sabato 20 agosto 2011

Odifreddi ovvero degli schemini di uomini piccoli vs. Padre Busa ovvero dell'invenzione della linguistica informatica

 Capita che un matematico impertinente o un giornalista in vena d'arguzie o un ‘ateologo’ autonominatosi tale e autodidatta cerchi di spiegare con grande 'approssimazione' perché non possiamo dirci cristiani’ oppure ‘come la religione avveleni ogni cosa’, a questi tali opponiamo ora due inoppugnabili confutazioni.

dal  BLOG: www-maranatha-it.blogspot.com

 Il gesuita che ha inventato la linguistica informatica e realizzato il monumentale «Index Thomisticus» "Lettore fermati! È morto padre Busa" (Stefano Lorenzetto)




Il gesuita che ha inventato la linguistica informatica e realizzato il monumentale
«Index Thomisticus»

Lettore fermati!
È morto padre Busa

Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo,
lo devi a lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo a lui


di Stefano Lorenzetto

A un giornalista capita di rado, anzi mai, di sentirsi dare appuntamento in paradiso al termine di un’intervista. A chi scrive accadde il 28 settembre dello scorso anno. «Come s’immagina il paradiso?», era stata l’ultima domanda che avevo posto a padre Roberto Busa, il gesuita che ha inventato la linguistica informatica. «Come il cuore di Dio: immenso», rispose. Poi soggiunse: «Guardi che aspetto anche lei in paradiso, mi raccomando». Si girò verso il fotografo Maurizio Don: «Anche lei. E se tardate, come mi auguro, mi troverete seduto sulla porta così». Incrociò le mani e cominciò a girarsi i pollici: «Non arrivano mai, quei macachi...».

Dalle ore 22 di martedì 9 agosto padre Busa è sull’uscio ad aspettarci. «Senza fretta», ribadirebbe adesso con la sua bonomia di veneto nato a Vicenza da genitori originari di Lusiana, sull’altopiano di Asiago, e più precisamente della contrada Busa, donde il cognome. Il grande studioso, il compilatore dell’Index Thomisticus, è morto di vecchiaia all’Aloisianum, l’istituto di Gallarate (Varese), dove s’era ritirato a vivere dagli anni Sessanta insieme con i grandi decani della Compagnia di Gesù, fra cui il cardinale Carlo Maria Martini, del quale è stato amico e interlocutore. In precedenza fu per lungo tempo docente alla Pontificia Università Gregoriana e alla Cattolica, nonché, dal 1995 al 2000, al Politecnico di Milano, dove teneva corsi di intelligenza artificiale e robotica. La sua ricerca gli è valsa l’istituzione del Roberto Busa Award, massima onorificenza del settore. Avrebbe compiuto 98 anni il prossimo 28 novembre.

Quando nel 1955 morì Alexander Fleming, lo scopritore della penicillina, un quotidiano milanese del pomeriggio titolò: «Lettore fermati! È morto Fleming, forse anche tu gli devi la vita». Un invito analogo potrebbe essere rivolto oggi a tutti coloro che in questo preciso istante sono davanti a un computer. Se esiste una santità tecnologica, credo d’aver avuto il privilegio d’incontrarla: essa aveva il volto di padre Busa. Perciò inginocchiati anche tu, lettore, davanti alle spoglie mortali di questo vecchio prete, linguista, filosofo e informatico. Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se saltabecchi da un sito all’altro cliccando sui link sottolineati di colore blu, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo, lo devi lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo, a lui.

Era nato solo per far di conto, il computer, dall’inglese to compute, calcolare, computare. Ma padre Busa gli insufflò nelle narici il dono della parola. Accadde nel 1949. Il gesuita s’era messo in testa di analizzare l’opera omnia di san Tommaso: un milione e mezzo di righe, nove milioni di parole (contro le appena centomila della Divina Commedia). Aveva già compilato a mano diecimila schede solo per inventariare la preposizione «in», che egli giudicava portante dal punto di vista filosofico. Cercava, senza trovarlo, un modo per mettere in connessione i singoli frammenti del pensiero dell’Aquinate e per confrontarli con altre fonti.

In viaggio negli Stati Uniti, padre Busa chiese udienza a Thomas Watson, fondatore dell’Ibm. Il magnate lo ricevette nel suo ufficio di New York. Nell’ascoltare la richiesta del sacerdote italiano, scosse la testa: «Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo. Lei pretende d’essere più americano di noi». Padre Busa allora estrasse dalla tasca un cartellino trovato su una scrivania, recante il motto della multinazionale coniato dal boss — Think, pensa — e la frase «Il difficile lo facciamo subito, l’impossibile richiede un po’ più di tempo». Lo restituì a Watson con un moto di delusione.

Il presidente dell’Ibm, punto sul vivo, ribatté: «E va bene, padre. Ci proveremo. Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà Ibm, acronimo di International business machines, in International Busa machines».

È da questa sfida fra due geni che nacque l’ipertesto, quell’insieme strutturato di informazioni unite fra loro da collegamenti dinamici consultabili sul computer con un colpo di mouse.

Il termine hypertext fu coniato da Ted Nelson nel 1965 per ipotizzare un sistema software in grado di memorizzare i percorsi compiuti da un lettore. Ma, come ammise lo stesso autore di Literary Machines, l’idea risaliva a prima dell’invenzione del computer. E, come ha ben documentato Antonio Zoppetti, esperto di linguistica e informatica, chi davvero operò sull’ipertesto, con almeno quindici anni d’anticipo su Nelson, fu proprio padre Busa.

Fra Pisa, Boulder (Colorado) e Venezia, il gesuita diede vita a un’impresa titanica durata quasi mezzo secolo, investendovi un milione e ottocentomila ore, grosso modo il lavoro di un uomo per mille anni a orario sindacale; oggi è disponibile su cd-rom e su carta: occupa cinquantasei volumi, per un totale di settantamila pagine. A partire dal primo tomo, uscito nel 1951, il religioso ha catalogato tutte le parole contenute nei centodiciotto libri di san Tommaso e di altri sessantuno autori.

Roberto Busa era il secondo dei cinque figli di un capostazione. «Ci trasferivamo da una città all’altra: Genova, Bolzano, Verona», mi raccontò. «Nel 1928 approdammo a Belluno e lì entrai in seminario. Ero in classe con Albino Luciani. In camerata il mio era l’ultimo letto della fila, dopo quelli di Albino e di Dante Cassoli. Niente riscaldamento. Sveglia alle 5.30. Ai piedi del letto c’era il catino con la brocca. Dovevamo rompere l’acqua ghiacciata. In quei cinque minuti perdevo la vocazione. Dicevo fra me: no, Signore, l’acqua gelata no, voglio tornare dalla mamma che me la scalda sulla stufa. Mezz’ora per lavarci, vestirci e rifare il giaciglio. Albino se la sbrigava in 10 minuti e impiegava gli altri 20 a leggere le opere devozionali di Jean Croiset, gesuita francese del Seicento, e le commedie di Carlo Goldoni».

Nel 1933 il giovane Busa entrò nella Compagnia di Gesù. Dopo gli studi in filosofia e teologia, il 30 maggio 1940 fu ordinato sacerdote. Nella sua lunga vita ha conosciuto sette pontefici. Frequenti e molto cordiali furono soprattutto i contatti con Paolo VI e, ovviamente, con l’amico Giovanni Paolo I, «che m’invidiava», mi confidò, «perché io ero diventato gesuita e lui no. Albino avrebbe voluto fare il missionario come i primi compagni di sant’Ignazio di Loyola. Ma il vescovo Giosuè Cattarossi non glielo permise. A dire il vero anch’io, dopo essere diventato gesuita, sognavo di partire per l’India. Invece il superiore provinciale mi chiese a bruciapelo: “Le piacerebbe fare il professore?”. No, risposi. E lui: “Ottimo. Lo farà lo stesso”. Fui spedito alla Gregoriana per una libera docenza in filosofia su san Tommaso d’Aquino».

Sui temi di sua competenza, padre Busa era in grado di dibattere, oltre che in italiano, anche in latino, greco, ebraico, francese, inglese, spagnolo, tedesco.

«Mi sono dovuto arrangiare con i rotoli di Qumrân, che sono scritti in ebraico, aramaico e nabateo, con tutto il Corano in arabo, col cirillico, col finnico, col boemo, col giorgiano, con l’albanese», mi spiegò. «A volte mi lamento col mio Principale, dicendogli: Signore, sembra che tu abbia concepito il mondo come un’aula d’esame. E Lui mi risponde: “Ho lasciato che gli uomini facessero ciò che vogliono. Se fanno il bene, avranno il bene; se fanno il male, avranno il male”».

A ogni domanda, lo studioso gesuita si portava le mani giunte davanti alla bocca, guardava verso l’infinito, meditava a lungo.

La sua mente sembrava obbedire al linguaggio binario, perché articolava ogni risposta per punti, dicendo «primo», poi «secondo», mai «terzo», e intanto contava sulle dita partendo dal mignolo per arrivare al pollice, come fanno gli americani. Non c’era una parola, fra quelle che gli uscivano dalle labbra, che fosse superflua o pronunciata a casaccio.

Padre Busa aveva le idee ben chiare sulle origini della scienza informatica: «Una mente che sappia scrivere programmi è certamente intelligente. Ma una mente che sappia scrivere programmi i quali ne scrivano altri si situa a un livello superiore di intelligenza. Il cosmo non è che un gigantesco computer. Il Programmatore ne è anche l’autore e il produttore. Noi Dio lo chiamiamo Mistero perché nei circuiti dell’affaccendarsi quotidiano non riusciamo a incontrarlo. Ma i Vangeli ci assicurano che duemila anni fa scese dal cielo».

È andato a incontrarlo.
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dall'Osservatore Romano 11 agosto 2011

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... e qui di seguito ad abundantiam  l'ottima recensione dell'Tstituto Tomistico  www.istitutotomistico.it/risorse/recensione_odifreddi.doc

PERCHÉ ODIFREDDI DOVREBBE DIRSI CRISTIANO

Recensione a Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Longanesi, Milano, 2007.
 In questo suo testo Odifreddi vuol sostenere, come dice il titolo, una tesi diametralmente opposta alla celebre posizione crociana. Senza entrare nel merito delle competenze dell’autore sulla tematica religiosa, vorremmo invece cercare di farne un’analisi dalla quale risulterà come logicamente l’autore fallisca nell’intento e come, stando ai suoi stessi assunti, il matematico dovrebbe invece dirsi cristiano. Vediamo perché.
Nell’introduzione l’autore espone esplicitamente la seguente tesi:
 «lo stesso termine cretino deriva da ‘cristiano’ [...] con un uso già attestato dall’Enciclopedia nel 1754: secondo il Piangiani, “perché cotali individui erano considerati come persone semplici e innocenti, ovvero perché, stupidi e insensati quali sono, sembrano quasi assorti nella contemplazione delle cose celesti”» [p. 9]
Dunque, se ‘cretino’ deriva da ‘cristiano’, ne segue che Odifreddi considera vera la proposizione:
 P1) ogni cristiano è un cretino
 L’autore precisa infatti:
«In fondo la critica al Cristianesimo potrebbe dunque ridursi a questo: che essendo una religione per letterali cretini, non si adatta a coloro che, forse per loro sfortuna, sono stati condannati a non esserlo. Tale critica, di passaggio, spiegherebbe anche in parte al fortuna del Cristianesimo: perché, come insegna la statistica, metà della popolazione mondiale ha un’intelligenza inferiore alla media(na), ed è dunque nella disposizione di spirito adatta a questa e altre beatitudini» [p. 10]
In altri termini, l’autore considera vere anche queste frasi:
P2) L’umanità si divide in due parti esattamente uguali: i più e i meno intelligenti
P3) Ogni cretino è meno intelligente
Abbiamo quindi che l’insieme degli uomini (A) viene diviso in due parti esattamente eguali (B = uomini più intelligenti;  C = uomini meno intelligenti) e nella parte C troviamo i cretini (D), che a loro volta includono i cristiani (E):

Fig. 1

  







