giovedì 12 agosto 2010

quando si dice "nascere con la camicia"... di forza

Pubblichiamo la traduzione (sommaria) dell'interessante articolo pubblicato da http://www.summorum-pontificum.fr./

Per capire perché oggi alcuni cattolici hanno un forte attaccamento alla Messa nella sua forma tradizionale, è utile fare alcuni sondaggi nella storia dell’introduzione della Messa nella sua forma ordinaria. Sondaggi senza pretese e incompleti, ma vogliono invitare a fare di più coloro che sono interessati alla questione.

L’ Institutio Generalis è la presentazione del nuovo messale romano nato nel 1969 e che passerà ai posteri come la Messa di Paolo VI. La denominazione non è corretta se non nella misura in cui Papa Paolo VI ha voluto questa nuova forma della messa romana e l’ha avvallata con la sua suprema autorità. Al momento della pubblicazione, l'articolo VII della Institutio Generalis fece scandalo. Perché? Perché proponeva una definizione non tradizionale della Messa:

"La Cena del Signore o Messa è la Sinassi sacro o raduno del popolo di Dio riunito sotto la presidenza del sacerdote per celebrare il memoriale del Signore. Pertanto si applica eminentemente al raduno locale della santa Chiesa la promessa di Cristo: "laddove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono con loro" (Mt 18, 20).

Questa definizione non corrispondeva ad alcuna definizione di Messa fino ad allora in vigore.

Il 12 giugno 1970, l'Osservatore Romano pubblicò una nuova versione italiana dell'articolo VII della Institutio Generalis prima che apparisse definitivamente in latino. Nella sua nuova versione, l'articolo VII recava:

"Nella Messa o Cena del Signore, il popolo di Dio è convocato e riunito sotto la presidenza del sacerdote, che rappresenta la persona di Cristo, per celebrare il memoriale del Signore, il sacrificio eucaristico. Ecco perché questa congregazione locale della santa Chiesa realizza in modo eminente della promessa di Cristo: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20). Infatti, nella cerimonia della Messa dove si perpetua nel sacrificio della croce, Cristo è realmente presente nella stessa assemblea tenutasi in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola e in modo, sostanziale e permanente sotto le specie eucaristiche ".

Come notato da Luigi Salleron in uno studio pubblicato nel numero 128 de "La Pensée Catholique":

"Il numero 7 è stato completamente rifatto perché apparissero più chiaramente le verità che sono sempre state proposte dalla rivelazione divina, dalla tradizione e dal magistero della Chiesa, e che riguardano direttamente il mistero eucaristico, ciòe la verità del sacrificio, la natura sacramentale del sacerdozio e alla presenza reale ".

La dottrina era al sicuro. Tuttavia Louis Salleron , al termine del suo studio, ha portato un'altra osservazione che si tende a dimenticare oggi:

"L’Institutio Generalis è stato modificata, ma l'ordo Missae in sé non lo è stata, o appena. Ma c'è qualcosa che suscita preoccupazione, per un semplice motivo. Sono gli stessi esperti che hanno scritto l'ordo Missae e l’ Institutio Generalis. Dandoci l' Institutio Generalis (prima versione) che essi stessi hanno affermato il significato ambiguo della loro nuova messa. (...) La Institutio Generalis è stata corretta per ribadire esattamente ciò che è la Messa. Ma la Nuova Messa, immutata, resta suscettibili di essere interpretati secondo il Institutio Generalis prima maniera che le corrisponde esattamente. La Nuova Messa è valida, senza dubbio. Esso contiene alcune modifiche felici, vogliamo credere. Ma che nel complesso essa rischia di portare sacerdoti e fedeli a una minimizzazione della verità circa l'Eucaristia e il Sacerdozio, è difficile da negare. L'interpretazione data da suoi autori, quella che danno con ancora più coraggio i suoi più convinti sostenitori, e la pratica si sta diffondendo di "celebrazione", di "agapi", di "cene" e di “condivisioni "sono i segni indubitabili di pericolo installato nel cuore della Chiesa. Il rito tradizionale proteggeva delle verità che ora terribilmente esposte. Basta vedere come volano via nel vento del progressismo ".

Accogliendo questa correzione dell'articolo VII, Luigi Salleron ne ringraziava il Papa Paolo VI e formulava la speranza "che i cattolici possono trovare nella Messa stessa le certezze che erano state appena loro restituite nella sua presentazione".

In ultima analisi, il Papa Benedetto XVI ha fatto una parte di questo programma ripristinando la piena cittadinanza alla Messa tradizionale. L'altra parte, che egli chiama la "riforma della riforma" resta ancora da fare, anche se, qua e là, piccoli segni mostranoche le cose sono in corso. Non si tratta di sensibilità liturgica, ma di una superiore conformità con la dottrina cattolica della Messa.
La si aspetta dal 1970.

mercoledì 11 agosto 2010

libertà vo cercando, ch'è sì cara

LIBERTAS

LETTERA ENCICLICA DI SUA SANTITÀ
LEONE PP. XIII

La libertà, nobilissimo dono di natura, proprio unicamente di creature dotate d’intelletto e di ragione, attribuisce all’uomo la dignità di essere "in mano del proprio arbitrio" e di essere padrone delle proprie azioni. Tuttavia è molto importante stabilire in che modo tale dignità debba manifestarsi, poiché dall’uso della libertà possono derivare grandi vantaggi ma anche grandi mali. Infatti è facoltà dell’uomo ubbidire alla ragione, seguire il bene morale, tendere direttamente al suo fine ultimo. Ma egli può anche deviare verso tutt’altri scopi e, perseguendo false immagini del bene, può turbare l’ordine prestabilito e precipitare in volontaria rovina. Gesù Cristo, liberatore del genere umano, restaurando ed elevando la primitiva dignità di natura, giovò moltissimo alla volontà dell’uomo e la innalzò verso miglior segno, ora soccorrendola con la sua grazia, ora proponendo la sempiterna felicità nei cieli. Per tale motivo la Chiesa cattolica ha giovato e gioverà sempre a questo eccellente bene di natura, poiché è sua missione diffondere in tutto il corso dei secoli i benefici recati a noi da Gesù Cristo. Eppure sono molti coloro che considerano la Chiesa contraria alla libertà umana. La causa di tale pregiudizio proviene da un perverso e confuso concetto di libertà, che viene snaturato nella sua essenza o allargato più del giusto, in modo da coinvolgere situazioni nelle quali l’uomo non può essere libero, se si vuol giudicare rettamente.

In altre occasioni, e soprattutto nella Enciclica Immortale Dei, discorremmo delle cosiddette libertà moderne, facendo distinzione tra ciò che è onesto e il suo contrario; dimostrammo ad un tempo che ciò che vi è di buono in quelle libertà è tanto antico quanto la verità e che la Chiesa lo ha sempre favorevolmente approvato e messo in pratica. Ciò che vi aggiunse di nuovo, a dire il vero, consiste nella parte più corrotta che provenne da tempi turbolenti e da eccessiva brama di novità. Ma poiché vi sono molti che si ostinano nella opinione che quelle libertà, anche quando siano segnate dal male, sono da considerare come il sommo vanto della nostra età e il necessario fondamento delle formazioni statali, così che, senza di quelle, negano che si possa concepire un perfetto governo dello Stato, Ci sembra sia necessario trattare specificamente tale argomento, avendo come obiettivo il pubblico bene.

Noi perseguiamo direttamente la libertà morale, sia che riguardi le singole persone, sia il civile consorzio. Prima però è opportuno trattare brevemente della libertà naturale poiché, sebbene si distingua affatto da quella morale, tuttavia costituisce la fonte e il principio donde scaturisce spontaneamente ogni forma di libertà. La ragione e il generale senso comune, autentica voce di natura, riconoscono la libertà soltanto in quegli esseri che sono dotati d’intelligenza o di razionalità, e in ciò sta il motivo per cui l’uomo è considerato giustamente responsabile delle sue azioni. Infatti, mentre gli altri animali sono guidati soltanto dai sensi e per solo istinto di natura cercano ciò che loro giova, e fuggono da quanto loro nuoce, l’uomo invece ha come guida la ragione nelle singole vicende della vita. La ragione giudica se tutti e i singoli beni che esistono sulla terra hanno o non hanno carattere di necessità e perciò, constatando che nessuno di essi è da considerare necessario, concede alla volontà il potere di scegliere ciò che preferisce.

Ma l’uomo può giudicare il carattere contingente (come suol dirsi) dei beni sopraddetti per il motivo che ha un’anima semplice per natura, spirituale, dotata di pensiero; e proprio perché siffatta, non trae origine dalla materia né dipende da essa per sussistere, ma creata direttamente da Dio e trascendendo di gran lunga la comune condizione dei corpi, ha un suo proprio genere di vita e di azione; ne deriva che, conosciute le immutabili e necessarie ragioni del vero e del bene, si rende conto che quei beni particolari non sono necessari. Pertanto, quando si stabilisce che l’anima umana è separata da ogni concrezione mortale e ha facoltà di pensare, nello stesso tempo si colloca la naturale libertà sul suo più saldo fondamento.

Invero, la natura semplice, spirituale e immortale dell’anima umana, e la libertà non sono state proclamate a gran voce, né con maggiore costanza da nessuno come dalla Chiesa cattolica, la quale insegnò in ogni tempo l’uno e l’altro principio e lo sostenne come un dogma. Non solo: contro i predicatori di eresie e i fautori di nuove dottrine, la Chiesa assunse il patrocinio della libertà e preservò dalla distruzione un così grande bene dell’uomo. A questo proposito, opere letterarie testimoniano con quale vigore essa respinse gl’insani attacchi dei Manichei e di altri; nessuno ignora con quanto zelo e con quanta energia, in epoca più recente, sia nel Concilio di Trento, sia poi contro i seguaci di Giansenio, essa abbia combattuto a favore del libero arbitrio dell’uomo, non consentendo in alcun tempo o in alcun luogo che potesse sussistere il fatalismo.

Pertanto la libertà, come abbiamo detto, appartiene a coloro che sono dotati di ragione o d’intelligenza; se si considera la sua natura, essa non è altro che la facoltà di scegliere i mezzi idonei allo scopo che ci si è proposti, in quanto chi ha la facoltà di scegliere una cosa tra molte, è padrone dei propri atti. Invero, poiché ogni cosa che sia assunta come causa di desiderio, ha carattere di bene che prende il nome di utile, il bene è tale per natura in quanto sollecita un desiderio e perciò il libero arbitrio appartiene alla volontà, o piuttosto è la volontà stessa, in quanto nell’agire ha facoltà di scelta. Ma la volontà non si manifesta, se prima non si accese la cognizione intellettuale, quasi come una fiaccola; cioè, il bene desiderato dalla volontà, è necessariamente un bene in quanto riconosciuto tale dalla ragione. Tanto più che in tutti gli atti volontari, la scelta è sempre preceduta dal giudizio sulla verità dei beni e sul bene da anteporre agli altri. Nessun filosofo dubita che l’atto di giudicare appartenga alla ragione e non alla volontà. Dunque, se la libertà è tutt’uno con la volontà che per sua natura è desiderio sottomesso alla ragione, ne consegue che anch’essa, come la volontà, inclini al bene conforme a ragione.

