Due ermeneutiche, una sola fregatura:
Il Concilio pastorale Vaticano II.
di Matteo D’Amico
Siamo tutti ormai abituati a sentir parlare delle “ermeneutiche del Vaticano II”, ovvero delle due interpretazioni dei testi conciliari che si sono combattute nel sofferto periodo post-conciliare, nel tentativo di imporre due letture molto diverse, se non opposte, degli stessi documenti.
L’ermeneutica della rottura.
La prima lettura sarebbe quella progressista, incarnata in Italia, in modo particolare, dalla scuola di Bologna, erede della tradizione dossettiana. È questa la prospettiva che potremmo convenzionalmente definire rivoluzionaria, quella cioè che enfatizza i tratti di rottura, anche drastica, del Vaticano II con la Chiesa preconciliare o, tout court, con la Chiesa di Pio XII: su alcuni temi chiave (Primato Petrino; poteri del vescovo; sacerdozio; libertà religiosa; ecumenismo; ruolo del popolo di Dio; matrimonio e morale sessuale; liturgia) ma in definitiva sul grande tema che li sintetizza e li riassume tutti – l’ecclesiologia- il Concilio avrebbe permesso una “nuova pentecoste”, una rifondazione radicale della Chiesa, una sua purificazione dalle tante macchie che ne deturpavano il volto e ne ostacolavano l’apostolato. La nuova Chiesa sarebbe una Chiesa più spirituale, più pneumatica, già tutta implicitamente raccolta nel celebre discorso conclusivo del Concilio di Paolo VI e nella “simpatia” per il mondo moderno e la sua cultura negatrice di Dio ivi manifestata. L’ecclesiologia sottesa all’ermeneutica della rottura ha avuto e ha come suo asse strategico quella che chiamerei la laicizzazione del clero e la clericalizzazione del laicato cattolico, alla luce di una (rovinosa, a nostro modo di vedere) utopia: il pensare che una via per una ripresa del fervore e dell’intensità nella vita di fede (l’uscita dalla sindrome del cosiddetto cinquantismo) consistesse nel confondere prima, e nell’infrangere poi del tutto i confini fra clero, consacrati e laici, fino a sovrapporre i due mondi e a farne infine un’unica indistinta realtà gerarchica, egualitartista e agnosticamente iperdemocratica. In questa prospettiva, andavano e vanno virtuosamente messi in crisi alcuni aspetti teologicamente centrali e simbolicamente decisivi della “vecchia” Chiesa: il celibato dei preti e il potere di Pietro e dei vescovi. È, però, anche evidente che in tale prima ermeneutica la nuova idea di “popolo di Dio” non avrebbe potuto imporsi se non passando anche attraverso la desacralizzazione della Santa Messa, troppo chiaramente evocante, nel Messale di San Pio V, la maestà di Dio e la Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo.
Nella prospettiva dossettiana, che stiamo evocando per sommi capi, la nuova Chiesa post-conciliare è pensata come vera nella misura in cui trova la sua norma di significato nei valori emersi con l’Illuminismo, con la Rivoluzione Francese e con le istanze politiche socialiste e democratico-liberali moderne. La salvezza non è più pensata come realtà, in ultima istanza, soprannaturale, come risultato cioè dell’operare della Grazia e del libero cooperare ad essa del libero battezzato; ma, alla luce di un processo – non importa se solo implicito – di immanentizzazione dell’éschaton cristiano, come prassi politico-sociale intramondana di redenzione dell’umanità dalla guerra, dalle ingiustizie, dalla povertà, dalle divisioni, dalla mancanza di diritti o di lavoro. La salvezza diviene così il risultato della prassi dell’uomo, della quale Gesù diviene solo il simbolo perfetto o l’archetipo umano, e la Chiesa si pensa come l’avanguardia cosciente e più illuminata di questo processo. Tale messianesimo secolarizzato rappresenta, però, non si può non notarlo, una forma violenta e insidiosissima di giudaizzazione del Cristianesimo, ed è questo che spiega la subordinazione teologica e teoretica, in particolare a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II, della Chiesa alla sinagoga, e la grottesca centralità di Auschwitz nella riflessione teologica cattolica dell’ultimo cinquantennio.