Di certo Odifreddi non si vuol mettere tra i cristiani, ma si mette tra gli uomini più intelligenti: egli infatti si definisce logico-matematico e afferma che «il Cristianesimo è indegno della razionalità e dell’intelligenza dell’uomo», la quale si fa coincidere con la scienza, verso la quale in Cristianesimo è stato un «freno» [p. 10]. In altri termini, Odifreddi assume queste proposizioni:
P4) ogni scienziato è intelligente
P5) ogni logico matematico è scienziato
P6) Odifreddi è un logico-matematico
Dalle quali seguono logicamente due teoremi:
T1) Odifreddi è uno scienziato (da P6 e P5)
T2) Odifreddi è intelligente (da T1 e P4)
 Questo è dunque l’apparto logico dal quale muove l’autore. Dal libro in questione, tuttavia, si può dimostrare innanzitutto la falsità di P6, ovvero che Odifreddi è un logico-matematico, come si evince dal primo ragionamento fallace del nostro.
Primo ragionamento fallace
 Dalla situazione descritta nella figura 1 (ovvero da P1+P2+P3), Odifreddi deduce che questa «spiegherebbe anche in parte la fortuna del Cristianesimo», ovvero deriva il teorema:
T3) P1+P2+P3 implicano la fortuna del cristianesimo
Tuttavia questa implicazione non è affatto necessaria, perché allo stesso modo, essendoci un’identica porzione di umanità non inclinante verso il cristianesimo (la parte B), se ne potrebbe dedurre ad egual titolo che non si spiega la fortuna del cristianesimo. Dunque P1+P2+P3 non implicano la fortuna del cristianesimo (così come non ne implicano la sua sfortuna).
Questo basta per negare P6: Odifreddi non è dunque un logico-matematico. A questo punto, per negare P6, non occorre nemmeno ricordare che Odifreddi non ha mai ottenuto risultati teorici tali da farlo entrare nella storia della matematica, come invece è accaduto ad altri matematici quali il fondatore dell’insiemistica Georg Cantor e il compianto Ennio De Giorgi. Si noti tra l’altro che questi erano entrambi cristiani (e l’ultimo addirittura cattolico!), ma questo Odifreddi pare non saperlo: come potrebbe infatti inquadrarli nel suo schemino?
 Secondo ragionamento fallace
A pagina 88 l’autore afferma che «in pratica nessuna testimonianza storica esiste sulla persona e sulla vita di Gesù al di fuori del nuovo testamento». Ora, a parte la verità o meno dell’affermazione, l’autore commette un’imperdonabile errore logico. Infatti, siccome vuol dimostrare l’infondatezza dell’esistenza di Gesù, egli dovrebbe dimostrare prima di tutto la falsità dei Vangeli, anziché assumerne dogmaticamente la loro inattendibilità (come dire: siccome questi testi sono giudicati autentici dalla Chiesa, allora non valgono come prova) e concentrarsi unicamente sulla demolizioni delle fonti extra evangeliche.
In altri termini, se i vangeli (V) o altre fonti (AF) implicano l’esistenza di Gesù (G) e viceversa, , non basta demolire AF per negare G, infatti:
 ((V o AF) Û G e non-AF) Þ ~G
 non è una tautologia, e quindi il ragionamento corrispondente non è valido. La cosa, converrà il lettore, è talmente banale, da far entrare di diritto Odifreddi tra gli uomini meno intelligenti.
Terzo ragionamento fallace
Seguendo sempre questo filo argomentativo, l’autore si appresta a dimostrare l’infondatezza della fonte storica Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe. A p. 88 cita un celebre brano in cui si parla di Cristo. Per demolirlo cita come argomento un altro testo di Flavio Giuseppe (contenuto ne La Guerra giudaica), che di certo è stato interpolato, e ne deduce che anche il brano riguardante Gesù delle Antichità Giudaiche deve esserlo stato:
 «Poiché una versione molto più estesa è stata interpolata anche nell’altra opera di Flavio Giuseppe La guerra Giudaica, questa volta in maniera dimostrabile, tutto fa pensare che lo sia stato anche nella precedente» [p. 89]
 Siamo nel pieno di una grossolana fallacia induttiva: dal fatto che un brano dell’autore è stato manomesso, se ne deduce che anche quest’altro deve essere stato manomesso (così come dal fatto che un cigno è bianco se ne deduce che anche quest’altro deve essere bianco). La frase non può che lasciare sbigottiti, e la sconnessione logica è talmente evidente che spinge il nostro nel più ristretto insieme dei cretini. Per inciso, con questa accusa di cretineria non si vuole offendere l’autore (così come del resto non credo che l’autore volesse offendere i cristiani dicendoli cretini e poco intelligenti).

Quarto ragionamento fallace
 A pagina 169 il nostro ci dice che: «anche i Vangeli sinottici non affermano la divinità di Gesù» e subito dopo come argomento dimostrativo egli cita «Giovanni che pure inizia con un prologo in cui Gesù viene identificato [...] col ‘Verbo’ e che dice “in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”» [p. 170].  Non ci si può non stupire del fatto che a sostegno di una tesi («anche i Vangeli sinottici non affermano la divinità di Gesù») egli citi un brano in cui questa tesi è completamente smentita. Converrà il lettore, anche poco esperto di logica, che questo fa entrare di diritto Odifreddi tra i più cretini dei cretini, ovvero tra i cristiani.
Abbiamo dunque dimostrato, che Odifreddi, in base ai suoi stessi assiomi, dovrebbe dirsi nell’ordine: non logico-matematico, non tra i più intelligenti, cretino e cristiano. Quanto poi al fatto che dovrebbe dirsi anche cattolico, lasciamo ad altri il compito di dimostrarlo.

Post Scriptum. A seguito di una prima versione della recensione, alcuni lettori ci hanno chiesto qualche indicazione su come potere dimostrare il cattolicesimo di Odifreddi. Vogliamo qui darne solo una traccia: se, come pare assumere implicitamente l’autore, i cattolici sono tra i più cretini dei cristiani, e dovendosi dire Odifreddi cristiano, si tratterà semplicemente di mostrare i brani in cui la cretineria dell’autore emerge con particolare vigore. Ricordiamo al proposito solo alcuni di questi numerosissimi punti:

a) Odifreddi non conosce bene l’italiano. Prendiamo ad esempio pagina 28, in cui l’autore cita un brano della Dei Verbum «La Sacra Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché tutti scritti per ispirazione dello Spirito Santo»; al proposito Odifreddi si chiede «come mai chi dettava avrebbe voluto che si scrivessero così tante cose che, come abbiamo cominciato a notare e continueremo a fare, sono sbagliate scientificamente» [corsivi aggiunti]. Per Odifreddi vale quindi l’equivalenza: ispirare = dettare. A parte che un normale vocabolario aiuterebbe l’autore a dipanare l’equivoco, vorremmo far notare che la differenza tra ispirazione e dettatura è fondamentale per la comprensione del fenomeno religioso. È, ad esempio, uno dei punti in cui Cattolicesimo e Islam di differenziano radicalmente: il Corano è infatti, diversamente dalla Bibbia, un libro dettato (e non ispirato) a Maometto. Al proposito sarebbe auspicabile uno studio del nostro sul fenomeno islamico, ma siamo disposti a scommettere che non avrà il coraggio e la virilità di scriverlo.

b) Odifreddi non ha i minimi rudimenti di esegesi. Nella sua confutazione scientifica della Genesi [p. 29 sgg.] pare infatti non sapere che da qualche secolo l’interpretazione delle scritture parla di almeno quattro tipi di sensi (letterale, morale, allegorico e anagogico): queste cose dovrebbe conoscerle un qualsiasi studente delle superiori, non fosse altro per il fatto che sono riprese da Dante stesso a proposito della Divina Commedia. Certo, errori interpretativi se ne sono fatti (la lettura letterale del brano di Giusuè 10,12 per il quale fu tra le altre cose condannato Galilei ne è un esempio), ma fin da subito i Padri della Chiesa e, in seguito, gli scolastici hanno interpretato non solo “letteralmente” la Genesi: basti la lettura del Supra Genesi ad Litteram di Agostino, per averne la prova. Questa piccola lacuna fa tra l’altro cadere tutto l’impianto critico di Odifreddi a proposito delle varie confutazioni storiche e scientifiche delle scritture che, come detto sopra, essendo ispirate a uomini di un certo tempo, hanno sì un certo contenuto storico, ma possono e devono essere lette non solo come trattati di storia o cosmologia. In quest’ottica anche tutte le contraddizioni che rileva l’autore nelle Scritture possono (se adeguatamente interpretate) facilmente dipanarsi.
c) Odifreddi non conosce le basi della filosofia. Il nostro infatti, con la più grande disinvoltura, così ci spiega il concetto di sostanza: «L’idea risale ad Aristotele, che distinse nelle cose la loro vera essenza [...] dai loro inessenziali ‘accidenti’: ad esempio, nell’ostia, il suo astratto ‘essere ostia’ dalle concrete proprietà di essere costituita di pane di frumento» [p. 190]. Davvero impressionante la densità di errori in queste poche parole! Qui l’autore identifica la sostanza con l’astratto (mentre è l’esatto contrario) e afferma che l’esser pane di un’ostia è un accidente, quando è proprio la componente materiale della sostanza (che è la concreta unione di forma e materia). Stessa totale ignoranza emerge con particolare chiarezza quando parla di “creazionismo” come incompatibile con l’evoluzione del cosmo e con la sua eternità [pp. 29-32], quando è vero esattamente l’inverso: un mondo che evolve (e che al limite è eterno) può essere benissimo creato dal nulla [cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Teologica, I. q. 46]: ma di questo abbiamo già scritto recensendo il volume di E. Gilson, Da Aristotele Darwin e ritorno, Marietti 1820, Milano , 2003 [Divus Thomas, 3/2003, ESD, Bologna, pp. 221-225], alle cui pagine volentieri rimandiamo Odifreddi, pur dubitando che, visto il suo fondamentalismo cristiano, possa adeguatamente apprezzarle.

 

Claudio Antonio Testi

venerdì 19 agosto 2011

altra risposta al peana di Severino Dianich

Processione del Corpus Domini (la partecipazione del popolo è evidente e derivava da una reale partecipazione alla Santa Messa che qualcuno si ostina a supporre inesistente)
Pochezza e miseria dei nuovi preti della nuova ChiesaIl caso di Severino Dianich, vicario per la cultura e l'università dell'arcidiocesi di Pisadi Belvecchio


Abbiamo già avuto modo di leggere qualche scritto di questo signore, segnalatoci da amici un po’ turbati non tanto dal loro contenuto, quanto perché l’autore fosse un prete.

Questa volta ci è stato segnalato un articolo apparso sul mensile Vita Pastorale e riguardante la Messa tradizionale.
Diciamo subito che non siamo adusi alla lettura delle pubblicazioni delle Edizioni Paoline, notoriamente connotate da uno spirito che ormai da anni cerca di gabellare per cattoliche le cose più scontate della modernità a- e anti-cattolica.

Quando abbiamo letto l’articolo in questione (A margine della riforma e della tradizione. Missa antiqua o moderna, Vita pastorale, 7 luglio 2011, reperibile su internet al seguente indirizzo: http://www.stpauls.it/vita/1107vp/liturgia.htm), non ci siamo meravigliati: la solita solfa dei preti moderni che pretendono di dare lezioni di tuttologia dimostrando chiaramente di essersi formati sui giornaletti di Paperino.
Accade però, che questa rivista mensile arrivi a tanti cattolici, chierici e laici, con l’aura di mezzo di informazione, tale che si possa dedurre che molti la prendano anche sul serio. Per carità cristiana, allora, abbiamo pensato che fosse il caso di dare un’occhiata a questo articolo: vediamo che razza di informazione viene offerta da questi personaggi.

La prima perla la troviamo proprio nel “cappello”:
«A giudizio del grande storico della liturgia, Josef Andreas Jungmann, celebrare la messa in lingua volgare è un obiettivo tanto desiderato dal Concilio di Trento, ma felicemente realizzato solo dalla riforma liturgica del Vaticano II

L’affermazione, che approfitta della fama di Jungmann come storico della liturgia, suggerisce che il Concilio di Trento avrebbe voluto la celebrazione in volgare della Messa, ma, forse per l’autorevole influenza dello stesso Dianich (!?), ne fu impedito. Se non fosse illogico farebbe ridere, e invece fa piangere, perché non si può dire che il Concilio voleva una cosa che non ha mai voluto, aggiungendo che non lo fece non si sa perché.

In realtà, nel corso del Concilio di Trento si discusse del problema dell’introduzione del volgare in parte della celebrazione e se ne discusse proprio perché tale introduzione era stata il cavallo di battaglia di Lutero e il Concilio non poteva trascurare un aspetto così importante, ma proprio dalla discussione emerse chiaramente che non sarebbe stato opportuno farlo poiché certamente ne sarebbero derivate solo incomprensioni e danni. Fu così che il Concilio di Trento rigettò l’idea di introdurre il volgare anche solo in parte della celebrazione.
Il sig. Dianich sa bene come sono andate le cose, se è vero che ha letto Jungmann, ma dal momento che deve far valere le sue opinioni, pensa che sia bene inventare delle panzane per dare ad intendere ciò che non è. Insomma, la butta lì, … tanto qualcosa sempre rimane!