Sennonché, poiché entrambe le facoltà sono lontane dalla perfezione, può accadere, e spesso accade, che la mente proponga alla volontà ciò che in realtà non è affatto un bene, ma ha solo un’apparenza di bene e che ad esso la volontà si adegui. Ma come la possibilità di errare, e l’errare di fatto, è un vizio che denuncia l’imperfezione della mente, similmente l’appigliarsi a beni fallaci e apparenti è una prova di libero arbitrio, come la malattia è prova di vita, e tuttavia denota un vizio di libertà. Così la volontà, in quanto dipende dalla ragione, quando desidera alcunché di difforme dalla retta ragione, inquina profondamente la libertà e fa un uso perverso di essa. Per questo motivo Dio infinitamente perfetto, essendo sommamente intelligente e solo bontà, è anche sommamente libero e perciò in nessun modo può volere il male della colpa; né lo possono i beati celesti in quanto contemplano il bene supremo. Saggiamente Agostino ed altri, contro i Pelagiani, avvertivano che se il sottrarsi al bene era conforme alla natura e alla perfezione della libertà, allora Dio, Gesù Cristo, gli Angeli, i Beati, nei quali non sussiste quel potere, o non sarebbero liberi o certamente lo sarebbero meno perfettamente dell’uomo pellegrino e imperfetto. Su questo argomento il Dottore Angelico disserta spesso ampiamente e da lui si può evincere che la facoltà di peccare non significa libertà ma schiavitù. Acutamente egli dice, commentando le parole di Gesù Cristo "chiunque commette il peccato è schiavo del peccato" (Gv 8,34): "Ogni cosa è ciò che le conviene secondo la propria natura. Quando dunque è mossa per impulso estraneo, non agisce in modo autonomo, ma per influenza altrui, cioè servilmente. Ora, l’uomo è ragionevole per natura. Quando dunque agisce secondo ragione, agisce di propria iniziativa e secondo la propria natura: questa è libertà. Quando invece commette peccato, agisce contro ragione e allora egli è sospinto quasi da un altro e imprigionato entro limiti altrui; "perciò chiunque commette il peccato è schiavo del peccato"". Questa verità era stata individuata chiaramente anche dagli antichi filosofi, e soprattutto da coloro che per principio ritenevano essere libero soltanto il sapiente; definivano sapiente, come è noto, chi avesse appreso a vivere costantemente secondo natura, cioè onestamente e virtuosamente.

Poiché tale è nell’uomo la condizione della libertà, era necessario proteggerla con idonei e saldi presidi che indirizzassero al bene tutti i suoi impulsi e la ritraessero dal male; altrimenti il libero arbitrio avrebbe recato grave danno all’uomo. Dapprima fu necessaria la legge, vale a dire una norma che regolasse le azioni e le omissioni; legge che in senso proprio non può esistere tra gli animali che agiscono per necessità comunque si comportino: agiscono per impulso di natura e non possono seguire altro modo di agire. Invece, coloro che godono della libertà, hanno facoltà di agire, di non agire, di agire in un modo o altrimenti poiché scelgono ciò che vogliono, facendo precedere quel giudizio razionale a cui già accennammo. In virtù di tale giudizio non solo si stabilisce che cosa sia onesto e che cosa sia turpe, ma anche che cosa in concreto sia il bene da compiere e il male da evitare; la ragione cioè prescrive alla volontà ove dirigere il desiderio e da dove rimuoverlo, in modo che l’uomo possa raggiungere il suo fine ultimo, in vista del quale si deve agire in ogni momento. Ora, questo ordinamento della ragione si chiama legge.

Perciò la causa prima della necessità della legge va ricercata, come in radice, nello stesso libero arbitrio dell’uomo, ossia nel fatto che le nostre volontà non siano in disaccordo con la retta ragione. Nulla si potrebbe dire o pensare di più perverso e assurdo che il considerare l’uomo esente da legge in quanto libero per natura: se così fosse, ne conseguirebbe che per essere libero dovrebbe sottrarsi alla ragione; invece è assai evidente che deve sottostare alla legge proprio perché libero per natura. Dunque la legge è guida all’uomo nell’azione, e con premi e castighi lo induce al ben fare e lo allontana dal peccato. Sovrana su tutto: tale è la legge naturale, scritta e scolpita nell’anima di ogni uomo, poiché essa non è altro che l’umana ragione che ci ordina di agire rettamente e ci vieta di peccare. Invero questa norma della ragione umana non può avere forza di legge se non perché è voce ed interprete di una ragione più alta, a cui devono essere soggette la nostra mente e la nostra libertà. La forza della legge infatti consiste nell’imporre doveri e nel sancire diritti; perciò si fonda tutta sull’autorità, ossia sul potere di stabilire i doveri e di fissare i diritti, nonché di sanzionare tali disposizioni con premi e castighi; è chiaro che tutto ciò non potrebbe esistere nell’uomo, se, legislatore sommo di se stesso, prescrivesse a sé la norma delle proprie azioni. Dunque ne consegue che la legge di natura sia la stessa legge eterna, insita in coloro che hanno uso di ragione, e che per essa inclinano all’azione e al fine dovuto: essa è la medesima eterna ragione di Dio creatore e reggitore dell’intero universo.

A questa regola nell’agire e alle remore nel peccare sono stati aggiunti, per grazia di Dio, altri speciali soccorsi, adattissimi a rafforzare e a regolare la volontà umana. Sovrasta tra essi ed eccelle la virtù della divina grazia; essa illumina la mente; sospinge sempre la volontà, rinvigorita da salutare costanza, verso il bene morale; rende più facile e insieme più sicuro l’uso della libertà naturale. È ben lontano dalla verità il supporre che l’intervento di Dio renda meno liberi gl’impulsi volontari: infatti è intima nell’uomo e conforme alle sue naturali inclinazioni la forza della divina grazia, poiché deriva dallo stesso Autore dell’anima e della volontà nostra; da Lui ogni cosa è mossa in conformità della propria natura. Anzi, la grazia divina, come afferma il Dottore Angelico, per il motivo che deriva dal Creatore della natura, è mirabilmente concepita ed idonea a tutelare ogni creatura, a conservare i costumi, la forza, l’efficienza degl’individui.

Quanto si è detto circa la libertà dei singoli uomini può essere facilmente riferito agli uomini tra loro uniti in civile consorzio. Infatti, ciò che la ragione e la legge naturale operano nei singoli uomini, del pari agisce nella società la legge umana promulgata per il bene comune dei cittadini. Tra le leggi degli uomini alcune riguardano ciò che per natura è bene o male; esse, corredate dalla debita sanzione, insegnano a seguire l’uno e a fuggire l’altro. Ma siffatte disposizioni non traggono origine dalla società umana, poiché come la stessa società non ha generato la natura umana, così del pari non crea il bene che conviene alla natura, né il male che ripugna alla natura; piuttosto precorrono la stessa società civile e sono assolutamente da ricondurre alla legge naturale e perciò alla legge eterna. Dunque i precetti di diritto naturale contenuti nelle leggi umane, non hanno solo la forza di legge umana ma soprattutto comprendono quell’autorità molto più alta e molto più augusta che proviene dalla stessa legge di natura e dalla legge eterna. In questo genere di leggi, il dovere del legislatore civile è comunemente quello di condurre all’obbedienza i cittadini, dopo aver adottato una comune disciplina, reprimendo i malvagi inclini ai vizi, affinché, distolti dal male, perseguano la rettitudine o almeno non siano d’impedimento e danno alla società.

Invero, altre ordinanze del potere civile non derivano subito e direttamente dal diritto naturale, ma da più lontano e in modo obliquo, e definiscono varie questioni che la natura non ha definito se non in generale e in modo indeterminato. Così la natura comanda che i cittadini contribuiscano alla tranquillità e alla prosperità pubblica: ma quanto, come, in quali occasioni non è stabilito da natura, bensì dalla saggezza degli uomini. Ora, in queste particolari regole di vita suggerite dalla prudenza della ragione e introdotte dal legittimo potere, consiste la legge umana propriamente detta. Questa legge impone a tutti i cittadini di concorrere al fine indicato dalla società e vieta di abbandonarlo; la stessa legge, finché segue dolcemente e consenziente i dettami di natura, conduce alla rettitudine e distoglie dal male. Da quanto detto si comprende che sono tutte riposte nella eterna legge di Dio la norma e la regola della libertà dei singoli individui, non solo, ma anche della comunità e delle relazioni umane.

Dunque nella società umana la libertà nel vero senso della parola, non è riposta nel fare ciò che piace, nel qual caso subentrerebbe il maggior disordine che si risolverebbe nella oppressione della cittadinanza, ma consiste nel vivere agevolmente in virtù di leggi civili ispirate ai dettami della legge eterna. D’altra parte la libertà di coloro che governano non risiede nel poter comandare in modo sconsiderato e capriccioso, il che sarebbe parimenti dannoso e deleterio per lo Stato: per contro, la forza delle leggi umane deve derivare dalla legge eterna e non deve sancire alcuna norma che sia estranea ad essa, fonte del diritto universale. Scrive il sapientissimo Agostino : "Penso che in quella (legge) temporale tu non possa vedere alcunché di giusto e di legittimo che gli uomini non abbiano derivato a proprio beneficio da questa (legge) eterna". Se dunque un qualunque potentato sancisce una norma che sia in contrasto con i principi della retta ragione e sia funesto per lo Stato, essa non ha nessuna forza di legge, poiché non è regola di giustizia e allontana gli uomini dal bene, per il quale la società è nata.

Pertanto la natura della libertà umana, comunque la si consideri, tanto nelle persone singole quanto consociate, e non meno in coloro che comandano come in coloro che ubbidiscono, presuppone la necessità di ottemperare alla suprema ed eterna ragione, che altro non è se non l’autorità di Dio che comanda e vieta. Questa sacrosanta sovranità di Dio sugli uomini è ben lontana dal sopprimere la libertà o dal limitarla in alcun modo, tanto che, se mai, la protegge e la perfeziona. Infatti la vera perfezione di tutte le creature consiste nel perseguire e conseguire il proprio fine; il fine supremo a cui deve tendere la libertà umana, è Dio.

La Chiesa, ammaestrata dagli esempi e dalla sapienza del divino Fondatore, ovunque diffuse e affermò questi precetti di una veritiera e sublime dottrina, da noi conosciuta soltanto alla luce della ragione; né mai desistette dal prenderli a norma della propria missione e di inculcarli nei popoli cristiani. Per quanto riguarda i costumi, le leggi evangeliche non solo sovrastano di gran lunga tutta la sapienza pagana, ma apertamente chiamano ed educano l’uomo a una santità ignota agli antichi, e nell’avvicinarlo a Dio lo rendono capace di più perfetta libertà. Pertanto apparve sempre grandissima l’influenza della Chiesa nel custodire e proteggere la libertà civile e politica dei popoli. A tal riguardo, non è questo il momento di enumerare i suoi meriti. Basti ricordare l’abolizione della schiavitù, antica vergogna delle genti pagane, soprattutto per opera ed interessamento della Chiesa. Primo fra tutti, Gesù Cristo affermò l’imparzialità del diritto e la vera fratellanza tra gli uomini: a Lui fece eco la voce dei suoi Apostoli, per cui non esiste né Giudeo, né Greco, né Barbaro, né Sciita, ma tutti sono fratelli in Cristo. A questo proposito è tanto grande e tanto conosciuta la forza della Chiesa, che in qualunque plaga della terra imprima la sua orma, è certo che i rozzi costumi non possono resistere a lungo; in breve la mansuetudine dovrà succedere alla crudeltà, la luce della verità alle tenebre della barbarie. Parimenti la Chiesa non desistette mai dal recare grandi benefici ai popoli ingentiliti dalla civiltà, o resistendo all’arbitrio dei prepotenti o allontanando le offese dal capo degli innocenti e dei più deboli, o infine facendo in modo che prevalesse l’ordinamento statale preferito dai cittadini per la sua equità, e temuto dagli stranieri per la sua potenza.

