L'articolo “Missa antiqua o moderna?”, pubblicato su Vita pastorale n. 7/2011, pp. 16-18, a firma Severino Dianich, ha scandito in modo sconcertante il rintocco del quarto anniversario del Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007. L'autore colleziona, infatti, una serie di affermazioni in stridente dissonanza con la lettera e con lo spirito del Documento pontificio, del resto mai degnato di una citazione, come se non fosse il più autorevole intervento sulla questione. Forse un Teologo di valore, qual è Dianich, è dispensato dal prendere in seria e rispettosa considerazione il Magistero ecclesiale? Forse scambia, anche lui, l'intervento di Sua Santità Benedetto XVI per una benevola concessione a una minoranza di nostalgici? In realtà, trattasi di una approfondita riflessione sul problema teologico, serio, implicato in una Riforma liturgica di vasta e radicale portata, come quella prodotta in seguito al Concilio Vaticano II: avvenimento più unico che raro nella storia della Chiesa. Non dimentichiamo che la Chiesa nel corso della sua storia ha saputo coniugare un solido aggancio al principio della Tradizione ed insieme una certa duttilità ad adattare lo stesso principio a situazioni del tutto nuove: pensiamo per esempio al fatto che nel Secolo VI, si mal digeriva anche solo il minimo sospetto che Papa Gregorio Magno avesse modificato qualche uso liturgico romano, mutuando dal Rito bizantino (circa l'Alleluja, il Kyrie, il Pater e le vesti dei Suddiaconi); e che nel Secolo IX, mentre i Prelati tedeschi, confinanti infastiditi dalla nascita di una Chiesa particolare indipendente ai loro confini, nonché gli Esperti e i Prelati veneziani e romani, contestavano ai Missionari greci Cirillo e Metodio di aver osato introdurre la lingua parlata nella Liturgia presso i Popoli Slavi, appartenenti alla giurisdizione missionaria-patriarcale di Roma, Papa Adriano II approvò e benedisse i Libri liturgici presentati dai due santi Fratelli Missionari.
Ci permettiamo qualche osservazione su alcuni punti del predetto articolo.
L'Autore parte definendo “legittima promozione” il dispositivo del Motu proprio circa la Liturgia in rito tridentino, e mette in discussione la denominazione “antiqua”. In realtà, non di “promozione” si tratta, ma di chiarificazione di un fraintendimento generale: il Rito preconciliare, precisa il documento pontificio, “non è mai stato abrogato” (SP, 1). “Antiqua” è solo uno dei vari aggettivi appropriati alla Liturgia in uso nella Chiesa Latina fino al Concilio Vaticano II ed oltre. Non appropriazione indebita, ma solo conseguenza naturale della scelta di denominare “Novus” l'“Ordo Missae”, confezionato dall'apposita Commissione post-conciliare incaricata e avvallata da Papa Paolo VI.
Il Dianich continua sostenendo che la Commissione liturgica successiva al Concilio Vaticano II ha finalmente realizzato, a distanza di quattro secoli, quanto la Commissione liturgica del Concilio di Trento avrebbe voluto, ma non fu in grado di fare, se non “in piccola parte”, data l'inferiorità di mezzi e di uomini (?!), a disposizione in quel tempo. Con una strana trasposizione storico-ideologica, l'Autore immagina che Pio V avesse insediato una Commissione dopo il Concilio di Trento con le stesse intenzioni e gli stessi criteri della Commissione che ha prodotto la Riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II. Ma davvero Pio V e i suoi Esperti intendevano trasformare e adattare la Liturgia romana ai tempi moderni (di allora), abrogando la forma in uso, sotto accusa per abbandono delle forme più antiche, più autentiche per definizione? Le “sovrastrutture introdotte” erano davvero“infinite”? I Padri del Concilio e gli Incaricati del Papa, erano convinti che occorresse demolire l'edificio liturgico in uso, snaturato, secondo Dianich, dalla Devotio moderna-individualista, e ricostruirlo dalle fondamenta con un collage di antichità taglia-copia-incolla? Non pare proprio.
Nessun Cattolico, in quel tempo, dubitava che l'impianto dell'edificio liturgico non fosse più sostanzialmente sano e autentico. Secondo la convinzione comune, dagli Intellettuali agli Illetterati, il progetto originario non era mai andato smarrito e nessuno aveva mai osato modificarlo. Come avrebbe potuto accadere in una Chiesa attaccata scrupolosamente, da sempre, al principio “nihil innovetur”, specialmente nella Liturgia, realtà sacra e intangibile per eccellenza, fin nei minimi particolari? Qualche “sfrondamento” e qualche correzione erano ritenuti sufficienti per riportare il tutto al suo splendore più puro, che non era necessariamente lo stadio più arcaico.
