IL GRANDE DIGIUNATORE
Estratto del volume autobiografico del
Cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna, dal titolo:
"Memorie e digressioni di un italiano cardinale" (Edizioni Cantagalli,
Siena, 2007, pp. 640, Euro 23,90).
XIX
digressione
PICCOLA
CONTESTAZIONE AL
GRANDE DIGIUNATORE
Chi
è?
Nessuno
mi chieda nome e cognome del Grande Digiunatore: non è un singolo personaggio,
sono in parecchi e tutti, a diverso titolo e con diversa pertinenza, entrano a
dare figura concreta e situazione storica a un tipo umano generale e astratto.
Il primo e più onorato tra essi è senza dubbio il Mahatma Gandhi: mahatma in
sanscrito significa “grande anima”; ma poi, nell’arte del digiuno annunciato e
ostentato, sono seguite “anime” di tutte le misure. Il Grande Digiunatore non
si accontenta di non mangiare per suo estro, nel segreto della sua casa o
addirittura in località deserta (come Gesù Cristo): egli fa del suo digiuno un
manifesto di propaganda. Non si astiene dal cibo per ragioni sue, ascetiche o
sanitarie o di estetica personale: mette la sua rinuncia al servizio di qualche
importante causa umanitaria.
Una
spontanea antipatia
Sarà
perché non ho avuto il dono di un’estrazione borghese (e sono stato abituato a
rispettare e a temere la fame) o perché sono incline a non fidarmi facilmente
degli eroismi gratuiti, ma il Grande Digiunatore non ha mai riscosso le mie
simpatie. È qualcosa di istintivo, e non è detto che gli istinti diano sempre
suggerimenti encomiabili. Perciò ho cercato dentro di me quali siano i motivi
razionalmente enunziabili di questo stato d’animo di ripulsa: in chi è
illuminato dalla fede è normale l’abitudine di verificare se ci sia – e quale
sia – la ragione oggettiva dei suoi atti e dei suoi comportamenti. Noi credenti
siamo abituati a ragionare.
Le
ragioni della contestazione
La
prima e meno elevata causa del mio malanimo è che il Grande Digiunatore, quando
decide di privarsi del suo pranzo, un poco guasta anche il mio. Su questo
argomento la mia sensibilità è acuta: il solo pensiero che una creatura umana,
un figlio di Dio, un mio fratello (sia pure un po’ alla lontana) si astenga a
lungo da cibi che pure sono di sua facile disponibilità (e perciò istante dopo
istante interpellano naturalmente la sua crescente voracità) mi sconvolge. Una
volta appresa la notizia della sciagurata iniziativa, anche l’onesto piatto di
tagliatelle, che stava aspettandomi con l’abituale amicizia, perde la sua
bonarietà bolognese, mi guarda male, sembra colpevolizzarmi. Ma che c’entro io,
nella mia pochezza, con le grandi battaglie dei superuomini? Ma c’è qualcosa di
più grave. Le iniziative tipiche del Grande Digiunatore sono in fondo di natura
ricattatoria: si tenta con esse di estorcere, attraverso una forma specifica di
violenza psicologica e morale, un consenso, una complicità, un adeguamento
comportamentale; in certi casi addirittura un provvedimento legislativo e di
governo. E questo non è accettabile. L’eventuale valore della tesi, che così si
vuole imporre, non attenua affatto l’odiosità del procedimento. Né il
convincimento soggettivo maturato in buona fede può costituire una scusante.
Nel
mondo contemporaneo il ricatto è un uso abbastanza diffuso, con una
fenomenologia molteplice e disparata. Sul ricatto vive l’industria dei
rapimenti e delle devastazioni minacciate; di prospettive ricattatorie si serve
talvolta l’adolescente che ha deciso di farsi regalare il motorino dai genitori
riluttanti; ricatta anche l’uomo politico che preannuncia un’inutile o dannosa
crisi parlamentare se non vede soddisfatta una sua pretesa. E così via.
Poco
o tanto, sono sempre azioni abominevoli, perché insidiano la libertà di
decisione dell’uomo, che si vede se non costretto almeno sospinto a pensare, a
parlare, ad agire, contro il suo parere e la sua volontà; e soprattutto contro
la ragione. La terza rimostranza è ancora più intrigante. Il Grande Digiunatore
non si abbassa mai a spiegare ai “piccoli”, che rapporto ci sia tra la sua
“laica” penitenza e la bontà della causa che egli intende promuovere. Egli si
sacrifica nobilmente a favore di qualche mèta che gli sta a cuore, ma ritiene
superfluo chiarire l’intrinseca relazione tra il suo digiuno e il traguardo che
intende conseguire.
La
sua è dunque una richiesta di assenso e di condivisione, sollecitata non con la
forza di argomentazioni ineccepibili, ma con un metodo che esula da
qualsivoglia razionalità. Anzi, la pressione per convincere, esercitata sugli
animi, tende a debilitare le menti attraverso la nebbia delle emozioni e della
pietà. Dal Grande Digiunatore io mi sento dunque attaccato e offeso nella mia
logica sostanziale. E ciò che programmaticamente va contro il dono divino della
ragione non può essere tollerato.
La
cosa è tanto più abnorme in quanto spesso (non sempre) il Grande Digiunatore è
un devoto della conoscenza puramente naturale (e non ammette per principio che
si dia altra luce); e quindi del razionalismo più rigoroso. Ma forse qui è il
caso di ricordare l’osservazione di Chesterton: «Coloro che usano la ragione
non la venerano, la conoscono troppo bene; coloro che la venerano non la
usano».