Inoltre, uno dei doveri più ragionevoli sta nel rispettare l’autorità e nell’obbedire alle leggi giuste: ne deriva che i cittadini sono tutelati contro la violenza dei malvagi, dall’equità e dalla vigilanza delle leggi. Il potere legittimo deriva da Dio e chi resiste al potere, resiste all’ordine di Dio; in tal modo l’obbedienza acquista molto in nobiltà, divenendo ossequio verso un’autorità giustissima ed elevata in sommo grado. Invero, dove il diritto di comandare è assente o dove si prescrive alcunché di contrario alla ragione, alla legge eterna, alla sovranità di Dio, è giusto non obbedire agli uomini per obbedire a Dio. Precluso in tal modo l’adito alla tirannide, lo Stato non dovrà avocare tutto a sé: sono salvi i diritti dei singoli cittadini, della famiglia, di tutti i componenti la società, concedendo ampiamente a tutti la vera libertà che consiste, come dimostrammo, nel poter vivere ciascuno secondo le leggi e la retta ragione.

Se quando si discute di libertà ci si riferisse a quella legittima e onesta quale or ora la ragione e la parola hanno descritta, nessuno oserebbe perseguitare la Chiesa accusandola iniquamente di essere nemica della libertà dei singoli e dei liberi Stati. Ma già sono assai numerosi gli emuli di Lucifero – che lanciò quell’empio grido non servirò –, i quali in nome della libertà praticano un’assurda e schietta licenza. Sono siffatti i seguaci di quella dottrina così diffusa e potente che hanno voluto darsi il nome di Liberali traendolo dalla parola libertà.

Ovviamente, là dove mirano in filosofia i Naturalisti o i Razionalisti, ivi mirano, in tema di morale e di politica, i fautori del Liberalismo i quali applicano nei costumi e nella condotta di vita i principi affermati dai Naturalisti. Ora, il primato della ragione umana è il caposaldo di tutto il Razionalismo, il quale rifiuta l’obbedienza dovuta alla divina ed eterna ragione, si definisce artefice della propria legge, e perciò considera se stesso il sommo principio, la fonte e l’unico giudice della verità. Così i seguaci del Liberalismo, di cui si è detto, nella vita pratica pretendono che non vi sia alcun divino potere a cui si debba obbedienza e che ognuno debba essere legge per se stesso; perciò nasce quella filosofia morale che chiamano indipendente e che, dietro l’apparenza di libertà, tende a rimuovere la volontà dalla osservanza dei divini precetti e quindi suole concedere all’uomo infinita licenza. È facile comprendere quali conseguenze abbiano tali affermazioni sulla società umana. Infatti, accettato e stabilito il principio per cui nessuno è al di sopra dell’uomo, ne consegue che la causa che determina la concordia e la società civile è da ricercare non già in un principio esterno o superiore all’uomo ma nella libera volontà dei singoli; che il potere pubblico emana, come da fonte primaria, dal popolo. Inoltre, come la ragione di ciascuno è la sola guida e norma della condotta privata, così la ragione di tutti deve essere guida per tutti nella vita pubblica. Perciò la maggioranza ha poteri maggiori; la maggior parte del popolo è sorgente dei diritti e dei doveri universali.

Ma è evidente, da quanto si è detto, che queste affermazioni contrastano con la ragione. Non volere che tra l’uomo e la società civile interceda alcun vincolo con Dio creatore e supremo legislatore, ripugna assolutamente alla natura, e non solo alla natura dell’uomo ma di tutte le creature; poiché è necessario che tutti gli effetti abbiano qualche attinenza con la causa da cui sono scaturiti, riguarda tutte le creature; attiene alla perfezione di ciascuna rimanere nel posto e nel grado che l’ordine naturale ha stabilito, in modo che il mondo inferiore sia sottoposto e obbedisca a quello che lo sovrasta. Per di più, siffatta dottrina è gravemente perniciosa sia per i singoli che per la società. Una volta confinato nella sola e unica ragione umana il criterio del vero e del bene, la corretta distinzione tra il bene e il male sparisce; le infamie non differiscono dalla rettitudine in modo oggettivo ma secondo l’opinione e il giudizio dei singoli; il libito diventa lecito; stabilita una regola morale che non ha praticamente il potere d’infrenare e di placare le torbide passioni dell’animo, si spalancherà spontaneamente la porta ad ogni corruttela. Nell’ordine pubblico, poi, il potere di comandare viene separato dal giusto e naturale principio da cui esso attinge ogni virtù generatrice del bene comune; la legge, nello stabilire i limiti del lecito e dell’illecito, è lasciata all’arbitrio della maggioranza, che è la via inclinata verso il regime tirannico. Ripudiato il dominio di Dio sull’uomo e sul consorzio civile, ne consegue l’abolizione di ogni culto pubblico e la massima incuria per tutto ciò che ha attinenza con la religione. Del pari, la moltitudine, armata della convinzione di essere sovrana, degenera in sedizioni e tumulti e, tolti i freni del dovere e della coscienza, non resta altro che la forza, la quale, tuttavia, non è così grande da potere da sola contenere la passioni popolari. Lo dimostra la lotta pressoché quotidiana contro i socialisti ed altre schiere di sediziosi che da tempo tentano di sovvertire radicalmente la società civile. Chi è in grado di giudicare rettamente, valuti dunque e stabilisca se tali dottrine giovino a una vera libertà degna dell’uomo, o piuttosto la pervertano e la corrompano del tutto.

Certo, non tutti i seguaci del Liberalismo concordano con quelle opinioni, spaventose per la loro assurdità, che considerammo nemiche della verità e causa di mali assai funesti. Anzi, molti di essi, sospinti dalla forza della verità, non esitano ad ammettere o addirittura affermano spontaneamente che la libertà diventa viziata e degenera in licenza se osa varcare certi limiti e trascurare la verità e la giustizia. Perciò è necessario che la libertà sia guidata e governata con retto raziocinio e sia soggetta, di conseguenza, al diritto naturale e alla sempiterna legge divina. Ma i liberali qui si fermano; sono convinti che un uomo libero non debba sottostare alle leggi che Dio volle imporre; fanno eccezione per le leggi ispirate dalla ragione naturale.

Ma tale affermazione non è affatto coerente. Infatti se, come essi ammettono e come tutti devono ragionevolmente convenire, si deve obbedire alla volontà di Dio legislatore, poiché ogni uomo è in potere di Dio e tende a Dio, ne consegue che nessuno può stabilire norma e confini alla Sua autorità legislatrice, senza andar contro la dovuta obbedienza. Anzi, se la mente umana fosse così presuntuosa da voler stabilire quali e quanti diritti appartengano a Dio e quali doveri a se stessa, il rispetto delle leggi divine sarà più apparente che reale e il suo arbitrio prevarrà sull’autorità e la provvidenza di Dio. È pertanto necessario assumere, con devozione costante, una norma di vita sia dalla legge eterna, sia da tutte e da ogni singola legge che Dio, d’infinita sapienza e potenza, tramandò nel modo che a Lui piacque, e che noi possiamo conoscere con certezza attraverso segnali chiari e immuni da ogni dubbio. Tanto più che siffatte leggi, poiché hanno la stessa origine della legge eterna e lo stesso autore, del tutto armonizzano con la ragione e aggiungono perfezione al diritto naturale; inoltre contengono il magistero di Dio stesso che, per evitare che la mente o la volontà nostra cadano nell’errore, regge benignamente entrambe col suo cenno e con la sua guida. Sia dunque congiunto con salda pietà ciò che non può né deve essere disgiunto, e in ogni occasione, come prescrive la stessa ragione naturale, si presti a Dio umile obbedienza.

Alquanto più moderati, ma per nulla più coerenti, sono coloro che dicono che la vita e i costumi dei privati devono essere regolati dal dettato delle leggi divine, ma non quelli dello Stato; che è lecito sottrarsi ai comandamenti di Dio nei pubblici affari e non rifarsi ad essi in alcun modo nel formulare le leggi. Ne deriva quel funesto corollario per cui è necessario dissociare la Chiesa dallo Stato. Ma non è difficile comprendere l’assurdità di queste affermazioni. Infatti la stessa natura prescrive che ai cittadini siano dati mezzi e opportunità per condurre una vita onesta, cioè conforme alla legge di Dio, poiché Dio è il principio della rettitudine e della giustizia e quindi è inconcepibile che lo Stato ignori quelle stesse leggi o che possa fondare una convivenza ad esse ostile. Inoltre coloro che governano i popoli hanno il dovere verso la comunità di provvedere non solo al benessere e ai beni materiali, ma soprattutto ai beni spirituali con la sapienza delle leggi. E invero non si può immaginare nulla di più adatto ad accrescere questi beni che quelle leggi di cui Dio è autore; perciò, nel governo della società, coloro che rifiutano di applicare le leggi divine, fanno sì che il potere politico si svii dal suo scopo e dall’ordine di natura. Ma ciò che più importa e che già da Noi stessi fu più volte ricordato, è il fatto che, sebbene il governo civile miri a fini diversi rispetto al potere sacrale, e non percorra lo stesso itinerario, tuttavia nell’esercizio del potere è inevitabile che talora l’uno e l’altro s’incontrino. Infatti entrambi hanno il dominio sulle stesse persone e accade spesso che entrambi affrontino le stesse questioni sia pure con diverso criterio. Ogni volta che un tal caso si presenta, poiché il conflitto è assurdo e profondamente ripugna alla sapientissima volontà di Dio, è necessario che vi sia un metodo e un ordine per cui possa sussistere un ragionevole accordo nell’operare, dopo aver rimosso le cause di dispute e di conflitti. Una siffatta concordia fu già paragonata, non senza ragione, all’unione che esiste tra l’anima e il corpo, con vantaggio di entrambe le parti; la loro disunione è soprattutto nociva al corpo, in quanto ne spegne la vita.

Ad ulteriore chiarimento, è opportuno considerare separatamente quelle varie conquiste di libertà che sono un’esigenza dell’epoca nostra. In primo luogo notiamo nelle singole persone un atteggiamento che è profondamente contrario alla virtù religiosa, ossia la cosiddetta libertà di culto. Questa libertà si fonda sul principio che è facoltà di ognuno professare la religione che gli piace, oppure di non professarne alcuna. Eppure, fra tutti i doveri umani, senza dubbio il più nobile e il più santo consiste nell’obbligo di onorare Dio con profonda devozione.

Tale obbligo deriva dal fatto che noi siamo sempre in potere di Dio, siamo governati dalla volontà e dalla provvidenza di Dio e, da Lui partiti, a Lui dobbiamo ritornare. Si aggiunga che senza religione non può esservi virtù nel vero senso della parola; infatti è virtù morale quella che ha per dovere di condurre a Dio, ultimo e sommo bene per l’uomo; perciò la religione, che determina le azioni che direttamente e immediatamente hanno il fine di onorare Dio , è sovrana e moderatrice di tutte le virtù. E a chi si chiede quale unica religione sia doveroso seguire, tra le molte esistenti e tra loro discordi, la ragione e la natura rispondono: certamente quella che Dio ha prescritto e che gli uomini possono facilmente riconoscere da certi aspetti esteriori con cui la divina provvidenza volle distinguerla, poiché in una questione di tanta importanza ogni errore produrrebbe immense rovine. Perciò, una volta concessa quella libertà di cui stiamo parlando, si attribuisce all’uomo la facoltà di pervertire o abbandonare impunemente un sacrosanto dovere, e conseguentemente di volgersi al male rinunciando a un bene immutabile; questa non è libertà, come dicemmo, ma licenza e schiavitù di un’anima avvilita nel peccato.

