Liquefazione della Chiesa
La fede si svincola dalla verità trascendente, e diventa esperienza.
Ratzinger ha perso la sua battaglia per restaurare il Concilio “non virtuale”.
Per questo la nuova pastoralità di Francesco ora dilaga
di Roberto de Mattei
La maggior parte di coloro che hanno preso le distanze dagli articoli su “Il Foglio” di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro si sono limitati a una condanna di principio, evitando di entrare nel merito degli argomenti toccati dai due autori cattolici. Eppure i problemi sollevati da Gnocchi e Palmaro non solo esprimono il disagio di molti, ma sollevano una serie di problemi che vanno al di là della persona di papa Francesco e investono gli ultimi cinquant’anni di vita della Chiesa. Gli stessi Gnocchi e Palmaro hanno portato alla luce questi problemi in un libro che non ha avuto l’attenzione che meritava: La Bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà (Fede e Cultura, Verona 2012). La “Bella addormentata” è la Sposa di Cristo che nel suo aspetto divino mantiene inalterata la sua bellezza, ma sembra immersa in un profondo letargo. Nel suo aspetto umano Essa ha il volto deturpato da un morbo che parrebbe mortale, se non sapessimo che Le è stata promessa l’immortalità.
Il male di cui soffre la Chiesa viene da lontano ed è esploso, con il Concilio Vaticano II, di cui si sta celebrando il cinquantenario. Il Vaticano II, aperto l’11 ottobre 1963, fu un Concilio pastorale, privo, per sua esplicita dichiarazione, della voluntas definiendi, cioè dell’intenzione di definire in modo formale verità dogmatiche. Questa pastoralità tuttavia, ebbe un carattere anomalo, come sottolinea in un bel libro appena uscito il filosofo Paolo Pasqualucci (Cattolici in alto i cuori! Battiamoci senza paura per la rinascita della Chiesa, Fede e Cultura, Verona 2013). Il Vaticano II non si limitò infatti ad esprimere in modo nuovo (nove) la dottrina antica, ma volle insegnare, su alcuni punti, anche “cose nuove” (nova). Nessuna di queste novità fu fornita del sigillo della definizione dogmatica, ma nel loro insieme esse costituirono un vero e proprio magistero, che fu presentato come alternativo a quello tradizionale. In nome del Vaticano II, i novatori pretesero di riformare ab imis l’intera Chiesa. Per raggiungere questo obiettivo, si mossero soprattutto sul piano della prassi, ovvero di una pastoralità che, attuandosi, si faceva dottrina. Non a caso Giuseppe Alberigo e i suoi discepoli della “scuola di Bologna” vedono nella pastoralità la dimensione costitutiva del Vaticano II. In nome dello “spirito del Concilio”, promanante dalla sua pastoralità, i “bolognesi” si sono opposti alla “riforma nella continuità” propugnata da Benedetto XVI e oggi salutano con entusiasmo il ministero di papa Francesco.
Benedetto XVI ha esposto la sua tesi di fondo in due discorsi che aprono e chiudono il suo pontificato e ne offrono un filo conduttore: quello alla Curia romana del 22 dicembre 2005 e quello al Clero romano, del 14 febbraio 2013, tre giorni dopo l’annuncio delle dimissioni. Quest’ultimo discorso, ampio e articolato, è stato pronunciato a braccio, ex abundantia cordis e rappresenta quasi un testamento dottrinale di Benedetto XVI. Il Papa ammette l’esistenza di una crisi nella Chiesa, collegata al Vaticano II, ma ne attribuisce la responsabilità a un Concilio “virtuale” che si sarebbe sovrapposto a quello reale. Il Concilio virtuale è quello imposto dagli strumenti di comunicazione e da determinati ambienti teologici che, in nome di un malinteso “spirito” del Vaticano II, avrebbero travisato le intenzioni dei Padri conciliari. Una abusiva prassi postconciliare avrebbe tradito la verità del Concilio, espressa dai suoi documenti teologici, ed è a questi testi che si dovrebbe tornare per ritrovarne l’autenticità. Il problema del Concilio, per papa Benedetto, prima di essere storico o teologico, è ermeneutico. Il problema di una falsa ermeneutica che si oppone all’interpretazione autentica, non solo dei testi, ma dello stesso evento conciliare.
