’attuale crisi della devozione, in tutte le sue forme, e in particolare in quella rappresentata dalla pietas privata dei fedeli? A prima vista la cosa non sembrerebbe possibile, dal momento che il Concilio ribadisce la necessità e l’importanza della preghiera personale e propugna il mantenimento delle tradizionali pratiche della devozione cattolica. Del resto, avrebbe forse potuto passarle sotto silenzio?

Ciò risulta, in particolare, dagli articoli 11, 12 e 13 della Sacrosanctum Concilium, la costituzione che ha stabilito i princìpi della riforma della liturgia.Tuttavia i testi conciliari mostrano omissioni e sfumature, non prive di ambiguità, che sembrano voler svalutare l’ importanza di queste forme tradizionali di pietà, inglobandole nella liturgia, contro l’ insegnamento tradizionale del Magistero.

La dottrina tradizionale richiamata da Pio XII nella Mediator Dei

Sappiamo che l’enciclica Mediator Dei di Pio XII, del 20 novembre 1947, dedicata alla sacra liturgia, analizzava a fondo il rapporto tra il culto esterno ed il culto interno, mostrando la necessità del loro intimo equilibrio alla luce del concetto che “l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno”, al quale appartiene la pietà privata tipica della vita devota. Se così non fosse, la religione diventerebbe “un formalismo senza fondamento e senza contenuto”.

Il culto interno deve naturalmente attuarsi sempre “in intima congiunzione con il culto esterno”. La Mediator Dei condannava perciò l’errore dei panliturgisti, apparso già in alcune componenti del Movimento Liturgico alla fine degli anni venti del secolo XX, secondo il quale errore a contare era soprattutto la cosiddetta “pietà oggettiva”, quella cioè che si attuava nel culto esterno e pubblico, grazie all’efficacia ex opere operato dei Sacramenti e del Sacrificio dell’altare, a scapito del culto privato o pietà sprezzantemente detta “soggettiva”. Incentrando tutta la pietà cristiana “nel mistero del Corpo Mistico di Cristo, senza nessun riguardo personale e soggettivo”, costoro ritenevano, precisava l’enciclica, “che si debbano trascurare le altre pratiche religiose non strettamente liturgiche e compiute al di fuori del culto pubblico”.

Ai panliturgisti il Papa ricordava che i Sacramenti e il Sacrificio dell’altare, “per avere la debita efficacia esigono le buone disposizioni dell’anima nostra”, tant’è vero che “nessuno può ricevere validamente e tanto meno degnamente e con frutto un Sacramento se non è nelle condizioni necessarie” (Allocuzione ai sacerdoti e predicatori della Quaresima, tenuta il 17.2.1945 a Roma, in La Liturgie, Les Enseignements Pontificaux, Desclée, 1961, pp. 304-306). Non bisogna mai dimenticare, proseguiva, che “l’opera della redenzione, in sé indipendente dalla nostra volontà, richiede l’intimo sforzo dell’anima nostra (internum animi nostri nisum) perché possiamo conseguire l’eterna salvezza”. Questo “intimo sforzo”, al quale il nostro libero arbitrio non può sottrarsi e che la tradizione cattolica ha sempre concepito ed attuato nel giusto equilibrio di ragione, volontà e sentimento religioso, l’enciclica lo illustrava e chiarificava in una pagina esemplare per chiarezza e perspicuità di analisi: “Se la pietà privata e interna dei singoli trascurasse l’augusto Sacrificio dell’altare e i Sacramenti e si sottraesse all’influsso salvifico che emana dal Capo nelle membra, sarebbe senza dubbio riprovevole e sterile; ma quando tutte le previdenze e gli esercizi di pietà non strettamente liturgici (sed cum omnia pietatis consilia et opera, quae cum Sacra Liturgia arcte non coniunguntur) fissano lo sguardo dell’animo sugli atti umani unicamente per indirizzarli al Padre che è nei cieli, per stimolare salutarmene gli uomini alla penitenza e al timor di Dio e, strappatili all’attrattiva del mondo e dei vizi, per condurli felicemente per arduo cammino al vertice della santità, allora sono non soltanto sommamente lodevoli, ma necessari, perché scoprono i pericoli della vita spirituale, ci spronano all’acquisto delle virtù e aumentano il fervore col quale dobbiamo dedicarci tutti al servizio di Gesù Cristo.

La genuina pietà, che l’Angelico chiama “devozione” e che è l’atto principale della virtù della religione col quale gli uomini si ordinano rettamente, si orientano opportunamente verso Dio, e liberamente si dedicano al culto [ST, II-II, q. 82, a. 1], ha bisogno della meditazione delle realtà soprannaturali e delle pratiche spirituali perché si alimenti, stimoli e vigoreggi, e ci animi alla perfezione. Poiché la religione cristiana debitamente praticata richiede soprattutto che la volontà si consacri a Dio e influisca sulle altre facoltà dell’anima. Ma ogni atto di volontà presuppone l’esercizio dell’ intelligenza, e, prima di darsi a Dio per mezzo del sacrificio, è assolutamente necessaria la conoscenza degli argomenti e dei motivi che impongono la religione, come, per esempio, il fine ultimo dell’uomo e la grandezza della divina maestà, il dovere della soggezione al Creatore, i tesori inesauribili dell’amore col quale Egli ci vuole arricchire, la necessità della grazia per giungere alla meta assegnataci, e la via particolare che la divina Provvidenza ci ha preparata unendoci tutti come membra di un Corpo a Gesù Cristo” (Mediator Dei, cit., pp. 30-32).