La stessa libertà, se considerata nell’ambito della società, pretende che lo Stato non faccia propria alcuna forma di culto divino e non voglia professarlo pubblicamente; pretende che nessun culto sia anteposto ad un altro, ma che tutti abbiano gli stessi diritti, senza tener conto della volontà popolare, se il popolo si dichiara cattolico. Ma perché fossero corretti tali principi, dovrebbe essere vero che gli obblighi della società civile verso Dio o sono nulli o possono essere impunemente disattesi: e ciò è falso in entrambi i casi. Infatti non si può dubitare che gli uomini siano uniti in società per volontà di Dio, sia che si consideri la società stessa nelle sue parti, sia nella forma che assume l’autorità, sia nello scopo, sia nell’abbondanza di quei cospicui vantaggi che ne provengono all’uomo. È Dio che ha creato l’uomo socievole e lo ha posto nel consorzio dei suoi simili, affinché ciò che secondo natura desiderava e non poteva conseguire da solo, divenisse un facile acquisto vivendo in società. Perciò è necessario che la società civile, proprio in quanto società, riconosca Dio come padre e creatore suo proprio, e che tema e veneri il suo potere e la sua sovranità. Pertanto, la giustizia e la ragione vietano che lo Stato sia ateo o che – cadendo di nuovo nell’ateismo – conceda la stessa desiderata cittadinanza a tutte le cosiddette religioni, e gli stessi diritti ad ognuna indistintamente.

Dunque, dal momento che è necessaria la professione di un sola religione nello Stato, è necessario praticare quella che è unicamente vera e che non è difficile riconoscere, soprattutto nei Paesi cattolici, per le note di verità che in essa appaiono suggellate. Conseguentemente i governanti la conservino, la proteggano, se vogliono provvedere con prudenza e profitto, come devono, alla comunità dei cittadini. Il potere pubblico è stato costituito per il vantaggio dei sudditi, e sebbene il suo scopo immediato sia quello di condurre i cittadini alla felicità della vita che si trascorre in terra, tuttavia non deve ridurre ma accrescere nell’uomo la facoltà di conseguire quel supremo ed estremo bene in cui consiste l’eterna felicità degli uomini e a cui non si può pervenire se si trascura la religione.

Ma di ciò parlammo più diffusamente altra volta: in questo momento vogliamo soltanto che ci si renda conto che una siffatta libertà è assai nociva alla vera libertà, sia dei governanti che dei governati. Giova invece mirabilmente la religione, in quanto essa riconosce da Dio stesso l’origine del potere, e severamente ammonisce i sovrani perché siano memori dei loro doveri, perché non comandino nulla di ingiusto o di crudele, e governino i sudditi benevolmente e quasi con carità paterna. Essa impone ai cittadini di sottostare alla legittima potestà, come a ministri di Dio; essa li unisce ai reggitori dello Stato non solo con l’obbedienza, ma con il rispetto e l’amore, vietando le sedizioni e tutte quelle imprese che possono turbare l’ordine e la pubblica tranquillità, e che infine producono l’effetto di limitare con più stretti vincoli la libertà dei cittadini. Tralasciamo di dire quanto la religione conduca a buoni costumi, e quanto i buoni costumi conducano alla libertà. Infatti la ragione dimostra, e la storia conferma, che le nazioni, quanto più sono morigerate, tanto più prosperano per libertà, ricchezza e potenza.

Ora si consideri un poco la libertà di parola e ciò che piace esprimere per mezzo della stampa. È appena il caso di dire che questa libertà non può essere un diritto se non è temperata dalla moderazione ed esorbita oltre la misura. Infatti il diritto è una facoltà morale: come dicemmo e come dovremo più spesso ridire, è assurdo pensare che essa sia concessa dalla natura in modo promiscuo e accomunata alla verità e alla menzogna, alla onestà e alla turpitudine. La verità e l’onestà hanno il diritto di essere propagate nello Stato con saggezza e libertà, in modo che diventino retaggio comune; le false opinioni, di cui non esiste peggior peste per la mente, nonché i vizi che corrompono l’animo e i costumi, devono essere giustamente e severamente repressi dall’autorità pubblica, perché non si diffondano a danno della società. Gli abusi dell’ingegno sregolato, che si risolvono in oppressione delle moltitudini ignoranti, devono essere repressi dall’autorità delle leggi non meno che le offese recate con la forza ai più deboli. Tanto più che una gran parte di cittadini non può affatto – o talvolta lo può con estrema difficoltà – guardarsi dai sofismi e dagli artifici dialettici, soprattutto se blandiscono le passioni. Concessa a chiunque illimitata libertà di parola e di stampa, nulla rimarrà d’intatto e d’inviolato; non saranno neppure risparmiati quei supremi e veritieri principi di natura che sono da considerare come un comune e nobilissimo patrimonio del genere umano. Così oscurata a poco a poco la verità dalla tenebre, come spesso accade, facilmente prenderà il sopravvento il regno dell’errore dannoso e proteiforme. Perciò quanto più la licenza avrà spazio, tanto maggiore danno avrà la libertà; tanto più sarà ampia e sicura la libertà, quanto più efficaci i freni alla licenza. Invero, ove natura non si opponga, è concesso, su questioni opinabili permesse da Dio alla discussione degli uomini, esprimere liberamente ciò che piace e ciò che si sente; infatti una tale libertà non conduce mai gli uomini a conculcare la verità, ma semmai ad indagarla e a rivelarla.

Su quella che è chiamata libertà d’insegnamento occorre esprimere un giudizio non diversamente motivato. È fuor di dubbio che solo la verità deve informare le menti, poiché in essa sono posti il bene, il fine e la perfezione degli esseri intelligenti; quindi la dottrina non deve insegnare altro che la verità, tanto a chi la ignora quanto a chi la conosce, in modo che al primo rechi la conoscenza del vero, nell’altro la conservi. Per questo motivo è stretto dovere degli insegnanti svellere l’errore dalle menti e con validi argomenti sbarrare la via alle opinioni fallaci. Pertanto appare del tutto contraria alla ragione e predisposta a pervertire totalmente le menti quella libertà, cui si riferisce il nostro discorso, in quanto essa pretende per sé il diritto d’insegnare secondo il proprio arbitrio; licenza che il pubblico potere non può accordare alla società senza venir meno al proprio dovere. Tanto più che l’autorità dei maestri ha molta influenza sui discepoli, e raramente l’alunno può giudicare in modo autonomo se sia vero ciò che il maestro insegna.

Perciò occorre che anche questa libertà, per essere giusta, sia circoscritta da precisi confini, affinché non accada impunemente che l’arte di insegnare si trasformi in veicolo di corruzione. Inoltre la verità, a cui deve unicamente mirare la dottrina degli insegnanti, è di due specie: naturale o soprannaturale. Le verità naturali, quali sono i principi di natura e quelli che da essi la ragione deduce, sono come il patrimonio comune del genere umano. Su di esso, come su solidissime fondamenta, poggiano la morale, la giustizia, la religione e la stessa coesione della società umana, e perciò nulla vi è di tanto empio e di tanto stolidamente inumano, quanto permettere che quel patrimonio sia violato e dilapidato impunemente. Né va conservato meno devotamente il prezioso e santissimo tesoro di quelle realtà che conosciamo per rivelazione divina. Con numerosi e limpidi argomenti che gli Apologeti usarono spesso, si possono stabilire certi punti essenziali che sono quelli divinamente rivelati da Dio: l’Unigenito Figlio di Dio si è incarnato per rendere testimonianza alla verità; da Lui è stata fondata una società perfetta, quale è la Chiesa, di cui Egli stesso è il capo e con la quale promise di rimanere fino alla consumazione dei secoli. Tutte le verità che Egli ha insegnato volle affidate a questa società perché le custodisse, le difendesse, le divulgasse con legittima autorità; ad un tempo prescrisse a tutti i popoli di ascoltare la parola della sua Chiesa come fosse la propria: chi agirà diversamente, si perderà nell’eterna dannazione. Per questo motivo risulta evidente che Dio è il migliore e più sicuro maestro per l’uomo, fonte e principio di ogni verità; che l’Unigenito, in unione col Padre, è la via, la verità, la vita, la vera luce che illumina ogni uomo; al suo insegnamento devono essere docili tutti gli uomini: "E saranno tutti discepoli di Dio" (Gv 5,45). Ma Dio stesso volle la Chiesa partecipe del divino magistero in materia di fede e di morale, rendendola infallibile per sua divina grazia; perciò la Chiesa è la più alta e sicura maestra dei mortali e in essa è presente l’inviolabile diritto alla libertà d’insegnamento. In realtà, vivendo della sapienza di origine divina, la chiesa nulla ritenne più importante che l’adempiere santamente la missione a lei affidata da Dio: più forte delle difficoltà che l’assediavano da ogni lato in nessun momento cessò di combattere per il libero esercizio del proprio magistero. In questo modo la terra, respinta la miserabile superstizione, fu rinnovata alla luce della sapienza cristiana. La stessa ragione insegna chiaramente che le verità rivelate da Dio e le verità naturali non possono ovviamente essere tra loro contrarie; per questo motivo deve essere falso tutto ciò che con esse non concorda; perciò il divino magistero della Chiesa è tanto lontano dall’ostacolare l’impegno di apprenderei progressi delle scienze o dal ritardare in alcun modo l’avanzamento di una più civile umanità, ma piuttosto è portatrice d’intensa luce e di sicura tutela. La stessa Chiesa giova non poco alla perfezione della libertà umana, avendo presente quella sentenza di Gesù Cristo Salvatore per cui l’uomo è reso libero dalla verità: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv 8,32). Pertanto non vi è motivo per cui la vera libertà debba indignarsi o la scienza degna di questo nome debba dolersi delle leggi giuste e necessarie che secondo i concordi dettami della Chiesa e della ragione debbono regolare l’apprendimento umano. Anzi la Chiesa, mentre agisce soprattutto a tutela della fede cristiana, si adopera altresì per favorire e far progredire ogni forma di umano sapere, come la realtà stessa dimostra diffusamente. Infatti è onesto di per sé e lodevole e desiderabile il decoro della cultura; inoltre l’erudizione che derivi da un sano raziocinio e che corrisponda alla verità oggettiva, serve non poco ad illuminare quegli articoli di fede in cui crediamo perché dettati da Dio. Davvero sono dovuti alla Chiesa questi grandi benefici: l’aver nobilmente conservato i monumenti dell’antica sapienza; l’aver aperto ovunque istituti scientifici; l’aver sempre incoraggiato il progresso intellettuale, alimentando con grande zelo quelle stesse arti medesime per le quali soprattutto si distingue la civiltà contemporanea.

Infine non si può tacere che un campo immenso si spalanca in cui l’iniziativa e l’intelligenza degli uomini possono liberamente spaziare ed esercitarsi: cioè sui temi che non hanno alcun necessario rapporto con i principi di fede e di morale cristiana o sui quali la Chiesa, senza far uso della sua autorità, lascia libero e integro il giudizio dei dotti. Da quanto si è detto si comprende quale sia nella fattispecie quella libertà che con pari ardore rivendicano e predicano i seguaci del Liberalismo. Per un verso pretendono per sé e per lo Stato una licenza così eccessiva che non esitano ad aprire un varco anche alle opinioni più perverse; d’altra parte intralciano in tanti modi la Chiesa e restringono la sua libertà entro i più angusti limiti, per quanto è loro possibile, quantunque dalla dottrina della Chiesa non solo non si deve temere alcun danno ma ci si deve aspettare ogni sorta di benefici.