Quanto alla lingua liturgica, il Concilio di Trento ammetteva senza difficoltà il pluralismo linguistico, e non solo linguistico, delle Liturgie orientali. Il pluralismo legittimo era fuori discussione anche all'interno della Chiesa Latina, dove restavano consentiti Messali alternativi a quello di Pio V, purché dotati di un minimo d'antichità. L'uso della lingua parlata in ambito liturgico, a istruzione e a edificazione spirituale dei Fedeli, non fu condannato, anzi fu caldamente raccomandato, purché integrativo e non esclusivo. Trento condanna solo chi sostiene che nella Chiesa latina “la Messa deve essere celebrata solo in lingua volgare (…); e che è da condannare dire sottovoce la parte del Canone e le parole della Consacrazione” (Sess. XXII, Can IX), e detto per inciso, affermazioni di tal fatta oggi sono diventate la nuova vulgata dei liturgisti. Tornando al tempo del Concilio di Trento si può dire che, data la situazione dell'Europa d'allora, teatro di una conflagrazione religiosa, culturale, politica a carattere nazionalistico, dagli esiti drammatici e imprevedibili, i Padri sanzionarono il principio tradizionale dell’unità linguistica ritenendo, tra le altre considerazioni, più sicuro per l'unità della Chiesa il mantenimento del Latino, come unica lingua ufficiale liturgica. Il Concilio Vaticano II esprimeva lo stesso giudizio ancora nel 1964: “Linguae latinae usus, salvo particulari iure, in Ritibus latinis servetur” (SC, 36).
Che la lettura della Sacra Scrittura offerta dal Nuovo Lezionario successivo al Concilio Vaticano II sia più abbondante della precedente, e più varia, è fuori di dubbio. Che sia meglio scelta e più proficua si può dubitare. L'ultima traduzione, poi, sembra privilegiare sistematicamente l'italiano più sciatto e scadente, abbassando il linguaggio al livello più basso, invece di elevare il popolo alla nobiltà della Liturgia e al senso proprio del Testo divinamente ispirato. Si potrebbero collezionare, in proposito, molte perle lessicali tra il raccapricciante e il comico. Ben più provveduto fu Paolo VI che affidò il lavoro di traduzione a un gruppo di fini Letterati oltre che a validi Biblisti (i quali non sono tutti bravi linguisti, e sono soliti scambiarsi stroncature inesorabili).
Che gli amboni e il canto del Vangelo siano simbolicamente importanti è certo. Che gli uni e l'altro siano attualmente valorizzati è discutibile. L'Autore è in grado di precisare dove, nell'antichità, si collocavano i Fedeli durante la Liturgia della Parola e durante la Preghiera eucaristica? Certo la disposizione dell'assemblea, nei tempi passati, non era quella di oggi. Egli sembra dare per scontato che la lettura e il canto dei testi liturgici dal Messale sull'altare, deprecati come errore gravissimo, siano la forma normale, prevista da Trento, invece non è così. La Liturgia normativa tridentina è quella solenne, cantata, con tanto di Ministri, Diaconi, Suddiaconi, Lezionari, Processioni, Accoliti, Turiferari, Ceroferari e Amboni, ecc...
Sorprendono la svalutazione e banalizzazione dei significati simbolici e cosmici della Liturgia romana. La lettura o, meglio, il canto del Vangelo, non è rivolto alla parete, ma al Nord, che vi sia o meno una parete. E' la regione delle tenebre, che deve essere illuminata dalla luce di Cristo, Sole che sorge: L'Oriente.
L'Autore cita con compiacimento l'ingresso solenne del Vangelo nell'antica Santa Sofia di Costantinopoli, con ceri, turiboli, accoliti, diaconi, verso l'ambone sopraelevato, e l'evangeliario prezioso, toccato e baciato con fervore dai Fedeli (oggi, alcuni Liturgisti parlerebbero di superstizione popolare...). A parte il fatto che nella Grande Chiesa, l'altare stava dietro una magnifica, elaborata, iconostasi d'argento, che i Veneziani, assidui frequentatori di Bisanzio, riprodussero nell'alta balaustra-iconostasi di San Marco (che dava fastidio al Patriarca Angelo Roncalli), la descrizione di quell'antico rito ha qualcosa in comune con quanto accade nelle nostre Chiese da cinque decenni? Da noi i pulpiti sono stati divelti o dismessi. Proprio essi: gli eredi di quell'ambone bizantino, dall'alto dei quali la Parola scendeva dalla bocca dei predicatori nel cuore dei fedeli. Fedeli raccolti di fronte, al centro della navata; non necessariamente rivolti, tutti e sempre, verso un'unica direzione: il fondo della Chiesa, dove oggi c'è l'esposizione di tutto, come su un bancone del Supermercato; senza traccia di sacralità e di arcano: altare, ambone, sede, battistero, coro con chitarre e batteria, e quant'altro... (stendiamo un pietoso silenzio sulle innumerevoli e pregevoli balaustre, sedi presbiterali e cattedre episcopali, brutalmente aggredite, devastate ed eliminate da un novello clericalismo iconoclasta-sanculotto).