La tesi di Papa Ratzinger non è nuova. E’ l’idea di fondo di quei teologi che, nel 1972, dopo aver partecipato alla nascita della rivista “Concilium”, assieme a Karl Rahner, Hans Küng ed Edward Schillebeeckx, la abbandonarono per dar vita alla rivista “Communio”. Il padre Henri de Lubac, in una celebre intervista rilasciata all’allora mons. Angelo Scola (Viaggio nel postconcilio, Edit, Milano 1985, pp, 32-47), coniò l’espressione “para-concilio” per indicare quel movimento organizzato che avrebbe deformato l’insegnamento del Concilio attraverso una tendenziosa interpretazione di quell’evento. Altri teologi usarono il nome di “meta-concilio” e lo stesso cardinale Joseph Ratzinger, nel celebre Rapporto sulla fede del 1985, anticipò la tesi del Concilio virtuale, poi formulata più volte durante il suo pontificato.
Il discorso del 2013 è però la accorata confessione della crisi della ermeneutica della “riforma nella continuità”. La consapevolezza di questo fallimento ha certamente pesato sull’atto di rinuncia dell’11 febbraio. Perchè la linea di interpretazione “benedettina” non è riuscita ad imporsi, ed è stata sconfitta dalle tesi della “scuola di Bologna”, che dilagano incontrastate nelle università e nei seminari cattolici?
La ragione principale sta nel fatto che la storia non è fatta dal dibattito teologico, e ancor meno da quello ermeneutico. La discussione ermeneutica mette l’accento sull’interpretazione di un fatto, più che sul fatto stesso. Ma, nel momento in cui vengono poste a confronto ermeneutiche diverse, ci si allontana dalla oggettività del fatto, sovrapponendo ad esso le soggettive interpretazioni dell’evento, ridotte ad opinioni. In presenza di questa pluralità di opinioni, la parola decisiva potrebbe essere pronunciata da una suprema autorità che definisca, senza ombra di equivoci, la verità da credere. Ma nei suoi discorsi Benedetto XVI, come i Papi che lo hanno preceduto, non ha mai voluto attribuire un carattere magisteriale alla sua tesi interpretativa. Nel dibattito ermeneutico in corso, il criterio di giudizio ultimo resta dunque l’oggettività dei fatti. E il fatto innegabile è che se vi fu Concilio virtuale, esso non fu meno reale di quello che è racchiuso nei documenti. I testi del Vaticano II furono riposti in un cassetto, mentre ciò che entrò con prepotenza nella storia fu il suo “spirito”. Uno spirito poco santo e molto umano, attraverso cui si esprimevano l’azione lobbistica, le pressioni politiche, le spinte mediatiche, che orientarono lo svolgimento degli eventi. E poiché il linguaggio era volutamente ambiguo e indefinito, il Concilio virtuale offrì l’autentica chiave di lettura dei documenti conclusivi. Il Concilio dei testi non può essere separato da quello della storia e non ha torto la scuola di Bologna quando enfatizza la novità rivoluzionaria dell’evento. Essa ha torto quando di questo evento vuole fare un “luogo teologico”, il supremo criterio di giudizio della storia.
L’ermeneutica di Benedetto XVI non è riuscita a rendere ragione della storia, ovvero di quanto è accaduto dal 1965 ai nostri giorni. I testi conciliari sono stati schiacciati dalla prassi post-conciliare, una realtà che non ammette repliche, se ad essa si vuole contrapporre solo un’ermeneutica. Inoltre, se non si può criticare il Vaticano II, ma solo interpretarlo in maniera diversa, qual è la differenza tra i teorici della discontinuità e quelli della riforma nella continuità? Per entrambi il Concilio è un evento irreversibile e ingiudicabile, esso stesso criterio ultimo di dottrina e di comportamento. Chiunque nega la possibilità di aprire un dibattito sul Vaticano II, in nome dello Spirito Santo che lo garantisce, infallibilizza l’evento e ne fa un superdogma, di fatto immanente alla storia.