Inoltre si predica assiduamente quella che viene chiamata libertà di coscienza; la quale, se interpretata nel senso che a ciascuno è giustamente lecito, a piacer suo, di venerare o di non onorare Dio, trova la sua smentita negli argomenti svolti in precedenza. Ma può avere anche questo significato: all’uomo è lecito, nel civile consorzio, seguire la volontà e i comandamenti di Dio secondo coscienza e senza impedimento alcuno. Questa vera libertà, degna dei figli di Dio, che assai giustamente tutela la dignità della persona umana, è più forte di qualunque violenza e offesa, ed è sempre desiderata e soprattutto amata dalla Chiesa. Con costanza, gli Apostoli rivendicarono per sé una siffatta libertà; gli Apologisti la sancirono con gli scritti; i Martiri la consacrarono in gran numero col loro sangue. E meritatamente, in quanto questa libertà cristiana attesta ad un tempo il supremo e giustissimo potere di Dio sugli uomini e l’assoluto e primario dovere degli uomini verso Dio. Essa non ha nulla in comune con uno spirito sedizioso e ribelle, né la si può in alcun modo incolpare di voler sottrarsi all’ossequio verso il pubblico potere, poiché comandare e pretendere obbedienza, nella misura che tale diritto appartiene al potere umano, per nulla contrasta col potere divino e si mantiene nell’ordine voluto da Dio. Ma quando si danno ordini che palesemente contrastano con la divina volontà, allora si esce da quella misura e nello stesso tempo si entra in conflitto con la divina autorità: perciò è giusto non obbedire.

Al contrario i seguaci del Liberalismo che considerano lo Stato padrone assoluto e onnipotente, e affermano che la vita deve essere vissuta senza rispetto alcuno verso Dio, non riconoscono affatto la libertà di cui parliamo, congiunta a onestà e religione; se si fa qualcosa per conservarla, accusano di aver agito a danno dello Stato. Se dicessero il vero, esisterebbe una tirannide così crudele, alla quale non si dovrebbe né sottostare né ubbidire.

La Chiesa vorrebbe ardentemente che in tutti gli ordini statali penetrassero e fossero praticati quegli insegnamenti cristiani di cui abbiamo parlato sommariamente. Infatti essi sono molto efficaci come rimedio dei mali dell’età nostra, non pochi né lievi e in gran parte generati da quelle stesse libertà che con tanta enfasi sono esaltate e nelle quali sembrava di scorgere semi di salute e di gloria. L’esito ingannò la speranza. Invece di frutti dolci e salutari ne provennero altri acerbi e avvelenati. Se si cerca un rimedio, lo si trovi nel ripristino di sane dottrine, dalle quali soltanto ci si può aspettare con fiducia la conservazione dell’ordine e infine la tutela della vera libertà. Tuttavia la Chiesa, con intelligenza materna, considera il grave peso della umana fragilità e non ignora quale sia il corso degli animi e delle vicende da cui è trascinata la nostra età. Per queste ragioni, senza attribuire diritti se non alla verità e alla rettitudine, la Chiesa non vieta che il pubblico potere tolleri qualcosa non conforme alla verità e alla giustizia, o per evitare un male maggiore o per conseguire e preservare un bene. Dio stesso provvidentissimo, infinitamente buono e potente, consentì tuttavia che nel mondo esistesse il male, in parte perché non siano esclusi beni più rilevanti, in parte perché non si conseguano mali maggiori. Nel governo delle nazioni è giusto imitare il Reggitore del mondo: anzi, non potendo l’umana autorità impedire ogni male, deve "concedere e lasciare impunite molte cose che invece sono punite giustamente dalla divina Provvidenza" . Tuttavia, come complemento a quanto detto, se a causa del bene comune e soltanto per questo motivo la legge degli uomini può o anche deve tollerare il male, non può né deve approvarlo o volerlo in quanto tale: infatti il male, essendo di per sé privazione di bene, ripugna al bene comune che il legislatore, per quanto gli è possibile, deve volere e tutelare. E anche in questo caso è necessario che la legge umana si proponga di imitare Dio il quale, nel consentire che il male esista nel mondo "non vuole che il male si faccia, né vuole che il male non si faccia, ma vuole permettere che il male si faccia, e questo è bene" . Questa affermazione del dottore Angelico contiene in sintesi tutta la dottrina sulla tolleranza del male. Ma bisogna riconoscere, se si vuole giudicare rettamente, che quanto più in uno Stato è necessario tollerare il male, tanto più questo tipo di Stato è lontano da una condizione ottimale; così pure, quando si opera secondo i precetti della prudenza politica, è necessario circoscrivere la tolleranza dei mali entro i limiti che il motivo – cioè la salute pubblica – richiede. Perciò, se la tolleranza reca danno alla salute pubblica e procura mali maggiori allo Stato, ne consegue che non è lecito praticarla, poiché in tali circostanze viene a mancare il movente del bene. Se poi accade che, per particolari condizioni dello Stato, la Chiesa si adegui a certe moderne libertà, non perché le prediliga in quanto tali, ma perché giudica opportuno permetterle, nel caso che i tempi volgessero al meglio, adotterebbe certamente la propria libertà e persuadendo, esortando, pregando si dedicherebbe, come deve, all’adempimento della missione a lei assegnata da Dio, che consiste nel provvedere all’eterna salute degli uomini. Tuttavia è pur sempre eternamente vero che codesta libertà di tutti e per tutti non è desiderabile di per se stessa, come più volte abbiamo detto, poiché ripugna alla ragione che la menzogna abbia gli stessi diritti della verità. E per quanto riguarda la tolleranza, sorprende quanto siano distanti dalla equità e dalla prudenza della Chiesa coloro che professano il Liberalismo. Infatti, con l’assoluta licenza di concedere tutto ai cittadini, come dicemmo, varcano completamente la misura e giungono al punto di non attribuire alla onestà e alla verità maggior valore che alla falsità e alla malvagità. Essi poi accusano di essere priva di pazienza e di mitezza la Chiesa, colonna e firmamento di verità, incorrotta maestra di moralità, perché ripudia costantemente, come deve, una tale dissoluta e perniciosa specie di tolleranza e nega che sia lecito praticarla; comportandosi in questo modo non si accorgono di trasformare in colpa ciò che è motivo di encomio. Ma in tanta ostentazione di tolleranza, di fatto accade spesso che i liberali siano tenacemente restrittivi verso il cattolicesimo e che prodighi di libertà verso il volgo, rifiutino in molti casi di lasciar libera la Chiesa.

Ma ricapitoliamo brevemente tutto il discorso con i suoi corollari, per motivi di chiarezza: è per necessità suprema che l’uomo si trovi completamente sotto il vero e perpetuo potere di Dio: perciò non si può affatto concepire la libertà dell’uomo se non dipendente da Dio e soggetta alla Sua volontà. Negare in Dio tale sovranità o non assoggettarsi ad essa non è comportamento di uomo libero, ma di chi abusa della libertà per tradirla; in verità da tale disposizione d’animo si forma e si realizza il vizio capitale del Liberalismo. Il quale tuttavia si distingue in molteplici forme: infatti la volontà, in modo e in grado diversi, può rifiutare l’obbedienza che è dovuta a Dio o a coloro che sono partecipi del potere divino.

Certamente, ricusare radicalmente la sovranità del sommo Dio e rifiutargli ogni obbedienza, sia nella vita pubblica, sia nella vita privata e domestica, è la massima perversione della libertà come anche la peggiore specie di Liberalismo: in tale senso deve essere inteso quanto finora abbiamo detto contro tale dottrina.

Affine è la concezione di coloro che sono d’accordo sulla necessità di sottomettersi a Dio, creatore e signore del mondo, in quanto dal suo potere riceve armonia la natura, però temerariamente ripudiano le leggi della fede e della morale in quanto non rientrano nella natura ma provengono dall’autorità di Dio, o almeno – dicono – non vi è alcun motivo di tenerle in considerazione, soprattutto nella società civile. Abbiamo visto più sopra quanto costoro siano involti nell’errore e quanto poco siano coerenti con se stessi. Da questa dottrina, come da una sorgente, deriva la funesta opinione che la Chiesa deve essere separata dallo Stato; è invece evidente che entrambi i poteri, dissimili nei doveri e diversi di grado, devono tuttavia essere tra loro consenzienti nell’agire concorde e nello scambio dei compiti.

Tale opinione è soggetta a una duplice interpretazione. Molte persone infatti vogliono lo Stato totalmente separato dalla Chiesa, in modo che in ogni norma che regola la convivenza umana, nelle istituzioni, nei costumi, nelle leggi, negli impieghi statali, nella educazione della gioventù, si debba considerare la Chiesa come se non esistesse, pur concedendo infine ai singoli cittadini la facoltà di dedicarsi alla religione in forma privata, se così piace. Contro costoro vale la forza di tutti gli argomenti coi quali confutammo l’opinione relativa alla separazione della Chiesa e della società civile, ma con questa postilla: è assurdo che il cittadino onori la Chiesa e che la società la disprezzi.

Altri non contestano che la Chiesa esista, né potrebbero affermare diversamente; essi tuttavia le negano il carattere e i diritti propri di una società perfetta e la facoltà di fare le leggi, di giudicare, di punire, ma soltanto di esortare, persuadere, governare coloro che spontaneamente le si sottomettono. Pertanto con tale opinione snaturano il carattere di questa divina società; debilitano e restringono l’autorità, il magistero e tutta la sua influenza, amplificando al contempo la forza e il potere del principato civile fino al punto di sottoporre la Chiesa di Dio al dominio e all’arbitrio dello Stato, come fosse un qualsivoglia associazione volontaria di cittadini. Per respingere questi argomenti valgono quelli usati dagli Apologisti e da Noi ricordati particolarmente nell’Enciclica Immortale Dei, dai quali si evince che, per istituzione divina, alla Chiesa compete tutto quanto appartiene alla natura e ai diritti di una legittima, suprema e perfetta società.

Vi sono molti, infine, che non approvano la separazione della Chiesa dallo Stato, ma ritengono che la Chiesa debba adeguarsi ai tempi e si pieghi e si adatti a quelle misure che nella amministrazione degli Stati sono suggerite dalla moderna avvedutezza. È onesto il parere di costoro, se lo si intende come ragionevole equità che possa coesistere con la verità e la giustizia: cioè in modo che la Chiesa, accolta la speranza di qualche gran bene, si mostri indulgente e conceda ai tempi quanto più le è possibile, fatta salva la sacralità della sua missione. Ma non è così quando si tratta di fatti e dottrine che siano introdotte dalla mutazione dei costumi e da fallaci opinioni. Nessuna epoca può fare a meno della religione, della verità, della giustizia; Dio ordinò che questi sommi e santissimi beni fossero posti a tutela della Chiesa e perciò nulla è tanto assurdo quanto pretendere che la Chiesa ipocritamente accetti sia la falsità che l’ingiustizia, o sia connivente con ciò che nuoce alla religione.

Da quanto si è detto consegue che non è assolutamente lecito invocare, difendere, concedere una ibrida libertà di pensiero, di stampa, di parola, d’insegnamento o di culto, come fossero altrettanti diritti che la natura ha attribuito all’uomo. Infatti, se veramente la natura li avesse concessi, sarebbe lecito ricusare il dominio di Dio, e la libertà umana non potrebbe essere limitata da alcuna legge. Ne consegue del pari che queste varie libertà possono essere tollerate se vi sia un giusto motivo, ma entro certi limiti di moderazione, in modo che non degenerino nell’arbitrio e nell’arroganza. Dove infatti vige la consuetudine di queste libertà, i cittadini le trasformino in facoltà di agire correttamente e di esse abbiano il concetto medesimo che ne ha la Chiesa. Pertanto ogni libertà è da ritenere legittima finché procura più frequenti occasioni di onesta condotta, altrimenti no.

Dove la tirannide opprima o sovrasti in modo tale da sottomettere la cittadinanza con iniqua violenza, o costringa la Chiesa ad essere priva della dovuta libertà, è lecito chiedere una diversa organizzazione dello Stato, in cui sia concesso agire liberamente; in questo caso non si rivendica quella smodata e colpevole libertà, ma qualche sollievo a vantaggio di tutti e si agisce così solamente perché non sia impedita la facoltà di comportarsi onestamente là dove si concede licenza al malaffare.