Per l’ermeneutica della rottura, o della Rivoluzione, la crisi della Chiesa nel post-concilio non è fattore preoccupante per due motivi: come ogni visione rivoluzionaria della storia essa si regge sulla convinzione che la distruzione del passato e di ogni suoi segno sia la condizione indispensabile all’istaurarsi del Mondo Nuovo, alla piena incarnazione del Bene nella storia, anzi coincida con l’avvento stesso del mondo utopico che il rivoluzionario sogna. In secondo luogo, le forme che stanno soccombendo o estinguendosi (sacerdozio ministeriale, clausura e monachesimo, liturgia e confessione, autorità dei vescovi, scuole cattoliche, etc…) erano pesantemente imperfette ed impediscono con il loro permanere il pieno sbocciare della nuova chiesa pneumatica, racchiusa esotericamente nei testi del Vaticano II. Se la Chiesa era malata, la sua attuale crisi è in realtà un segno di guarigione e di rinascita, e non è per mala fede che non bisogna lamentarsene o parlarne (si sa che c’è la crisi, ma si sceglie tatticamente di non dirlo), ma perché in realtà si pensa che non stia accadendo nulla di negativo.
Resistere nella difesa delle vecchie forme, ormai patetiche di manifestazione della fede, non è fare katéchon, cioè trattenere il dilagare dell’errore e dell’iniquità, ma impedire l’avvento chiliastico dell’Età dello Spirito Santo. Chi chiede, sulla scia del card. Martini, un Concilio Vaticano III, chiede appunto che si ratifichi essotericamente, cioè pubblicamente, la “nuova chiesa”, annunciata ancora in modo oscuro ed equivoco – dagli iniziati e per gli iniziati – nei testi del Vaticano II.
L’ermeneutica della rottura è fondata, inevitabilmente, su una teologia di ispirazione pienamente modernista, ovvero sottomessa alla filosofia, all’antropologia e alla filosofia della politica moderne e, dunque, non vede alcun problema nel parlare di rottura, di superamento, di rivoluzione, di cambiamento a livello magisteriale, teologico, dogmatico e morale: l’essenza della cultura moderna, infatti, è la negazione stessa di immutabilità ed eternità della Verità, e quindi il rifiuto, in generale, del fatto che i problemi possono essere posti in termini di verità o di falsità, ovvero di non contraddittorietà. Ma se l’essenza della modernità è, dunque, la negazione della Verità in generale, che, se è, è immutabilmente ed eternamente uguale a se stessa; allora la sua essenza è la negazione del Verbo, la negazione di Dio, l’ateismo.
Ora, è evidente sul piano teologico, che l’ermeneutica della rottura è insostenibile, perché se, per assurdo, potesse valere, ciò significherebbe che per quasi duemila anni la Chiesa ha insegnato l’errore – il che è impossibile, stante la sua santità e infallibilità – o che una verità di fede, un dogma, può mutare, il che è assurdo solo sul piano logico. La “rottura” significherebbe di fatto che la Chiesa non è un’istituzione divinamente fondata e che la fede cristiana è quindi falsa. Sostenere formalmente un’ermeneutica della rottura implica, quindi, la perdita della fede; significa de facto già essere fuori dalla Chiesa.
L’ermeneutica della continuità.
Quella che ci viene presentata come ermeneutica della continuità mira, invece, a proporre la tesi che fra la grande Tradizione, il Magistero precedente al Concilio Vaticano II, e le dottrine sostenute durante e dopo detto concilio, non vi sia alcuna frattura, alcuna discontinuità; anzi, il Vaticano II andrebbe tutto letto e interpretato alla luce della Tradizione, come sviluppo omogeneo del dogma, come aggiornamento e riproposizione delle stesse verità in un linguaggio e secondo modalità culturali adatte all’uomo moderno. Secondo questa prospettiva non c’è stato alcun salto, alcuna frattura qualitativa decisiva fra il Magistero conciliare e post-conciliare. In questa prospettiva, infatti, vi è stata solo, da parte di alcuni teologi e uomini di Chiesa, l’applicazione di una cattiva ermeneutica, che ha distorto lo spirito e la lettera del Vaticano II e che ha disorientato i fedeli, facendo appunto credere loro che ci si trovasse di fronte a una chiesa nuova, e non semplicemente rinnovata.