Presentata così la sua competenza e la sua serietà nel fornire informazioni, ecco che incomincia a dare lezioni di storia circa la Messa tradizionale, che secondo lui non sarebbe “antica”.
Riportiamo tutto il pezzo perché non si dica che estrapoliamo:

«Il Messale di Pio V è un'opera moderna. Fu pubblicato, infatti, il 14 luglio 1570, nel pieno degli eventi che caratterizzarono l'insorgere della modernità, dopo la fioritura della cultura umanistica, nell'emergere di una sensibilità individualistica, in stretto rapporto con il dramma della Riforma. È vero che la commissione che ne ha curato la redazione intendeva ricondurre la liturgia nelle forme rituali della Chiesa romana antica ed, effettivamente, ha realizzato un'opera di sfrondamento di infinite sovrastrutture che nel frattempo vi si erano introdotte.
A giudizio, però, del grande storico della liturgia eucaristica, J. A. Jungmann, «questa mèta così elevata non venne raggiunta che in piccola parte ». Che avesse costituito un desiderio dei Padri del Tridentino, «appare chiaro dal fatto che già nel 1563, quando ancora si progettava di occuparsi della correzione del messale nel Concilio stesso, un manoscritto vaticano del Sacramentario gregoriano venne fatto venire appositamente da Roma a Trento. E non si trattava di uno slancio isolato, ché anche la commissione si è preoccupata di studiare le fonti antiche».
Però, «non ci si poteva aspettare che una commissione di pochi uomini, chiamati a un lavoro pratico potesse venire in possesso, in un paio di anni, di quelle cognizioni storico-liturgiche che erano destinate a maturare per la cooperazione di molti solo nel giro di parecchi secoli» (Missarum Solemnia, I, Marietti 1953, Casale M., p. 117; ed. orig. Herder 1948). Questo risultato, infatti, allora desiderato, è stato felicemente raggiunto proprio dalla riforma promossa dal Vaticano II.»


In queste righe sono contenute non poche “ingenuità” che dimostrano come la supposta preparazione dell’“informatore” Dianich sia davvero fin troppo lacunosa. Diversamente si dovrebbe concludere che chi le ha scritte sia in mala fede e scientemente racconti sciocchezze ai suoi lettori.

Il Messale di San Pio V sarebbe un’opera moderna perché è stato pubblicato nel 1570, infatti, visto che nei libri di storia sta scritto che il Medio Evo è finito nel 1492, sarebbe evidente che tale Messale non può essere chiamato né antico né medievale, ma moderno.
Un ragionamento del genere è talmente folgorante che nasce il dubbio che il cervello che l’ha elaborato sia rimasto colpito da qualcuna delle sue stesse folgori e ne sia rimasto fortemente danneggiato. Tuttavia, potremmo anche convenire con tale illuminata deduzione, a condizione di poter applicare lo stesso criterio al Messale di Paolo VI, il quale ne uscirebbe qualificato come il Messale della post-modernità, il Messale del ’68, il Messale nichilista.

Detto questo, sarà bene ricordare che il Messale cosiddetto di San Pio V non è affatto di San Pio V, ma è il Messale che era in uso nella Curia Romana e in tante altre diocesi da tempo immemorabile, certamente fin dal V secolo, e che San Pio V, a seguito del Concilio di Trento, impose a tutta la Chiesa in maniera peraltro non perentoria, visto che vennero fatti salvi i riti che potevano vantare almeno due secoli di vita.
Questa verità storico-liturgica elementare, ormai nota a tutti, sembra ignorata solo da questo tizio, che però si atteggia a gran comunicatore e a questo titolo viene ospitato da Vita Pastorale per l’edificazione dei parroci e dei laici impegnati.

Se invece di perdere tempo a diffondere notizie prive di fondamento senza la minima decenza, il nostro avesse letto anche solo qualche articolo qua e là, avrebbe fatto più bella figura. Per tutti, gli consigliamo di andarsi a leggere qualche pagina scritta da un certo cardinale Joseph Ratzinger, del quale, se non lo conoscesse, possiamo fornirgli un’ampia bibliografia.

La ciliegina su questa fetta della torta è quella citazione di Jungmann sui pochi uomini ignorantelli applicati dal Concilio di Trento a lavorare sul “nuovo Messale”, i quali non avrebbero avuto le “cognizioni storico-liturgiche che erano destinate a maturare per la cooperazione di molti solo nel giro di parecchi secoli”. Una prosa ricca di pregiudizi progressisti e modernisti, vergata da un gesuita di lingua tedesca che fu perito nel Vaticano II.
Si potrebbero fare cento ragionamenti su questa frase, ma ci limitiamo a considerare che oltre a Jungmann ci sono stati altri studiosi di liturgia che hanno espresso delle considerazioni diverse dalla sua e che, per esempio, hanno fatto notare come la supposta maturazione dei cinque secoli precedenti, data per scontata da Jungmann anche perché sarebbe la sua, al momento del Concilio Vaticano II si sia rivelata con una incompetenza e una impreparazione che ancora oggi lascia allibiti gli studiosi seri.
D’altronde, i frutti di questo mirabolante ritorno alle vere origini del cristianesimo sono sotto gli occhi di tutti e non ci vuole una scienza per fare due più due.

Valutata la “profonda preparazione” del suo vicario, ci permettiamo di suggerire all’arcivescovo di Pisa di indicarlo al Santo Padre come un valido esperto per quella riforma della riforma che Benedetto XVI ritiene indispensabile proprio per correggere la “felice” riforma promossa dal Vaticano II.

E passiamo ad un’altra lezione di storia della liturgia.

Il Concilio di Trento non ritenne opportuna l’introduzione del volgare nella liturgia, perché quelli erano i tempi, dice il nostro “informatore”, ma «Dopo quattro secoli, le circostanze per le quali a quel tempo era sembrato ai Padri non opportuno che la celebrazione avvenisse nelle lingue parlate sono profondamente mutate, per cui i Padri del Vaticano II hanno ritenuto opportuno ciò che al tempo del Tridentino non lo era, recuperando così davvero la grande tradizione antica, che ha visto i cristiani di Roma celebrare in greco e solo più tardi, nel terzo secolo, adottare il latino, mentre in Grecia si celebrava in greco, in Siria in siriaco, in Armenia in armeno, e così via. Questa era la tradizione della Chiesa antica.»
La coerenza di questa deduzione è talmente evidente che più rileggiamo la frase e più la cerchiamo.
Vediamo un po’.

Nel 1562 non si ritenne opportuna la celebrazione in volgare, dati i tempi, nel 1963 invece, cambiati i tempi, la cosa sembrò opportuna e quindi la Sacrosanctum Concilium ne decretò l’uso… perché?
Per recuperare davvero la grande tradizione di altri tempi, non quelli del 1963, né quelli del 1500, ma quelli del terzo secolo, i quali evidentemente non sono altro che i tempi moderni del XX secolo.
Se qualcuno si chiedesse com’è possibile riuscire a fare ragionamenti del genere, si ricordi che qui stiamo parlando di un nuovo prete della nuova Chiesa… e a costoro niente è impossibile: come elencare in una sola frase più di una sciocchezza.
Vediamo.

La Chiesa antica celebrava nelle lingue volgari, nelle lingue parlate.
La Chiesa antica non ha mai celebrato nelle lingue parlate, per il semplice motivo, noto a chi abbia letto anche solo qualche pagina di storia ecclesiastica, che la Chiesa, non appena sorse la necessità di stabilire un rito per la celebrazione, fissò volta per volta e luogo per luogo un “canone” che usasse una lingua fissa, una lingua liturgica, atta a prevenire i rischi legati alle continue mutazioni del linguaggio parlato e alle immancabili sfumature di significato che potevano alterare il senso delle parole e dei concetti che componevano il rito.
Questa necessità, oltre che dalla natura universale e atemporale della Chiesa, derivava direttamente dalla pratica liturgica rispettata dallo stesso Signore Gesù. Egli, in occasione dell’Ultima Cena, fece predisporre la sala per celebrare la Pasqua secondo le prescrizioni del rituale ebraico e pronunciò le formule rituali ebraiche, come riportano gli Evangelisti (Mt. 26, Mc. 14 e Lc. 22). Sia la preparazione, sia le formule usate rispettavano fedelmente il rituale ebraico, compresa la lingua prescritta, e da allora gli Apostoli si attennero allo stesso principio nel realizzare la nuova liturgia della Nuova Alleanza.

Da allora fino ad oggi, le diverse liturgie, occidentali e orientali, hanno sempre mantenuto una lingua liturgica ferma nel corso dei secoli, dal greco, al latino, al siriaco, all’armeno, fino allo slavonio, e non hanno mai usato come lingua liturgica il linguaggio parlato, soprattutto in relazione al “Canone della Messa”. In Occidente è stato usato il latino per più di 18 secoli anche quando questo non lo si parlava più, anche quando il latino venne sostituito dalle lingue locali.
Un prete che pretende di informare gli altri dovrebbe almeno rispettare il minimo buonsenso e se anche fosse ignorante in storia della liturgia, dovrebbe ricordare che l’universalità della Chiesa è l’istanza primaria per le forme della sua pratica religiosa sia liturgica sia pastorale. Se invece la norma fosse l’adeguamento al mutare delle lingue parlate, già da secoli avremmo dovuto avere la Messa spagnola, quella francese, quella italiana, ecc. e oggi dovrebbe essere legittimo ritenere che la nuova lingua liturgica della Chiesa dovrebbe essere l’inglese, parlato in tutto il mondo, o quasi.

Il nostro tizio che si avvoltola nei luoghi comuni non dice ai suoi lettori che c’è già stato chi ha ragionato e operato come piace a lui: quel tale Martino Lutero di infausta memoria, che volle a tutti i costi la rottura con la Tradizione per l’odio che nutriva contro il Papa, contro la Chiesa e contro l’Autorità.

Per ultimo è utile rilevare che il nostro ripete ancora una vecchia bugia: il Concilio ha voluto la liturgia in volgare. Ora, nonostante 40 anni di falsificazione, oggi anche i bambini sanno che il Concilio ha raccomandato il mantenimento del latino nella celebrazione e perfino nelle parti della Messa e nei canti riservati ai fedeli, affermare quindi che “i Padri del Vaticano II hanno ritenuto opportuno… che la celebrazione avvenisse nelle lingue parlate” significa semplicemente mentire sapendo di mentire, che è cosa tipica del nemici della Chiesa e di Cristo.

Nel paragrafo successivo, il nostro luminare loda il Motu Proprio Summorum Pontificum perché permette le letture in volgare e parla di questo come di una novità. È evidente che il nostro non sa che nelle celebrazioni secondo il rito tradizionale questo si faceva già da tempo e si continua a fare: il celebrante, dopo aver letto o cantato le letture in latino, si rivolgeva ai fedeli e le ripeteva nella lingua parlata. E insieme fa finta di non sapere che è da più di due secoli che esistono i messalini bilingue per i fedeli, dove è possibile seguire l’Epistola e il Vangelo del giorno anche senza conoscere il latino. Ma questi sono particolari che entrerebbero in conflitto con i suoi pregiudizi, quindi è meglio non accennarvi neanche.

Conclude poi dicendo:
«È difficile, invece, non sentir dispiacere per la perdita che essi vengono a subire, non potendo godere di quella «lettura della Sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta» (SC 35) che viene offerta dal nuovo Lezionario.»

Questo è un vecchio ritornello che i preti moderni ripetono da 40 anni e che dovrebbe ormai poggiare sull’evidenza circa i frutti che questo supposto arricchimento avrebbe prodotto o dovuto produrre. Chiunque vada a Messa la Domenica può testimoniare che i fedeli cresciuti con il nuovo Lezionario, con i suoi testi più abbondanti, più vari e meglio scelti, dimostrano chiaramente una preparazione, una consapevolezza religiosa e una ricchezza interiore senza pari in due millenni di vita della Chiesa. Una cosa talmente evidente che basta gettare un’occhiata in giro per rendersi conto dello stato miserando delle moderne celebrazioni liturgiche, dell’abbandono dei fedeli, del calo delle vocazioni, della banalizzazione della pratica religiosa e della secolarizzazione che attanaglia gli stessi preti, di cui qui abbiamo un esempio.