Inoltre, non è vietato preferire un tipo di Stato regolato dalla partecipazione popolare, fatta salva la dottrina cattolica circa l’origine e l’esercizio del pubblico potere. Tra i vari tipi di Stato, purché siano di per se stessi in grado di provvedere al benessere dei cittadini, nessuno è riprovato dalla Chiesa; essa pretende tuttavia ciò che anche la natura comanda: che i singoli Stati si reggano senza recare danno ad alcuno, e soprattutto rispettino i diritti della Chiesa.

È onesto partecipare alla pubblica amministrazione, a meno che in qualche luogo, per eccezionali circostanze di tempo e di cose, non venga disposto diversamente; anzi la Chiesa approva che ognuno dedichi l’opera sua al comune vantaggio e che con ogni sua iniziativa – nei limiti del possibile – difenda, consolidi, renda prospero lo Stato. La Chiesa non condanna una nazione che voglia essere indipendente dallo straniero o da un tiranno, purché sia salva la giustizia. Infine non rimprovera neppure coloro che propugnano uno Stato retto da proprie leggi, e una cittadinanza dotata della più ampia facoltà di accrescere il proprio benessere.

La Chiesa fu sempre coerente fautrice delle libertà civili, purché non intemperanti: ne sono validi testimoni le città d’Italia che, attraverso i Comuni, raggiunsero la prosperità, la ricchezza, la gloria esercitando i propri diritti, nel tempo in cui la virtù salutare della Chiesa si era diffusa in ogni parte dello Stato, senza alcun contrasto.

Venerabili Fratelli, confidiamo che questi concetti, che abbiamo espresso guidati ad un tempo dalla fede e dalla ragione nell’adempimento del Nostro dovere apostolico, riescano fruttuosi per molti, soprattutto se coopererete con Noi. E Noi, nell’umiltà del Nostro cuore, alziamo supplici gli occhi a Dio e con ardore Lo preghiamo perché voglia benevolmente infondere negli uomini il lume della sua sapienza e del suo consiglio, in modo che, confortati da queste virtù, possano distinguere la verità in situazioni così difficili, e di conseguenza possano vivere in privato, in pubblico, in ogni tempo, con inalterabile costanza fedeli alla verità. Come auspicio di celesti doni e come testimonianza della Nostra benevolenza, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e al popolo a Voi affidato, impartiamo con grande affetto nel Signore l’Apostolica Benedizione

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 giugno 1888, nell’anno undecimo del Nostro Pontificato.

LEONE PP. XIII

lunedì 9 agosto 2010

dogmatizzare chiaramente


Commento del quindicinale DICI (n° 220 del 7 agosto 2010) della Fraternità San Pio X sulla conferenza di Mons. Pozzo del 2 luglio 2010 (dal sito http://www.unavox.it/)

Vaticano II, un dibattito tra Romano Amerio,
Mons. Gherardini e Mons. Pozzo

Il 2 luglio, Mons. Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei ha tenuto una conferenza presso il seminario della Fraternità San Pietro a Wigratzbad, dal titolo «Aspetti dell’ecclesiologia cattolica nella recezione del Concilio Vaticano II». Egli ha affermato che «se il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità (nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ndr.), ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento.
L’analisi di Mons. Pozzo sull’influenza del para-concilio.
Mons. Pozzo intende provare che, su due punti controversi (uno: l’unità e l’unicità della Chiesa cattolica, con la questione del subsistit in di Lumen Gentium 8; due: i rapporti della Chiesa cattolica con le altre religioni, col dialogo ecumenico e interreligioso), «l’autentico annuncio della Chiesa in relazione alla sua pretesa di assolutezza non è sostanzialmente cambiato dopo l’insegnamento del Vaticano II».
Allora, ci si deve chiedere perché dei documenti conciliari così chiaramente conformi alla Tradizione, secondo Mons. Pozzo, abbiano dato luogo ad una interpretazione talmente contraria.

Il prelato romano si pone l’interrogativo e risponde: «Che cosa sta all’origine dell’interpretazione della discontinuità o della rottura con la Tradizione? Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare. Perché tutte le conseguenze dell’ideologia paraconciliare venissero manifestate come evento storico, si dovette verificare la rivoluzione del ’68, che assume come principio la rottura con il passato e il mutamento radicale della storia. Nell’ideologia paraconciliare il ’68 significa una nuova figura di Chiesa in rottura con il passato».

E Mons. Pozzo conclude che bisogna utilizzare «l’ermeneutica della riforma nella continuità», preconizzata da Benedetto XVI per «affrontare i punti controversi, liberando, per così dire, il Concilio dal para-concilio che si è mescolato ad esso, e conservando il principio dell’integrità della dottrina cattolica e della piena fedeltà al deposito della fede trasmesso dalla Tradizione e interpretato dal Magistero della Chiesa».

Al termine di questa esposizione, resta un interrogativo: il para-concilio denunciato dal Segretario della Commissione Ecclesia Dei, si identifica col post-concilio?

Si sarebbe tentati di rispondere affermativamente, se si considera che questo para-concilio si sarebbe sforzato di far coincidere dei documenti redatti tra il 1962 e il 1965 con lo spirito della rivoluzione del maggio ’68.
Ma è anche detto che «l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, […] si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso».
Questa sovrapposizione «fin dal principio» non ha avuto alcuna influenza sulla redazione dei testi conciliari?
Mons. Pozzo ritiene che l’ideologia para-conciliare non abbia intaccato i testi del Concilio, né l’intenzione degli autori, ma ha fornito solo «il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti».
L’ideologia para-conciliare sarebbe dunque un quadro esterno condizionante dall’interno la lettura dei documenti! Appare più semplice considerare un’influenza estranea alla Tradizione che interviene direttamente sulla loro redazione.

La testimonianza di Mons. Lefebvre

È quello che dichiarava schiettamente Mons. Lefebvre in Lo hanno detronizzato: «È certo che con i 250 Padri conciliari del Coetus (Coetus Internationalis Patrum, gruppo di vescovi conservatori fondato da Mons. Lefebvre, Mons. Carli e Mons. Proença-Sigaud, ndr) abbiamo provato con tutti i mezzi a nostra disposizione ad impedire che gli errori liberali si esprimessero nei testi del Concilio; cosa che ha permesso, quantomeno, di limitare i guasti, cambiare tali affermazioni inesatte o tendenziose, aggiungere tal’altre frasi per rettificare una proposizione tendenziosa, una espressione ambigua.

«Ma, devo confessare che non siamo riusciti a purificare il Concilio dallo spirito liberale e modernista che impregnava la maggior parte degli schemi. I redattori, in effetti, erano proprio degli esperti e i Padri erano contaminati da questo spirito. Ora, che volete, quando un documento, nel suo insieme complessivo, è redatto con uno spirito falso, è praticamente impossibile purgarlo da tale spirito; bisognerebbe ricomporlo interamente per ridargli uno spirito cattolico.

«Con i modi che abbiamo presentato, tutto quello che abbiamo potuto fare è aggiungere degli incisi negli schemi, e questo si vede molto bene: basta confrontare il primo schema sulla libertà religiosa con il quinto che fu redatto – poiché questo documento fu rigettato cinque volte e ritornò cinque volte sul tappeto – per accorgersi che si è riusciti quanto meno ad attenuare il soggettivismo che infettava le prime redazioni. Lo stesso dicasi per Gaudium et spes, si vedono molto bene i paragrafi che sono stati aggiunti su nostra richiesta, e che sono, direi, come delle pezze apposte su un vecchio abito: non si legano insieme; non v’è più la logica della redazione originaria; le aggiunte fatte per attenuare o controbilanciare le affermazioni liberali sono là come dei corpi estranei. (…)

«Ma la cosa seccante è che anche i liberali praticavano lo stesso sistema con i testi degli schemi: l’affermazione di un errore o di un’ambiguità o di un orientamento pericoloso e poi, immediatamente dopo o prima, un’affermazione in senso contrario, destinato a rassicurare i Padri conciliari conservatori.» (Il l’ont découronné, Clovis, pp. 193-194, [Lo hanno detronizzato, Ed. Amicizia Cristiana, Chieti, 2009 – per avere il libro).

Romano Amerio e il suo discepolo Enrico Maria Radaelli denunciano «un abissale rottura della continuità».
Un’eco della testimonianza di Mons. Lefebvre la si può trovare nell’ultimo volume delle opere complete di Romano Amerio, Zibaldone, edito dalla Lindau, Torino. Il titolo, che riprende quello di un’opera del poeta Giacomo Leopardi, significa raccolta composta senza un ordine preciso di: « brevi pensieri, aforismi, racconti, citazioni di classici, dialoghi morali, commenti a fatti quotidiani» come ha scritto, il 12 luglio, il vaticanista Sandro Magister sul suo sito chiesa.espresso.repubblica.it.

Magister presenta così l’opera di Amerio:

« Da questa sua analisi fortemente critica, che egli applicava anche al Concilio Vaticano II, Amerio ricavava quello che Enrico Maria Radaelli, suo fedele discepolo e curatore della pubblicazione delle opere del maestro, chiama il “gran dilemma giacente al fondo della cristianità d’oggi”». Questo dilemma consiste nel sapere se tra il magistero della Chiesa, anteriore al Vaticano II e quello di dopo il concilio vi sia continuità o rottura.

«Proprio questa, infatti, a giudizio di Amerio e Radaelli, è la causa della crisi della Chiesa conciliare e postconciliare, una crisi che l’ha portata vicinissima alla sua “impossibile ma anche quasi avvenuta” perdizione: l’aver voluto rinunciare a un magistero imperativo, a definizioni dogmatiche “inequivoche nel linguaggio, certe nel contenuto, obbliganti nella forma”, come ci si aspetta siano almeno gli insegnamenti di un Concilio».
«La conseguenza, secondo Amerio e Radaelli, è che il Concilio Vaticano II è pieno di asserzioni vaghe, equivoche, interpretabili in modi difformi, alcune delle quali, anzi, in sicuro contrasto col precedente magistero della Chiesa. (la sottolineatura è nostra). E questo ambiguo linguaggio pastorale avrebbe aperto la strada a una Chiesa oggi “percorsa da mille dottrine e centomila nefandi costumi”. Anche nell’arte, nella musica, nella liturgia.

«Che fare per porre rimedio a questo dissesto? La proposta che fa Radaelli va oltre quella fatta di recente – a partire da giudizi critici altrettanto duri – da un altro stimato cultore della tradizione cattolica, il teologo tomista Brunero Gherardini, 85 anni, canonico della basilica di San Pietro, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista “Divinitas”.

«Monsignor Gherardini ha avanzato la sua proposta in un libro uscito a Roma lo scorso anno dal titolo: “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”. Il libro si conclude con una “Supplica al Santo Padre”. Al quale viene chiesto di sottoporre a riesame i documenti del Concilio, per chiarire una volta per tutte “se, in che senso e fino a che punto” il Vaticano II sia o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.

«Ebbene, nella sua postfazione a “Zibaldone” di Romano Amerio, il professor Radaelli accoglie la proposta di monsignor Gherardini, ma “solo come un utile primo gradino per ripulire l’aia da molti, da troppi fraintendimenti”. Chiarire il senso dei documenti conciliari, infatti, a giudizio di Radaelli non basta, se tale chiarimento viene poi anch’esso offerto alla Chiesa con il medesimo, inefficace stile d’insegnamento “pastorale” entrato in uso con il Concilio, propositivo invece che impositivo.

«Se l’abbandono del principio di autorità e il “discussionismo” sono la malattia della Chiesa conciliare e postconciliare, per uscire da lì – scrive Radaelli – è necessario agire all’opposto. La somma gerarchia della Chiesa deve chiudere la discussione con un pronunciamento dogmatico “ex cathedra”, infallibile e obbligante. Deve colpire con l’anatema chi non obbedisce e benedire chi obbedisce.