L’ermeneutica della rottura viene qui astrattamente condannata come erronea, senza, però, - la cosa va notata con molta attenzione – che vengano presi provvedimenti disciplinari contro i suoi sostenitori da parte dell’episcopato e delle autorità romane. L’aderire all’ermeneutica della continuità è scelta comprensibile e propria tendenzialmente di persone pie e oggettivamente desiderose di fare il bene della Chiesa, anzi spesso mosse da un sincero zelo religioso e da un’intensa vita di pietà. Ma un prezzo molto alto non può non essere pagato anche da adotta questa strategia interpretativa, quando la distruzione della Chiesa passa soprattutto attraverso gli stessi uomini di Chiesa. Infatti, in questa prospettiva lentamente, giorno dopo giorno, verranno accettate anche le dottrine o le pratiche che più ripugnano a un sentire veramente cattolico: prima le si tollererà a malincuore, poi ci abituerà ad esse, quindi le si accetterà con convinzione, diminuendo l’intensità della battaglia contro le novità che distruggono la fede, cedendo interiormente sul piano delle forme culturali e delle modalità di pensiero filosofico sottese alla nuova teologia eterodossa; infine, convincendosi che davvero non vi è nulla di negativo nella dottrina modernista professata ormai universalmente da interi episcopati, da moltitudini di sacerdoti. Di fronte a vere eresie o alle posizioni più estreme non ci si scandalizzerà, rifiutando di vedere in queste posizioni il risultato del Concilio, il suo esito inevitabile, ma rifugiandosi nel mito che ne hanno distorto il significato o che ne hanno frainteso la mens.
Sono facili gli ambiti dottrinari nei quali lentamente il seguace di questa ermeneutica si allinea con convinzione alla nuova dottrina: ecumenismo, libertà religiosa e concezione liberale del rapporto Chiesa- Stato, morale matrimoniale. La carità, in tal modo, inevitabilmente si raffredda.
Se nel caso dell’ermeneutica della rottura il rischio è la perdita della fede, nel caso dell’ermeneutica della continuità il pericolo è rinunciare al principio di non contraddizione, ad ogni rigore logico, a pensare in modo corretto, perche devo, orwellianamente convincermi che siano la stessa cosa, cose poste in rapporto formale di contraddittorietà, come l’ecumenismo postconciliare e la condanna dell’ecumenismo da parte dei papi precedenti; la visione tradizionale del rapporto con l’Ebraismo e la nuova concezione eterodossa del dialogo ebraico-cristiano; la condanna delle libertà religiosa e del Liberalismo del Sillabo e la nuova concezione cattolico-liberale della politica. Si è in tal modo costretti ad un degrado del pensiero che non può, nel lungo periodo, non incidere sulla vita di fede.
Inoltre, in tale prospettiva si rinuncia, o meglio, si evita di mettere l’accento sulla vita della Chiesa; la si minimizza, non se ne parla, per l’ovvio motivo che si escluso in linea di principio, che la crisi possa essere originata dal Vaticano II. Sulle poche riviste cattoliche più “di destra”, segretamente avverse alle novità conciliari, ma legate all’ermeneutica della continuità, si troveranno articoli splendidi (e pur lodevoli e necessari) contro il comunismo o contro l’aborto, ma nessun costo si oserà parlare dei limiti del Concilio, della eterodossia di tante prese di posizione da parte della gerarchia conciliare, delle posizioni a volte palesemente eretiche o sacerdoti o teologi cattolici; mai si troverà la condanna di una presa di posizione o di una dichiarazione gravemente erronea da parte di un vescovo e di un cardinale: la crisi verrà proiettata psicoticamente sul mondo, sulla secolarizzazione, sul laicismo, sulla cultura di sinistra, dimenticando che il trionfo di queste posizioni anticristiane in paesi cattolici da quindici o sedici secoli è l’effetto, e non la causa della crisi: dimenticando che nel meccanismo ad orologeria messo appunto nelle Logge e nei circoli più esclusivi del potere, le leggi a favore del divorzio, dell’aborto, della pornografia, dell’omosessualismo e contro ogni principio d’ordine e di autorità, sono state fatte passate in paesi di antica tradizione cristiana nel decennio successivo al Vaticano II, perché per i nemici della Chiesa è stato fin troppo chiaro che con il Concilio, la Chiesa – o meglio gli uomini di chiesa che la rappresentavano in quel momento – rinunciava a combattere con il mondo e contro la sua perversità.
In questa prospettiva, per un smentire l’assurdo mito della continuità fra Tradizione e Concilio, di tutti i documenti del Concilio e successivi, si fanno esegesi mirate a valorizzare in ogni modo la coerenza fra l’insegnamento di sempre e le nuove dottrine che vengono professate, estrapolando elementi comuni, e non mettendo mai l’accento sulle sostanziali differenze, sia nella lettera, che nella spirito, che dividono e differenziano in modo irriducibile Tradizione e Vaticano II.
La crisi imbarazza, infatti è lei la vera prova che il Concilio non solo non è stato fecondo, ma ha generato un crollo senza precedenti nella vita della fede, nella pratica dei sacramenti, nelle vocazioni, negli Ordini Religiosi, nella prassi liturgica. Ammettere o sottolineare la crisi implicherebbe interrogarsi sulla presunta continuità tra il Vaticano II e il Magistero precedente. In tal modo ci si pone in un vicolo cieco: da un lato, appunto, si minimizza o si nega la crisi; dall’altro, quando la si ammette, si rinuncia a spiegarla nell’unico modo sensato, ovvero riconducendola al Concilio Vaticano II e alla sua sottile, ma pervasiva, eterodossia. Insomma, o si rinuncia alla fede, o si rinuncia alla ragione.