Certo, si potrebbe affermare, come qualcuno ha fatto, che col vecchio Messale le cose starebbero ancora peggio. Certo, si potrebbe. Ma non si può perché non v’è la prova a sostegno, mentre la prova a sostegno dello sfacelo prodotto dal nuovo Messale è sotto gli occhi di tutti. Senza contare che nelle poche chiese in cui si celebra col rito tradizionale i fedeli dimostrano una ricchezza spirituale, una preparazione catechetica, una consapevolezza religiosa che si toccano con mano e la cui riprova sta nel numero di vocazioni che si manifestano in questi ambiti, che sono state calcolate proporzionalmente in ragione di cento a uno: cento nelle parrocchie tradizionali, uno nelle parrocchie moderne.

Ma è necessario fare un’altra precisazione. Quando citano la Sacrosanctum Concilium, questi nuovi preti della nuova Chiesa vogliono far passare il messaggio che il nuovo Messale l’ha voluto il Concilio. Niente di più falso. Non v’è un solo rigo in cui si dice che bisogna fare un nuovo Messale – cosa impossibile peraltro, per chi conosce l’abc delle cose di Chiesa. Si parla di variazioni, di adeguamenti, di messe a punto, di arricchimenti, in un coacervo di cose indistinte che ha poi prodotto i frutti successivi, ma non una parola su un Messale nuovo. Il Messale nuovo è stato voluto da Paolo VI in contrasto con lo stesso Concilio.


Altro paragrafo, altre sciocchezze.
Citiamo per intero.
«Dal punto di vista dei gesti rituali, nella proclamazione della parola di Dio, i cristiani dell'epoca antica non solo mai hanno visto ma anche, se l'avessero visto, se ne sarebbero molto meravigliati, il sacerdote leggere i testi dal messale invece che dal lezionario, sull'altare invece che all'ambone, o il diacono cantare il vangelo rivolto contro la parete invece che verso il popolo. Basti pensare che sino alla fine del Medioevo per la lettura biblica si costruiscono gli amboni.»
Da affermazioni come queste si capisce che il tizio ci è e ci fa.

Incominciamo con i gesti rituali e vedremo dopo come qui si affermi tutto e il contrario di tutto.
Qualsiasi seminarista del primo anno, che ovviamente non abbia come insegnate un nuovo prete della nuova Chiesa come il nostro, sa che fin dai primi tempi in cui non c’erano neanche le chiese, i cristiani pregavano rivolti ad Oriente e nelle case in cui si riunivano, per avere un riferimento certo e visibile, tracciavano una Croce sulla parete a Oriente e pregavano rivolti a quella Croce e a quella parete. Un vicario che non sa cose elementari come queste dovrebbe essere mandato a scuola, altro che fare il prete.
Ma il vero dramma è che costui queste cose le sa e mente sapendo di mentire.

Lui stesso dà prova della sua malafede quando parla di testi, di Messale all’altare e di diacono che canta il Vangelo rivolto contro la parete. Il groviglio è tale che occorrerebbe un lungo articolo per sbrogliarlo. Ci limitiamo quindi a brevi accenni.

Il celebrante non legge i testi dal Messale a caso, sull’altare, ma li legge seguendo un preciso orientamento: l’Epistola col Messale rivolto a sud-est, il Vangelo col Messale rivolto a nord-est. Chi fa il prete dovrebbe almeno conoscere queste cose elementari. Ovviamente non staremo qui a spiegare il senso di tutto questo, anche perché personaggi come il nostro non ci capirebbero un’acca, avvolti nel buio come sono.
Ricordiamo allora che se questo accade nelle Messe lette, per ovvi motivi pratici, nel caso delle Messe solenni, con diacono e suddiacono, il lezionario è stato sempre usato, e non tanto per le fisime moderne del volgersi al popolo, ma per delle motivazioni ben più profonde e di carattere squisitamente rituale, cose ormai del tutto sconosciute ai nuovi preti della nuova Chiesa.
La perdita del carattere rituale della Messa e di tutti i gesti e le posture che ne fanno un unicum rivolto a Dio è uno dei fattori di avvilimento del rito moderno, ridotto ormai a mero formalismo umano dove Dio è diventato un accessorio.

Il suddiacono ha sempre cantato l’Epistola rivolto alla navata e per farlo ha sempre usato il lezionario e l’ambone. Il diacono ha sempre cantato il Vangelo rivolto a nord e per farlo ha sempre usato l’evangeliario e, ove ci fosse, un apposito ambone rivolto a nord. Per accentuare il significato simbolico e rituale di tutto questo è addirittura d’uso che ci sia un ministrante a reggere i due libri, a significare l’intervento servile del fattore umano in ogni azione liturgica.

Ora, l’Epistola è essenzialmente quella parte dell’istruzione che si rivolge principalmente agli uomini, ai fedeli, il Vangelo è qualcosa di più, poiché non si limita a rivolgersi ai fedeli, ma in quanto più diretta “parola divina” essa istruisce i fedeli e sferza e fulmina le forze oscure che insidiano i fedeli: è per questo che viene cantato rivolti a nord, perché il nord è simbolicamente il lato oscuro del mondo, dove il sole non passa mai e dove si annidano le oscure forze del male. In questo modo il Vangelo non è solo un’istruzione per i fedeli, ma è anche un esorcismo per i demoni: è la luce che penetra e squarcia le tenebre dell’ignoranza e dell’errore.

Altro che “cantare il vangelo rivolto contro la parete”, caro Dianich, il fatto è che la liturgia è una cosa seria e per parlarne bisogna essere persone serie, così, mentre le poche cose qui accennate dovrebbero essere nelle menti e nei cuori dei preti, che con la loro ordinazione sono assegnati alla celebrazione dei Santi Misteri, accade che i preti moderni non le conoscano e fantastichino sulla Messa che secondo loro sarebbe una mera celebrazione di popolo, una sorta di festa dei fedeli.

Ma forse dobbiamo spezzare una lancia a favore del nostro “informatore”, perché è ben possibile che egli candidamente non conosca queste cose, immerso com’è nelle tenebre in cui è cresciuto.
Se ne ha la prova quando parla del pergamo del Duomo di Pisa e lo presenta come un luogo elevato da cui discende il canto del Vangelo. Dimenticando di ricordare che la complessa architettura del pergamo presenta componenti simboliche, orientamenti e forme che corrispondono a quanto abbiamo accennato noi prima e non certo alle banalizzazioni sentimentali che lui immagina e vorrebbe far credere.
Clamoroso quel sottile richiamo all’adorazione del “sacro libro” da parte della folla, il quale manifesta tutta la distorsione mentale imperante nella Chiesa conciliare che ha voluto spostare l’adorazione da Cristo al Libro proprio nel corso della celebrazione dei Santi Misteri. I nuovi preti della nuova Chiesa, al pari degli adepti delle più scomposte sette protestanti, continuano a parlare di liturgia della Parola, di primato della Parola, di adorazione della Parola, tutto a scapito del vero significato della Messa che è la riattualizzazione del Sacrificio del Calvario.
Dimenticanza? Ignoranza? Mala fede? Forse tutte e tre le cose insieme poiché dovrebbe essere cosa risaputa che proprio nei primi secoli il senso della Messa era così fortemente centrato nell’Offertorio e nel Canone, cioè nel Sacrificio, che ad essa non potevano partecipare i catecumeni, che venivano allontanati dalla chiesa dopo il completamento delle letture. Solo ai veri seguaci di Cristo era permesso assistere alla Sacra Liturgia, che consisteva eminentemente nella celebrazione rituale del Sacrificio di Cristo.


Nuovo paragrafo, nuove fantasie.
Il nostro prosegue con le lezioni di storia e inciampa un’altra volta.

Trascuriamo il cenno all’Offertorio, perché dovremmo addentrarci in articolate discussioni per indicare che esso è sparito nella Messa moderna. Ci fermiamo a considerare la questione della recita del Canone sottovoce.
Quando si dice che
«La recitazione del Canone sottovoce è una tradizione che nasce e si sviluppa solo col trapianto della messa romana in terra franca (Jungmann II, 108). È diventata celebre nella spiritualità liturgica moderna la frase: «Surgit solus pontifex et tacito intrat in canonem» (si alza solo il vescovo ed entra, in silenzio, nel canone), ma si tratta di una norma introdotta solo all'epoca di Carlo Magno, per modificare la diversa prassi antecedente»,
si confessa che ai moderni liturgisti sta a cuore la cancellazione di un millennio di adattamento liturgico romano per il semplice motivo che a loro non piace. Poco importa che questo faccia a pugni col tanto decantato ammodernamento liturgico così “felicemente” realizzato col Vaticano II, in questo caso l’ammodernamento, ancora una volta, corrisponderebbe al ripristino delle forme liturgiche dei primi secoli, cioè di 1300 anni fa.
Quanto ci sia di logico in questo lo lasciamo all’apprezzamento del semplice buonsenso, ma il guaio è che in realtà si tratta di una bufala gigantesca o, per meglio dire, di un inganno orchestrato artatamente per distruggere la liturgia cattolica.
Andiamo con ordine.

Intanto notiamo che il nostro racconta una colossale bugia. Non fu Carlo Magno ad introdurre il silenzio del Canone, semmai è esattamente il contrario. Con l’adattamento delle forme del rito, seguito all’espandersi del cattolicesimo in tutta l’Europa del nord, dalla Gallia, all’Anglia e alla Sassonia, pian piano certe forme mutarono e uno degli adattamenti più evidenti fu l’accantonamento della netta separazione tra altare e luogo della celebrazione dei Santi Misteri, da un lato, e il resto del luogo sacro dall’altro, la separazione cioè tra la chiesa come casa di Dio, luogo sacro, e il centro di essa, il Sancta Sanctorum, il luogo della manifestazione della presenza divina, il luogo della transustanziazione. Separazione che nelle chiese era realizzata con l’iconostasi, cioè con la chiusura materiale del luogo della celebrazione per mezzo di pareti fisse o mobili, come le tende o i veli. Vi sono ancora diecine di questi esempi nelle chiese occidentali e in Oriente è una pratica seguita ancora oggi. Tutti coloro che non sono in male fede sanno che lo stesso avveniva nella stessa basilica di San Pietro, prima che venisse ricostruita a partire dal 1400.
Ebbene, fino ad allora la celebrazione dei Santi Misteri avveniva non in silenzio, ma addirittura in segreto, lontano non solo dalle orecchie dei fedeli, ma perfino dai loro occhi, altro che “diversa prassi antecedente”, come afferma mentendo il nostro cattivo informatore. Se il Concilio Vaticano II avesse voluto ripristinare la “prassi antecedente” avrebbe dovuto reintrodurre l’iconostasi e non abolire il presbiterio e inventarsi la protestante celebrazione “verso il popolo”.

E il nostro affastella altre bugie, sulla comunione all’altare e in mano, sulla inesistenza del tabernacolo, sulla inesistenza delle reliquie nell’altare. Cose talmente ridicole che avrebbe potuto facilmente evitare se solo avesse chiesto informazioni a qualche suo vecchio precettore istriano come lui, cresciuto in un ambiente in cui si conservano ancora oggi le strutture del tempio cristiano e le forme della celebrazione comuni all’Occidente e all’Oriente da duemila anni.
Ma ciò che più colpisce è la supponenza con cui presenta la balla colossale della celebrazione verso il popolo nella Basilica di San Pietro:
«A Roma, invece, l'uso antico non è mai stato abbandonato e in San Pietro, ancora nel 1594, papa Clemente VIII consacrava l'altare, attualmente sovrastato dal baldacchino del Bernini, sul quale da allora fino ad oggi (così come accadeva sul precedente altare di Gregorio Magno e poi su quello che gli viene sovrapposto nel 1123 da Callisto II) il Papa ha sempre celebrato rivolto al popolo

Per carità cristiana sentiamo il dovere di fare una precisazione.
È possibile che questo prete moderno non sia così bugiardo come diciamo, perché potrebbe essere benissimo in buona fede. È possibile. Ma quando si sa che questa storiella delle celebrazioni verso il popolo nelle Basiliche romane è un vecchio ritornello andato di moda a partire dal Vaticano II e che in questi 40 anni è stato corretto e smentito da centinaia di studi alla portata di tutti, allora non resta altro che precisare che se il nostro non è un bugiardo è inevitabilmente un colpevole ignorante che con la sua coltivata ignoranza pretende di insegnare ad altri e per questo è reclutato da Vita Pastorale per diffondere ignoranza e falsità tra i preti e i laici impegnati.
Un consiglio non lo si nega a nessuno. Non impazzisca a cercare chissà quali testi introvabili (cioè oggi immediatamente reperibili su internet!), basta che si legga un piccolo testo prefatto da un certo card. Ratzinger: Rivolti al Signore, di mons. Klaus Gamber (si veda qui e qui).