La storia, per il cristiano, è invece il risultato di un intreccio di idee e di fatti, che hanno la loro radice ultima nel groviglio delle passioni umane e nell’azione di forze soprannaturali e preternaturali in perenne conflitto. La teologia deve farsi teologia della storia per comprendere e dominare le vicende umane; altrimenti essa viene assorbita dalla storia, che diviene il supremo metro di giudizio delle cose del mondo. L’immanentismo non è altro che la perdita di un principio trascendente che giudica la storia e non ne è giudicato. Sotto questo aspetto le intenzioni dei Padri conciliari e i testi che essi produssero non sono che una parte della realtà. Il Vaticano II è, come la Rivoluzione francese o quella protestante, un evento che può essere analizzato su piani diversi, ma costituisce un unicum, con una specificità propria e, in quanto tale rappresenta un momento di indubbia, e per certi versi apocalittica, discontinuità storica.
La vittoria della “scuola di Bologna” è stata suggellata dall’elezione di papa Francesco che, parla poco del Concilio perché non è interessato alla discussione teologica ma alla realtà dei fatti, ed è nella prassi che vuole dimostrare di essere il vero realizzatore del Vaticano II. Sotto questo aspetto egli incarna, si può dire, l’essenza del Vaticano II, che si fa dottrina realizzando la sua dimensione pastorale. La discussione teologica appartiene alla modernità e papa Francesco si presenta come un papa post-ermeneutico e perciò post-moderno. La battaglia delle idee appartiene a una fase della storia della Chiesa che egli vuole superare. Francesco sarà conservatore o progressista, a seconda delle esigenze storiche e politiche del momento. La “rivoluzione pastorale” è, per Alberto Melloni, la caratteristica primaria del pontificato di Francesco I. “«Pastorale» - scrive lo storico bolognese - è una parola chiave per comprendere il ministero di papa Francesco. Non perché di teologia pastorale sia stato insegnante, ma perché quando la interpreta Francesco evoca con naturalezza sbalorditiva questo cuore pulsante del vangelo nel tempo e lo snodo della ricezione (e del rifiuto) del Vaticano II. «Pastorale» viene dal linguaggio di papa Giovanni: era così che voleva il «suo» concilio, come un concilio «pastorale» - e il Vaticano II è stato così” (L’estasi pastorale di papa Francesco disseminata di riferimenti teologici, in “Corriere della Sera”, 29 marzo 2013).
Melloni forza, come sempre, la realtà, ma non ha torto nel fondo. Il pontificato di papa Francesco è il più autenticamente conciliare, quello in cui la prassi si trasforma in dottrina, tentando di cambiare l’immagine e la realtà della Chiesa. Oggi l’ermeneutica di Benedetto XVI è archiviata e dalla pastorale del nuovo Papa dobbiamo attendere nuove sorprese. Il direttore del “Foglio”, ospitando gli articoli di Gnocchi e Palmaro, lo ha intuito, con un fiuto che in questo caso è teologico e giornalistico al tempo stesso. Ma un’ultima questione si pone. Perchè i difensori più accaniti del Vaticano II, ed oggi i critici più severi di Gnocchi e Palmaro, provengono dall’area culturale di Comunione e Liberazione? Non è difficile rispondere se si ricordano le origini di CL e le radici del pensiero del suo fondatore, don Luigi Giussani. L’orizzonte ciellino era, ed è rimasto, quello della “nouvelle théologie” progressista. In un celebre articolo apparso nel 1946 dal titolo La nouvelle théologie où va-t-elle, il domenicano Garrigou-Lagrange, uno dei massimi teologi del Novecento, indicava come caratteristica della “nouvelle théologie”, la riduzione della verità ad “esperienza religiosa”. “La verità - scriveva - non è più la conformità del giudizio con la realtà extramentale (oggettiva) e le sue leggi immutabili, ma la conformità del giudizio con le esigenze dell’azione e della vita umana, che si evolve continuamente. Alla filosofia dell’essere o ontologia si sostituisce la filosofia dell’azione, che definisce la Verità in funzione non più dell’essere, ma dell’azione”.