Perché due ermeneutiche?
Siamo pronti ad accedere ad una prima sintesi, e lo facciamo interrogandoci su quali siano le condizioni di disponibilità del permanere all’interno della Chiesa, per ben quarant’anni, di due ermeneutiche fra loro radicalmente diverse. Infatti, è cosa normale che dopo un Concilio si dia una fase attuativa in cui apposite commissioni sono investite ufficialmente del compito di risolvere i punti di più difficile interpretazione e di dare risposta ai dubbi e alle domande che una parte dell’episcopato o del clero può manifestare; e ben presto, del resto, l’esercizio del magistero, in tutti i suoi possibili gradi di autorevolezza, concorre ad imprimere una chiara – ed univoca – interpretazione ai testi conciliari: Roma locuta est, causa finita est. Il Magistero papale, come norma prossima della Rivelazione (Sacra Scrittura e Tradizione), deve svolgere proprio, e innanzitutto, questo compito: impedire che si insinuino elementi eterodossi, o erronei, o eretici nell’interpretazione teologica dei testi della Tradizione, inclusa di quella eventualmente rappresentata da un recente o dall’ultimo Concilio. Ma la stabilizzazione teologica delle interpretazioni di un Concilio non può durare quarant’anni ed essere ancora in pieno svolgimento (sembra, infatti, di trovarsi di fronte ad un’ermeneutica infinita e a un conflitto irrisolvibile tra interpretazioni opposte nel caso dell’ultimo post-concilio). Ciò che sta accadendo è chiaramente uno dei segni – e uno dei più importanti – dell’attuale crisi della Chiesa; infatti, il Magistero da norma prossima della Rivelazione, sta diventando “norma prossima della norma prossima”: sta ormai esercitandosi sterilmente su se stesso; non sta più interpretando la Rivelazione, ma la propria stessa interpretazione, sullo sfondo di un dubbio scettico circa la propria competenza a riguardo. Ma un magistero così inteso non è più Magistero: ripiegandosi trascendentalmente, dubitativamente, in modo interlocutorio, dialogico e circolare su se stesso, e non su tutta la grande Tradizione, si trasforma gradualmente in un gesto vago ed incerto, affascinante, forse, sul piano culturale, ma incapace di guidare ed orientare i fedeli. Inoltre, va osservato che, essendoci due visioni opposte del Vaticano II, che si escludono reciprocamente, almeno una delle due dovrebbero apparire all’autorità pontificia non solo diverso dall’unica ortodossa, ma, appunto, del tutto erronea e pericolosa per la fede. Ora, ad un errore non si può opporre solo l’interpretazione corretta, perché ciò non è sufficiente a sradicare l’errore stesso; se chi sbaglia rifiuta di recedere dal suo errore, dovrebbe essere necessario che venga colpito dai provvedimenti e dalle sanzioni previsti dal Codice di Diritto Canonico.
Dunque, l’innaturalità, l’anormalità per la Chiesa di “due ermeneutiche” allegramente coesistenti da quarant’anni ci costringe a fare un altro passo avanti.
Oltre il mito delle “due ermeneutiche”.