Su questa fandonia delle Basiliche romane, oltre a rimandare a quanto abbiamo detto appena sopra circa l’iconostasi, e con cui si azzera ogni fantasia di celebrazione verso il popolo, ci limitiamo a ricordare che in queste Basiliche gli altari sono orientati verso l’ingresso, secondo una concezione che richiama direttamente l’orientamento dello stesso Tempio di Salomone: l’altare è, anche qui, rivolto ad Est, e dal momento che l’ingresso della Basilica è posto ad Est, l’altare è rivolto verso l’ingresso, verso la più grande apertura sui muri della chiesa da cui il sole che sorge entra nel luogo sacro.
Questo simbolismo del sole che inonda la chiesa è ben noto agli studiosi di architettura cristiana e lo si ritrova con modalità diverse in tantissime chiese antiche e non. Altrettanto noto è il fatto che mentre nel corso della celebrazione i fedeli si ponevano rivolti all’altare, con le spalle all’ingresso e quindi a Est, non appena iniziava la consacrazione e il diacono li esortava: “sursum corda”, ecco che i fedeli si giravano, si rivolgevano ad Est, rispondevano “habemus ad Dominum” e insieme al celebrante si trovavano tutti rivolti al Signore che viene da Oriente e questo per tutto il tempo della preghiera del Canone.
Lo stesso accadeva anche con la presenza dell’iconostasi o delle tende, col celebrante all’interno del Sancta Sanctorum e fedeli in piedi prevalentemente distribuiti sulle navate laterali.

È da 40 anni che ci raccontano questa fandonia dei Papi che avrebbero sempre celebrato verso il popolo, ed è da 40 anni che continuano ad essere pubblicati testi su testi che spiegano come si tratta solo di una fantasia interessata messa in circolazione dagli pseudo liturgisti del Concilio per giustificare la protestantizzazione della liturgia cattolica. Ed è inevitabile che quando ancora oggi si leggono fesserie del genere sorga spontaneo un moto di sacrosanta indignazione per come si continuino ad avvelenare le menti e cuori del cattolici, laici e chierici.
Quanto durerà ancora questa tragica farsa prima che Roma provveda a ristabilire la verità una volta per tutte e imponga la più stretta clausura a questi untori che portano le anime alla perdizione?

Ma non è finita qui, poiché l’untore ha altre frecce avvelenate nel suo arco: ecco quindi che scaglia la velenosa suggestione che il Prologo del Vangelo di San Giovanni sia sempre stato considerato con sospetto perché poteva procurare “la possibile deriva verso pratiche superstiziose”.

Ovviamente comincia con una confusione incredibile, com’è d’uso per i nuovi preti della nuova Chiesa, poiché afferma pacificamente che la lettura del prologo alla fine della Messa costituisce un “rito di benedizione”. Cosa che indica chiaramente che non conosce né il rito tradizionale né il Vangelo di San Giovanni.
Il Vangelo di San Giovanni è il quarto dei Vangeli e chiude così la narrazione dell’Incarnazione, della vita, della Passione, della morte e della Resurrezione del Signore Gesù. Dei quattro è l’unico che non consente una lettura sinottica e quindi è stato sempre ritenuto come una sorta di ricapitolazione e di sigillo degli altri tre. A questa sua caratteristica di quarto e ultimo Vangelo ne aggiunge un’altra che lo rende davvero unico e avalla il convincimento che si tratti del Vangelo con marcata valenza spirituale. Si tratta proprio delle prime parole del Prologo: in Principio.
Quest’ultimo libro che chiude e sigilla i Vangeli, quasi ne fosse l’Omega, si apre con le stesse parole della Genesi e quindi dell’intera Scrittura: in Principio, riportandosi così all’Alfa della Scrittura di cui costituisce l’Omega. Basterebbe solo questo per giustificare simbolicamente la chiusura della celebrazione dei Santi Misteri col Prologo del Vangelo di San Giovanni.

Certo che dopo 40 anni di Vaticano II e frutti conseguenti, non è difficile comprendere perché tanti preti come il nostro non capiscano più un acca della religione cattolica, ma questo non autorizza nessuno a fare sfoggio di ignoranza gabellandola per corretta informazione.
Per di più, il Prologo del Vangelo di San Giovanni è un vero e proprio compendio della dottrina cattolica, così che la sua recitazione alla fine della Messa ha un valore catechetico incomparabile: come se il celebrante che lo recita e i fedeli che lo ascoltano ricevessero l’ultimo memento per rientrare adeguatamente nel mondo armati della spada fiammeggiante della dottrina.
Come mai, allora, a questi nuovi preti della nuova Chiesa non piace questo Prologo?
Ma proprio per questo: perché è un compendio della dottrina cattolica, che per loro è indigesta.
Vi sono due versetti del Prologo (12 e 13) che smontano totalmente tutto l’insegnamento del Vaticano II e del conseguente Magistero.
A quanti però l’hanno accolto, / ha dato poter di diventare figli di Dio: / a quelli che credono nel suo nome, / i quali non da sangue, / né da volere di carne, / né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.

Questo passo ricorda che non è la mera esistenza a fornire all’uomo la dignità, cioè a fare di lui un uomo vero, degno, ma solo la generazione da Dio, che si acquisisce con l’accogliere il Figlio, il Verbo, la vera luce degli uomini, col credere nel Suo Nome. E i veri fratelli sono quelli nati da Dio per mezzo del Figlio, gli altri sono quelli a cui si ha il dovere di annunciare la luce perché anche loro, credendo, possano diventare fratelli.
Crollano come castelli di carte la Dignitatis humanae, la Lumen gentium, la Gaudium et Spes, la Nostra Aetatae, crolla l’antropocentrismo, il filantropismo, l’uguaglianza, la libertà religiosa, l’ecumenismo. In una parola crolla tutto l’impianto della Chiesa conciliare. È quindi comprensibile che si avanzi la suggestione che il Prologo del Vangelo di San Giovanni possa condurre alla deriva superstiziosa.
È il solito vecchio sistema giacobino: se non ci si adegua alla sovversione e alla rivoluzione è perché si è superstizioni, fanatici e dunque pazzi.


Il nostro illuminato informatore conclude quindi il suo pasticcio avvelenato con una messa a punto degna dei cultori delle pulsioni del subconscio.
In sintesi egli afferma che la Chiesa ad un certo punto della sua storia, in epoca tridentina, fece propria una “sensibilità individualista” a scapito della “dimensione comunitaria”, e fu per questo che il Concilio Vaticano II diresse «lo sguardo alle forme liturgiche della Chiesa antica» per recuperare la «partecipazione comunitaria di tutti all’azione liturgica, per poi viverla nella prassi della comunità e della sua solidarietà con i bisogni di tutti gli uomini».

Ci soffermeremo dopo su questa famosa “partecipazione comunitaria di tutti all’azione liturgica”, per considerare adesso il senso di questa “sensibilità individualista” che si sarebbe introdotta nella Chiesa a scapito della “dimensione comunitaria”.
In effetti, qui il nostro fa un’osservazione che ha qualche fondamento, ma il modo in cui la fa dimostra come egli non abbia compreso i termini del processo di affermazione dell’individualismo fuori e dentro la Chiesa, né abbia capito la controversa lotta che la Chiesa ha condotto per contrastarne danni e conseguenze.

L’uomo, preso nella sua singolarità, è una realtà naturale oggettiva il cui scopo ultimo è il superamento della sua tendenza individualista e separativa, causata dal peccato originale, in vista del suo destino celeste: il ritorno a Dio. I singoli uomini si associano per meglio condurre la vita terrena in vista di questo scopo ultimo. Tutto è subordinato a Dio, l’individuo e la società.
Fin quando l’individuo mantiene fermo questo principio egli è una persona, cioè un essere che corrisponde alla sua più intima essenza di creatura di Dio fatta per manifestare la Sua gloria e destinata a ricondursi al suo Creatore. Quando si perde di vista questa realtà si finisce col perdere di vista il principio e il fine della vita dell’uomo, cioè Dio. Si incomincia allora a fantasticare della centralità dell’uomo, e nasce l’umanesimo, della autonomia dell’uomo, e nasce il protestantesimo, dell’autosufficienza dell’uomo, e nasce l’individualismo. L’individualismo e il personalismo diventano i pilastri fondanti del vivere terreno e generano i cosiddetti “diritti dell’uomo”, così che ogni esigenza intrinseca dell’individuo viene abbandonata: Dio viene abbandonato, il destino celeste viene abbandonato e resta solo il destino mortale terreno con tutto il suo corollario di piacere, godimento, vitalismo, benessere e autocompiacimento. Se non c’è più bisogno di Dio, non c’è più bisogno della religione, l’unica realtà che si riconosce è l’uomo, l’unico dovere che si riconosce è nei confronti dell’uomo: alla religione si sostituisce il sentimentalismo religioso, la religiosità, che viene praticata in ogni occasione e nei confronti di qualsivoglia pulsione, anche quando vi sia ancora un barlume di richiamo soprannaturale, che però viene mutuato attraverso la dimensione meramente umana: nasce l’esperienza religiosa. Il processo si chiude quindi con l’esaltazione dell’individuo e l’annullamento della persona, non ci sono più persone, ma solo individui sradicati, numeri, entità astratte, immaginarie, la cui unica consolazione terrena è la mutualità con gli altri individui parimenti sradicati: nasce la dimensione comunitaria moderna.
Questo è il paradigma della “sensibilità individualista”, che è effettivamente esplosa nel 1400 e nel 1500, ma che si è affermata nei secoli successivi fino ai nostri giorni.

La Chiesa ha dovuto fare i conti con questo processo di sovversione e ha cercato di reagire con risultati contrastanti. Negli ultimi due secoli in particolare ha cercato in tutti i modi di contrastare l’affermarsi della concezione moderna che vorrebbe l’uomo autosufficiente, ma non è riuscita a impedire che tale concezione penetrasse profondamente in seno alla compagine ecclesiale. Quando si convocò il Concilio Vaticano II questa penetrazione aveva già prodotto i suoi frutti e fin dai discorsi di apertura del Concilio e delle sue sessioni si capì che tale concezione avrebbe preso il sopravvento.
Abbiamo più volte affrontato questo argomento, quindi non vi ritorneremo in questa sede, ci limitiamo a considerare che la diatriba intorno all’interpretazione dei documenti del Vaticano II verte proprio su questi punti: verità assoluta o verità relativa, salvezza dell’uomo o salvezza del mondo, centralità dell’uomo o centralità di Dio. Un esempio eclatante del soggiacere della moderna compagine ecclesiale all’individualismo e al personalismo lo troviamo nel n° 356 del Catechismo della Chiesa cattolica, il quale, riprendendo il numero 24 della Gaudium et Spes del Vaticano II, insegna che l’uomo “è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa.
Sono affermazioni assurde come queste che rivelano la sostituzione di Dio con l’uomo e fondano la conseguente concezione moderna della “dimensione comunitaria” in cui la Cristianità viene sostituita dalla mutualità tra individui sradicati dal loro principio e dal loro fine.