Quanto alla processione offertoriale, assente nella vecchia Messa “bassa”, conviene riferirsi al rito bizantino e al rito romano solenne-non riformato: nell'uno e nell'altro caso, ciò che viene presentato all'altare, pane e vino, è, comunque, già appartenente al rito sacro, appositamente e ritualmente preparato sull'abaco o sulla proskomidia, portato dal diacono col velo omerale, accompagnato dai ministri, con turibolo, candelieri, e, nel Rito bizantino, dalla croce, dalla “lancia” e dalla stola episcopale, affidate ai Presbiteri.
Sulla recita del Canone sottovoce o in silenzio, si può riflettere, ma Dianich cita ancora una volta Jungmann, come un oracolo. Altrettanto per la comunione in bocca e per la balaustra. E' proprio il caso di dire: “Timeo hominem unius libri”! Asserire che le balaustre siano un'invenzione del Secolo XVI è archeologicamente inaudito. Basta vedere le ricerche di padre Bellarmino Bagatti sulle Chiese primitive in Terra Santa.
Circa l'importanza delle Reliquie per l'altare, anche qui, come per la balaustra-iconostasi, è difficile evitare l'impatto massiccio e risolutivo della tradizione orientale, come è difficile prendere per buona la storia delle Reliquie di Saint Denis, che sarebbero responsabili del passaggio del Celebrante dall'altra parte. Completamente ignorata la tradizione riguardante i Martiri e l'antichissima Celebrazione dell'Agape-Eucaristia sulle loro tombe, talvolta sarcofaghi. Nel suo prezioso libretto “Arte e liturgia”, Luis Bouyer confessa di avere personalmente contribuito a far passare “carte false” ai Padri conciliari del Vaticano II per convincerli che la Eucaristia primitiva era celebrata verso il popolo, mentre “si sa perfettamente che non era così”. Lo stesso Teologo, convertito dal Luteranesimo, spiega come si svolgeva anticamente la Celebrazione: l'assemblea si spostava dal nartece al pulpito, e dal pulpito all'altare per la Consacrazione; tutti rivolti in preghiera, Presidente e Fedeli, alla pari, verso il Tempio Santo, il luogo del Sacrificio gradito a Dio, verso la Croce di Cristo, l'Oriente (come fanno i Cristiani-Ortodossi, e mutatis mutandis, gli Ebrei e i Mussulmani).
La recita del Prologo di San Giovanni, stupendo e fondamentale, al termine della Messa non dovrebbe urtare chi ha lamentato, poco prima, la povertà della mensa della Parola.
La conclusione di Dianich è un peana alla Riforma liturgica successiva al Vaticano II, come superamento dell'individualismo a esaltazione della partecipazione comunitaria del Popolo, in precedenza atomizzato dallo spregevole individualismo intimista. Ma ci si domanda, quali sono, in concreto, le impronte della famigerata “Devotio moderna” nel Messale tridentino? E com'è stato possibile un sì grandioso miracolo di progresso? La Chiesa preconciliare, conciata così male dalla Liturgia degenerata, disgraziatamente in vigore ab immemorabili, come è stata capace di arrivare tanto in alto? Per opera dello Spirito Santo? Certo! Lo Spirito Santo può fare tutto. Potrebbe anche avere solo permesso la distruzione della vecchia Liturgia: era davvero necessario cancellare, in un colpo solo, in nome di una meravigliosa Riforma archeologizzante (non conciliare, ma postconciliare), il patrimonio custodito nei secoli, senza la minima soluzione di continuità. Quella Chiesa, infatti, era conservatrice per antonomasia ed escludeva, per principio, qualsiasi discontinuità e novità, anche solo per uno jota o un apice.
A un Teologo di valore, qual è Severino Dianich, che merita e ha tutto il nostro rispetto, non si addicono né la figura del Tuttologo sommario né l'iscrizione tra i Talebani progressisti (intendendo per Talebani - non importa se conservatori o progressisti - quelli che coltivano il pregiudizio per sistema e hanno bisogno di qualcosa o qualcuno da denigrare e anatemizzare senza remissione). Gesù stesso fu vittima di questo tipo d'approccio. Alcuni, infatti, dicevano: non è col dito di Dio, ma “è nel nome di Beelzebub, il Capo dei Demoni, che egli scaccia i Demoni!” (Lc 11, 15): e sappiamo come è andata a finire.
Per concludere ci domandiamo è proprio questa la strada da percorrere per giungere ad una pace liturgica? Non è ora di finirla con gli anatemi dei “dotti”? Non sarebbe più proficuo per tutti imitare la saggezza e l’equilibrio del Santo Padre Benedetto XVI il quale, tramite la Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiesto ai fautori della “Messa antica” di non manifestarsi “contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria” (Universae Ecclesiae, n. 19)? E non varrà forse anche il contrario? Perfino per gli illustri teologi e le riviste pastorali? Pensiamo di sì ed è lo stesso Santo Padre a ricordarcelo: “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso” (Lettera del Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare il Motu Proprio “ Summorum Pontificum cura” sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970).
Lettera firmata