Abbiamo finora considerato in modo astratto il tema dell’ermeneutica del Concilio Vaticano II, accettando di porre il problema in termini di conflitto delle interpretazioni, di scontro fra opposte scuole di pensiero. Alcune precisazioni sono, però, doverose: in primo luogo, se da un punto di vista “accademico” è vero che ci sono due ermeneutiche, è soprattutto vero che l’ermeneutica vincente finora è risultata essere quella della rottura; infatti, a livello del sentire ecclesiale medio e vago, delle opinioni largamente maggioritarie tra il popolo dei fedeli, delle convinzioni sempre più radicate nel corpo sacerdotale, siamo ormai di fronte – è doloroso doverlo riconoscere – a una nuova chiesa, ove si è diffuso un insieme di dottrine sempre meno riconoscibili come cattoliche. L’eterodossia in ogni campo e a tutti i livelli è ormai così diffusa, da essere vissuta da tutti come stato normale, e non gravemente patologico della vita della Chiesa. Su materie decisive per la loro importanza dottrinale, come ad esempio, la teologia del matrimonio e la morale sessuale, la larga maggioranza dei fedeli (e parte del clero) dissente dall’insegnamento della Chiesa, e agisce secondo personali e eterodosse visioni, incurante di ogni autorità, convinta che sia appunto la Chiesa a “essere indietro” e a dover fatalmente modificare la propria dottrina. Ciò equivale a dire che il concetto di sacerdozio universale luterano e l’anarchismo settario protestante è ormai diventato un habitus proprio della maggioranza dei cattolici. Mentre, dunque, è sparuto e ridottissimo il numero di coloro che si gingillano accademicamente con l’ermeneutica della continuità, è di fatto materialmente trionfante, nel cuore del popolo cattolico, l’ermeneutica della rottura. Non è, dunque, la “Scuola di Bologna” che è causa della deriva dottrinale: essa si limita a cavalcarne ideologicamente la tigre e a seguire l’onda neomodernista che ha trovato, in realtà, la maggioranza degli uomini di Chiesa, vertici inclusi. Nella crisi senza precedenti che travaglia la Chiesa, non è discettando di ermeneutiche e del loro valore che si uscirà dalla crisi stessa, ma denunciando le interpretazioni eretiche o errate, escludendo gli autori di esse da ogni ruolo ecclesiale o attività d’insegnamento, abrogando i testi all’origine di tanta confusione, come la Dignitatis Humanae o la Gaudium et spes o, soprattutto, la Nostra Aetate.
L’infallibilità in materia di fede o di morale non è una prerogativa dei teologi di Tubinga, degli editorialisti de La Repubblica o di Avvenire o di qualche “storico” della Scuola di Bologna, ma del Sommo Pontefice Romano, che è Vicario di Nostro Signore Gesù Cristo sulla Terra e che, unico, ha il potere, l’autorità, i mezzi, il dovere – e l’assistenza dello Spirito Santo – per distruggere infallibilmente l’eresia e l’errore e illuminare, quale faro di luce incorrotta, il popolo di Dio, il Nuovo Israele, la Santa Chiesa Cattolica. Il fatto che, dopo quattro decenni, si stia ancora discutendo di quale sia l’ermeneutica giusta del Vaticano II è la prova che in questi quarant’anni si è avuta solo l’apparenza di un’attività magisteriale, ma non veri atti di Magistero; infatti, se è vero che vi sono due ermeneutiche in lotta fra loro, e se ammettiamo – come siamo costretti ad ammettere – che almeno una di esse è del tutto errata, non è possibile avere un atto di Magistero nemmeno autentico se lo stesso non è accompagnato, o non co-implica come a sé immanente, la condanna dell’errore che sarebbe necessario confutare. Ma gli errori – a partire, simbolicamente, dalla scandalosa mancata denuncia della tirannia comunista durante il Vaticano II – dal Concilio in poi sono stati lasciati sussistere accanto all’insegnamento di Roma: ciò è sufficiente a falsificare tale insegnamento e a rilevarne il volto interlocutorio e non autentico, incerto e privo di una vera volontà d’imporsi coercitivamente, con autorità indiscussa e universale, a tutta la Chiesa militante e ad ogni uomo.
Dunque, Pietro, che dal Concilio in poi è stato e continua ad essere Pietro, pur non agendo in quanto Pietro, da ora in poi – questo è il nostro augurio e la nostra speranza più viva – non si limiti ad essere, ma agisca da Pietro: a tal fine, in quest’ora d’incertezza e di speranza, tutti abbiamo il dovere di pregare con rinnovato fervore.
Memento:
“Supponiamo, caro amico, che il Comunismo [uno degli “errori della Russia” menzionati dal Messaggio di Fatima] fosse solo uno degli strumenti più evidenti di sovversione usati contro la Chiesa e le tradizioni della Rivelazione Divina … Sono preoccupato per il messaggio che ha dato la Beata Vergine a Lucia di Fatima. Questo insistere da parte di Maria, sui pericoli che minacciano la Chiesa è un avvertimento divino contro il suicidio di alterare la Fede, nella Sua liturgia, la Sua teologia e la Sua anima. … Sento tutto intorno a me questi innovatori che desiderano smantellare la Sacra Cappella, distruggere la fiamma universale della Chiesa, rigettare i suoi ornamenti e farla sentire in colpa per il suo passato storico. … Verrà un giorno in cui il mondo civilizzato negherà il proprio Dio, quando la Chiesa dubiterà come dubitò Pietro. Sarà allora tentata in credere che l'uomo è diventato Dio ... Nelle nostre chiese, i Cristiani cercheranno invano la lampada rossa dove Dio li aspetta. Come Maria Maddalena, in lacrime dinanzi alla tomba vuota, si chiederanno: “Dove Lo hanno portato?”
Cardinale Eugenio Pacelli