«E Radaelli cosa si aspetta che decreti la suprema cattedra della Chiesa? Alla pari di Amerio, egli è convinto che in almeno tre casi vi sia stata “un’abissale rottura di continuità” tra il Vaticano II e il precedente magistero: là dove il Concilio afferma che la Chiesa di Cristo “sussiste nella” Chiesa cattolica invece di dire che “è” la Chiesa cattolica; là dove asserisce che “i cristiani adorano lo stesso Dio adorato da ebrei ed islamici”; e nella dichiarazione “Dignitatis humanæ” sulla libertà religiosa.»

L’ermeneutica della riforma nella continuità è un rimedio sufficiente?

Al termine del suo articolo, Sandro Magister dimostra che la critica del concilio avanzata da Romano Amerio e da Mons. Gherardini non è affatto ricevibile agli occhi del Papa:
«In Benedetto XVI, sia Gherardini che Amerio-Radaelli riconoscono un papa amico. Ma che egli esaudisca i loro voti è da escludersi. Anzi, sia nell’insieme che su alcuni punti controversi papa Joseph Ratzinger ha già fatto capire di non condividere affatto le loro posizioni.

«Ad esempio, sulla continuità di significato tra le formule “è” e “sussiste nella” si è espressa la Congregazione per la Dottrina della Fede nell’estate del 2007, affermando che “il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente”.

«Quanto alla dichiarazione “Dignitatis humanæ” sulla libertà religiosa, Benedetto XVI in persona ha spiegato che se essa si è distaccata da precedenti indicazioni “contingenti” del magistero, lo ha fatto proprio per “riprendere nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”.

«Il discorso nel quale Benedetto XVI ha difeso l’ortodossia della “Dignitatis humanæ” è quello da lui rivolto alla curia vaticana alla vigilia del primo Natale del suo pontificato, il 22 dicembre 2005, proprio per sostenere che tra il Concilio Vaticano II e il precedente magistero della Chiesa non c’è rottura ma “riforma nella continuità”.»

E Sandro Magister conclude «Papa Ratzinger non ha finora convinto i lefebvriani, che proprio su questo punto cruciale si mantengono in stato di scisma. (l’affermazione di una discontinuità o di una rottura in rapporto alla Tradizione, costituisce uno scisma? O non è piuttosto la rottura stessa che può essere sinonimo di scisma? Ndr). Ma non ha convinto – a quanto scrivono Radaelli e Gherardini – nemmeno alcuni suoi figli “obbedientissimi in Cristo”.

Da un lato, Mons. Pozzo propone di liberare il Concilio dal para-concilio e dall’altro Amerio e Radaelli chiedono che il magistero romano la smetta di «pastoralizzare», per dogmatizzare chiaramente.
Questo è il cuore del dibattito sul Vaticano II, di cui Mons. Gherardini afferma che è un «discorso da fare». Imperativamente.

libertà e liberali

Pensieri del Padre Reginald Garrigou-Lagrange

"Possiamo fare (...) della libertà religiosa un argomento ad hominem contro coloro che, pur proclamando la libertà di religione, perseguitano la Chiesa (stati laici e socialisti), o ostacolano il suo culto, direttamente o indirettamente (stati comunisti, islamici, ecc). Questo argomento ad hominem è giusto e la Chiesa non lo respinge, usandolo per difendere efficacemente il proprio diritto alla libertà. Ma non ne consegue che la libertà religiosa, considerata in se stessa, sia per i cattolici sostenibile in linea di principio, perché è intrinsecamente assurdo ed empio che la verità e l'errore debbano avere gli stessi diritti "

"I liberali sono larghi in dottrina, perché non credono fermamente, e spietati in pratica, perché non amano veramente"

domenica 8 agosto 2010

100 anni del decreto "Quam singulari"

100 anni fa veniva promulgato il decreto "Quam singulari" con il quale Sua Santità il Papa san Pio X abbassava a sette anni l’età per poter ricevere l’Eucaristia. Il cardinale Antonio Cañizares Llovera, Prefetto del Culto, ha voluto ricordare il centenario del decreto di Papa Sarto scrivendo tra l’altro: “Il centenario del decreto Quam singulari è un’occasione provvidenziale per ricordare e insistere di prendere la prima comunione quando i bambini abbiano l’età dell’uso della ragione, che oggi sembra addirittura essersi anticipata. Non è dunque raccomandabile la prassi che si sta introducendo sempre più di elevare l’età della prima comunione. Al contrario, è ancora più necessario anticiparla. Di fronte a quanto sta accadendo con i bambini e all’ambiente così avverso in cui crescono, non priviamoli del dono di Dio: può essere, è la garanzia della loro crescita come figli di Dio, generati dai sacramenti dell’iniziazione cristiana in seno alla santa madre Chiesa. La grazia del dono di Dio è più potente delle nostre opere, e dei nostri piani e programmi”.

I bambini e l’Eucaristia

Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite
  perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio” (Mc 10, 14)

I bambini sono il cuore del cuore di Dio, “i loro angeli nel cielo contemplano sempre il volto del Padre che è nei cieli” (Mt 18,10).

Il “volto del Padre” in loro viene distrutto dal peccato, per questo sono tremende le parole che Gesù rivolge a chi porta i bambini al male: “è meglio per lui che gli sia appesa al collo una grossa pietra e sia gettato in mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli” (Lc 17,2).

La raccomandazione che Gesù fa a Pietro è di pascere, prima che le sue pecore, i suoi agnelli (“Pasci i miei agnelli” Gv 21,15); cioè i bambini. Nel sommo Pastore l'invito è rivolto a tutta la Chiesa: vescovi, sacerdoti, genitori ed educatori che in essa hanno il dovere di guidare il gregge di Dio. Questo legifera il can. 914 del CDC.

L'alimento primario di cui i bambini devono essere nutriti è l’Eucaristia, indispensabile perché la vita della Grazia, donata nel Battesimo, possa crescere e fortificarsi: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi. Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui” (Gv 6,53, 56).

La Chiesa primitiva comprese bene il senso di questo mandato e - come si continua a fare nella Chiesa Ortodossa - dava l’Eucaristia ai bambini dopo il Battesimo. Per varie cause, tra cui l’influenza di alcune eresie, l’età della Comunione eucaristica fu posta tra i 12 e i 14 anni, fino a quando, il 10 di agosto 1910, San Pio X firmò il Decreto “Quam Singulari” con il quale stabilì che i bimbi fossero ammessi alla Comunione al primo uso di ragione.

Nel 1910 il Cardinal Gennari, membro della Sacra Congregazione dei Sacramenti, scrisse nel suo “Breve Commentario” al Decreto di San Pio X: “Oggi l’uso della ragione nei bambini inizia molto presto e tutti lo riconoscono: bimbi di tre, quattro, massimo cinque anni sono già in grado di giudicare e possono distinguere molto bene il pane normale dal Pane Eucaristico”.

Quali furono le motivazioni di tale Decreto?

Troviamo la risposta nella “Positio super Introductione causae” di San Pio X dalla quale stralciamo alcune dichiarazioni dei testimoni che sono illuminanti per intendere il pensiero del santo Papa lungo le varie tappe del suo cammino sacerdotale:

1 - da Sacerdote:

“Mi disse che aveva sempre avuto in animo di far accostare i fanciulli presto alla Prima Comunione. E soggiungeva: - Prima che entri il diavolo, entri Nostro Signore...” (Maria Sarto, sorella del Servo di Dio, teste n. 1).

2 - da Vescovo:

“Il Vescovo di Mantova diceva: - Quando il Signore ha preso possesso di quei teneri cuori, il demonio non potrà più averne possanza” (Suor Modesta dell’Immacolata, teste n. 127).

3 - da Cardinale Patriarca

“Riguardo alla prima Comunione dei fanciulli, già Patriarca, pur senza dare disposizioni ufficiali, esortò i Parroci ad esaminare i piccoli e, trovandoli sufficientemente coscienti, ammetterli senz’altro al Sacramento, non preoccupandosi eccessivamente dell’età” (Agostino Vian, teste).

“Ricordo che il Servo di Dio ebbe a rispondermi: - E’ meglio che i fanciulli ricevano Gesù quando hanno ancora il cuore puro” (D. Alberto Silli, teste n. 12).

4 - da Sommo Pontefice

“Eletto al Sommo Pontificato volle che fosse affrettata ai bambini la Prima Comunione perché, come diceva sovente, entrasse Gesù prima di satana nei loro giovani cuori, e chiaramente disse un giorno a D. Alberto Silli: “E’ meglio che i fanciulli ricevano Gesù quando hanno ancora il cuore puro”. Per questo il 10 agosto 1910 emanò il Decreto “Quam Singulari” con il quale, rimossi gli ostacoli di antiche consuetudini e ripristinata la sana disciplina degli antichi, ordinò che i bambini fossero ammessi alla Prima Comunione al settimo anno di età” (D. Alberto Silli, teste n. 12).

“Molto spesso il Servo di Dio mi parlava della necessità di far fare la Prima Comunione ai bambini ben presto, affinché il Signore prendesse possesso delle loro anime prima che vi entrasse il peccato”. (Card. Raffaele Merry del Val, teste).

Da quanto sopra emergono evidenti due considerazioni:

- scopo della Comunione in tenera età, centro della sua cura pastorale da sacerdote, da vescovo e da pontefice, fu di “far entrare Gesù nel cuore dei bambini prima che vi entri satana”. E’ da notare che S. Pio X da sacerdote faceva la Prima Comunione ai bambini di 8-9 anni; da Papa decretò che la si facesse ufficialmente a quelli di sette anni, ma in più di un caso diede Gesù a bambini di 4 anni, come d’altronde era previsto in quel “anche al di sotto” del Decreto.

- S. Pio X era convinto che il rinnovamento dello spirito cristiano della nuova generazione si dovesse attribuire in gran parte alla Comunione data in tenera età.

La prima Comunione oggi

Oggi, a quasi cento anni dall’emissione del Decreto “Quam Singulari”, i mass-media, in specie la televisione, le avanzate tecniche di insegnamento, i videogame hanno accelerato di molto lo sviluppo dell’uso della ragione dei piccoli; al tempo stesso questi vengono devastati, come mai nel passato, da inquinanti messaggi di morte spirituale: in tutto il mondo infatti si verifica il dilagare della delinquenza dei minori la cui età media si aggira sui dieci anni.

Solo la Chiesa può prevenire e arginare questo spaventoso attacco all'innocenza dei piccoli permettendo a Gesù Eucaristia di entrare in loro al primo uso di ragione, con la divina potenza della sua Grazia.

«E' da rifuggire come la peste l'opinione di chi desidera rimandare la prima santa Comunione ad un'età troppo avanzata, quando il diavolo ha già per lo più preso possesso del cuore giovanile, con danno incalcolabile per la sua innocenza. Non appena il fanciullo sa distinguere pane e Pane, si prescinda dalla sua età; venga il Re celeste per regnare in questo cuore benedetto» (San Giovanni Bosco)

Quel che il bambino deve sapere per accostarsi alla S. Comunione


San Pio X dava la prima Comunione a bambini anche di quattro anni, richiedendo come unica conoscenza la consapevolezza della differenza tra Pane eucaristico e pane comune e questo criterio ha riportato nel Decreto “Quam singulari”:

“(...) L’età della discrezione per la Comunione è quella in cui il fanciullo sa distinguere il Pane eucaristico dal pane comune e materiale, da potere divotamente accostarsi all’altare. Non si ricerca dunque una perfetta conoscenza in materia di fede, essendo sufficienti pochi elementi, cioè una qualche cognizione; né è necessario il pieno uso della ragione, bastando un uso incipiente, cioè un cotal quale uso della ragione. Laonde protrarre in lungo la Comunione e fissar per essa un’età più matura, è uso del tutto riprovevole e condannato più volte dalla Sede Apostolica.”

Condizione assolutamente necessaria è quindi che il bambino sappia distinguere il Pane eucaristico dal pane comune.