Prima che in seno alla Cristianità spuntasse la gramigna dell’umanesimo con tutte le sue conseguenze che giungono fino a noi, il cristianesimo non ha mai conosciuto l’individualismo, la Chiesa ha sempre insegnato che ogni uomo ha il dovere di ricondursi a Dio, seguendo gli insegnamenti e i comandamenti di Nostro Signore Gesù Cristo. Questa concezione aveva in vista la salvezza di ogni uomo singolarmente poiché Cristo è venuto a salvare i singoli uomini: è ogni singola anima che va redenta e salvata, ed è ogni anima singolarmente che può e deve salvarsi. L’impianto comunitario non è il fine della Redenzione, ma il mezzo col quale si aiutano i singoli uomini a perseguire la salvezza. Fin dai Vangeli, fin dalla chiamata degli Apostoli, non v’è dimensione comunitaria della salvezza, ma solo dimensione individuale. È la salvezza individuale la base di ogni evangelizzazione, sia in termini attivi, sia in termini passivi. Se prima non si è salvata la propria anima come si fa a pensare di salvare l’anima altrui? Non v’è conversione di massa, ma conversione personale, ed è la conversione personale che impedisce all’uomo di scadere nell’individualismo, poiché essa fissa una volta per tutte il senso vero della sua esistenza: la sua totale dipendenza da Dio e la sua totale impossibilità di autosufficienza. Ogni istanza che prescinda dalla realtà oggettiva del singolo credente e guardi alla comunità come fattore primario porta inevitabilmente all’atrofia della redenzione del credente e alla degenerazione individualista.
Quando Nostro Signore insegna che bisogna amare il prossimo, precisa che innanzi tutto bisogna amare se stessi e bisogna farlo amando innanzi tutto Dio. Si ama se stessi amando primariamente Dio e solo dopo si ama il prossimo, non per se stesso o per se stessi, ma per amore di Dio. È questo basilare insegnamento che fin dall’inizio ha generato eremiti, monaci, confessori, santi e martiri, e sono loro che hanno permesso l’evangelizzazione e la conversione di altri milioni di individui, da uomo a uomo, da persona a persona, da maestro a discepolo. La struttura comunitaria, l’organizzazione sociale umana e l’organizzazione gerarchica della Chiesa sono i contenitori in cui l’anima cresce con l’aiuto della Grazia e si conduce alla salvezza. Sono i mezzi che permettono ad ogni anima di ritrovare se stessa nel suo naturale rapporto con Dio: nella società umana con una reale dipendenza di essa dall’Imperio di Cristo Re, nella società ecclesiale con i sacramenti e la pratica religiosa comandata dalla Chiesa.
Quando la società diventa individualista e autosufficiente e misconosce l’Imperio di Cristo Re, finisce col condurre le anime verso la perdizione. E quando la società ecclesiale perde di vista la singola anima e fantastica di mutualità degli uomini ordinari affetti dal peccato mortale e non ancora sottomessi all’imperio di Cristo, genera l’irresponsabilità individuale e la speranza in una impossibile salvezza comunitaria che ha fondamento solo nelle suggestioni del demonio.

Perfino nella Comunione dei Santi è evidente che non è la Comunione che viene prima e fa i Santi, ma è il singolo che vive la santità e per ciò stesso si trova accomunato agli altri Santi: prima viene il Santo, poi la Comunione.

Finiamo quindi con qualche appunto su questa famosa “partecipazione comunitaria di tutti all’azione liturgica, per poi viverla nella prassi della comunità e della sua solidarietà con i bisogni di tutti gli uomini”.

L’azione liturgica è un’azione soprannaturale di Dio che si realizza per il tramite dell’agire naturale della Chiesa. Il centro dell’azione liturgica della Chiesa è infatti l’agire del ministro ordinato in persona Christi. Non è il celebrante che fa la liturgia, non è neanche la Chiesa che fa la liturgia: chi fa la liturgia è l’Unico vero Sacerdote: Nostro Signore Gesù Cristo. Da Lui discende a cascata l’azione liturgica attuata, non inventata, dalla Chiesa. La liturgia trasmessa da Cristo agli Apostoli e alla Chiesa viene attuata dal celebrante, di essa fruiscono i fedeli presenti e assenti, vivi e morti, e con essa la Chiesa e i fedeli rendono grazie a Dio per mezzo del Suo unico Figlio, nello Spirito Santo, mentre per essa ricevono l’effusione della Grazia divina.

C’è un passaggio della S. Messa che rende palpabile questa distinzione fra l’azione liturgica della Chiesa e la fruizione dei fedeli. Tutta l’azione liturgica essenziale, il Canone con la Consacrazione e la Comunione, si svolge in un tempo unico e concluso che va dal Prefazio alla Comunione del celebrante. Cristo, per lo Spirito Santo, si rende presente sull’altare col Suo Corpo e il Suo Sangue transustanziati, il celebrante li assume a compimento delle parole di Cristo: prendete e mangiate, prendete e bevete.
Dopo essersi conclusa così tutta l’azione liturgica, il celebrante si rivolge ai fedeli, alza e mostra la particola: Ecce Agnus Dei: solo a quel punto i fedeli, se ci sono e se vogliono, possono a loro volta assumere la Comunione.

Si tratta di due momenti distinti che indicano due fasi della Messa: la prima fase del tutto auto sufficiente della divina liturgia, la seconda fase dipendente dalla prima e con la quale i fedeli usufruiscono dei benefici della Messa. Questa distinzione la si coglie maggiormente se si tengono presenti due fattori. Il primo comune alla liturgia occidentale e orientale, la Messa è compiuta con la prima fase anche quando non ci fossero fedeli presenti o che volessero confessarsi; il secondo comune alla liturgia occidentale e orientale fino a quando in Occidente non si decisero degli adattamenti propri, e oggi solo presente nella liturgia orientale: la prima fase si conclude nel chiuso del Sancta Sanctorum, solo dopo il celebrante esce dalla Porta Santa, porta e mostra il Signore transustanziato e comunica i fedeli.
A questo punto la domanda è: in questo contesto, come fanno “tutti” a partecipare all’azione liturgica?
Per rispondere occorre precisare che cosa si intenda per “partecipazione”.

Il termine, etimologicamente, ha il significato di prendere parte o avere una parte. Nel primo caso prevale l’aspetto quantitativo: si compie o si riceve una parte in un contesto unico in cui altri compiono o ricevono altre parti. Questo aspetto non è riferibile alla divina liturgia, poiché essa è un’azione di Cristo che in termini umani utilizza il celebrante, non come un attore, ma come un alter Christus, cioè sempre lo stesso Cristo.
Nel caso dell’avere una parte, invece, prevale l’aspetto modale, legato non all’azione in sé, ma alle conseguenze dell’azione: è il caso dell’azione liturgica. Essa si riverbera in ognuno in maniera diversa e la relativa reazione non tocca, accresce o diminuisce, l’azione liturgica in sé. Più propriamente si potrebbe parlare di partecipazione passiva se vista dal punto di vista dell’azione liturgica o di partecipazione attiva se vista dal punto di vista del fedele. Il fedele trae dall’azione liturgica il nutrimento interiore per muovere attivamente il suo stesso essere in direzione di Dio. In tal modo egli partecipa dell’azione liturgica pur non prendendo parte ad essa, egli non svolge una parte nell’azione, ma ha una parte nel prosieguo dell’azione che da Dio scende fino al fedele. La sua partecipazione attiva è tutt’uno con quella parte dell’azione che si riflette su ognuno e che questi fa sua con modi e processi diversi, senza che questo implichi una suddivisione dell’azione né una modificazione dell’azione stessa per il concorso di diversi, tale concorso infatti non è necessario né dal punto di vista dell’azione né da quello della partecipazione.

Sull’argomento abbiamo scritto a suo tempo un apposito articolo al quale abbiamo allegato le disposizioni emanate in diverse occasioni dalla Santa Sede, dai primi del secolo scorso fino a prima del Concilio, anche al fine di ricordare che la partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia, intesa in maniera corretta, non nasce col Concilio Vaticano II, come si vuol far credere subdolamente, ma è sempre stata una premura della Chiesa.

Perché allora si fa un gran parlare, da quarant’anni, di “partecipazione attiva” in contrapposizione ad una ipotetica partecipazione passiva in uso nella Chiesa prima del Concilio?
La risposta è sotto gli occhi di tutti ed è tanto semplice quanto dirompente.
A partire dal Concilio si è ritenuto opportuno e necessario che i fedeli partecipassero attivamente alla stessa azione liturgica, come se l’azione di Cristo, col suo alter Christus, non fosse sufficiente, come se l’azione liturgica eminentemente divina avesse bisogno del concorso umano per essere valida ed efficace. Di fatto un capovolgimento del senso stesso della liturgia allo scopo di sminuire l’azione di Cristo e la funzione del celebrante, esaltando l’agire del fedele. Una pseudo liturgia per gli uomini fatta dagli uomini, una protestantizzazione della Messa e una esaltazione dell’autosufficienza umana.
Un rovesciamento dell’imperativo di Cristo: Senza di me non potete fare nulla!, che a partire dal Concilio si è di fatto trasformato in: senza di noi [Tu Cristo] non puoi fare nulla.

Si dice che questo capovolgimento avrebbe un valore catechetico per i fedeli, poiché la “partecipazione comunitaria di tutti all’azione liturgica” li porterebbe a trasferire tale esperienza nella vita ordinaria, “per poi viverla nella prassi della comunità e della sua solidarietà con i bisogni di tutti gli uomini”.
Questo è verissimo, ma disgraziatamente è quanto di più dirompente si potesse fare per scardinare la fede.
Con tale prassi il fedele è indotto a vivere la fede in modo attivistico e a compiacersi di questo fino al punto di convincersi che la fede non sarebbe altro che una esperienza comunitaria di tipo filantropico volta a risolvere se possibile “i bisogni di tutti gli uomini”.
La fede personale, la migliore possibile coerenza con i comandamenti del Signore, l’afflato ultraterreno, la continua attenzione della mente e del cuore per i fini ultimi e per la salvezza eterna, vengono negletti e perfino snobbati, e quando ancora in qualche modo persistessero vengono posti in secondo piano, dopo “i bisogni degli uomini”.
Basta guardare i messaggi pubblicitari della CEI per la devoluzione dell’8 per mille, per rendersi conto che è questo il messaggio che diffondono oggi i vescovi.

Certo, cari i nostri Dianich, è stato il Concilio che ha inventato la novità del “popolo di Dio” che sarebbe “per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza”. Verissimo.
È proprio nella citata Lumen gentium che si dichiara con chiarezza il capovolgimento dell’insegnamento di Cristo: “Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo”, così che il Figlio di Dio si sarebbe incarnato, avrebbe patito, sarebbe morto sulla Croce e sarebbe risorto, non per salvare i peccatori che si pentono, ma per realizzare l’unità dell’umanità e alimentare la speranza terrena.
Peccato che non è questa la dottrina cattolica, non è questo che la Chiesa ha predicato per duemila anni, non è questo che ha insegnato Nostro Signore Gesù Cristo.

Sta scritto: «In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. […] «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. … Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv. 10, 1-3 e 7—9).

Belvecchio

tratto da www.unavox.it


domenica 14 agosto 2011

14 agosto: 800 martiri di Otranto


800 MARTIRI DI OTRANTO



SECONDA LETTURA

Dai "Commenti sull'Apocalisse" di Pietro Colonna detto il Galatino, Presb. (Cod. Vat. Lat. 5567.foll. 147-14)

Riferirò poche cose viste con i miei occhi. Espugnata Otranto, città della Provincia di Calabria, detta anche Japigia o Salentina, i Turchi, appena v'entrarono irruppero con grande violenza nella Chiesa cattedrale e uccisero numerosi tra i sacerdoti che stavano celebrando il sacrificio eucaristico. E giunti vicino all'Arcivescovo che era sulla sua cattedra episcopale vestito dei paramenti pontificali e con in mano la croce (...), uno di loro, impugnata la scimitarra, gli staccò la testa con un solo colpo. E così decapitato sulla propria cattedra, diventò martire di Cristo, nell'anno del Signore 1480, il giorno 12 di agosto.

Al terzo giorno, il comandante dell'esercito, che i Turchi chiamano "Pascià", ordinò che tutti i cristiani di sesso maschile, qualunque età essi avessero al di sopra dei quindici anni, fossero portati al suo cospetto, in una località chiamata "Campo di Minerva", distante circa un miglio dalla città, dove egli era ancora attendato.

Ed essendo stata condotta dinanzi a lui una moltitudine quasi innumerevole di cristiani, fece rivolgere loro (dall'interprete) la domanda per quale delle due scelte essi volessero optare: o rinnegare la fede in Gesù Cristo, o morire di morte atroce.

Ed uno di essi, che gli era più vicino, rispose "Scegliamo piuttosto di morire per Cristo con qualsiasi genere di morte, anziché rinnegarlo". E poiché uno soltanto aveva risposto, il Pascià fece interrogare gli altri su che cosa scegliessero. Ed essi subito gridarono in coro: "In nome di tutti ha risposto uno solo: siamo pronti a subire qualsiasi morte anziché abbandonare Cristo e la fede in Lui". E si sentì un mormorio tra di loro per lo spazio di circa un'ora, mentre si esortavano a vicenda e dicevano: "Moriamo per Gesù Cristo, tutti moriamo volentieri, per non rinnegare la sua santa fede". Allora il Pascià, stravolto dall'ira, comandò che tutti, sotto i suoi occhi, fossero passati a fil di spada. E, mentre venivano trucidati con varie forme di efferatezza, quelli che attendevano il loro turno, si incoraggiavano scambievolmente ad affrontare una morte così gloriosa: scambiandosi il bacio di pace, si chiedevano a vicenda perdono delle offese.

Dopo che tutti furono uccisi, il Pascià, abbandonati i cadaveri di quei santi in quel medesimo luogo, in preda agli uccelli e alle bestie, rientrò con gli altri turchi in Otranto (...).