Ritroviamo questa caratteristica nel linguaggio e nella pratica di molti ciellini. Basti pensare al continuo riferirsi alla fede come “incontro” e “esperienza”, con la conseguente riduzione dei princìpi a meri strumenti. E’ vero infatti che non c’è cristianesimo se non è vissuto, ma non si può vivere una fede che non si conosce, a meno di non ritenere, come il modernismo e la nouvelle théologie, che la fede prorompe dall’esperienza vitale del soggetto. Un’“esperienza” che sarebbe possibile in tutte le religioni e che ridurrebbe il cristianesimo a pseudo-misticismo o a pura prassi morale. La storica Cristina Siccardi in un altro bel libro appena pubblicato (L’inverno della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. I mutamenti e le cause, Sugarco, Milano 2013) analizza nel dettaglio le conseguenze di questa pastorale dell’“esperienza”, ricordando le parole di un altro grande teologo domenicano del ventesimo secolo, il padre Roger-Thomas Calmel: “Dottrine, riti, vita interiore sono sottoposti a un processo di liquefazione così radicale e così perfezionato che non permettono più di distinguere tra cattolici e non cattolici. Poiché il sì e il no, il definito e il definitivo sono considerati sorpassati, ci si domanda che cosa impedisca alle religioni non cristiane di far parte anche loro della nuova Chiesa universale, continuamente aggiornata dalle interpretazioni ecumeniche” (Breve apologia della Chiesa di sempre, Editrice Ichtys, Albano Laziale 2007, pp. 10-11).
Parafrasando l’affermazione di Marx, secondo cui è nella prassi che il filosofo dimostra la verità della sua dottrina, potremmo riconoscere nella teologia postconciliare il principio per cui è nella “esperienza religiosa” che il credente dimostra la verità della sua fede. E’, in nuce, il primato della prassi della filosofia secolaristica moderna. Questa filosofia della prassi religiosa fu teorizzata dalle sètte più radicali del Cinquecento e del Seicento, come gli anabattisti e i sociniani. Per essi la fede è misurata dalla sua intensità: ciò che importa non è la purezza e l’integralità della verità in cui si crede, ma l’intensità dell’atto con cui si crede. La fede ha dunque la sua misura non nella dottrina creduta, ma nella “vita” e nell’azione del credente: essa diviene esperienza religiosa, svincolata da qualsiasi regula fidei oggettiva. Ritroviamo queste tendenze nella teologia progressista che preparò, guidò e, in parte, realizzò il Concilio Vaticano II.
La “nouvelle théologie” progressista ebbe i suoi principali esponenti nel domenicano Marie-Dominique Chenu e nel gesuita Henri de Lubac. Non a caso Chenu fu il maestro di Giuseppe Alberigo e de Lubac, il punto di riferimento dei discepoli di don Giussani. E non a caso, tra i primi testi ufficiali di Comunione e Liberazione, agli inizi degli anni Settanta, risulta lo studio del teologo Giuseppe Ruggieri intitolato La questione di cristianesimo e rivoluzione. Ruggieri, che allora dirigeva la collana teologica di Jaca Book oggi dirige “Cristianesimo nella storia” ed è, con Alberto Melloni, l’esponente di punta della “scuola di Bologna”. Non c’è incoerenza nel suo itinerario intellettuale, presentato dallo stesso Melloni nel volume Tutto è grazia (Jaca Book, Milano 2010), così come non c’è incoerenza nelle posizioni di ieri e di oggi di alcuni (non tutti) esponenti di Comunione e Liberazione. Ciò che accomuna la teologia di CL a quella della scuola di Bologna è la “teoria dell’evento”, il primato della prassi sulla dottrina, dell’esperienza sulla verità, che CL situa nell’incontro con la persona di Cristo e la scuola di Bologna nell’incontro con la storia.
Giuseppe Ruggieri fu il teologo di Comunione e Liberazione ed è oggi il teologo della scuola di Bologna. E oggi ciellini e bolognesi si ritrovano nel demonizzare in Gnocchi e Palmaro, non i critici di papa Francesco o del Vaticano II, ma i cristiani “eticisti” che ripropongono il primato della Verità e della Legge. Eppure, dice Gesù, “chi mi ama osserva i miei comandamenti” (Gv 14, 15-21. Non c’è amore di Dio al di fuori dell’osservanza della legge naturale e divina. L’osservanza di questa verità e di questa legge è la misura dell’amore cristiano.
Fonte: “il Foglio” – 12 novembre 2013