Il Concilio fa sparire il concetto di “culto interno”

Il Concilio, cosa ha mantenuto di tutto questo? L’articolo 12 della Sacrosanctum Concilium (=SC), pur esprimendosi in termini molto più generici di quelli della Mediator Dei, sembra indubbiamente contenere un forte e tradizionale richiamo alla necessità della preghiera personale.

E tuttavia si cercherebbe invano, nei testi del Concilio, un concetto fondamentale come quello secondo il quale “l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno”: at praecipuum divini cultus elementum internum esse debet. Dell’esistenza di un culto esterno ed interno non si parla nemmeno e la nozione di “culto interno” sembra del tutto scomparsa. Non solo. I “distinguo” introdotti nei testi conciliari tendono a svalutare la pietà privata nei confronti della liturgia e a far prevalere la pietà cosiddetta “oggettiva” su quella “soggettiva”, andando quindi proprio nella direzione condannata dalla Mediator Dei.

Cominciamo dall’art. 11 della SC. Esso afferma esser indispensabili “le disposizioni di un animo retto” al fine di ottenere la “piena efficacia” del culto pubblico. Nella nozione di queste “disposizioni” è forse racchiusa quella del culto interno? Lo si può ritenere, pur trattandosi in ogni caso di un riferimento che resta generico, visto che la SC di “culto interno” non parla mai. Tuttavia, si nota, a mio avviso, un’ambiguità di fondo. Secondo l’insegnamento tradizionale, ribadito da Pio XII, nessuno, come si è visto, può ricevere validamente, degnamente e con i dovuti frutti un Sacramento, se non si trova nelle “condizioni necessarie”, condizioni ovviamente costituite ad opera del culto interno, mediante la vita devota. Nel testo della SC si parla, invece, di “piena efficacia” : le “disposizioni di un animo retto”, che vuole “cooperare con la grazia”, non sarebbero condizioni di valida e degna recezione del Sacramento, ma lo sarebbero solo della sua “piena efficacia”.

Non mi sembra che in tal modo la dottrina tradizionale sia qui resa fedelmente. Infatti, un conto è affermare, senza sfumature di sorta, che la disposizione interiore del soggetto è condizione di valida e degna recezione del Sacramento, che solo in tal modo può quindi essere efficace per chi lo riceve; un altro è affermare che è condizione della sua “piena efficacia”. Con la seconda formulazione, si verrebbe di fatto ad ammettere questa interpretazione: che il Sacramento, per esempio l’Eucaristia, è comunque di per sé efficace anche se in modo non pieno e quindi (se ne deve concludere) anche se il credente lo riceve con animo non retto. Si è visto che, secondo la Mediator Dei, i Sacramenti, “per avere la debita efficacia (debitam efficaciam) esigono le buone disposizioni dell’anima nostra (rectae animae nostrae dispositiones)”. La SC, al posto della “debita efficacia”, ci propone la “piena efficacia”. Mi sembra che l’ambiguità nasca proprio dall’uso di questo aggettivo: piena. Il culto interno, anonimamente riproposto nell’art. 13 della SC, risulta pertanto alquanto sminuito rispetto alla concezione tradizionale perché la funzione che ora gli viene attribuita non è più quella di concorrere in modo decisivo all’ efficacia dei Sacramenti, non è più quella di essere “l’elemento precipuo” della Liturgia, senza il quale essa decade a vuoto “formalismo” (vedi sopra), ma è solo quella di contribuire alla “piena efficacia” del culto e quindi dei Sacramenti.

Il culto interno, o ciò che ne resta, sembra perciò ridotto a un semplice ausiliare, utile unicamente per raggiungere la “piena efficacia” dei Sacramenti, i quali manterrebbero comunque un’efficacia, anche se non “piena”, in quanto atti del culto pubblico esterno. Ma come si dovrebbe intendere il concetto di un’efficacia non piena dei Sacramenti? Ad ogni modo, il culto interno viene posto in posizione subordinata rispetto a quello esterno, pubblico; esso viene anzi oscurato in modo sostanziale nella SC, risultando del tutto assente dalla definizione della Liturgia. Per meglio dire: assente dalla sua descrizione, poiché la SC (artt. 6-10) non ha voluto dare una vera definizione della liturgia, semplicemente descritta, invece, tramite immagini nell’insieme tradizionali, nelle quali si sente, però, alitare uno spirito nuovo, quello degli ammodernanti. Nella Mediator Dei, invece, come si è visto, il culto interno era parte integrante della definizione stessa della Liturgia, e quindi del suo concetto, del quale veniva addirittura a costituire “l’elemento precipuo”.

(tratto da Sì Sì No No del 15 febbraio 2009)

continua...