Di questi, dunque, e di tutti gli altri martiri, che dovevano essere trucidati sia dai turchi che dagli altri maomettani, nel quinto periodo della Chiesa, parla il diletto discepolo di Cristo nelle parole citate: (Cfr. Ap 6, 9) che devono, perciò, così interpretarsi: "Vidi sotto l'altare", cioè sotto la protezione e l'intima unione con Cristo. Cristo è, infatti, nello stesso tempo, nostro altare, sacerdote e sacrificio: Egli offrì se stesso sull'altare della croce, come vittima preziosa della nostra redenzione. È Egli stesso l'altare di Dio, poiché su di Lui noi offriamo a Dio Padre i nostri doni e sacrifici. Per questo motivo, quasi tutte le preghiere che la Chiesa fa, suole concludere con le parole "per Cristo nostro Signore".

"Le anime di coloro che erano stati sgozzati", cioè di quei martiri che, nel quinto periodo della Chiesa, dovevano essere uccisi. "A motivo della Parola di Dio", cioè a motivo del comando divino: per osservare il quale con decisione e fortezza, essi scelsero di essere uccisi per Cristo, piuttosto che rinnegare la fede in Lui.

Oppure Dall' Omelia di Giovanni Paolo II, papa (Otranto, 5 ottobre 1980)

Ci ha fatto venire oggi qui ad Otranto il ricordo dei martiri. Ci ha fatto venire qui la venerazione verso il martirio, sul quale, sin dall'inizio, si costruisce il regno di Dio, proclamato ed iniziato nella storia umana da Gesù Cristo.

La verità sul martirio ha nel Vangelo un'eloquenza piena di penetrante profondità ed insieme di trasparente semplicità. Cristo non promette ai suoi discepoli successi terreni o prosperità materiale; egli non presenta davanti ai loro occhi alcuna ''utopìa", come è capitato più di una volta e come capita sempre nella storia delle ideologie umane. Egli semplicemente dice ai suoi discepoli: "vi perseguiteranno". Vi consegneranno agli organi delle diverse autorità, vi metteranno in prigione, vi chiameranno davanti ai diversi tribunali. Tutto ciò "a causa del mio nome" (Lc 21,12).

La sostanza del martirio è legata, dall'inizio e nel corso di tutti i secoli, con questo nome! Noi qualifichiamo come martiri quei cristiani che, nel corso della storia, hanno subito sofferenze, spesso terrificanti, per la loro crudeltà "in odium fidei". Coloro ai quali "in odium fidei" veniva infine inflitta la morte. Quindi coloro che accettando, in questo mondo, le sofferenze e subendo la morte hanno reso una particolare testimonianza a Cristo.

Mettendo davanti agli occhi dei suoi discepoli l'immagine delle sofferenze che li aspettano a causa del suo nome, il maestro dice: "Questo vi darà occasione di render testimonianza" (Lc 1,13).

Cinquecento anni fa qui, ad Otranto, 800 discepoli di Cristo hanno reso appunto una tale testimonianza, accettando la morte per il nome di Cristo. Ad essi si riferiscono le parole che il Signore Gesù ha pronunciato sul martirio: "Sarete odiati da tutti per causa del mio nome" (Lc 21,17). Sì, sono stati oggetto d'odio. Hanno bevuto per il nome di Cristo il calice di quest'odio fino in fondo, a somiglianzà del loro maestro, il quale dalla cena pasquale si recò direttamente al Getsernani e lì pregava: "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice" (Lc 22,42). Tuttavia il calice dell'odio umano, della crudeltà e della croce non si è allontanato. Cristo, obbediente al Padre, l'ha vuotato fino in fondo: "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà" (Lc 22,42).

La testimonianza del Getsernani e della croce è un sigillo definitivo, impresso su tutto ciò che Gesù ha fatto e insegnato. Egli, accettando la morte, ha dato la propria vita per la salvezza del mondo. I martiri di Otranto, accettando la morte, hanno dato la loro vita per Cristo. E in queslo modo hanno reso una particolare testimonianza a Cristo.

La testimonianza dei martiri li introduce in modo particolare anche nel suo mistero pasquale. "Con la vostra perseveranza - dice Gesù - salverete le vostre anime" (Lc 21,19). Come egli stesso conquistò la nuova vita, accettando la morte, così i martiri accettando la morte, conquistano la vita, a cui Cristo ha dato inizio nella sua risurrezione.

"Quella" vita: la vita nuova e piena smentisce, in certo senso, l'esperienza della morte. Smentisce soprattutto la certezza di coloro che, infliggendo la morte, ritenevano di aver tolto la vita ai martiri, di averli privati della vita e di averli strappati in maniera definitiva dalla terra dei viventi.

"Agli occhi degli stolti parve che morissero; / la loro fine fu ritenuta una sciagura, / la loro dipartita da noi una rovina.

Così proclamava l'autore del libro della Sapienza (Sap 3.2-3) già molto tempo prima che Cristo pronunciasse le sue parole sul martirio.

"...ma essi sono nella pace" (Sap 3.3). Ma essi sono nella pace!

Nell'atto del martirio ha quindi luogo una radicale, per così dire, contrapposizione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare. La morte umana dei martiri, la morte legata alla sofferenza e al tormento - così come la morte di Cristo sulla croce - cede, in un certo senso, dinanzi ad un'altra realtà superiore. L'autore del libro della Sapienza scrive:

"Le anime dei giusti... sono nelle mani di Dio / nessun tormento le toccherà" (Sap 3.1).

Quest'altra realtà superiore non annulla il fatto del tormento e della morte, così come non annullò il fatto della passione e della morte di Cristo. Essa, la "mano'" invisibile di Dio trasforma soltanto questo fatto umano. Lo trasforma già perfino nella sua trama terrestre, mediante la potenza della fede che si rivela nelle anime dei martiri dinanzi al tormento ed alla sofferenza:

"Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità" (Sap 3,4).

La forza di questa fede e la forza della speranza che proviene da Dio sono più potenti del castigo e della morte stessa. I martiri rendono testimonianza a Cristo proprio per questa forza della fede e della speranza. Essi, difatti, simili a Lui nella passione e nella morte, proclamano contemporaneamente la potenza della sua risurrezione. Basta ricordare qui come moriva il primo martire di Cristo, il diacono Stefano; egli si spense gridando: "Ecco io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio" (At 7,56).

Così dunque, grazie alla forza della fede ed alla potenza della speranza, cambiano in un certo senso le proporzioni: le proporzioni della vita e della morte, della sconfitta e della vittoria, dello spogliamento e dell'elevazione. L'autore del libro della Sapienza scrive in seguito:

''In cambio d'una breve pena / riceveranno grandi benefici, / perché Dio li ha provati / e li ha trovati degni di sé" (Sap 3,5).

Qui tocchiamo un punto particolarmente importante nel fatto del martirio. Il martirio è una grande prova, in un certo senso è la prova definitiva e radicale. È la più grande prova dell'uomo, la prova della dignità dell'uomo al cospetto di Dio stesso. È difficile dire a questo proposito più di quanto afferma proprio il libro della Sapienza: "Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé" (Sap 3,5). Non esiste una misura più grande della dignità dell'uomo di quella che si trova in Dio stesso: negli occhi di Dio. Il martirio è dunque "la" prova dell'uomo che ha luogo agli occhi di Dio, una prova nella quale l'uomo, aiutato dalla potenza di Dio, riporta la vittoria.

Mentre combattiamo per la fede, Dio ci guarda, Cristo e i suoi angeli assistono:

* moriamo per Cristo tutti, moriamo volentieri per non rinnegare la sua fede.

È onore e gioia per noi lottare sotto lo sguardo di Dio,

ricevere il premio da Cristo giudice.

Moriamo per Cristo tutti, moriamo volentieri per non rinnegare la sua fede.

 
ORAZIONE Dio onnipotente e misericordioso, guarda il tuo popolo che celebra la solennità dei Beati Antonio Primaldo e Compagni, e, per loro intercessione, concedi anche a noi di essere forti nel testimoniare la fede cristiana. Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Franco CARDINI

I martiri di Otranto tratto da: Il Sabato, 21.8.1993, n. 34, p. 47s .

Venezia voleva frenare il potere degli Aragonesi. Lorenzo il Magnifico doveva saldare il debito per la consegna di un responsabile della congiura dei Pazzi. Così il sultano ebbe via libera alla conquista di Otranto. Un tacito patto che costò la vita a 800 cristiani. Decapitati sulla collina dei martiri Il 28 luglio 1480 la città di Otranto veniva assalita da una flotta turca comandata dal grande ammiraglio dell'impero ottomano Gedik Ahmed Pascià. La guarnigione aragonese che custodiva la città si ritirò o non poté comunque fronteggiare l'ondata turca; e l'11 agosto le milizie musulmane poterono pertanto accedere liberamente allo spazio intramurario di Otranto, ch'era stato fin lì praticamente difeso dai soli cittadini. Per tre giorni il massacro indiscriminato infierì: cadde, fra gli altri, anche il vescovo Stefano Pendinelli, ucciso nella sua stessa cattedrale, quella che è celebre per uno dei mosaici pavimentali più belli di tutto il nostro Medioevo .

Il 14 agosto Ahmed Pascià ordinò di rastrellare tutti i superstiti di sesso maschile e d'età superiore ai quindici anni. Erano circa ottocento: fu loro proposta la scelta tra l'apostasia e la decapitazione. Rispose per tutti, secondo la tradizione, il vecchio cimatore di lana Antonio Primaldo: «Fin qui ci siamo battuti per la patria e per salvare i nostri beni e la vita: ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare i nostri beni e le nostre anime». Allora, a gruppi di cinquanta, i prigionieri furono portati sulla collina detta "di Minerva", presso la città -quella che oggi è detta "collina dei Martiri"- e vennero decapitati. I loro corpi furono lasciati insepolti per un anno fino al 15 agosto del 1481, allorché, riconquistata la città dai cristiani, si poté degnamente onorare i loro resti. I "martiri di Otranto" furono beatificati in blocco nel 1771 e santificati nel 1983 .

La fede coranica distingue con chiarezza tra i "pagani" e i "popoli del Libro", vale a dire gli ebrei e i cristiani, i quali hanno ricevuto la rivelazione attraverso una Sacra Scrittura e conoscono il vero Dio. Se per i pagani non può esservi quartiere, è per contro severamente vietato obbligare con la forza alla conversione ebrei e cristiani; l'alternativa tra la conversione e la morte è riservata ai soli pagani, nei confronti dei quali l'islam conosce esclusivamente un rapporto di guerra. Ma gli ebrei e i cristiani possono accedere liberamente e con le loro forze al perfezionamento della loro fede accettando l'islam; ove non vogliano farlo, è sufficiente, per vivere in pace, che ne accettino la supremazia.

Ahmed Pascià, per zelo o per altre ragioni, infranse pertanto la legge coranica trattando dei cristiani come se fossero stati dei pagani. Episodi del genere, pur essendo relativamente scarsi, non sono sconosciuti alla storia dell'islam: si pensi alle persecuzioni ai danni dei cristiani nella Spagna meridionale del IX secolo, alle conversioni forzate dei cristiani berberi, a pagine di duri maltrattamenti scritte in Persia e in India.


La vera caduta dell'Impero

Del resto, anche il cristianesimo conosce episodi del tutto analoghi: dalla prima crociata del 1096-1099 alla Reconquista spagnola, casi di musulmani costretti con la forza al battesimo sono numerosi. Del resto è noto che i turchi, giunti relativamente tardi alla fede musulmana, erano animati da senso rigoristico più forte dei loro correligionari arabi e ciò li esponeva più frequentemente al pericolo di eccessi. Ma fu soltanto una pietas fanatica, o magari una certa mancanza di energia nei confronti dei più violenti fra i suoi uomini, a indurre l'ammiraglio ottomano allo spaventoso massacro del 1480? .

Nel maggio 1453 si era verificato, per via dei turchi ottomani e del loro sultano Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta dell'impero romano, che gli occidentali sono abituati ad antidatare, senza ragione, di un millennio. Quel che difatti noi chiamiamo "impero bizantino" altro non era -senza apprezzabili soluzioni di continuità- se non la pars Orientis dell'impero romano ridefinita dalla riforma teodosiana del 395.