E' bene però che il bambino "comprenda, per quanto lo consentano le forze della sua intelligenza, i misteri della Fede necessari di necessità di mezzo”(ibid.)

Quali sono questi "misteri della Fede necessari"? Lo chiarisce il Cardinal Gennari, membro della Sacra Congregazione dei Sacramenti, nel suo preciso Commento al Decreto:

“Ecco adunque in che consiste la istruzione necessaria alla prima Comunione. Sapere il fanciullo, come meglio può, i misteri principali della fede, e poter distinguere il Pane eucaristico dal pane comune.

I misteri precipui della fede, tutti lo sanno, sono i misteri dell’unità e trinità di Dio, e della incarnazione, della passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo; ai quali vuolsi aggiungere anche quello che

Dio, come giusto giudice, premia eternamente i buoni col paradiso e punisce eternamente i reprobi con l’inferno.
Or questi misteri il bimbo deve conoscerli come meglio può. Quindi non perfettamente, alla maniera dei teologi, ma che ne sappia afferrare la sostanza.” (Card. Casimiro Gennai, Commento al Decreto Quam singulari)
E' chiaro che il bambino "dovrà in seguito venire imparando il catechismo intero, in modo proporzionato alle forze della sua intelligenza” (Decreto Quam singulari)

Suggerimenti pratici

E' opportuno e conforme al reale significato del Sacramento che esso sia celebrato nell'intimità e nella quiete, in un clima di preghiera e di unione con Gesù; a tal fine è raccomandabile che la cerimonia avvenga in forma privata, senza la partecipazione di tanti invitati, affinché sia sottolineato che Uno solo è l'Ospite; senza regali (all'infuori di pochi oggetti di valore sacro), cosicché risulti chiaro al bambino che Uno solo è il Dono.

Una cerimonia solenne e con la tradizionale partecipazione di ospiti e parenti potrà essere celebrata successivamente, tenendo però sempre presente che la Comunione è soprattutto una festa dello spirito. Come tale deve essere vissuta nella interiorità e non profanata da pranzi grandiosi, da cerimonie troppo lussuose e da doni materiali o in denaro che offuschino la freschezza tutta spirituale del Sacramento. Sarebbe doveroso preparare i piccoli con almeno un giorno di ritiro, nel silenzio e nella quiete, senza televisione.

S.Pio X esortava i responsabili a provvedere che i bambini - dopo il primo incontro con Gesù Eucaristico - frequentassero con assiduità i Sacramenti della Confessione e della Comunione possibilmente quotidiana e che progredissero nella graduale istruzione catechistica.

dal sito: http://www.armatabianca.org/comunione.php?sottomenu=3

anche l'Osservatore romano celebra la ricorrenza

Cento anni fa il decreto "Quam singulari" sintetizzava il disegno riformatore di Papa Sarto


La rivoluzione eucaristica di Pio X
di Gianpaolo Romanato




Non si comprende il pontificato di Pio X (1903-1914) se non si tiene presente che al centro del suo universo mentale c'era il problema dell'atto di fede. Se la Chiesa è lo strumento della salvezza, l'istituzione ecclesiastica deve servire a conservare e a rinforzare la fede dei cristiani, a salvaguardarne i contenuti, a chiarirne il significato, a tutelarne l'integrità, a garantire la vita sacramentale e di grazia. Durante tutta la sua vita sacerdotale, infatti, trascorsa tra canoniche di paese e curie di provincia, Giuseppe Sarto aveva considerato l'insegnamento del catechismo come il primo e il principale dei suoi doveri. Essendo stato eletto Papa, era naturale che imponesse questa priorità a tutta la Chiesa.

Nascono di qui prima l'enciclica Acerbo nimis (15 aprile 1905), volta a illustrare la fondamentale importanza dell'istruzione religiosa, poi il celebre catechismo, che da lui prese il nome, e quindi il decreto Quam singulari (8 agosto 1910), di cui ricordiamo oggi il centenario della promulgazione, che anticipava verso i sette anni di età la prima comunione dei fanciulli.
Pur condizionata dal contesto teologico del tempo, l'enciclica andava diritta al suo scopo. "La dottrina di Cristo - scrive il Papa - ci disvela Iddio e le infinite perfezioni di Lui con assai maggiore chiarezza che non lo manifesti il lume naturale dell'umano intelletto. Quella stessa dottrina ci impone di onorare Dio con la fede, che è l'ossequio della mente; con la speranza, che l'ossequio della volontà; con la carità, che è l'ossequio del cuore; e per tal guisa lega tutto l'uomo e lo soggetta al suo supremo Fattore e Moderatore".

In poche righe e con poche parole, come nello stile di Giuseppe Sarto, è detto perché l'istruzione religiosa debba essere il centro del centro delle preoccupazioni della Chiesa. E l'enciclica prescriveva infatti norme precise e tassative affinché in ogni parrocchia si desse spazio all'istruzione catechistica, in ogni diocesi si istituissero specifiche scuole di religione. Anche la predicazione dei sacerdoti doveva fondarsi non su "fioriti sermoni", come suggerivano i canoni dell'oratoria sacra del tempo, ma su una solida e sicura esposizione delle verità di fede. Ciò che oggi indichiamo con la parola "evangelizzazione", Pio X definiva più semplicemente e didatticamente "istruzione" sulle "cose divine", prescrivendola ai sacerdoti come loro compito precipuo: "Pel presente scopo meglio è soffermarci su un punto solo, e su di esso insistere, non esservi cioè per chiunque sia sacerdote né dovere più grave né più stretto obbligo di questo. E per fermo chi è il quale neghi che al sacerdote alla santità della vita debba andare congiunta la scienza? Le labbra del sacerdote custodiranno la scienza. E la Chiesa infatti severissimamente la richiede in coloro i quali devono essere assunti al ministero sacerdotale".
La compilazione del catechismo fu perciò quasi il coronamento della missione di governo di Pio X. Nel suo studio Il catechismo di Pio X (Roma, Las, 1988), Luciano Nordera ha documentato con quanto impegno Giuseppe Sarto avesse lavorato, fin dagli anni dell'episcopato a Mantova (1885-1894), perché si giungesse a un catechismo unico, se non universale, almeno italiano. Era stato uno dei primi vescovi ad accorgersi dell'imponenza del fenomeno dell'emigrazione, sia interna sia estera, un fenomeno che divenne drammatico proprio negli anni tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale. Ne aveva percepito tutte le dirompenti conseguenze sociali e culturali, ma anche quelle inerenti la fede. Da uomo attento ai problemi del proprio tempo, s'era accorto che la crescente mobilità umana, sottraendo la gente all'ambiente tradizionale, alle abitudini di sempre, incideva negativamente sulle credenze religiose, sulla fede, esponendola al rischio di diventare insignificante se non sostenuta da un'adeguata istruzione.
Anche in riferimento a tale problema, perciò, auspicò che si giungesse a predisporre un testo catechistico unificato, cioè una specie di prontuario della fede cui il cristiano potesse far riferimento indipendentemente dal luogo, dall'ambiente e dalle circostanze di vita. In tale auspicio c'era la profonda consapevolezza che una religione complessa come il cattolicesimo doveva porsi in via assolutamente prioritaria l'esigenza di definire con la maggior precisione e chiarezza possibili l'oggetto della propria credenza. Una Chiesa sempre più sola e indifesa non poteva permettersi il lusso di lasciare a se stessa la fede dei battezzati proprio nel momento in cui molti di questi non potevano più contare sul sostegno del tradizionale ambiente di vita.

Ecco allora che con il testo da lui approntato per la diocesi di Roma, le cui periferie erano già allora in drammatiche condizioni di abbandono non solo civile ma anche religioso, "egli si proponeva di dare in mano ai sacerdoti un volume chiaro e completo in cui la precisione delle definizioni dogmatiche non permettesse interpretazioni personali o omissioni". Rispetto al catechismo che Sarto stesso aveva concepito e trascritto diligentemente in un quadernetto autografo quand'era stato parroco a Salzano (1867-1875), un paese di campagna posto nella provincia di Venezia e nella diocesi di Treviso, si nota che la vivacità delle espressioni, l'immediatezza didattica dello schema a domande e risposte, sono state talvolta sacrificate alla necessità della precisione dottrinale.

Ma i limiti che subito vi furono ravvisati (intellettualismo, debolezza di riferimenti biblici, prevalenza delle intenzioni precettistiche) non impedirono a quel catechismo di diventare un punto fermo per diverse generazioni di cristiani. Accanto ai limiti, presentava, infatti, pregi non meno evidenti: precisione concettuale, chiarezza di dottrina, facilità didattica tanto per il sacerdote che doveva usarlo quanto per il fedele che ne doveva fruire. Questo spiega perché, pur essendo stato prescritto come obbligatorio solo nella diocesi di Roma (a partire dal 1905), abbia finito per imporsi non solo in Italia, ma in tutta la Chiesa. D'altronde, lo stesso Pio X era perfettamente consapevole che si trattava di un'opera in fieri, tutt'altro che compiuta e sempre perfettibile. La prima formulazione subì, infatti, ritocchi e adattamenti vivente ancora il Papa. Probabilmente sarebbe stato il primo a stupirsi della sua durata nel tempo. A suo merito, possiamo aggiungere che il faticoso lavoro di redazione dei nuovi catechismi compiuto dopo il Vaticano ii da intere équipes di specialisti, ha dimostrato quanto sia difficile trasmettere all'uomo moderno il contenuto di fede.
L'intento del Papa di proporre alla Chiesa una vita di fede più solida si accompagnava all'idea che la fede dovesse essere espressa attraverso una pratica liturgica più sobria, meno formale ed esteriore. La riforma della musica sacra e il ripristino del canto gregoriano andavano appunto in questa direzione. Questo complessivo disegno riformatore tanto della lex credendi quando della lex orandi trovarono una specie di sintesi nella sua rivoluzionaria decisione di riavvicinare le anime all'Eucaristia - intesa come il fulcro della vita di fede - incoraggiando e quasi imponendo la pratica della comunione frequente.
Va ricordato che una radicata mentalità di origine giansenistica aveva dissuaso i cristiani dalla pratica eucaristica assidua, quasi che questa fosse il coronamento del cammino verso la perfezione cristiana, piuttosto che la via per raggiungerla, "un premio e non un farmaco all'umana fralezza" scriverà il Papa. Con l'intuizione di quel grande pastore d'anime che era stato e continuò a essere durante il pontificato, Pio X troncò tentennamenti, timori e perplessità, ancora assai diffusi tra i teologi, promuovendo e incoraggiando invece, con il decreto Tridentina synodus del 16 luglio 1905, la pratica opposta: la comunione frequente, anche quotidiana. Cinque anni dopo, con il decreto Quam singulari - del quale, come già ricordato, celebriamo oggi il centenario della pubblicazione - completò il complessivo progetto di riforma della cura d'anime prescrivendo l'anticipazione della prima comunione dei fanciulli verso i sette anni di età, cioè, per usare le sue parole, "quando il fanciullo comincia a ragionare".
Con questi due provvedimenti veniva superata e messa da parte una secolare cultura rigorista per tornare a una prassi già in vigore nei primi secoli cristiani e successivamente ribadita tanto dal concilio Lateranense IV nel 1215 quanto dai decreti del concilio di Trento. Si recuperava insomma una pratica millenaria, posta in ombra solo negli ultimi secoli, scrisse allora "La Civiltà Cattolica", a causa di "usanze inveterate, difetto di idee esatte, trascuratezza". Pietro Gasparri, che in quegli anni lavorava per ordine del Papa alla codificazione del diritto canonico, collocò questo decreto fra gli atti "memorandi" del pontificato, e aggiunse: "Dio volesse che fosse ovunque osservato".

(©L'Osservatore Romano - 8 agosto 2010)