La caduta di Costantinopoli nel 1453 pose fine a quella storia ultramillenaria e gettò il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all'avvento dell'Anticristo e alla fine dei tempi. Questo dichiarava la bolla per la crociata emanata il 30 settembre del 1453 da papa Niccolò V che chiamava i principi e i popoli cristiani alla difesa della loro civiltà: Maometto II era prefigura dell'Anticristo, il dragone rosso dell'Apocalisse. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; e in Italia con la "pace di Lodi" del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto "equilibrio", più tardi tanto lodato dal Guicciardini proprio perché si temeva che il Turco potesse davvero sbarcare in Italia .

L'alibi turco

E non erano preoccupazioni infondate: la nuova potenza ottomana, che con Costantinopoli controllava ora anche gli stretti, minacciava gli interessi veneziani e genovesi tra mar Nero e mar Egeo, mettendo fra l'altro in forse il rifornimento granario, dal momento che l'Europa importava frumento dalla Crimea; l'avanzata turca interessava gran parte dei Balcani e l'ombra della mezzaluna si proiettava minacciosa sull'Adriatico, giungendo a lambire Vienna e Venezia; le coste del regno aragonese di Napoli si trovavano soggette alle incursioni corsare e in costante rischio di venire invase.

La cristianità occidentale, in tali frangenti, si accorse dolorosamente che il troppo presto liquidato ecumenismo politico aveva pur lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero ridotto ormai a una larva tedeschizzata, lo stesso indiretto potere del papato -sotto forma, quanto meno, di auctoritas- risultava dimezzato: il Pontefice, ora non poteva che ambire al ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della "lega" dei principi e dei popoli cristiani d'Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s'impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V stesso, Callisto III, Pio II. Paolo II, Sisto IV cercando disperatamente di metter d'accordo le divergenti idee e i differenti interessi della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d'Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi politico per indurre gli stati cristiani ad accettare questa o quella linea, favorevole a questa o a quella potenza. Tali cose, nelle cancellerie d'Europa le sapevano tutti anche se non le diceva nessuno. E le sapeva molto bene anche il sultano, il quale era abituato a ricevere amichevoli ambascerie da parte di quelle potenze cristiane che poi si sbracciavano in magniloquenti intenzioni crociate.



Il gioco del sultano

La crociata nell'Europa del secondo Quattrocento era come l'antifascismo nell'Europa del secondo Novecento: tutti ne parlavano, tutti erano d'accordo, ciascuno cercava di farla coincidere con i propri interessi e di accusare gli altri di non servire con altrettanta energia tale nobile ideale, nessuno o quasi ci credeva sul serio e quasi tutti erano pronti a tradirla alla prima redditizia occasione. In fondo, che Venezia fosse minacciata dal Turco non dispiaceva affatto né al re di Napoli, né al duca di Milano; e il re di Francia non chiedeva di meglio che gli ottomani se la prendessero con gli interessi oltremarini di Genova in modo da poter esser pronto a difendere il prestigioso porto ligure che da decenni ambiva -in contrasto con il duca di Milano- a sottomettere.

Con tali premesse, e in un tale contesto, era chiaro che alternando sapientemente la guerra alla diplomazia il sultano poteva tranquillamente giocare le potenze cristiane: ed è quanto fece. Peraltro, Maometto II era un politico troppo realista e intelligente per puntare davvero a conquistare l'Europa e a sottomettere all'islam i popoli cristiani. Gli conveniva però che così si temesse, o si fingesse di temere. Il pericolo, ad ogni modo, era costante e reale. Fermati per miracolo davanti a Belgrado nel 1456, gli ottomani alternavano la minaccia navale attraverso l'Egeo, lo Ionio e l'Adriatico, a quella terrestre lungo la via del Danubio. Nel 1469 c'erano state incursioni in Carniola, Stiria e Carinzia, destinate a diventar periodiche: nel 1470 i turchi avevano occupato l'isola veneziana di Negroponte; nel '77 e nel '78 le loro incursioni avevano toccato il Friuli. La pressione era così forte che i veneziani, i quali da circa un quindicennio erano in guerra aperta con il sultano sobbarcandosi quasi da soli il compito di aiutare gli ungheresi di Mattia Corvino -sostenuto peraltro nella sua guerra anche dal danaro della Curia pontificia- e gli albanesi che comunque, da ormai un decennio, erano privi della guida del loro eroe Scander Beg, alla fine chiesero e ottennero dal sultano una pace, siglata appunto nel 1479. Ma la lunga guerra non era forse il solo motivo per il quale la Serenissima intendeva chiudere almeno temporaneamente il fronte ottomano .

Il feeling con Lorenzo

Fra '80 e '81, parve che il dominio turco di Otranto stesse per divenire, nelle intenzioni del sultano e di Ahmed Pascià, la base per un'enclave ottomana nelle Puglie che, se avesse retto, avrebbe significato il controllo della mezzaluna sul canale tra Jonio e Adriatico: furono compiute scorrerie anche su Brindisi, Lecce e Taranto. Ma Venezia, signora dell'Adriatico e avversaria tenace del re di Napoli e dei suoi progetti egemonici sulla penisola italica, non poteva restar indifferente dinanzi a chi controllasse il canale d'Otranto: doveva allearvisi o combatterlo. Ebbene, fonti insospettabili perché veneziane, ci assicurano che il "bailo" veneziano a Costantinopoli, Andrea Gritti, fu incaricato di far sapere al sultano, da parte dei suo governo, che egli poteva a buon diritto impadronirsi della Puglia in quanto tali territori appartenevano d'antico diritto al territorio di Bisanzio del quale egli era signore .

Né Venezia era la sola potenza d'Italia a strizzar l'occhio al Turco. Tra Maometto II e la Firenze del Magnifico Lorenzo correva da tempo un discreto feeling: artisti fiorentini erano stati inviati a Istanbul, il sultano aveva impacchettato cortesemente uno dei congiurati antimedicei di quelli che il 26 aprile del 1478 avevano attentato a Lorenzo, nella celebre "congiura dei Pazzi", -si trattava di Bernardo Bandini- e lo aveva spedito a Firenze perché vi fosse giustiziato, e infine il Magnifico aveva impegnato certi suoi incisori nel conio di medaglie commemorative che esaltavano le vittorie del Gran signore in Asia .

Il disegno del Papa

E nasce allora il sospetto che, per capire perché dell'assalto a Otranto non si debba guardare ai progetti del sultano, ma alle tensioni e ai giochi diplomatici delle corti d'Italia. La volontà egemonica del re d Napoli sulla penisola e il conflitto veneziano-aragonese per l'egemonia sull'Adriatico sono, forse, la chiave di tutto. E l'elemento scatenante è probabilmente l'episodio della "congiura dei Pazzi" a Firenze. Ma procediamo con ordine .

I fatti sono ben noti, anche sui manuali scolastici. Da tempo la Toscana era una delle aree "calde" della politica italiana basata sull'incerto equilibrio di guicciardiniana memoria (un equilibrio in realtà europeo del quale la paura dei turchi era un ingrediente). Ferdinando I d'Aragona, re di Napoli, appoggiava con decisione la politica antifiorentina dei senesi e dei fuorusciti antimedicei; e papa Sisto IV aveva concepito il disegno di appoggiarsi agli avversari del Magnifico ancor presenti nell'aristocrazia fiorentina per scalzare il potere dei Medici e trovare così nella città toscana una signoria per il nipote Gerolamo Riario: il quale a sua volta odiava Lorenzo in quanto egli si era opposto tenacemente all'insediarsi di una sua signoria in Imola.

La congiura dei Pazzi fallì, ma il Papa -cogliendo l'occasione dal fatto che, nella repressione di essa, erano stati giustiziati anche alcuni membri del clero- scomunicò il Magnifico, gettò l'interdetto su Firenze e suscitò contro di essa una lega con il re di Napoli, la repubblica di Siena e Federico da Montefeltro che fu nominato comandante delle truppe alleate .

Firenze aveva dalla sua Venezia e Milano, le due antiche e tenaci avversarie che si erano riavvicinate tra loro per fronteggiare il pericoloso espansionismo napoletano. Il re di Francia, tradizionale sostenitore di casa Medici, fece sapere al Papa che dal suo paese non sarebbe più partito un soldo alla volta della Camera apostolica finché il Pontefice si fosse ostinato a far guerra ai cristiani anziché ai turchi era un ottimo alibi per risparmiar danaro con la scusa dell'unità tra i fedeli e della crociata. Ma i milanesi erano troppo occupati in questioni di politica interna e i veneziani ancora impegnati nella guerra contro i turchi. Rimasto praticamente solo, Lorenzo, accusato intanto dal Papa di ostacolare con la sua superbia un'azione unitaria dei cristiani contro i turchi (ancora il pretesto della crociata...), non poteva fidarsi neppure del comandante delle sue poche milizie, il duca di Ferrara Ercole d'Este, ch'era genero di Ferdinando di Napoli.

La guerra in Toscana andava male: e Venezia, pur avendo fatto pace con i turchi fin dal gennaio 1479, non dava mostra di voler entrare apertamente nello scontro. Il nuovo signore di Milano. Ludovico il Moro, non faceva intendere da che parte volesse sul serio schierarsi, e in realtà non voleva farlo. E' concorde visione degli storici che in tale frangente Lorenzo abbia genialmente rotto l'accerchiamento che ormai rischiava di sopraffarlo ricorrendo ai mezzi diplomatici e mostrando a Ferdinando I che egli non aveva alcun interesse e legarsi troppo alla politica personalistica di Sisto IV, che con ogni probabilità il Pontefice successivo avrebbe abbandonato.

Congiuntura favorevole

Al patto di pace tra Firenze e Napoli, siglato il 25 marzo 1480, corrispose tuttavia un passo d'avvicinamento della Serenissima al Papa: sulle rive del Canal Grande non si poteva che avversare chiunque per qualunque motivo tendesse una mano al re di Napoli. Neppure il re di Francia - che si era arrogato su Napoli i vecchi diritti angioini- gradì la mossa filoaragonese di Lorenzo.

E' chiaro che il sultano approfittò di questo momento per affermare con maggior forza la sua egemonia sull'Egeo, sullo Ionio e sui Balcani. E' possibile che già da Firenze, tra '78 e '80 gli fossero pervenute sollecitazioni in tale senso; e Venezia, una volta siglata nel gennaio '79 la pace con lui, lo istigava come s'è visto a far valere i suoi diritti di erede di Bisanzio sull'Italia meridionale. L'occasione anche diplomatica di agire gli fu offerta ben presto, allorché Ferdinando di Napoli, nella primavera dell'80, fece pervenire alcuni aiuti ai cavalieri di Rodi assediati dai turchi. Per ritorsione il sultano aveva fatto occupare Valona da Ahmed Pascià e aveva dato il via all'impresa di Otranto mentre le galee veneziane, presenti nelle vicinanze del canale, si ritiravano a Corfù (ma corse voce addirittura che
appoggiassero i turchi rifornendoli di viveri).

Il fantasma della crociata

D'altro canto, il sultano sapeva bene che la sua mossa avrebbe dato luogo a una sorta di riflesso condizionato: la vecchia, pretestuosa idea di crociata funzionava ancora in questi casi. L'ombra della mezzaluna proiettata su una terra cristiana, la Puglia, determinò la pacificazione dei principi fedeli alla croce: i napoletano-pontifici sgombrarono le terre della Toscana meridionale sulle quali si erano attestati, il Papa si affrettò a far la pace con Firenze, Venezia e il re di Francia finsero di porre da canto le rispettive animosità nei confronti del re di Napoli. Umanisti e predicatori si dettero con ardore a invocare la crociata. La repentina e inattesa scomparsa del sultano, il 31 maggio 1481, e le lotte per il potere tra i di lui figli Bajazet e Djem che le tennero dietro, facilitarono la riconquista. Fu così che il 10 settembre 1481 Alfonso di Calabria, figlio del re di Napoli, entrava trionfalmente in Otranto, martire ma liberata. A Otranto nel 1480 come a Vienna nel 1526 e nel 1683, i turchi giocarono il ruolo del deus ex machina. Il loro violento irrompere sulla scena europea risolveva una situazione di stallo: l'appello alla crociata, alla defensio crucis, alla liberatio Europae -un appello, intendiamoci, sovente sinceramente lanciato e generosamente accolto -, serviva regolarmente alla soluzione di conflitti interni al mondo cristiano. I turchi assolvevano alla funzione dell'hostes come elemento risolutore delle inimicizie interne e catalizzatore di quella che Carl Schmitt ha definito l'"esportazione della violenza". Paradossalmente ma non troppo, la minaccia turca si rivelava come un fattore di coesione e di determinazione dell'identità europea. Questo del resto è il senso intimo e ultimo della stessa esperienza crociata, che - grazie a Dio - non è mai stata una guerra di religione.